Relazione-Procura-di-Palermo-su-Mafia-Appalti
Nel 2006 il boss pentito Antonino Giuffrè dichiarava a verbale:
(…) “Un motivo è da ricercarsi, per quanto io so, nel discorso degli appalti.
Perchè si sono resi conto che il dottor Borsellino era molto addentrato in questa branca, cioè in questo discorso mafia, politica e appalti. E forse alla pari del dottor Falcone”.
“Il dottor Borsellino stava diventando più pericoloso di quello che addirittura si era pensato, in particolare per quanto riguarda il discorso degli appalti”.
Nelle motivazioni del Borsellino quater: “L’inquietante scenario descritto dal collaboratore (Giuffrè, ndr) trova precisi riscontri negli elementi di prova emersi nell’ambito del presente procedimento, che evidenziano l’isolamento creatosi intorno a Borsellino e la sua convinzione che la sua esecuzione sarebbe stata resa possibile dal comportamento stesso della magistratura”.
“Falcone e Borsellino erano pericolosi nemici di Cosa Nostra per la loro persistente azione giudiziaria svolta contro l’organizzazione mafiosa e in particolare con riguardo al disturbo che recavano ai potentati economici sulla spartizione degli appalti”
“Il 14 luglio c’è stata una riunione alla Direzione Distrettuale di Palermo e Borsellino chiese conto e ragione a Lo Forte ha affermato l’avvocato FabioTrizzino, legale dei figli di Borsellino,– perchè tra l’altro Giammanco è nella storia della Repubblica, primo e unico procuratore costretto a dimettersi per un ammutinamento dei suoi sostituti: io credo che non ci siano precedenti del genere.
Borsellino voleva sapere a che punto fosse quel rapporto Mafia e Appalti e non gli dicono che il 13, il giorno prima, era stata fatta una richiesta di archiviazione, che venne ratificata il 14 agosto 1992”.
“Lo Stato deve sapere che è stato lasciato solo da molti suoi colleghi, da qualcuno che voleva prendere delle iniziative senza consultarsi e quindi uccidendolo Riina ebbe la formidabile occasione di potere dar conto a quella parte di Cosa Nostra fatte da strane commistioni di massoni e imprenditori e dall’altra proseguire con la sua strategia stragista condivisa con Messina Denaro”
- Estratto dalla memoria dell’Avv. Trizzino al processo MMD. “Borsellino gli disse che stava seguendo delle indagini sull’omicidio di Falcone e che aveva un’ipotesi. Quale? «Pensava che potesse esistere una connessione tra l’omicidio di Salvo Lima e quello di Falcone, e che il trait d’union fosse una questione di appalti, in cui Lima era stato in qualche modo coinvolto e che Falcone stava studiando».
CSM – L’audizione di Maria Falcone
fa comprendere lo stato di isolamento del fratello e i motivi per cui decise di andare via ma, soprattutto, vi sono le parole di BORSELLINO quando raccomanda alla signora Maria di evitare dichiarazioni pubbliche e aspettare perché ” lui potesse acquisire quelle prove…acquisire tutte quelle prove, tutti quei documenti che.. sa come vanno da voi le cose, è chiaro tutti i magistrati non fanno illazioni, non si basano…ma è chiaro che quando si vogliono fare riferimenti a determinate cose ci vogliono delle prove.
BORSELLINO sapeva che doveva competere con un leone, e quindi doveva portare delle prove, delle cose inconfutabili, verso la fine mi ha anche detto, nel trigesimo della morte di Giovanni, durante la messa, che era molto vicino a scoprire delle cose tremende, delle cose terribili, che avrebbero fatto saltare parecchie cose.”
Il verbale del dr Gozzo è molto esplicativo sulla famosa riunione del 14 luglio 92 in procura.
Una riunione in cui Borsellino chiede notizie sull’indagine prodotta dal dossier mafia appalti presentato dai Carabinieri del ROS nel febbraio ‘91. “C’è stata questa riunione il 14 luglio (che è stata l’ultima a cui ha partecipato Paolo BORSELLINO, era seduto due sedie dopo di me)..” Su “mafia e appalti”, quindi, c’era il collega PIGNATONE (se non ricordo male) e doveva esserci anche il collega SCARPINATO che però non potè venire per problemi di famiglia.
Ho visto proprio questo contrasto più che latente, visibile, perchè proprio BORSELLINO chiese e ottenne che fosse rinviata, perché al momento aveva dei problemi, la discussione su questo processo e fece degli appunti molto precisi: come mai non fossero inserite all’interno del processo determinate carte che erano state mandate …
- SANTORO: Quale processo?
- GOZZO: “Mafia-appalti”, quello- SINO per intenderci. Fece queste affermazione: come mai non fossero contenute queste carte all’interno del processo e, poi, disse anche che c’era..
- RUGGIERO: Di che carte si trattava?
- GOZZO: Si trattava di carte che erano state inviate (quello che ho sentito là, chiaramente, posso riferire) alla Procura di Marsala – e nella fattispecie dal collega INGROIA, che adesso è anche lui alla Procura di Palermo – che era lo stesso processo però a Marsala. C’erano degli sviluppi e, quindi, erano stati mandati a Palermo e lui si chiedeva come mai non fosse stata seguita la stessa linea (insomma credo di aver capito dal …) e, poi, diceva che c’erano dei nuovi sviluppi (in particolare un pentito di questi che ultimamente aveva parlato), e sono rimasto sorpreso perché dall’altra parte si rispose: “ma vedremo”. Cioè, di fronte ad un offerta così importante (io riferisco i fatti): “Ma vedremo, se è possibile, ma è il caso di acquisirlo”.
- RUGGIERO…
- GOZZO: Cioè da parte del relatore …Dott….Il collega PIGNATONE era il relatore.
- SANTORO :Relatore e anche titolare del processo?
- GOZZO: Titolare del processo insieme a SCARPINATO dovrebbe essere se non ricordo male (però, ripeto, SCARPINATO non era presente alla riunione).”
RASSEGNA STAMPA
FIAMMETTA BORSELLINO E IL RAPPORTO MAFIA E APPALTI
29.7.2022 «Dietro via D’Amelio il dossier mafia-appalti», riaperta l’inchiesta
La procura di Caltanissetta indaga sull’interessamento di Borsellino al dossier mafia-appalti come causa della sua eliminazione. Sentiti già dei testi, tra cui l’ex Ros De Donno Dal 2018 “ Il Dubbio” ha condotto una inchiesta giornalistica sulla vicenda
Da qualche settimana la procura di Caltanissetta guidata dal Procuratore capo Salvatore De Luca ha riaperto l’inchiesta sul filone “mafia appalti” come causa scatenante che portò all’accelerazione della strage di Via D’Amelio dove perse la vita Paolo Borsellino e la sua scorta. A rivelarlo è l’agenzia Adnkronos a firma di Elvira Terranova.
Le bocche in procura sono cucite, l’indagine è top secret, ma come apprende l’Adnkronos, il pool stragi da qualche settimana sta scandagliando le vicende legate al procedimento del dossier mafia-appalti redatti dai Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno sotto il coordinamento di Giovanni Falcone.
Tutte le sentenze hanno accertato l’interessamento di Falcone e Borsellino a mafia-appalti
I magistrati che coordinano l’inchiesta, tra cui la pm Claudia Pasciuti, guidati dal Procuratore capo Salvatore De Luca, di recente – come rivela l’Adnkronos – hanno anche fatto i primi interrogatori.
Compresi quelli top secret. Tra le persone sentite, spicca in particolare il nome del colonnello Giuseppe De Donno. Cioè, colui che allora giovane capitano, condusse l’inchiesta su mafia-appalti con il suo diretto superiore al Ros, l’allora colonnello Mario Mori.
Che l’interessamento dei giudici Falcone e Borsellino riguardante il dossier mafia-appalti sia stata una concausa delle stragi, questo è accertato da tutte le sentenze. Quest’ultime hanno individuato un movente ben preciso. Sono diversi i passaggi cristallizzati nelle motivazioni.
C’è quello di Giovanni Brusca che, nelle udienze degli anni passati, disse che, in seno a Cosa nostra, sussisteva la preoccupazione che Falcone, divenendo Procuratore Nazionale Antimafia, potesse imprimere un impulso alle investigazioni nel settore inerente la gestione illecita degli appalti.
Falcone aveva compreso la rilevanza strategica del settore appalti
C’è quello del pentito Angelo Siino, che sosteneva che le cause della sua eliminazione andavano cercate nelle indagini promosse dal magistrato nel settore della gestione illecita degli appalti, verso cui aveva mostrato un “crescendo di interessi”. Difatti – si legge nelle sentenze – in Cosa nostra, e, in particolare, da parte di Pino Lipari e Antonino Buscemi, era cresciuta la consapevolezza che Falcone avesse compreso la rilevanza strategica del settore appalti e che intendesse approfondirne gli aspetti: «questo sa tutte cose, questo ci vuole consumare» (pag. 74, ud. del 17 novembre 1999).Ed è proprio quell’Antonino Buscemi, il colletto bianco mafioso, che era entrato in società con la calcestruzzi della Ferruzzi Gardini a lanciare l’allarme anche per quanto riguarda le esternazioni di Falcone durante un convegno pubblico proprio su criminalità e appalti. Un convegno, marzo 1991, dove evocò chiaramente l’inchiesta mafia-appalti che era ancora in corso. Il dossier fu depositato in procura su volere di Falcone stesso il 20 febbraio 1991. Peraltro, anche Giuseppe Madonia aveva manifestato il convincimento che Falcone aveva compreso i legami tra mafia, politica e settori imprenditoriali. Siino, con riferimento all’eliminazione di Borsellino, ha inoltre aggiunto che Salvatore Montalto, durante la comune detenzione nel carcere di Termini Imerese, facendo riferimento agli appalti, gli aveva detto: «ma a chistu cu cìu purtava a parlare di determinate cose».
Borsellino aveva detto a varie persone che quella degli appalti era una pista da seguire
Borsellino, infatti, nel periodo immediatamente successivo alla strage di Capaci, aveva esternato a diverse persone, oltre all’intervista del giornalista Luca Rossi, che una pista da seguire era quella degli appalti. A distanza di 30 anni, però non si è mai fatto chiarezza su un punto. Diversi pentiti hanno affermato che sia Pino Lipari che Antonino Buscemi avevano un canale aperto con un magistrato della procura di Palermo. Alla sentenza d’appello del 2000 sulla strage di Capaci, tra gli altri, vengono riportate le testimonianze di due pentiti. Una è quella di Siino: «Sul punto, Angelo Siino, il quale, pur non rivestendo il ruolo di uomo d’onore, ha impostato la propria esistenza criminale, all’interno dell’ambiente imprenditoriale-politico-mafioso, ha evidenziato di avere appreso che Pino Lipari aveva contattato l’onorevole Mario D’Acquisto affinché intervenisse nei confronti dell’allora Procuratore della Repubblica di Palermo, al fine di neutralizzare le indagini trasfuse nel rapporto c.d. “mafia-appalti” e in quelle che si potevano stimolare in esito a tali risultanze».
I Buscemi avevano ceduto fittiziamente le imprese al gruppo Ferruzzi
Le motivazioni riportano anche la versione di Brusca: «Quanto ai rapporti tra i fratelli Buscemi, il gruppo Ferruzzi-Gardini e l’ing. Bini, Brusca ha evidenziato di avere appreso da Salvatore Riina che, a seguito della legge Rognoni-La Torre, i Buscemi avevano ceduto fittiziamente le imprese (la cava Bigliemi e una Soc. Calcestruzzi) al gruppo Ferruzzi; che Antonino Buscemi era rimasto all’interno della struttura societaria come impiegato; che l’ing. Bini rappresentava il gruppo in Sicilia e la Calcestruzzi S.p.A.; che i fratelli Buscemi si “tenevano in mano…… questo gruppo imprenditoriale in maniera molto forte” e potevano contare sulla disponibilità di un magistrato appartenente alla Procura di Palermo, di cui non ha voluto rivelare il nome; che Salvatore Riina, in epoca precedente all’interesse per l’impresa Reale, si era lamentato del fatto che i Buscemi non mettevano a disposizione dell’intera organizzazione i loro referenti».
Dal 2018 Il Dubbio si interessa alla vicenda del dossier mafia-appalti
Il Dubbio, fin dal 2018, ha condotto una inchiesta giornalistica sulla questione del dossier mafia-appalti. “Mandanti occulti bis” dei primi anni 2000 a parte, in questi lunghissimi anni non sono mai state riaperte le indagini nonostante siano venuti fuori nuovi elementi come le audizioni al Csm di fine luglio 1992 doveemerge con chiarezza che cinque giorni prima della strage, il giudice Borsellino partecipò a una assemblea straordinaria indetta dall’allora capo procuratore capo Pietro Giammanco. Una assemblea, come dirà il magistrato Vincenza Sabatino, inusuale e mai accaduta prima. Dalle audizioni di alcuni magistrati emerge che Borsellino avrebbe fatto dei rilievi su come i suoi colleghi, titolari dell’indagine, avrebbero condotto il procedimento. Addirittura, come dirà il magistrato Nico Gozzo, si sarebbe respirata aria di tensione.
Gli omicidi di Salvo Lima e del maresciallo Guazzelli per Borsellino sono legati a mafia-appalti
Ed è lo stesso Borsellino, come si evince dalle parole dell’allora pm Vittorio Teresi nel verbale di sommarie informazioni del 7 dicembre 1992, a dire che a suo parere sia l’omicidio su ordine di Totò Riina dell’europarlamentare Salvo Lima che quello del maresciallo Guazzelli sono legati alla questione del dossier mafia-appalti perché si sarebbero rifiutati di intervenire per cauterizzare il procedimento mafia appalti. Da tempo sia Fiammetta Borsellino che il legale della famiglia Fabio Trizzino, chiedono di sviscerare cosa sia accaduto nel biennio del 91-92 all’interno del “nido di vipere”(definizione di Borsellino riferendosi alla procura di Palermo) e soprattutto quando fu depositata la richiesta di archiviazione del dossier mafia-appalti mentre – come ha detto l’avvocato Trizzino al processo depistaggi – «stavano ancora chiudendo la bara di Paolo Borsellino e dei suoi angeli custodi». Damiano Aliprandi IL DUBBIO
30.7.2022 Riaperta inchiesta su mafia e appalti su cui indagarono Falcone e Borsellino
Quel dossier del Ros è finito prepotentemente in processi importanti, come quello sulla cosiddetta trattativa tra Stato e mafia, ma anche nel più recente processo sul depistaggio sulla strage Borsellino A 30 anni esatti dall’archiviazione del dossier «Mafia e appalti» a Palermo, su cui aveva indagato il giudice Giovanni Falcone, l’inchiesta viene riaperta. Ma stavolta ad occuparsene non sono più i magistrati palermitani bensì i cugini di Caltanissetta.
Le bocche in procura sono cucite, l’indagine è top secret, ma come apprende l’Adnkronos, il pool stragi da qualche settimana sta indagando su quel dossier dei carabinieri del Ros, finito prepotentemente in processi importanti, come quello sulla cosiddetta trattativa tra Stato e mafia, ma anche nel più recente processo sul depistaggio sulla strage Borsellino, terminato con la prescrizione per due imputati e l’assoluzione del terzo.
Tutti poliziotti del Gruppo “Falcone e Borsellino”.
I magistrati che coordinano l’inchiesta, tra cui Claudia Pasciuti, guidati dal Procuratore capo Salvatore De Luca, di recente hanno anche fatto i primi interrogatori. Anche quelli top secret. Tra le persone sentite dai pm Claudia Pasciuti e Pasquale Pacifico, anche se quest’ultimo non è nel pool sull’inchiesta mafia e appalti, spicca in particolare il nome del colonnello Giuseppe De Donno. Cioè, colui che allora giovane capitano, condusse l’inchiesta su mafia e appalti con il suo diretto superiore al Ros, l’allora colonnello Mario Mori.
Ma cosa conteneva il primo dossier su mafia e appalti?
Tutto nasceda una delega conferita nel 1989 dalla Procura di Palermo ai Ros dei carabinieri che aveva come obiettivo principale quello di accertare «la sussistenza, l’entità e le modalità di condizionamenti mafiosi nel settore degli appalti pubblici nel territorio della provincia di Palermo». Dunque, per la prima volta, si metteva nero su bianco che c’erano dei «condizionamenti» di Cosa nostra negli appalti pubblici.
Un triangolo formato da mafia, imprenditori e politica. «Dal contesto della presente informativa» si evidenzia «una trama occulta, sostanziata da intrecci, relazioni ed intese, volta al fine di prevaricare norme e regole e, allo stesso tempo, di giungere all’accaparramento del denaro pubblico con un’avidità mai esausta e comune sia ai malfattori mafiosi che agli imprenditori a loro collegati i quali poi, tramite i primi, finiscono per esercitare anch’essi e con gusto il potere mafioso». Eccola, nero su bianco, l’informativa sul dossier mafia e appalti.
Quella informativa era l’inizio dell’indagine.
«C’era un gruppo di potere fatto da imprenditori, politici e mafiosi che decidevano gli appalti e si spartivano i proventi».
Su quella indagine Mori, con l’allora giovane capitano Giuseppe De Donno, tra il 1990 e l’inizio del 1991, lavorò per mesi.
E’ il 20 febbraio del 1991 quando l’allora tenente colonnello Mario Mori e il capitano Giuseppe De Donno, ufficiali del Ros dei carabinieri, consegnano alla Procura di Palermo, nelle mani di Giovanni Falcone, l’informativa che racconta, per la prima volta, tutti i rapporti tra Cosa nostra e il mondo degli affari.
Durante la requisitoria del processo d’appello sulla trattativa tra Stato e mafia la Procura generale, rappresentata da Giuseppe Fici e Sergio Barbiera, l’accusa disse che «c’erano due dossier su mafia e appalti» dei carabinieri del Ros, tra il 1991 e il 1992, e che «nella prima informativa erano stati omessi i nomi dei politici, potenti».
La seconda informativa «con i nomi dei politici», sarebbe stata consegnata 19 mesi dopo, il 5 settembre del 1992, cioè solo dopo le stragi mafiose.
«Nella informativa “mafia-appalti” consegnata nelle mani di Falcone il 20 febbraio 1991 non erano inseriti i nomi dei cosiddetti politici di peso». Ma la teoria della doppia informativa è stata smentita dall’ordinanza dell’allora gip di Caltanissetta Gilda Loforti.
26.11.2021 Processo strage Borsellino, Scarpinato “a insabbiare il dossier mafia-appalti fu il Ros”
AMURRI/INGROIA e le versioni opposte sull’incontro del dottor Borsellino con i ROS – VIDEO
13.7.1992 RICHIESTA DI ARCHIVIAZIONE DEI PM GUIDO LO FORTE E ROBERTO SCARPINATO
… A partire dal 1989, i Carabinieri del Raggruppamento Operativo
Speciale, Reparto Criminalità Organizzata, iniziavano indagini volte a verificare la sussistenza di infiltrazioni mafiose nel sistema degli appalti nel territorio della provincia di Palermo.
… dette intercettazioni, che si attuavano nel periodo compreso fra il 20/12/1988 e il 5/6/1989, sebbene non utilizzabili ai fini processuali, offrivano spunti concreti per ulteriori indagini giudiziarie, poiché ponevano in luce una fitta sequenza di contatti del Siino con imprenditori, tale da far sorgere fondati indizi di una attività di costui, finalizzata ad interferire nello svolgimento di gare di appalto indette sia da enti pubblici, sia, particolarmente dalla SIRAP. s.p.a. (una società a capitale misto che aveva, o avrebbe indetto con fondi pubblici gare di appalto per la realizzazione di 20 aree attrezzate per importi di circa 50 miliardi ciascuna)
DI PIETRO: Falcone, Borsellino e il dossier appalti “Falcone mi disse di controllare gli appalti in Sicilia” “Borsellino fu ucciso perché indagava sulle commistioni tra la mafia e la gestione degli appalti. L’indagine mafia-appalti fu fermata. Come accadde con Mani pulite”. Lo ha detto Antonio Di Pietro al processo d’appello sulla trattativa Stato-mafia davanti alla corte d’assise d’appello…
“Il Ros mi informò 2 giorni prima: stanno ammazzando Borsellino” Dopo la strage di Capaci e pochi giorni prima della strage di via D’Amelio, nell’estate del 1992, l’ex pm Antonio Di Pietro, fu informato “che doveva essere ucciso”. Lo ha detto lo stesso ex magistrato deponendo al processo sulla trattativa tra Stato e mafiaa Palermo. “Due giorni prima dell’omicidio di Borsellino il Ros mi informò: “guardate che stanno ammazzando Borsellino” e anche io dovevo essere ammazzato”.
“Borsellino ucciso per indagini su appalti” “Sono convinto che Paolo Borsellino fu ucciso perché indagava sulle commistioni tra la mafia e la gestione degli appalti. L’indagine mafia-appalti fu fermata. E dopo fu fermata ‘mani pulite’ attraverso una campagna di delegittimazione e di dossieraggio ai miei danni ordita su input di politici specifici che poi mi spinse a dimettermi dalla magistratura”
ANTONIO DI PIETRO “Ero ai funerali di Giovanni Falcone. Paolo Borsellino mi si avvicinò e mi disse: Tonì, facciamo presto, abbiamo poco tempo.”
In aula l’ex pm Antonio Di Pietro: “Falcone mi disse, controlla gli appalti in Sicilia. Borsellino mi confidò: bisogna fare presto”. Un pezzo della tangente Enimont arrivata in Sicilia, a Salvo Lima
Dalla deposizione del dr Ingroia al processo Mario Bo (depistaggio via d’Amelio).Udienza del 15 dicembre 2021. Il tema era la riunione del 14 luglio 92.
Comunque io ricordo che c’è stato o che si sono state le richieste di chiarimenti di Borsellino. Ricordo, e ho già riferito in qualche circostanza, mi ha colpito di più la battuta che fece Borsellino fuori dalla riunione, e anche se non ricordo bene a chi la fece, ma l’ho già dichiarato, credo che fosse la Commissione Regionale, o la fece al dottore Lo Forte o la fece al dottor Pignatone, una cosa del tipo.
Voi non me la state raccontando bene”, una cosa simile.
12.8.2022 FABIO TRIZZINO legale di Fiammetta, Lucia e Manfredi Borsellino
LE AMNESIE DEL GIUDICE GUIDO LO FORTE
Tre mesi fa un colpo di scena: la procura di Caltanissetta, dopo oltre trent’anni, decide di riaprire quell’inchiesta che con ogni probabilità è costata la vita a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Sono già stati ascoltati i primi testi, tra cui l’allora capitano Giuseppe De Donno, il braccio destro di Mario Mori, il comandante del ROS dei carabinieri che confezionarono quelle 890 pagine bollenti in cui veniva dettagliata, per filo e per segno, la grande rete di collusioni tra imprese-mafia-politica.
Una autentica Tangentopoli ante-litteram, visto che coinvolgeva grandi imprese del Nord (un esempio per tutti, il gruppo Ferruzzi), pezzi da novanta di Cosa nostra e grossi politici di livello regionale e nazionale.
Emblematiche le parole dette da Borsellino alla moglie Agnese pochi giorni prima della strage di via D’Amelio: “Ho capito tutto della morte di Giovanni. Se mi fanno arrivare fino in fondo…”.
QUELLA INFUOCATA RIUNIONE DEL 14 LUGLIO
Il 14 luglio 1992, cinque giorni prima del tritolo di via D’Amelio, si svolse a Palermo – convocata dall’allora procuratore capo Pietro Giammanco – una infuocata riunione.
Solo poche settimane fa il CSM ha reso noti i verbali di quella riunione (che pure non erano secretati), con gli interventi di tutti i magistrati che vi presero parte.Vi si trova la conferma di un fatto gravissimo: era stata appena chiesta, il giorno prima, dai pm Guido Lo Forte e Roberto Scarpinato, l’archiviazione di quell’inchiesta bollente, che per Borsellino rappresentava il vero movente della strage di Capaci. Ma – fatto ancor più grave – la notizia di quella richiesta era stata tenuta ‘nascosta’ a Borsellino perfino nel corso di quella riunione. Ed il sigillo ufficiale dell’archiviazione avverrà addirittura il giorno prima di ferragosto, il 14 agosto, firmata dal gip Sergio La Commare.
Ai confini della realtà
Significativa, tra le altre, l’audizione avvenuta il 29 luglio 1992 davanti al CSM di un pm in servizio all’epoca alla procura di Palermo, Domenico Gozzo. In essa emerge quel ‘clima avvelenato’ di cui spesso ha parlato Borsellino.
Sul nodo ‘Mafia e Appalti’ così verbalizzò Gozzo proprio a proposito di quella riunione alla procura di Palermo.
“Su ‘mafia e appalti’ c’era il collega Pignatone (se non ricordo male) e doveva esserci anche il collega Scarpinato che però non potè venire per problemi di famiglia. Ho visto proprio questo contrasto più che latente, perché proprio Borsellino chiese e ottenne che fosse rinviata, perché al momento aveva dei problemi, la discussione su questo processo e fece degli appunti molto precisi: come mai non fossero state inserite all’interno del processo determinate carte che erano state mandate. Fece queste affermazioni: come mai non fossero contenute queste carte all’interno del processo… si trattava di carte che erano state inviate alla procura di Marsala – e nella fattispecie al collega Ingroia, che adesso è anche lui alla Procura di Palermo – che era lo stesso processo però a Marsala”. Continua Gozzo: “C’erano degli sviluppi e, quindi, erano stati mandati a Palermo e lui si chiedeva come mai non fosse stata seguita la stessa linea e, poi, diceva che c’erano dei nuovi sviluppi (in particolare un pentito che ultimamente aveva parlato), e sono rimasto sorpreso perché dall’altra parte si rispose: ‘ma vedremo’. Cioè, di fronte ad una affermazione così importante la risposta è ‘ma vedremo, se è possibile…’”.
LA ‘COSTOLA’ DI ‘MAFIA E APPALTI’, PANTELLERIA
Il riferimento è ad una significativa ‘costola’ dell’inchiesta ‘Mafia e Appalti’ e che riguarda grossi lavori e commesse pubbliche nell’isola di Pantelleria. La stava portando avanti lo stesso Borsellino, in quei mesi ancora impegnato fifty fifty tra la procura di Marsala (dove aveva lavorato fino a quel momento) e quella di Palermo (alla quale si stava trasferendo). E seguiva, quindi, ancora quell’inchiesta di Pantelleria, per la quale aveva proceduto a ben 15 arresti di pezzi grossi della politica e dell’imprenditoria. Tra i papaveri coinvolti, il grosso imprenditore Giuseppe Bulgarella. Scrive Attilio Bolzoni in un’inchieste per Repubblica di luglio 1991: “Da domani cominceranno gli interrogatori degli indagati, 15 tra amministratori di Pantelleria e imprenditori specializzati in opera marittime. Davanti al magistrato sfileranno subito il sindaco Aldo D’Aietti e altri tre ex primi cittadini: tutti dovranno chiarire il loro ruolo nella vicenda del porto e in quelle per altri appalti di strade, fogne, di reti idriche, di invasi in fase di costruzione nell’isola. Lavori in cantiere dal 1984, lavori in molti casi mai finiti. Ma nella storia del racket c’è anche un filone che porta alla mafia palermitana, che conduce ad Angelo Siino, uno degli imprenditori arrestati qualche giorno fa dai carabinieri in un’operazione su ‘appalti sporchi’ a Palermo e che aveva anche interessi nell’isola. Altri appalti che sono entrati nel mirino del procuratore Paolo Borsellino, altre indagini che si sviluppano sull’asse Palermo-Trapani-Pantelleria”.
LA DOPPIA ‘AMNESIA’
Facciamo un salto al processo per il Depistaggio sulla strage di via D’Amelio che si è svolto a Caltanissetta. Ecco cosa ha scritto per l’Adn Kronos Elvira Terranova: “Cinque giorni prima della strage di via D’Amelio, il giudice Paolo Borsellino partecipò a un incontro alla Procura di Palermo. In quella occasione si parlò anche dell’inchiesta ‘Mafia e Appalti’, di cui il magistrato si era occupato a lungo. ‘Ma in quell’incontro il pm Guido Lo Forte nascose al giudice di avere firmato, appena il giorno prima, l’archiviazione dell’inchiesta’. La denuncia arriva nell’aula B del tribunale di Caltanissetta dall’avvocato Fabio Trizzino, legale di parte civile della famiglia Borsellino”. E Terranova poi aggiunge: “Dalle successive dichiarazioni al CSM da parte di magistrati presenti a quella riunione, emerse che nessuno disse a Borsellino che era stata già firmata la proposta di archiviazione. E Guido Lo Forte, che la firmò, era tra i presenti”.
Lo stesso copione si ripete per la ‘costola’ d’inchiesta sugli appalti di Pantelleria. Un altro ceffone assestato a Borsellino. Perché la richiesta di archiviazione riguardava anche quegli appalti nell’isola siciliana.
Incalzato sulla questione ‘Pantelleria’ dall’avvocato Trizzino durante il controesame al processo per il ‘Depistaggio’, Lo Forte, incredibilmente, ha affermato che Borsellino gli chiese notizie solo sulle indagini di Marsala e non su quelle di Palermo.
Risposta assolutamente non calzante, tenuto conto che il filone di reati da 416 bis (come la posizione di Giuseppe Bulgarella), in base alla legge istitutiva della Direzione Distrettuale Antimafia, rientrava per competenza a Palermo; mentre il filone dei reati ‘minori’ rimaneva a Marsala.
La conferma dello ‘spacchettamento’ si ritrova anche in una missiva inviata il 18 febbraio 1992 “al Sig. Procuratore della Repubblica di Palermo” (ossia Lo Forte) dall’allora sostituto procuratore di Marsala, Antonio Ingroia.
In sostanza: per quale motivo mai Borsellino avrebbe chiesto informazioni a Lo Forte su quanto ben conosceva, avendo prestato servizio a Marsala, istruito e seguito il caso, curato personalmente le indagini che portarono a quei 15 arresti?
Perché, in poche parole, negare l’evidenza dei fatti, non solo sull’archiviazione di ‘Mafia e Appalti’, ma anche di una sua costola d’indagine?
Ancora una volta calpestata la memoria del giudice ammazzato dal tritolo di via D’Amelio.
11 Ottobre 2022 di: Andrea Cinquegrani LA VOCE DELLE VOCI
BORSELLINO/ E filone mafia-appalti: dove cercare chi ha voluto la morte del giudice
Nell’attesa di poter leggere le motivazioni della sentenza del tribunale di Caltanissetta che ha condannato per calunnia due dei poliziotti accusati di aver gestito la finta collaborazione del falso pentito della strage di via D’Amelio, arriva dalla procura della Repubblica nissena una importante novità. Come riportato da una nota agenzia di stampa, da qualche settimana sono riprese le indagini sulla morte di Borsellino, ipotizzandosi che quel filone “mafia-appalti”, come predicato nel vuoto da anni dalla figlia del giudice, sia la vera causa scatenante che portò all’accelerazione della strage. L’indagine, come è giusto che sia, è avvolta dal più stretto riserbo ma pare che siano stati svolti i primi interrogatori, fra cui spiccherebbe quello a carico del colonnello Giuseppe De Donno, ovvero di colui che allora giovane capitano, condusse l’inchiesta su mafia-appalti con il suo diretto superiore al Ros, l’allora colonnello Mario Mori. Quell’informativa di reato, per la quale Falcone fu biecamente accusato di conservare le carte nel cassetto, prende corpo da una delega conferita nel 1989 dalla Procura di Palermo ai Ros dei carabinieri e aveva come obiettivo principale quello di accertare “la sussistenza, l’entità e le modalità di condizionamenti mafiosi nel settore degli appalti pubblici nel territorio della provincia di Palermo”. Contestualizzando il tutto a oltre 30 anni fa, l’indagine ha non scarso rilievo in considerazione del fatto che, per la prima volta, si metteva nero su bianco che c’erano dei “condizionamenti” di Cosa nostra negli appalti pubblici. Un triangolo formato da mafia, imprenditori e politica. Dal contesto dell’informativa, si evidenziava “una trama occulta, sostanziata da intrecci, relazioni ed intese, volta al fine di prevaricare norme e regole e, allo stesso tempo, di giungere all’accaparramento del denaro pubblico con un’avidità mai esausta e comune sia ai malfattori mafiosi che agli imprenditori a loro collegati i quali poi, tramite i primi, finiscono per esercitare anch’essi e con gusto il potere mafioso”. Come dire che, dopo le conferme delle condanne del maxi-processo, si accendeva per la prima volta un faro sugli affari mafiosi che riguardavano direttamente il coinvolgimento tanto della classe politica quanto di quella imprenditoriale. L’esito di quella indagine, nero su bianco, affermava che esisteva “un gruppo di potere fatto da imprenditori, politici e mafiosi che decidevano gli appalti e si spartivano i proventi”.
Che sia questo il filone giusto per il pieno disvelamento della verità in merito alle stragi del 1992 saranno i prossimi anni a stabilirlo, tuttavia che l’interessamento dei giudici Falcone e Borsellino a quel dossier redatto dai carabinieri abbia rappresentato almeno una concausa delle stragi è stato già accertato da tutte le sentenze che in questi anni si sono susseguite, recependo le affermazioni di diversi collaboratori di giustizia.
Giovanni Brusca, ad esempio, ha più volte ribadito come in seno a Cosa nostra sussisteva la forte preoccupazione che Falcone, divenendo Procuratore nazionale antimafia, potesse imprimere un impulso alle investigazioni nel settore inerente alla gestione illecita degli appalti, specificando che di avere appreso da Salvatore Riina che, a seguito della legge Rognoni-La Torre, i Buscemi avevano ceduto fittiziamente le imprese al gruppo Ferruzzi e che Antonino Buscemi era rimasto all’interno della struttura societaria come impiegato.
Angelo Siino, soprannominato “il ministro dei lavori pubblici di Cosa nostra”, ha a sua volta sostenuto che le cause dell’eliminazione di Falcone andavano cercate nelle indagini promosse dal magistrato nel settore della gestione illecita degli appalti, verso cui aveva mostrato un “crescendo di interesse”. Era infatti noto che in quel periodo si fosse consolidata la consapevolezza da parte dei boss che Falcone avesse compreso la rilevanza strategica del settore appalti e che intendesse approfondirne gli aspetti.
D’altronde, aspetto spesso poco evidenziato nelle ricostruzioni giornalistiche, un personaggio di primo piano come Antonino Buscemi, che rappresentava il tipico colletto bianco mafioso e che non a caso era entrato in società con la Calcestruzzi della Ferruzzi Gardini, fu fra coloro che lanciarono l’allarme in conseguenza delle esternazioni di Falcone formulate durante un convegno pubblico proprio su criminalità e appalti. Peraltro, ha riferito sempre il Siino di avere appreso che Pino Lipari aveva contattato l’onorevole Mario D’Acquisto affinché intervenisse nei confronti dell’allora procuratore della Repubblica di Palermo, al fine di neutralizzare le indagini trasfuse nel rapporto cosiddetto “mafia-appalti” e in quelle che si potevano stimolare in esito a tali risultanze. Borsellino, dal canto suo, nel periodo immediatamente successivo alla strage di Capaci, aveva esternato a diverse persone che una pista da seguire era quella degli appalti, come confermato da quanto emerse nel corso delle audizioni al Csm di fine luglio 1992. Cinque giorni prima della strage, Borsellino partecipò infatti a un’assemblea straordinaria indetta dall’allora procuratore capo, Pietro Giammanco; un’assemblea, come dirà il magistrato Vincenza Sabatino, inusuale e mai accaduta prima. In quell’occasione Borsellino avrebbe fatto dei rilievi su come i suoi colleghi, titolari dell’indagine, avrebbero condotto il procedimento. Come dirà inoltre il magistrato Nico Gozzo, si respirava in quella riunione aria di tensione. Certo, resta alquanto sconcertante che la richiesta di archiviazione del dossier mafia-appalti fu depositata, come riferito dall’avvocato Trizzino, legale della famiglia Borsellino, al processo sul depistaggio Scarantino a carico dei poliziotti, mentre stavano ancora chiudendo la bara del giudice e dei suoi angeli custodi. Molte ombre sull’operato di uffici giudiziari e apparati dello Stato permangono nella ricostruzione di quella stagione così cruenta e tragica per la storia del nostro Paese oltre che delle famiglie colpite negli affetti più cari. Possiamo solo confidare che dopo così tanto tempo inizi a filtrare qualche raggio di sole e con esso un barlume di verità. IL SUSSIDIARIO 4.8.2022
29.7.2022 – Procura Caltanissetta riapre inchiesta ‘Mafia e appalti’
A 30 anni esatti dall’archiviazione del dossier ‘Mafia e appalti’ a Palermo, su cui aveva indagato il giudice Giovanni Falcone, l’inchiesta viene riaperta. Ma stavolta ad occuparsene non sono più i magistrati palermitani bensì i ‘cugini’ di Caltanissetta. Le bocche in procura sono cucite, l’indagine è top secret, ma come apprende l’Adnkronos, il pool stragi da qualche settimana sta indagando su quel dossier dei Carabinieri del Ros, finito prepotentemente in processi importanti, come quello sulla cosiddetta trattativa tra Stato e mafia, ma anche nel più recente processo sul depistaggio sulla strage Borsellino, terminato con la prescrizione per due imputati e l’assoluzione del terzo. Tutti poliziotti del Gruppo ‘Falcone e Borsellino’. I magistrati che coordinano l’inchiesta, tra cui Claudia Pasciuti, guidati dal Procuratore capo Salvatore De Luca, di recente hanno anche fatto i primi interrogatori. Anche quelli top secret. Tra le persone sentite dai pm Claudia Pasciuti e Pasquale Pacifico, anche se quest’ultimo non è nel pool sull’inchiesta mafia e appalti, spicca in particolare il nome del colonnello Giuseppe De Donno. Cioè, colui che allora giovane capitano, condusse l’inchiesta su mafia e appalti con il suo diretto superiore al Ros, l’allora colonnello Mario Mori.
Ma cosa conteneva il primo dossier su mafia e appalti? Tutto nasce da una delega conferita nel 1989 dalla Procura di Palermo ai Ros dei Carabinieri che aveva come obiettivo principale quello di accertare “la sussistenza, l’entità e le modalità di condizionamenti mafiosi nel settore degli appalti pubblici nel territorio della provincia di Palermo”. Dunque, per la prima volta, si metteva nero su bianco che c’erano dei “condizionamenti” di Cosa nostra negli appalti pubblici. Un triangolo formato da mafia, imprenditori e politica.
“Dal contesto della presente informativa” si evidenzia “una trama occulta, sostanziata da intrecci, relazioni ed intese, volta al fine di prevaricare norme e regole e, allo stesso tempo, di giungere all’accaparramento del denaro pubblico con un’avidità mai esausta e comune sia ai malfattori mafiosi che agli imprenditori a loro collegati i quali poi, tramite i primi, finiscono per esercitare anch’essi e con gusto il potere mafioso”. Eccola, nero su bianco, l’informativa sul dossier mafia e appalti. Quella informativa era l’inizio dell’indagine. C’era un gruppo di potere fatto da imprenditori, politici e mafiosi che decidevano gli appalti e si spartivano i proventi”. Su quella indagine Mori, con l’allora giovane capitano Giuseppe De Donno, tra il 1990 e l’inizio del 1991, lavorò per mesi.
Gli investigatori si imbatterono nel nome di Angelo Siino
Gli investigatori si imbatterono, dunque, nel nome di Angelo Siino, colui che poi diventerà, su sua stessa ammissione, il ‘ministro dei lavori pubblici di Cosa nostra’. A fare il suo nome è un esposto anonimo. Ufficialmente vendeva auto ma ben presto i Carabinieri si resero conto che c’era ben altro. Come emergeva dalle intercettazioni. “Mentre padre e fratello gravitano costantemente presso gli uffici ed i cantieri della società edile attendendo a tempo pieno alle esigenze tecniche d’esecuzione e gestione dell’azienda, Angelo appariva proiettato verso un’attività che gli imponeva frequentissimi contatti con altri imprenditori senza che ciò potesse trovare una comprensibile e convincente spiegazione, diversa dalla contraria e seria congettura di una sua piena e diretta partecipazione nella manomissione e nel pilotaggio di appalti per la realizzazione di opere pubbliche”.
Siino avrebbe avuto la funzione di stabilire e riscuotere le tangenti imposte agli impresari edili, nonché decretare l’assegnazione dei lavori pubblici in gara alle imprese predestinate, “secondo un ordine funzione degli interessi generali delle famiglie di Cosa Nostra e degli operatori economici ad esse legati”, come dicevano i carabinieri del Ros.
Cinque giorni prima della strage di Via D’Amelio, il giudice Paolo Borsellino partecipò a un incontro alla Procura di Palermo. In quell’occasione si parlò anche dell’inchiesta ‘mafia e appalti’, di cui il magistrato si era occupato a lungo. “Ma in quell’incontro il pm Guido Lo Forte nascose al giudice di avere firmato, appena il giorno prima, l’archiviazione dell’inchiesta”, ha denunciato recentemente, nel corso dell’arringa del processo sul depistaggio sulla strage di Via D’Amelio, l’avvocato Fabio Trizzino, legale di parte civile della famiglia Borsellino, ma anche marito di Lucia Borsellino, la figlia maggiore del giudice ucciso nell’attentato del 19 luglio del 1992. Sull’archiviazione è stato ascoltato in aula anche l’ex Procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato, insieme con Guido Lo Forte. “L’inchiesta mafia-appalti del febbraio 1991 è un’indagine in progresso con vari atti. Dire che l’inchiesta è stata archiviata è una falsità indegna”, ha detto Scarpinato in aula a Caltanissetta.
Il 14 luglio ci fu una riunione infuocata in Procura
“L’indagine ebbe vari momenti. Prima fu assegnato a tutti i membri del pool antimafia. Poi si fece il rinvio a giudizio dei sette che erano stati arrestati, i primi a giugno 1991 ed i secondi a gennaio 1992. Il rinvio a giudizio è di maggio 1992. Dopo vi fu uno stralcio sulla parte più importante dell’inchiesta: appalti di mille miliardi di lire, gestiti dalla Sirap. Lo stralcio è del giugno 1992. Restava una parte residuale con alcuni personaggi nei cui confronti non erano ancora stati acquisiti sufficienti elementi per un rinvio a giudizio”, disse ancora l’ex Procuratore generale di Palermo. Per Scarpinato “quella archiviazione non riguardava mafia-appalti, come spesso nella stampa si legge impropriamente, ma riguardava soltanto la posizione di alcuni soggetti per cui non erano stati aggiunti sufficienti elementi anche a causa di una grave anomalia istituzionale”.
Ma cosa accadde in quella riunione del 14 luglio del 1992, cioè cinque giorni prima della strage di Via D’Amelio, di cui parla l’avvocato della famiglia Borsellino? Era un briefing dei magistrati della Procura di Palermo, e in quella occasione Paolo Borsellino chiese notizie sull’inchiesta. Dalle successive dichiarazioni al Csm da parte dei magistrati presenti a quella riunione, emerse che nessuno disse a Borsellino che era già stata firmata la proposta dell’archiviazione.
Pochi giorni fa il dossier su ‘mafia e appalti’ è finito anche agli onori della cronaca dopo la pubblicazione degli atti del Csm delle audizioni di alcuni magistrati della Procura di Palermo subito dopo la strage di via D’Amelio. I magistrati 30 anni fa parlarono proprio di quella riunione del 14 luglio convocata dall’allora Procuratore Pietro Giammanco. A parlarne fu, ad esempio, il magistrato Vincenza Sabatino. “Mai era stata convocata un’assemblea di questo genere per i saluti in occasione delle ferie estive”, disse al Csm. E spiegò che Giammanco scrisse nella convocazione “vi prego di intervenire all’assemblea d’ufficio che avrà luogo martedì 14 alle ore 17 nel corso del quale verranno altresì trattate problematiche di interesse generale attinenti alle seguenti rilevanti indagini che hanno avuto anche larga eco nell’opinione pubblica”. “È il procuratore che scrive, e lui già si rende conto alla data dell’11 luglio, quando la convoca, che c’è da tempo una situazione di questo tipo, non è soltanto il lancio delle monetine e sputi che avverrà il 19 sera, ma è una situazione che esiste da tempo”.
La tensione al Palazzo di giustizia di Palermo era palpabile, e non da poco tempo. Borsellino vi partecipò ed è anche il magistrato Luigi Patronaggio, da pochi mesi in Procura. E’ lui a raccontare che il giudice chiese delucidazioni sul dossier mafia-appalti. Borsellino “disse espressamente che i carabinieri”, cioè Mori e De Donno “si aspettavano da questa informativa” su mafia e appalti, “dei risultati giudiziari di maggiore respiro”. Alla domanda se si riferisse alla posizione dei politici, Patronaggio ha precisato: “In realtà no, non è solo nei confronti dei politici, ma anche nei confronti degli imprenditori, perché il nodo era valutare a fondo la loro posizione e su questo punto il collega Lo Forte si dilungò spiegando il delicato meccanismo e la delicata posizione degli imprenditori”.
Borsellino, in altre parole, in quella occasione, si fece portavoce delle lamentele dei Ros. Proprio mentre il giorno prima i pm titolari di quell’indagine avanzarono già richiesta di archiviazione proprio sulle posizioni degli imprenditori. Ma i titolari di quell’inchiesta, Lo Forte e Scarpinato, sentiti come testimoni al recente processo sul depistaggio Borsellino hanno detto che mai Borsellino fece quei rilievi durante la riunione. Anche il magistrato Nico Gozzo, oggi alla Procura nazionale antimafia, sentito dal Csm, parlò dei rilievi che Borsellino fece su mafia-appalti, aggiungendo altri elementi importanti.
Adesso sarà la Procura di Caltanissetta a provare a fare luce su quanto accadde in una calda estate di 30 anni fa, quando il dossier mafia e appalti venne archiviato, come ha detto l’avvocato Trizzino al processo depistaggio “mentre stavano ancora chiudendo la bara di Paolo Borsellino e dei suoi angeli custodi”. (di Elvira Terranova ADNKRONOS)
Falcone, Borsellino e le indagini sui grandi appalti in odor di mafia
Questo era dunque la reale dimensione e natura degli interessi in gioco, sullo sfondo delle due stragi siciliane, e di quella di via D’Amelio in particolare. Ma l’obiezione più calzante e meritevole di attenzione che la sentenza qui impugnata muove alla tesi difensiva (secondo cui sarebbe stato il timore di un approfondimento dell’indagine mafia appalti a causare un’accelerazione dell’iter esecutivo della strage di via D’Amelio: ammesso che tale accelerazione vi sia mai stata) è che non vi sarebbe prova che Cosa nostra sapesse dell’interesse nutrito dal dott. Borsellino per quel tema d’indagine; e del suo proposito di riprendere e approfondire l’indagine a suo tempo curata dal Ros, mettendo a frutto le conoscenze acquisite e sviluppando le intuizioni e le indicazioni che gli erano state trasmesse dal collega e grande amico Falcone. Che vi sia stato una sorta di passaggio del testimone da Falcone a Borsellinoquanto all’impegno di seguire e approfondire questo filone d’indagine è pacifico e la dott. Ferraro ebbe modo di constatano personalmente, avendo assistito ad una telefonata con la quale Falcone rammentava all’amico Paolo che adesso toccava a lui seguire gli sviluppi dell’indagine compendiata nel rapporto “mafia e appalti” del Ros
È anche vero che Borsellino ne aveva parlato ripetutamente, e non solo come tema di dibattito conviviale (come in occasione della cena romana, tre giorni prima che il magistrato venisse ucciso, di cui hanno parlato il dott. Natoli e l’on Vizzini), ma come programma di lavoro (con Antonio Di Pietro, con il quale, in occasione dei funerali di Falcone, si incontrarono ed ebbero uno scambio di idee sul tema, ripromettendosi di vedersi proprio per mettere a punto un piano di coordinamento delle rispettive indagini), e come oggetto di una futura delega d’indagine riservata della quale i carabinieri del Ros avrebbero dovuto riferire soltanto a lui. E decine e decine di volte, come ricorda l’allora procuratore Aggiunto Aliquò, avevano discusso in procura della rilevanza di questo tema d’indagine, ossia l’intreccio tra le attività delle cosche mafiose e il sistema di gestione illecita degli appalti, e dell’ipotesi che vi potesse essere un nesso con la causale della strage di Capaci (e poco importa che, a dire dello stesso Aliquò, non si fossero trovati elementi concreti che la suffragassero, poiché ciò che si ricava dalla sua testimonianza è che il dott. Borsellino fosse seriamente interessato a quell’ipotesi investigativa e a verificarne l’attendibilità tale ipotesi).
E come si vedrà in prosieguo, in occasione di una tesa riunione tra tutti i magistrati della procura della Repubblica di Palermo, tenutasi — per volere del procuratore Giammanco — il 14 luglio ‘92 per fare il punto sulle indagini più delicate (e per tentare di sopire le polemiche esplose a seguito di velenose campagne di stampa su presunti insabbiamenti: v. infra), il dott. Borsellino non è chiaro se già al corrente o ancora ignaro che il giorno prima il procuratore Giammanco aveva apposto il proprio visto alla richiesta di archiviazione per le posizioni che restavano da definire nell’ambito dell’originario procedimento n. 2789/90 N.C. a carico di “Siino Angelo+43” (quello oggetto del rapporto “mafia e appalti” esitato dal Ros Nel febbraio 1991) chiese chiarimenti e ottenne di aggiornare la discussione sulle determinazioni che l’Ufficio avrebbe dovuto adottare in merito, a riprova del suo concreto interesse per tale indagine.
Ma che il dott. Borsellino fosse in procinto di dedicarsi a questo tema d’indagine, partendo dal dossier mafia e appalti, e che vi annettesse una rilevanza strategica, nella convinzione che avrebbe potuto condurre fino ai santuari del potere mafioso e forse anche a fare luce sulla strage di Capaci, non erano certo notizie di pubblico dominio, né trapelavano in modo esplicito dalle pur frequenti esternazioni pubbliche alle quali lo stesso Borsellino si lasciò andare nei giorni e nelle settimane successive al 23 maggio ‘92.
E sarebbe un rimestare nel torbido se si indugiasse sui sospetti di collusione dell’allora maresciallo Canale— che certamente era a conoscenza dell’interesse di Borsellino per quel terna d’indagine così come del fatto che avesse voluto un incontro riservato con Mori e De Donno per ragioni inerenti a quell’indagine — dopo che lo stesso Canale è uscito assolto dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, nonostante le infamanti propalazioni di Siino (che da lui, o anche da lui sarebbe stato informato delle indagini a suo carico e avrebbe avuto poi una copia dell’informativa del febbraio 1991, secondo quanto Brusca dice di avere saputo appreso dallo stesso Siino).
Le dichiarazioni dei pentiti
Dal versante interno a Cosa nostra, ovvero dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia più addentro agli arcana imperii dell’organizzazione mafiosa, sono venute indicazioni non sempre chiare e univoche.
Antonino Giuffrè, interrogato sulle ragioni dell’uccisione di Borsellino, dopo avere ribadito il discorso stragistico della resa dei conti contro i nemici giurati di Cosa nostra, sia nel dottore Falcone, che il dottore Borsellino, che risaliva sempre all’ormai nota riunione di Commissione del dicembre ‘91, ha aggiunto che nella decisione di uccidere Borsellino ha pesato moltissimo, assieme al discorso della sentenza del Maxi, anche questo discorso su mafia e appalti: «se il discorso del Maxi processo è un discorso dove troviamo principalmente dei mafiosi, nel contesto mafia e appalti troviamo altri discorsi di una cera gravità, cioè che vengono fuori quei legami appositamente extra dal inondo mafioso, con alti-e entità, quali imprenditori… Quindi è un discorso abbastanza destabilizzante perché se è vero come è vero che ho detto è una delle attività più importanti di Cosa nostra da un punto di vista economico, ma non solo, non solo, perché permette di creare degli agganci con personaggi che io ho sempre sottolineato questo discorso, importanti della vita italiana anche da un punto di vista politico, cioè, si sfruttano anche il contesto imprenditoriale per creare degli agganci in altri settori dello Stato».
Ed a specifica domanda (le risulta che in Cosa nostra si ebbe notizia che il dottore Borsellino forse stava diventando più pericoloso pure del dottore Falcone, specificamente in questo campo degli appalti?) ha confermato che in effetti «l‘unica persona che era in grado, o una delle poche, per meglio dire, che era in grado di leggere il capitolo sull‘uccisione del dottore Falcone, era il dottore Borsellino. Quindi (….) sono stati messi tutti e due candidati ad essere uccisi, appositamente già si sapeva che erano, come ho detto in precedenza, dei nemici giurati di Cosa nostra, e non vado oltre».
In altri termini, prima di Borsellino già Falcone era stato ucciso non soltanto perché nemico giurato di Cosa nostra ma anche per una ragione più recondita, legata al suo impegno nei portare avanti le indagini in materia di mafia e appalti. E di riflesso, anche Borsellino doveva essere ucciso non solo per vendetta, ma perché nessuno meglio di lui avrebbe saputo individuare la giusta chiave di lettura della strage di Capaci, che andava oltre le finalità dichiarata di vendicarsi.
Alla domanda se risultasse, all’interno di Cosa nostra, che il dott. Borsellino volesse fare indagini in terna di appalti, dopo la morte di Falcone, Giovanni Brusca, all’udienza del 12.12.2013, ha dato una risposta evasiva, limitandosi a dire che «era uno dei temi che più si dibatteva, però notizie così, generiche, dettagliatamente non ne conosco». Gli è stato contestato quanto aveva risposto alla stessa domanda fattagli all’udienza del 23.01.1999, nel proc. Borsellino ter; ma il collaborante, implicitamente confermando le pregresse dichiarazioni, non ha ritenuto di aggiungere nulla a chiarimento. Resta quindi confermato che, a suo dire, si seppe all’interno di Cosa nostra che il dott. Borsellino «dopo la morte del dott. Falcone voleva vedere sia perché era stato ucciso e voleva continuare quello che il dottore Falcone stava facendo (…) Tra Capaci e via D’Amelio credo che è saputo e risaputo da tutti che il dottore Borsellino vuole sapere, vuole scoprire clv ha ucciso, perché ha ucciso il dottore Falcone e riuscire a capirlo attraverso indagini che stava facendo, su cosa stava lavorando».[…] Da queste tormentate acrobazie verbali sembrerebbe evincersi che solo attraverso conoscenze acquisite nei vari processi successivi si comprese che le ragioni per cui furono uccisi Falcone e Borsellino, a parte il fine di vendetta, avevano a che vedere anche con gli appalti o comunque con le attività giudiziarie che i due magistrati uccisi stavano portando avanti. Ma sollecitato a chiarire le sue affermazioni, Brusca, in quella sede, puntualizzava che chi lo aveva interrogava nel precedente processo (il Borsellino ter) cercava una conferma all’ipotesi che Falcone e Borsellino fossero stati uccisi per l’attività d’indagine su mafia e appalti, «cosa che per me non esiste, può darsi magari per altri si».
In realtà, ciò che vuole dire Brusca non è dissimile da quanto ha dichiarato Giuffré: c’era una verità ufficiale, all’interno di Cosa nostra, secondo la quale Borsellino doveva morire, così come Falcone, perché entrambi nemici giurati dell’organizzazione mafiosa e artefici del mai processo che tanto danno aveva provocato per gli interessi mafiosi, a cominciare dalla demolizione del mito dell’impunità. Ma c’era anche una ragione non dichiarata e più profonda, che rimandava proprio al rilievo strategico che il settore degli appalti aveva per gli interessi mafiosi.
E posto che la strage di Capaci aveva come finalità recondita anche quella di bloccare le indagini sul sistema di spartizione degli appalti, o sviarle, il fatto stesso che Borsellino fosse assolutamente determinato a venire a capo non solo dell’identità dei responsabili della strage di Capaci, ma anche della sua vera causale (segno che riteneva che la finalità ritorsiva non fosse l’unica ragione), come andava dicendo pubblicamente, sicché Cosa nostra ne era a conoscenza senza bisogno di ricorrere a talpe o infiltrati, ne faceva un obbiettivo primario da colpire, non meno di Falcone.
E in tal senso al “Borsellino Ter lo stesso Brusca era stato molto chiaro: «tra Capaci e via d’Amelio, credo che è saputo e risaputo da tutti che il dottor Borsellino vuole sapere… vuole sapere, vuole scoprire chi ha ucciso, perché ha ucciso il dottor… il dottor Giovanni Falcone e riuscire a capirlo attraverso le indagini che stava facendo, su che cosa stava lavorando (…) io con Salvatore Riina di questo qua non ne ho più parlato, io lo apprendo dal.. come un normale cittadino, come tutti gli altri, che lui vuole andare avanti, lo dice pubblicamente, lo grida, cioè lo esterna… dottor Di Matteo, non è che c’è bisogno che te lo devono venire a dire a confida… in confidenza».
E sempre in questo senso si può convenire che l’interesse che il dott. Borsellino nutriva per l’intreccio mafia e appalti come tema d’indagine da approfondire era motivo di allarme per Cosa nostra non perché ne fosse venuta direttamente a conoscenza, ma già per il fatto che egli intendesse scoprire la vera causale della strage di Capaci (non solo chi ha ucciso, ma perché ha ucciso),e intendeva comunque ripartire dalle ultime indagini che l’amico Giovanni aveva curato prima di trasferirsi al Ministero (tra cui proprio quella su mafia e appalti): e questo proposito era ormai notorio.
La strategia di Riina: guerra allo stato e nuove protezioni politiche
Il ruolo “storico” di Buscemi Antonino, quale imprenditore mafioso protagonista della penetrazione di Cosa nostra nei salotti buoni della finanza e dell’imprenditoria nazionale sarà messo a frioco nel procedimento – anche questo richiamato nella Relazione cit. su mafia e appalti — a carico dello stesso Buscemi Antonino+5 in relazione all’esistenza di un comitato d’affari sovraordinato a quello facente capo ad Angelo Siino, e che sovrintendeva alla spartizione degli appalti di maggiore importo. Ne facevano parte, insieme al Buscemi, anche Bini Giovanni, che curava gli interessi del Gruppo Ferruzzi e si interfacciava con gli ambienti dell’imprenditoria nazionale; Salamone Filippo, che curava invece i rapporti con gli imprenditori locali e i referenti politici ai quali veicolare le relative tangenti. Il nome di Buscemi Antonino peraltro era stato segnalato come possibile socio del Gruppo Ferruzzi già nel primo rapporto del Ros su mafia e appalti. Ivi, il Buscemi veniva segnalato come imprenditore ramante, inserito nella Calcestruzzi Palermo, nella LA.SER.s.r.l. e nella FINSAVI s.r.l., società quest’ultima compartecipata al 50 per cento dalla Calcestruzzi di Ravenna, holding del Gruppo Ferruzzi. Lo stesso nominativo era segnalato per una vicenda di partecipazioni incrociate e sospette compravendite di pacchetti azionari in un’informativa trasmessa per competenza dal sost. Proc. di Massa Carrara, dott. Lama, alla procura di Palermo nell’agosto del ‘91, in relazione a indagini sulla società I.M.E.G., riconducibile ai fratelli BUSCEMI. Ma il procedimento incardinato per 416 bis si concluderà con decreto di archiviazione, non essendo emersi indizi di reità per il reato di associazione mafiosa, al di là della certezza di cointeressenze societarie tra la Calcestruzzi del Gruppo Ferruzzi, e quindi tra Raul Gardini e un imprenditore all’epoca “in odor di mafia”, come Buscemi Antonino, fatto salvo il sospetto di reati fiscali finalizzati alla creazione di provviste occulte da destinare al pagamento di tangenti. La Calcestruzzi di Ravenna sarà peraltro indicata dal pentito Messina Leonardo, in uno dei primi interrogatori resi al dott. Borsellino, come società in qualche modo entrata in rapporti con Riina. Quanto alla Reale costruzioni, sarebbe stato il passepartout voluto da Riina per entrare nel Gotha dell’imprenditoria nazionale, ne erano soci Reale Antonino, Benedetto D’Agostino e Agostino Catalano, quest’ultimo consuocero di Vito Ciancimino. Ma socio occulto era proprio Buscemi Antonino. A dire di Brusca, uno dei personaggi più importanti era però proprio Agostino Catalano. Nelle intenzioni di Riina, in sostanza, la Reale costruzioni avrebbe dovuto scalzare la Impresem di Filippo Salamone nel ruolo di cerniera con i grandi gruppi imprenditoriali nazionali, aggiudicandosi, anche mediante A.T.I., gli appalti di maggiore importo. Questo progetto in effetti non si arenò con la cattura di Riina, ma proseguì, evidentemente con altri registi, almeno fino al 1997, quando le rivelazioni di Brusca e poi la collaborazione formalizzata da Siino consentirono di squarciare il velo sul ruolo di imprenditori insospettabili come Benny D’Agostino e Benedetto Catalano.Di un sorprendente esito delle indagini patrimoniali espletate in procedimenti apparentemente non collegati tra loro (come quelli aventi ad oggetto, rispettivamente, vicende di corruzione/concussione e traffico di droga) v’è traccia nella richiesta di archiviazione del procedimento mandanti bis e nella testimonianza del senatore Di Pietro e nelle sentenze di merito del processo sull’attentato all’Addaura.
La pista elvetica
Si accertò infatti che erano stati accesi presso istituti di credito e banche elvetiche dei conti “di servizio” nella disponibilità di finanzieri e faccendieri su cui confluivano i flussi di denaro provenienti dal traffico di droga. Ad occuparsene, secondo il pentito Vito Lo Forte erano Gaetano Scotto e Vincenzo Galatolo, della famiglia mafiosa dell’Acquasanta. Gli inquirenti ipotizzarono che qui potesse risiedere il movente dell’attentato all’Addaura: colpire i magistrati svizzeri che cooperavano con Falcone nell’inchiesta su quel riciclaggio. Ma si adombrò pure l’ipotesi (v. pag. 236 della sentenza emessa il 27.03.2000 nel processo di primo grado per l’attentato all’Addaura e fg. 35-36 della richiesta 9 giugno 2003 e successivo decreto di archiviazione in data 19 settembre 2003 del procedimento istruito dalla procura distrettuale di Caltanissetta a carico dei presunti mandanti occulti delle stragi, c.d. “mandanti occulti bis”) che quei conti svizzeri non fossero soltanto terminali del riciclaggio di capitali mafiosi, ma servissero altresì a costituire fondi neri da destinare come provvista delle imprese interessate al pagamento delle tangenti ai politici.
È plausibile allora anche sotto questo aspetto che l’interesse manifestato da Paolo Borsellino per le indagini sull’intreccio mafia/appalti si saldasse alla sua determinazione a fare luce sulla vera causale della strage di Capaci, avendo egli ripreso l’intuizione che già era stata di Giovanni Falcone circa un possibile link tra i due movimenti di denaro illecito: riciclaggio di capitali sporchi e pagamento delle tangenti. In sostanza, chi gestiva quei conti, era al centro di un crocevia di traffici illeciti e quindi partecipava di entrambi. Ma ciò voleva dire che i capitali mafiosi, almeno in parte, servivano anche ad ungere i rapporti con la politica, anche se tale compito era affidato ad appositi faccendieri. E il senatore Di Pietro ha confermato che Borsellino era convinto che esistesse un sistema nazionale di spartizione degli appalti, cui si uniformavano le cordate di imprenditori operanti nei vari territori e li si trovava anche la chiave della formazione delle tangenti (che era l’aspetto che più premeva all’allora sost. proc. Di Pietro approfondire: scoprire il luogo e il meccanismo di formazione delle provviste da destinare).
Peraltro, l’acquisita compartecipazione di Cosa nostra al sistema di spartizione degli appalti, ovvero un sistema di potere radicato in Sicilia ma con propaggini sul territorio nazionale (come sarebbe dimostrato dall’inchiesta della procura di Massa Carrara sulle cointeressenze societarie di un imprenditore che solo successivamente si accerterà essere organico a Cosa nostra come Buscemi Antonino e società del Gruppo Ferruzzi) capace di intercettare e redistribuire ingentissime somme di denaro pubblico, come i mille miliardi di lire per la realizzazione di insediamenti produttivi prevista dai finanziamenti in favore della Sirap, farebbe pensare alla ricucitura di un patto occulto di scellerata alleanza o di proficua coabitazione tra organizzazione mafiosa e mondo politico.
Ma ciò non è affatto in contraddizione con la guerra allo Stato, cioè con l’offensiva scatenata dai corleonesi contro le Istituzioni.
È chiaro infatti che la guerra dichiarata da Riina era diretta contro lo Stato e le sue leggi, mentre il sistema di potere incentrato sulla cogestione illecita degli appalti si fondava su una sotterranea intesa con pezzi infedeli dello Stato e delle istituzioni politiche ed economiche, e cioè politici corrotti, amministratori e funzionari infedeli, imprenditori collusi. Né la strategia stragista era in contraddizione con l’esigenza di trovare nuovi referenti politici e riallacciare canali che permettessero di tornare a fruire di una protezione “politica” dei propri interessi. Da un lato, infatti, essa ne creava le premesse indispensabili, quali l’annientamento dei nemici giurati di Cosa nostra, che avrebbero impedito l’apertura di nuovi canali di dialogo con la politica; e l’eliminazione dei vecchi referenti che avevano voltato le spalle all’organizzazione mafiosa, che servisse anche da monito per quanti fossero stato risparmiati o per quanti si fossero prestati a ricucire rapporti con Cosa nostra.
Ma dall’altro – ed è questa l’indicazione che proviene, sia pure con accenti diversi, dalla maggior parte dei collaboratori di giustizia che hanno saputo riferirne: Brusca, Cancemi, Giuffé, Sinacori, Malvagna, Messina, Pulvirenti, Avola: cui si sono aggiunti in questo processo Palmeri Armando e alcuni collaboratori di giustizia provenienti dalle fila della ‘ndrangheta calabrese — essa doveva costituire, nelle intenzioni dei suoi artefici, lo strumento più efficace per propiziare l’apertura di nuovi canali di dialogo con la politica.
È stato il processo che ha violentemente diviso l’antimafia giudiziaria e non solo quella. Un processo che ha sfiorato alte cariche dello stato e persino un presidente della Repubblica, che ha portato sul banco degli imputati ministri, alti ufficiali dei carabinieri e capimafia tutti insieme.
La sentenza di primo grado, nell’aprile del 2018, è stata clamorosamente di condanna per il boss Leoluca Bagarella per il medico di Cosa Nostra Antonino Cinà, per il colonnello Giuseppe De Donno e per i generali Mario Mori e Antonino Subranni, per il senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri.
La sentenza di appello è stata clamorosamente di assoluzione per tutti. Tranne che per i mafiosi.
E, ancora prima, assolto anche l’ex ministro Calogero Mannino – che aveva scelto il rito abbreviato – dall’accusa di avere partecipato alla cosiddetta trattativa Stato-mafia. Di più: di essere stato lui stesso l’origine del patto perché terrorizzato, diventato bersaglio di Cosa Nostra dopo l’omicidio di Salvo Lima, l’uomo di Giulio Andreotti in Sicilia. Assolto «per non aver commesso il fatto».
In questa lunga serie del Blog Mafie pubblichiamo ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado (presidente Angelo Pellino, giudice a latere Vittorio Anania), quasi tremila pagine che demoliscono alcuni passaggi chiave della sentenza della Corte d’Assise ma confermano che quella trattativa ci fu. Fu fatta non per favorire la mafia ma per «evitare altre stragi» e salvare l’Italia.
È una sentenza dove lo stato assolve sé stesso e che parla di «palesi aporie o forzature» nel primo grado, che sottolinea come nell’estate del ‘92 Cosa Nostra non giocasse in difesa ma in attacco: «L’obiettivo finale era costringere lo stato, a forza di bombe, a prendere atto che inasprire le misure repressive contro la mafia sarebbe servito solo a provocare ritorsioni sempre più violente da parte di Cosa Nostra».
Gli approcci di alti ufficiali dei carabinieri con l’ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino vengono definite “un’improvvida iniziativa“, la strage di via d’Amelio non fu un fattore di accelerazione dell’uccisione di Paolo Borsellino ma nelle motivazioni viene rilanciata piuttosto la pista del dossier “mafia-appalti. Ipotesi molto azzardata e priva di un qualunque riscontro: questa comunque la convinzione dei giudici.
Un verdetto che capovolge il precedente e che ha aperto altre polemiche all’interno della magistratura, filosofie giudiziarie differenti che si scontrano ormai da quel lontano 1992.
A trent’anni dalle stragi di Capaci e di via D’Amelio, di sicuro c’è solo che Falcone e Borsellino sono saltati in aria e non si conoscono i “mandanti altri” che ne hanno ordinato la morte.
Sentenza della Corte d’Appello 6- 7 novembre 2022 EDITORIALEDOMANI.IT La serie sulla trattativa stato-mafia
5 agosto 2022 – GIUDICI, ‘STRAGE BORSELLINO ACCELERATA DA DOSSIER APPALTI NON DA TRATTATIVA= Palermo, 6 ago. (Adnkronos) – “La Corte ritiene quindi di poter concludere nel senso che quell’input dato da Salvatore Riina al suo interlocutore affinché si uccidesse il dottor Borsellino con urgenza nel giro di pochi giorni, mettendo da parte altri progetti omicidiari già in più avanzata fase di esecuzione (tra i quali quello concernente l’onorevole Mannino di cui ha riferito Giovanni Brusca), possa avere trovato origine nell’interessamento del medesimo dottore Borsellino al rapporto MAFIA e appalti”. Lo scrivono i giudici del processo Stato-MAFIA nelle motivazioni della sentenza di appello depositate nelle scorse ore. In questo modo i giudici smentiscono che ad accelerare la morte di Borsellina possa essere stata la trattativa tra pezzi dello Stato e i boss mafiosi.
«Con Giovanni passavamo qui interi pomeriggi» mi racconta. Poi si fa serio, mi abbraccia e a bassa voce mi fa una promessa: «Devi credere in me, Maria, perché io alla verità ci arrivo». Resto senza parole, sorpresa dal tono grave: «Sto scoprendo cose che non puoi immaginare» mi sussurra. «Altro che Tangentopoli.» Capisco in quel momento che ciò che ha intuito indagando sulla morte di mio fratello in quella manciata di giorni lo ha sconvolto. Conosco Paolo, ha sempre pesato le parole e rifuggito l’enfasi. E, come Giovanni, non ha mai parlato delle indagini cui stava lavorando. Perciò non faccio domande, ma il dubbio sul significato di quelle rivelazioni solo accennate non mi ha mai lasciato. Tante volte negli anni mi sono chiesta a quali scenari alludesse, a quali sconvolgenti verità si fosse avvicinato, dove sarebbe potuto arrivare se non lo avessero fermato.” Estratto dal libro di Maria Falcone e Lara Sirignano “L’eredità di un giudice”
Palermo, 22 giugno 1990 Commissione Parlamentare Antimafia – Mafia e appalti. Audizione Dottor Giovanni Falcone
Dichiarazioni del dottor Giovanni Falcone in audizione, illustra gli elementi che lo inducevano a riscontrare l’esistenza di una centrale unica per il controllo illecito sulle procedure di appalto in Sicilia con cui Cosa Nostra si assicurava un’ingente mole di proventi finanziari. – XI_Leg_miss_PA_22 giu. 1990_parte Falcone e magistrati
Da pag. 81 – Falcone: “A me sembra che cercare di stabilire se questo comitato d’affare sia isolano o nazionale urti contro i presupposti del ragionamento, cioè la TERRITORIALITA’ dell’organizzazione mafiosa, che controlla le opere pubbliche eseguite nella zona.
Alcune opere vengono aggiudicate altrove. Il problema sarà ampiamente chiarito, ma non posso farlo completamente in questo momento perché non credo sia opportuno. Ma il punto è sempre lo stesso: il presupposto dell’intervento dell’organizzazione mafiosa sta nel controllo del territorio: altrimenti non vi sarebbe alcuna possibilità di intervenire.
Qualsiasi impresa, italiana o anche straniera, che operi in queste zone è sicuramente soggetta agli stessi problemi: questo è sicuro. Per quanto riguarda quello che diceva il senatore Calvi, io credo che noi non dovremmo dire altro se non che a nostro giudizio – confortato dalle decisioni del giudice per le indagini preliminari – sono emersi elementi di responsabilità a carico di certi funzionari dell’amministrazione pubblica e di certi imprenditori. Tutto il resto, a mio avviso, NON deve essere oggetto di valutazione da parte del magistrato.“LA VALUTAZIONE POLITICA SPETTA A VOI, non a noi, come non spetta a noi, se non come privati cittadini, stabilire se e in quale misura debba essere accettata la proposta dell’onorevole Nicolosi su una centralità dell’intervento dello Stato. Ed è anche verissimo – come ha ricordato tra l’altro l’onorevole Mancini- che vi è tutta una serie di appalti per i quali esiste una specifica normativa di aggiudicazione che prescinde dalla legislazione di carattere generale in cui si annidano le possibilità – che quasi sempre vengono attuate – di un pesante condizionamento soprattutto in sede locale. Se così è, chiaramente tutto questo riguarda qualsiasi imprenditore che operi in determinate zone, sia esso persona fisica, che cooperativa o ente a partecipazione statale. “
“Adesso ci troviamo di fronte ad una situazione che genericamente possiamo dire è di grave allarme, ma in concreto ignoriamo nei suoi esatti termini la portata dell’infiltrazione mafiosa nel tessuto economico e in particolare nel settore dei pubblici appalti. Debbo dire, che fino a quando sono stato alla Procura di Palermo, il tipo di indagini di cui mi sono occupato induce a ritenere che la situazione sia ancora più grave, ma molto più grave di quello che appare all’esterno. Abbiamo soprattutto, è questo in futuro verrà fuori chiaramente, una indistinzione fra imprese meridionali e imprese di altre zone d’Italia per quanto attiene al condizionamento e all’inserimento in certe tematiche di schietta matrice mafiosa. Sono state acquisite intercettazioni telefoniche con chiarissime indicazioni di ben precise scelte operative delle organizzazioni mafiose a cui tutti sottostanno, pena conseguenze gravissime e pena l’autoespulsione dal mercato”. Giovanni Falcone 15 maggio 1991
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- Di Pietro: «Paolo Borsellino ucciso perché avrebbe voluto indagare su mafia- appalti»
- DI PIETRO: “Ero ai funerali di Giovanni Falcone. Paolo Borsellino mi si avvicinò…
- DI PIETRO: Falcone, Borsellino e il dossier appalti
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- Antonio Di Pietro: “Mani Pulite? Tutto è nato dalle indagini di Giovanni Falcone…”
- 16 luglio 1992 Confidente rivela che Borsellino e Di Pietro sono nel mirino
- Di Pietro a Palermo: “Falcone mi disse di controllare gli appalti in Sicilia”
Scarpinato: ”Mafia appalti? Indegna falsità dire che l’inchiesta fu chiusa”
L’audio inedito di Borsellino: “La sera, senza scorta, libero di essere ammazzato”.
27.11.2022 – La riunione sul dossier “Mafia e Appalti” e i (presunti) contrasti fra i pm
I) i sostituti Teresi, Morvillo e De Francisci dovevano relazionare sulle indagini scaturite dal rinvenimento del c.d. libro mastro dei Madonia e sul racket delle estorsioni, indagini per le quali era stato avanzato il sospetto, tra l’altro, di una colpevole inerzia che avrebbe propiziato l’omicidio di Libero Grassi;
2) il sostituto Pignatone era chiamato a relazionare sulle indagini per la cattura di grossi latitanti (avuto riguardo alle notizie di stampa che parlavano di occasioni sfumate per la cattura di Riina;
3) i sostituti Lo Forte e Scarpinato avrebbero invece dovuto relazionare sull’indagine mafia e appalti.
Quest’ultima era giunta in effetti ad uno stadio conclusivo, poiché da un lato era alle viste l’inizio del dibattimento, fissato per ottobre, nell’ambito del procedimento stralcio a carico di Siino Angelo e altri; dall’altro era già pronta, ma non ancora depositata, la richiesta di archiviazione per le posizioni residue dell’originario procedimento nr. 2789/90 N.R. (Il dott. Pignatone ricorda che i colleghi Lo Forte e Scarpinato l’avessero già completata e depositata, e in effetti è così, poiché la richiesta è datata 13 luglio; ma prima della trasmissione al GIP doveva essere vistata dal procuratore Capo che appose la sua firma solo in data 22 luglio 1992). Nel corso della riunione effettivamente tenutasi alla data prefissata, sull’indagine mafia e appalti relazionò solo il dott. Lo Forte, essendo il dott. Scarpinato assente per sopravvenuti impedimenti familiari.
I ricordi del pm Gozzo
A memoria del dott. Gozzo, fu subito evidente un certo dissenso da parte del dott. Borsellino (“Ho visto questo contrasto più che latente, visibile”), che formulò dei rilievi specifici e in particolare lamentò che non fossero stati acquisiti alcuni atti che erano stati trasmessi o dovevano essere trasmessi dalla procura di Marsala, e che non si rinvenivano all’interno del fascicolo (“Fece questa affermazione: come mai non fossero contenute questa carte all‘interno del processo si trattava di carte che erano state inviate.. alla procura di Marsala — e nella fattispecie dal collega Ingroia, che adesso è anche lui alla procura di Palermo — che era lo stesso processo però a Marsala. C‘erano degli sviluppi e quindi erano stati mandati a Palermo e lui si chiedeva come mai non fosse stata seguita la stessa linea”).
Sosteneva poi che si profilavano nuovi sviluppi, in relazione alle dichiarazioni di un nuovo pentito, e chiese quindi di rinviare la discussione (in sostanza, per quanto sembra di capire, chiese di differire ogni determinazione finale in ordine a quel procedimento, nelle more di possibili nuove risultanze: e in effetti, la richiesta di archiviazione, già alla firma del procuratore Giammanco, rimase in stand by fino al 22 luglio).
Non è chiaro se il nuovo pentito di cui fece cenno il dott. Borsellino fosse proprio Gaspare Mutolo, oppure Leonardo Messina, al cui primo interrogatorio Borsellino aveva proceduto lo stesso giorno dell’interrogatorio di Mutolo, e cioè l’1 luglio 1992, e che in effetti avrebbe fatto ulteriori rivelazioni sul sistema degli appalti e relative ingerenze mafiose, ma anche sul coinvolgimento di politici e le connivenze che facevano prosperare quel sistema.
Ma anche la dott.ssa Sabbatino ricorda che, durante quella riunione, alla domanda che gli fece se fosse in procinto di andare in ferie, Paolo rispose che doveva prima risolvere il problema di un nuovo pentito. Non sapeva se avrebbe potuto andare a interrogarlo, e se sentirlo da solo o insieme ad altri colleghi: una situazione che richiama le incertezze e le ambasce che affliggevano il dott. Borsellino in relazione al caso Mutolo, posto che non era cambiata la formale assegnazione (ad altri) del relativo fascicolo, e che si manifestarono nel corso dell’interrogatorio di Mutolo effettivamente assunto due giorni dopo quella riunione dal dott. Borsellino, insieme ai colleghi Lo Forte e Natoli, come confermato da entrambi.
Ed entrambi confermano di avere sostenuto un’interpretazione della disposizione impartita da Giammanco di coordinarsi con Borsellino per le attività relative agli interrogatori di Mutolo assolutamente rassicurante quanto alla sua piena legittimazione a coordinare altresì le indagini che ne fossero scaturite.
La dott.ssa Consiglio, presente pure lei alla riunione del 14 luglio, ha dichiarato che a svolgere la relazione sull’indagine mafia e appalti furono i colleghi che se ne erano occupati (e fa i nomi del dott. Lo Forte e del dott. Pignatone), i quali illustrarono le ragioni che li avevano condotti a richiedere i provvedimenti cautelari che erano stati accolti.
Ha confermato altresì che il dott. Borsellino si era lamentato del fatto che non fossero state inserite talune carte nel fascicolo del procedimento a carico di Siino Angelo e altri. Ma non può essere più precisa perché non conosceva i fatti cui Paolo si riferiva; tuttavia, notò che l’unico a prendere parte attiva a quella discussione a cui noi eravamo solo dei meri spettatori era Paolo Borsellino.
Né poteva essere altrimenti perché si parlava di un’informativa di 800 pagine sconosciuta a quasi tutti loro (non a lei, però, avendo studiato quel rapporto per la sua connessione con i fatti oggetto di un grosso procedimento per associazione mafiosa, istruito al Tribunale di Termini Imerese, e avente ad oggetto varie vicende e reati di c.o. tra cui anche illeciti relativi ad appalti nei territori di Termini Imerese e Madonie: territori che rientravano appunto nella zona d’influenza di Angelo Siino e nella sua giurisdizione quale ministro dei LL.PP. di Cosa nostra).
Sulle osservazioni formulate dal dott. Borsellino in relazione alla mancata acquisizione al fascicolo del procedimento a carico di Siino e altri di alcuni atti, una spiegazione dettagliata è stata fornita dal dott. Pignatone nel corso della sua audizione.
Era accaduto che i carabinieri, prima ancora che venissero emessi i provvedimenti restrittivi a carico di Siino e altri, avevano informato i magistrati di Palermo titolari dell’indagine (all’epoca, se ne occupava anche il dott. Pignatone) che il dott. Borsellino, n.q. di procuratore a Marsala, aveva indagini in corso su presunti illeciti commessi nella gare di aggiudicazione di alcuni appalti di opere pubbliche da realizzare in Pantelleria, che rientrava nella giurisdizione del Tribunale e quindi della procura di Marsala.
Borsellino disse loro di rivolgersi al dott. Ingroia, che era stata assegnatario di quel fascicolo, per avere le carte che chiedevano. Ma il dott. Ingroia replicò che in quel momento quelle carte non potevano essere rese pubbliche perché – in quel di Marsala – stavano per emettere ordinanze di custodia cautelare in carcere nei riguardi tra gli altri anche del Sindaco di Pantelleria.
Alla fine, non ravvisando elementi specifici di connessione con l’ipotesi di reato di associazione mafiosa per cui si stava procedendo a carico del Siino, fu la procura di Palermo, ovvero i sostituti Lo Forte e Scarpinato, rimasti titolari del procedimento, a trasmettere gli atti in proprio possesso in ordine a quelle gare d’appalto (che erano costituiti essenzialmente da intercettazioni telefoniche tra soggetti cointeressati all’aggiudicazione di quelle gare) all’omologo Ufficio di Marsala, dove si procede(va) per il reato di associazione a delinquere semplice.
Di tale vicenda v’è traccia anche nell’audizione del dott. Borsellino dinanzi alla Commissione Antimafia (in visita agli uffici giudiziari di Trapani), nella seduta del 24 settembre 1991. È lo stesso Borsellino a richiamare l’inchiesta sfociata nell’arresto del Sindaco di Pantelleria e nello scioglimento del consiglio comunale, annoverandola come una delle indagini di maggiore successo condotte dal suo ufficio — e lo dice senza vanagloria personale, ascrivendone il merito ad un mio giovanissimo sostituto — in materia di reati amministrativi di notevole spessore che riguardano gli appalti o l’attribuzione di incarichi professionali; e sottolinea che al riguardo che «tutte queste non sono attività di mafia a sono attività attraverso le quali la mafia usufruisce di facili veicoli di profitto». Il dott. Pignatone ha precisato invero che Borsellino non formulò rilievi specifici, ma si limitò a chiedere chiarimenti; e poi prese atto della spiegazione fornita da Lo Forte.
Un “diverso” metro di valutazione
Tuttavia, avuto riguardo a quanto dichiarato dal dott. Gozzo sulla perplessità espressa dal dott. Borsellino per il fatto che non si fosse seguita la stessa linea, è lecito ipotizzare che persistesse il dissenso del procuratore Aggiunto per avere – i colleghi che si erano occupati dell’inchiesta – adottato un diverso metro di valutazione, ovvero una linea interpretativa e di qualificazione dei fatti ascrivibili ai vari soggetti indagati per le medesime vicende che rimandavano al contesto criminoso in cui era emerso il ruolo di Siino quale artefice degli accordi collusivi tra cordate di imprenditori, esponenti politici e cosche mafiose per la spartizione degli appalti.
E da qui la richiesta di aggiornare la discussione, ovvero di differire le determinazioni finali da adottare, prospettandosi la possibilità di ulteriori sviluppi in relazione alle rivelazioni di un nuovo pentito.
In effetti, tale lettura sembra trovare conforto nelle dichiarazioni del dott. Patronaggio.
Questi, infatti, rammenta che il dott. Borsellino, facendosi portavoce di lamentele da parte dei carabinieri che avevano condotto l’indagine mafia e appalti per l’esiguità dei risultati raggiunti sul piano giudiziario rispetto alle loro aspettative (in assemblea lo disse espressamente che i carabinieri si aspettavano da questa informativa dei risultati di maggiore respiro”), chiese spiegazioni in ordine al procedimento a carico di Siino e altri: «perché lui aveva percepito che vi erano delle lamentele da parte dei carabinieri: verosimilmente, e chiese delle spiegazioni che non erano tanto di carattere tecnico, cioè e era stata fatto o non era stata fatta una cosa, ma più che altro era il contesto generale del procedimento, chi c‘era e chi non c‘era, perché poi in buona sostanza la relazione sul processo Siino fu fatta, sinceramente, esclusivamente per dire che non vi erano nomi di politici rilevanti all‘interno del processo, o se vi erano nomi di politici di un certo peso, vi entravano solo per mero accidente».
In altri termini, le spiegazioni chieste da Borsellino non riguardavano singoli fatti o singoli atti istruttori ma l’impostazione generale dell’indagine e le sue direttrici. Il dott. Lo Forte, però, sempre a dire del dott. Patronaggio, si sforzò di spiegare che il vero nodo dell’indagine, semmai, concerneva il ruolo specifico degli imprenditori.
E anche le doglianze dei carabinieri traevano origine dall’aspettativa, andata delusa, di esiti più cospicui, non si riferivano tanto alle posizioni di uomini politici che entravano nell’indagine solo incidentalmente, bensì alle posizioni degli imprenditori coinvolti (o di taluno di loro): «In realtà no, non è solo nei confronti dei (politici), anche nei confronti degli imprenditori, perché lì il nodo era, il nodo era valutare a fondo la posizione degli imprenditori, e su questo punto peraltro il collega Lo Forte si dilungò spiegando il delicato meccanismo e la delicata posizione dell‘imprenditore in questo contesto, queste furono le spiegazioni date, chieste e date ecc.» (cfr. verbale n. 46, pag. 81).
Ciò posto, non v’è chi non veda che il “dissenso” del dott. Borsellino rispecchiava e denotava il convincimento da tempo maturato che l’indagine su mafia e appalti costituisse un filone investigativo “aureo” nel quadro dell’azione di contrasto alla criminalità organizzata perché puntava – e poteva condurre – ai più inaccessibili santuari del potere mafioso che aveva il suo cuore pulsante nella creazione e nel consolidamento di legami sinergici con pezzi dell’imprenditoria e della politica, oltre a ricavare dalla partecipazione attiva al sistema di spartizione degli appalti un formidabile strumento di controllo dei flussi di ricchezza.
Tale intuizione è il connotato saliente, ed anche il principale merito ascrivibile all’ipotesi investigativa alla base del dossier mafia e appalti, che, come si legge testualmente nella “Relazione sulle modalità di svolgimento delle indagini mafia e appalti negli anni 1989 e seguenti”, «segnava un salto di qualità nelle conoscenze sino ad allora acquisite sui rapporti tra Cosa nostra e il mondo imprenditoriale. Ed infatti emergeva che l’associazione mafiosa non si limitava più a svolgere un ruolo di sfruttamento meramente parassitario delle attività economico-imprenditoriali, concretantesi nell’imposizione di tangenti, di subappalti, di assunzione di manodopera, ma mirava a realizzare un controllo integrale e un pesante condizionamento interno del modo imprenditoriale e del settore dei lavori pubblici in Sicilia, mediante complesse ed articolate metodologie che nel loro insieme costituivano l’espressione più sofisticata e moderna di una strategia di assoggettamento degli operatori economici al prepotere delle organizzazioni facenti capo a Cosa nostra». Sentenza della Corte d’Appello 27 novembre 2022 • La serie sulla trattativa stato-mafia EITORIALE DOMNI.IT
22.8.2020 Perché fu ucciso Paolo Borsellino, ora lo sappiamo ma non perché non si indagò
Si tiene l’assemblea dei Pm nella quale Borsellino parla di mafia-appalti senza evidentemente sapere che è stata già avanzata la richiesta di archiviazione. 19 luglio. Borsellino viene ucciso insieme alla scorta.
La richiesta di archiviazione del dossier mafia-appalti viene depositata formalmente. 14 agosto. Mafia-appalti è archiviata e non se ne parlerà più. Nel dossier erano indicate tutte le aziende dell’Italia continentale che trattavano con la mafia.
2020 -CLAUDIO MARTELLI: “L’ex procuratore Giammanco mi inviò l’inchiesta sugli appalti: una follia”
“Ricordo che ricevetti al ministero della Giustizia un plico che conteneva la sintesi dell’indagine del Ros di Palermo sugli appalti, inviato dal procuratore Giammanco, per sapere come doveva comportarsi. E Falcone, con cui ci davamo del tu, mi disse: ‘Non aprirlo neanche, ti metti nei guai’. Conteneva l’indagine su cui Falcone aveva chiesto come proseguire al procuratore capo. Era una follia che un procuratore inviasse al ministro gli atti di un’indagine per sapere come comportarsi”. L’ex ministro della Giustizia Claudio Martelli ripercorre i mesi convulsi del 1992 durante l’audizione alla commissione antimafia della Regione Siciliana sulla strage di via D’Amelio.
“Sono ancora turbato oggi se penso a ciò che è stato omesso di fare da tutte le autorità dello Stato in quel di Palermo nonostante le segnalazioni ricevute ripetutamente da me e dai miei uffici, in ordine a una particolare tutela e sorveglianza che doveva essere messa in atto a protezione del dottore Borsellino“. Martelli dice senza mezzi termini: “Ritenevamo che Borsellino fosse certamente il nuovo bersaglio della mafia dopo l’assassinio di Falcone, che io non ho mai smesso di imputare all’ottenimento delle sentenze di condanna a numerosi ergastoli per la la cupola mafiosa, ma anche all’imminenza molto probabile della sua nomina a procuratore nazionale antimafia nonostante l’opinione diversa del Csm che peraltro avevo respinto”.
L’ex ministro della Giustizia ribadisce che la mancata sorveglianza davanti casa dell’abitazione della madre di Borsellino, in via D’Amelio “fu inammissibile e inaccettabile, prova di colpevole incuria o di qualcosa di peggio”. Martelli non vede però una “trattativa fra Sto e mafia” dietro le bombe del 1992. “Credo che le iniziative stragiste di Cosa nostra non rientrino in un piano di destabilizzazione politica dello Stato, ma come tutti i piani della mafia riguardano interessi privati”. E ancora: “Conso, a chi gli domandava del perchè avesse revocato il 41 bis per centinaia di mafiosi, rispondeva ‘volevamo dare un segnale di disponibilità all’ala moderata di Cosa nostra ai fini di evitare ulteriori stragì’. Io non capisco allora perchè poi ci sia arrovellati su processi quando la verità era lì spiattellata: si è pensato di dare una segnale di disponibilità, di fare delle concessioni. Ho sempre pensato a un cedimento dello Stato, ma non a una trattativa”.
16.12.2022 CONSIGLIO DEI MINISTRI APPROVA NUOVO CODICE DEGLI APPALTI
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