ANTONINO DI MATTEO e il DEPISTAGGIO

 

13 maggio 2021 INTERVISTA A DI MATTEO A LA7


5 febbraio 2020 “Il depistaggio? Di Matteo non si è accorto di nulla e per lui è solo un contorno”.

 

 «Certo però che , con tutte queste carte, piste e indagini , a lui Scarantino, il depistaggio , gli innocenti in galera e poi la revisione sembrano solo un “ segmento” , una cosa con cui noi disturbiamo , mentre magari secondo lui dovremmo tutti quanti (dai PM agli avvocati e pure il Tribunale) portare avanti la pista Contrada e quella Berlusconi!», così scrive Rosalba Di Gregorio, l’avvocata che assiste come parte civile tre di coloro che subirono un ingiusto ergastolo a causa del depistaggio accertato dalla sentenza del Borsellino Quater.

Si riferisce a l’ex pm Nino Di Matteo, oggi consigliere del Csm, che ha deposto lunedì scorso al processo sul depistaggio di Via D’Amelio.  Nino Di Matteo, in sintesi, ha detto di non aver mai parlato con chi in precedenza aveva fatto le indagini, nemmeno con la collega Ilda Boccassini o con il dottor La Barbera allora capo del pool investigativo. Non aveva nemmeno saputo dei colloqui investigativi, dal 4 al 16 luglio 1994, mentre Scarantino si trovava detenuto nel carcere di Pianosa. Non aveva saputo nemmeno che Scarantino aveva ritrattato ad Angelo Mangano nel 95, all’epoca giornalista di Studio Aperto.

L’avvocata Di Gregorio, quindi, tuona: «Ai tempi sequestrarono tutto il trasmesso e il non trasmesso, ma non glielo hanno detto. La signora Scarantino ai tempi scrisse lettere a mezzo mondo accusando La Barbera e i suoi di tante cose, ma tutte queste lettere i suoi colleghi e i poliziotti non gliele hanno fatte leggere. E nemmeno gli hanno raccontato che belle telefonate c’erano fra Scarantino e loro PM e i poliziotti.
Gli raccontavano che era tutto per cose logistico amministrative». Di Gregorio aggiunge sempre riferendosi a Di Matteo: «E mentre prima di lui e dopo, a pochi metri da lui, si costruiva, prima, e si manteneva in piedi, poi , il pentito farlocco (mentre si faceva il processo “ bis” e persino a uno dei due PM titolari ( Palma e Di Matteo) , cioè a lui, non si davano tutte le carte ), il “Nostro” già si occupava di collegare Berlusconi alle stragi. E per giunta gli facevano fare pure i processi a Gela, mentre gli altri facevano solo il pool stragi!». L’avvocata di parte civile Di Gregorio in sostanza polemizza con Di Matteo sul fatto che secondo lui la storia del falso pentito Scarantino è solo un “segmento” del depistaggio. «Ma noi, che siamo limitati – scrive l’avvocata Di Gregorio – , ci stiamo occupando del “segmento “ ancora e non planiamo nei cieli alti delle indagini, perché stiamo qua miserelli a cercare ancora di rimediare agli inchiappi fatti da altri nel “segmento” . E se siamo qui a fare un processo facciamo le domande: capziose o provocatorie non importa. Sono tutte domande ammesse dal Tribunale e perciò considerate legittime e appropriate».
Ricordiamo che a fine udienza, Fiammetta Borsellino, figlia del magistrato assassinato dalla Mafia, ha espresso queste amare parole: «Mi veniva quasi di mettermi in gabbia in quell’aula di giustizia mi sento ingabbiata. Penso che c’è un’enorme difficoltà a fare emergere la verità. Non ho constatato da parte di nessuno una volontà di dare un contributo al di là delle proprie discolpe personali per capire quello che è successo e questo mi fa molto male. Io penso che di mio padre non abbia capito niente nessuno di questi magistrati». 5.2.2020 Damiano Aliprandi Il Dubbio

 


27 dicembre 2020 DEPISTAGGIO BORSELLINO / NINO DI MATTEO, L’INTOCCABILE

 

Osa documentare il comportamento di una delle icone antimafia, il pm Nino Di Matteo, soprattutto per quanto riguarda l’inchiesta sulla strage di via D’Amelio, poi la gestione del pentito taroccato Vincenzo Scarantino e quindi la fase del più clamoroso depistaggio giudiziario mai visto in Italia. E viene crocefisso da Antimafia Duemila, il sito ormai diventato la cassa di risonanza di tutta la Kasta dei magistrati di casa nostra. L’autore di cotanto scempio è uno dei pochi giornalisti di razza rimasti sul campo, Enrico Deaglio, fresco autore di “Patria 2010-2020”, edito da Feltrinelli. Non c’è bisogno di raccontare chi sia Deaglio, storico reporter e scrittore di sinistra, quella vera, quella che fino a qualche decennio fa esisteva, ed era forza militante. Ora viene accusato di lesa maestà, per aver osato ricostruire, in modo dettagliato e ‘storico’, la stagione delle false inchieste e dei depistaggi istituzionali.
DAGLI ALL’UNTORE DEAGLIO Le frasi utilizzate da Antimafia Duemila si commentano da sole. Eccone alcune, fior tra fiori. Teniamo presente che l’articolo (sic) di cui parliamo è firmato dal direttore, Giorgio Bongiovanni” e che si intitola “Giornalismo sporco – Le false informazioni di Enrico Deaglio”.Un incipit che è già tutto un programma. “Denigrazioni violenta, fango, bugie e falsità”. Non ha peli sulla lingua, il prode Bongiovanni, che così prosegue nella farneticante invettiva: “Un metodo che viene applicato per screditare quei magistrati che, più di altri, cercano ed hanno cercato le verità scomode ed indicibili su stragi e delitti eccellenti. Attacchi diretti spesso provenienti da ambienti giornalistici e politici e, alle volte, persino dalla magistratura. Accadeva ieri, ai tempi di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Accade oggi, in particolare, nei confronti del magistrato Nino De Matteo, oggi consigliere togato indipendente al Csm, ma nel recente passato in primissima linea nella ricerca dei mandanti esterni delle stragi, come sostituto procuratore a Caltanissetta, Palermo e alla Procura nazionale antimafia”. Una sola considerazione. È una totale bestemmia paragonare le figure di Falcone e Borsellino a quella di Di Matteo. Un oltraggio. Significa calpestare letteralmente e scientemente la memoria dei due eroi trucidati a Capaci e via D’Amelio. Continua l’autore delle bestemmie: “I protagonisti di questa campagna mediatica di delegittimazione sono sempre gli stessi e ciclicamente tornano a sputare i propri veleni. Dopo gli attacchi del 2012 e del 2014 è il giornalista Enrico Deaglio a prestarsi al gioco sporco. Lo fa nel suo ultimo libro, ‘Patria 2010-2020’, in cui analizza una serie di vicende inerenti il primo decennio del Ventunesimo secolo “. Prosegue la farneticante analisi firmata Bongiovanni: “Nel calderone di fatti e misfatti, tutt’altro che in buona fede, offre (Deaglio, ndr) ai lettori e al pubblico italiano una serie di informazioni incomplete e mendaci sul lavoro del magistrato (Di Matteo, ndr). Basta leggere alcuni passaggi del libro per comprendere i deliri delle contestazioni. Il consigliere del Csm viene accusato da Deaglio non solo di essere ‘coinvolto’, ma anche di ‘aver gestito il più grande depistaggio mai avvenuto sul delitto Borsellino’”. Deaglio, quindi, viene accusato di aver semplicemente raccontato un fatto storico: quel depistaggio che è ormai sotto gli occhi di tutti e accertato dalla stessa magistratura. Ma c’è chi non vede, come Buongiovanni: anzi non vuol vedere quella realtà (documentale) che è alla portata (e sotto gli occhi) di tutti.
TRE GIGLI IMMACOLATI Non è certo finita, la farneticazione continua: “E’ un fatto noto che lo stesso Di Matteo non ha ricevuto alcun avviso di garanzia dalla procura di Messina, impegnata nelle indagini sul depistaggio contro i magistrati che al tempo indagarono sulla strage di via D’Amelio. Quella stessa Procura che ha chiesto l’archiviazione nei confronti dei magistrati Anna Palma e Carmelo Petralia, accusati di calunnia aggravata, in quanto ‘le indagini non hanno consentito di individuare alcuna condotta posta in essere né dai magistrati indagati, né da altre figure appartenenti alla magistratura che abbiano posto in essere reali e consapevoli condotte volte ad inquinare le dichiarazioni, certamente false, rese da Vincenzo Scarantino’. Una richiesta di archiviazione, su cui dovrà decidere il Gip dopo l’opposizione delle parti civili e della famiglia Borsellino, che mette in evidenza quelle vicende ricostruite nel corso del processo per il depistaggio in corso a Caltanissetta, contro i funzionari di polizia Bo, Mattei e Ribaudo”. Lasciamo ancora spazio ai pensieri in libertà firmati Bongiovanni. Scrive il Vate: Lo abbiamo già detto in altre occasioni: è ovvio che i tasselli sulla strage di via D’Amelio vanno messi al loro giusto posto, ma il depistaggio non rappresenta altro che un pezzo del puzzle che riempie i buchi neri sulle indagini ma non può rappresentare la chiave di risoluzione per capire o comprendere le verità nascoste nella loro interezza. In questo puzzle Nino Di Matteo non ha nulla a che fare con la vestizione del ‘pupo’ Vincenzo Scarantino. E’ un fatto noto che si occupò solo marginalmente delle indagini poi scaturite nel ‘Borsellino bis’, dove entrò a dibattimento già avviato”.
I DISTINGUO DEL VATE “Per questo motivo – argomenta il neo profeta dei processi Borsellino – è più che mai necessario effettuare dei distinguo sull’operato vari magistrati e giudici che si sono occupati della strage di via D’Amelio. E se le parole hanno un peso, affermare che un magistrato ha avuto un ruolo del depistaggio significa dire che lo stesso ha collaborato con quei mandanti esterni che hanno voluto la morte di Paolo Borsellino. Tra questi non vi è certamente il pm Di Matteo, che in più occasioni ha chiarito con fatti e carte alla mano come fu valutata la vicenda Scarantino”. Con ogni probabilità il solerte Bongiovanni non ha letto la penosa verbalizzazione resa dal suo idolo Di Matteo in occasione del processo di Messina che vede alla sbarra i tre poliziotti accusati di aver vestito e addobbato il ‘pupazzo’ Scarantino. Così come non avrà letto l’altra testimonianza resa del pm Anna Maria Palma che per primo – insieme a Carmelo Petralia – ha ‘gestito’ quel pentito taroccato. E quella, altrettanto penosa, dello stesso Petralia. Un vero tris d’assi. E a poco vale sostenere che Di Matteo è entrato in scena solo in un secondo momento, alcuni mesi dopo: non ha forse poi condiviso con i due colleghi tutto il seguito processuale? E poi. Non ha mai letto, il sempre solerte Bongiovanni, una delle tante parole di fuoco pronunciate dalla figlia di Paolo, Fiammetta Borsellino, durissime contro i tre magistrati, allo stesso modo, senza operare alcun distinguo rispetto a quell’icona antimafia che risponde al nome di Nino Di Matteo? Per ricostruire la verità storica di quello scientifico depistaggio che non è solo parte di un puzzle, ma ne rappresenta una parte fondamentale. Perché si tratta – ricordiamolo bene – di un Depistaggio di Stato.  27 Dicembre 2020. di Andrea Cinquegrani LA VOCE DELLE VOCI


22 ottobre 2020 Dal falso pentito alle pugnalate a Davigo, storia di Nino Di Matteo il Pm più scortato d’Italia  

 

Tradimento. Una nuova freccia è scoccata dall’arco del pubblico ministero più scortato d’Italia, e forse, chissà, questo comporterà un rafforzamento della sua sicurezza. Perché ormai Nino Di Matteo ha litigato con tutti e in poche ore ha sbriciolato le due relazioni principe nella sua vita davanti allo specchio, quella con il suo mentore Piercamillo Davigo, cacciato dal Csm con il suo voto determinante, e l’altra con il suo ragazzo pompon Marcolino Travaglio che, a causa di quel voto, gliel’ha giurata. E a ogni rottura è una tacca sulla sua toga e qualche uomo di scorta in più. Perché tutto intorno a lui è minaccia. Quando perde un processo, quando ha un inciampo di carriera. Quando litiga, quando si arrabbia. Da Scarantino a Davigo, potrebbe essere il titolo di un suo prossimo libro, quello delle sue confessioni. Il tradimento di questi giorni nei confronti del suo mentore, il suo leader politico, quello che lo ha acciuffato per i capelli mentre lui stava annegando nei propri fallimenti. Perché non era riuscito a diventare ministro di giustizia con la benedizione dei grillini e neanche capo del Dipartimento dell’amministrazione carceraria. Ogni volta surclassato da personaggi modesti, su questo ha qualche ragione. Non si può proprio dire che Bonafede e Basentini siano due allievi di Calamandrei. Ma umiliato anche dal capo dell’antimafia che lo aveva cooptato in un pool sulle stragi e poi licenziato perché chiacchierone con la stampa. Davigo era stato generoso con lui, portandolo con sé al Csm e procurandogli i voti per essere eletto. Ma ignorava che il suo allievo nascondesse il pugnale sotto la toga. E con lui il ragazzo pompon Travaglio che si era spellato le mani in quei festeggiamenti, sprizzando gioia a champagne. Ma Nino Di Matteo deve sempre fare pagare agli altri i propri insuccessi, la propria difficoltà nel salire le scale. È ormai storia. E vendetta. Lo hanno aiutato, ma non abbastanza.
La sua carriera di pm “antimafia”, la credulità, la capacità di girare la testa da un’altra parte davanti a un’operazione di pasticceria che ha manipolato un piccolo spacciatore di periferia fino a venderlo sul bancone dell’antimafia come uno degli assassini di Paolo Borsellino. Enzino Scarantino, quello che sapeva tutto perché c’era, perché aveva procurato lui la macchina-bomba della strage. Il grande depistaggio di Stato che avrebbe potuto essere smascherato subito, fin da quando la lettera della moglie del “pentito” e qualche visita parlamentare alle carceri speciali di Pianosa e Asinara denunciarono le torture e il “pentitificio” che in quei luoghi maledetti veniva costruito.
Stiamo parlando del 1993. E il processo-farsa organizzato dal depistaggio di Stato costruito su Enzino è andato avanti con la benevola partecipazione di Nino Di Matteo fino al 2017, fino a quando il collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza non ha cavato, al pm e ai giudici, le castagne dal fuoco, risolvendo il “giallo” della morte di Borsellino e scrivendo, di fatto, la sentenza. Mandando a casa una ventina di innocenti, qualcuno dei quali torturato a Pianosa o Asinara. Venticinque anni di distrazione e di crescita di scorte perché i boss mafiosi, pur vedendo che lui non ne azzeccava una, continuavano a riempire di minacce il pm Di Matteo. Il quale sosteneva più o meno che era tutta colpa di Berlusconi. E una volta, nel corso di una cerimonia ufficiale di commemorazione proprio della strage di via D’Amelio, non potendo prendersela con se stesso perché ancora non cavava un ragno dal buco, e anzi aveva contribuito a far incriminare degli innocenti, attaccò briga da lontano anche con il presidente Napolitano e con il premier Matteo Renzi. Tutti amici e complici di Berlusconi.
Il suo mantra consiste nel suo essere un “isolato” e sul fatto di stare sulle scatole più o meno a tutti. Questo lo fa sentire forte, vuol dire che è il migliore. Che è fuori, soprattutto. Fuori da ogni intrallazzo, da ogni mercimonio, da ogni oscena trattativa. Come quella che sta impegnando diversi giudici, e siamo già al secondo grado di giudizio, per stabilire se un gruppo di servitori felloni dello Stato e di politici piagnucolosi abbia trattato con la mafia negli anni Novanta per far cessare le stragi. Non lo hanno fatto, in caso contrario il loro comportamento sarebbe stato encomiabile. Come lo sono stati gli atti decisivi di coloro, come il generale Mori, che hanno arrestato i boss latitanti e sconfitto la mafia in Sicilia. Se non c’è trattativa, c’è cedimento. Altra parola scritta con la maiuscola nel vocabolario del pm Di Matteo. La sua espressione preferita è “cedimento dello Stato” nei confronti della mafia. Succede di continuo. È capitato con le famose scarcerazioni (che poi erano solo differimenti della pena) dei boss mafiosi per motivi di salute durante la prima pandemia da covid-19. In quei giorni il pm più scortato d’Italia disse che lo Stato pareva «aver dimenticato e archiviato per sempre la stagione delle stragi e della trattativa Stato-mafia». E come ci si sarebbe potuti dimenticare di questo ritornello visto che viene cantato e solfeggiato nelle tante apparizioni televisive del dottor Di Matteo? A questo punto, persa la tribuna del Fatto quotidiano, persa l’amicizia di Davigo (non si illuda, dottor Di Matteo, quello non va a passare gli anni della pensione ai giardinetti, lo rivedremo presto), può sempre contare su qualche domenica sera nello studio di Massimo Giletti. Il quale, forse anche in seguito a qualche puntata in cui insieme protestavano per le scarcerazioni dei boss, è lui pure sotto scorta. Tiziana Maiolo — 22 Ottobre 2020 IL RIFORMISTA


13 gennaio 2020 Di Matteo: «No alla protezione a Spatuzza, rimette in discussione le stragi»

 

La scomparsa dell’allora capo della procura di Caltanissetta Giovanni Tinebra e di Arnaldo La Barbera, le dichiarazioni contraddittorie dello pseudo pentito Vincenzo Scarantino che perdurano nel corso degli anni e il silenzio – ineccepibile in punto di diritto – del quale si sono avvalsi gli imputati di reato connesso i poliziotti Mario Bo’, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, fa «ritenere che non si sia giunti alla concretizzazione di alcuna notizia di reato nei confronti degli indagati». Così il procuratore di Messina Maurizio de Lucia ha chiesto l’archiviazione nei confronti dei due ex pm di Caltanissetta, Carmelo Petralia e Annamaria Palma, i quali nei mesi successivi alla strage di Via D’Amelio, dove perse la vita Paolo Borsellino credettero al falso pentito Vincenzo Scarantino. In 164 pagine il pool guidato dal procuratore De Lucia ricostruisce l’inchiesta avviata dopo la scoperta dei nastri con le registrazioni delle telefonate che l’allora – considerato superpentito – Scarantino fece ai Pm che, coordinati dal capo procuratore Tinebra, seguivano le indagini del gruppo investigativo “Falcone/ Borsellino” guidati da Arnaldo La Barbera. Indagini che, anni dopo, si scoprirono, grazie alla collaborazione del vero pentito Gaspare Spatuzza, inquinate dalle false dichiarazioni di Scarantino indottrinato per allontanare la verità. Da chi sarebbe stato eterodiretto ancora bisogna accertarlo processualmente. Per la procura di Messina il depistaggio c’è stato ( così come sentenziato dal Borsellino Quater), ma non per opera dei magistrati Palma e Petralia. Ma una riflessione, nelle conclusioni della richiesta di archiviazione, c’è stata. Le indagini, secondo la richiesta della corte di Assise di Caltanissetta che ha chiesto di valutare la condotta dei magistrati all’epoca in servizio, non hanno consentito di individuare alcuna condotta penalmente rilevante, posta in essere dai magistrati indagati o da altre figure appartenenti alla magistratura. «Indubbiamente – scrive la procura di Messina – senza la successiva collaborazione di Gaspare Spatuzza, di tale falsità non vi sarebbe stata alcuna certezza». Eppure, come vedremo più avanti, inizialmente qualche dubbio sulla sua attendibilità c’è comunque stato. «Tale dato – osserva il procuratore De Lucia – deve fa riflettere sulle possibili disfunzioni sotto il profilo dell’accertamento della verità, di vicende processuali incentrate prevalentemente su prove di natura dichiarativa provenienti da soggetti che collaborano con la giustizia, al punto da determinare che, in ben tre gradi di giudizio, non si riuscisse a svelare tale realtà».
Ma Spatuzza è stato subito ritenuto credibile a differenza di Scarantino? Per esempio, come riportato dalla richiesta di archiviazione, l’allora Pm Nino Di Matteo, qualche dubbio pare averlo manifestato. Nel capitolo relativo a Di Matteo, sentito in procura, è egli stesso a spiegare che nel 2008 si era occupato, per conto della Procura di Palermo, della collaborazione di Spatuzza. Nello specifico ha riferito che, pur avendolo ritenuto attendibile per quella parte di dichiarazioni che interessavano la Procura di Palermo, si era posto un problema di rilevanza di quelle dichiarazioni in quanto riguardanti episodi omicidiari che coinvolgevano soggetti – tra cui lo stesso Spatuzza – già giudicati con sentenze definitive. A pagina 83 della richiesta di archiviazione si aggiunge una nota. Si tratta della dichiarazione di Spatuzza dove riferisce di aver percepito un atteggiamento cauto da parte dei magistrati della procura di Palermo nei suoi confronti, anche in ragione del fatto che costoro, a suo dire, non adottavano alcun provvedimento di protezione a suo favore. Ovviamente si tratta di una sua personale percezione e quindi non oggettiva. Nella medesime nota si legge che era stata la Procura di Firenze a chiedere il programma di protezione nei suoi confronti; a quell’iniziativa si era accodata la Procura di Caltanissetta e, infine, quella di Palermo. «Infine – si legge sempre nella nota – lo Spatuzza ha escluso di aver mai ricevuto domande, anche in modo informale, dal dottor Di Matteo sulla strage di Via D’Amelio».  Secondo la procura di Messina, come si legge nella nota a pagina 84 della richiesta di archiviazione, la circostanza che la Procura di Palermo avesse inizialmente assunto «un atteggiamento cauto circa la rilevanza e l’attendibilità del contributo dichiarativo di Spatuzza» ha trovato conferma nel contenuto di un verbale di riunione di coordinamento “delle indagini sulle stragi siciliane del 1992 e del continente degli anni 1993 – 1994”, svoltasi presso la Dna il 22 Aprile del 2009. In quel verbale, tramesso a Messina il 25 marzo del 2019 a seguito di specifica richiesta della procura, sono riportati due interventi di Nino Di Matteo. Sul primo intervento, i magistrati di Messina, riferiscono: «Il dottor Di Matteo ha pure rilevato che non sempre Spatuzza, a suo giudizio, ha affermato il vero; ha aggiunto che, a suo parere, la collaborazione di Spatuzza non è di particolare rilevanza atteso che essa non consente di arrestare nessuno, né di sequestrare alcun bene, né di processare qualcuno. Ha affermato che, secondo lui, non sono particolarmente rilevanti neppure le dichiarazioni rese in ordine agli omicidi di padre Puglisi e del giovane Diego Alaimo». Il secondo intervento del Pm, sempre riferito alla medesima riunione, è così descritto: «Il dottor Di Matteo ha manifestato la sua contrarietà alla richiesta di piano provvisorio di protezione sia perché essa attribuirebbe alla dichiarazione di Spatuzza una connotazione di attendibilità che ancora non hanno, sia perché le dichiarazioni di Spatuzza, sebbene non ancora completamente riscontrate, potrebbero rimettere in discussione le ricostruzioni e le responsabilità delle stragi, oramai consacrate in sentenze irrevocabili, sia perché l’attribuzione, allo stato di una connotazione di attendibilità alle dichiarazioni di Spatuzza potrebbe indurre l’opinione pubblica a ritenere che la ricostruzione dei fatti e le responsabilità di essi, accertate con sentenze irrevocabili, siano state affidate alle dichiarazioni di falsi pentiti protetti dallo Stato, e potrebbe, per tale ultima ragione, gettare discredito sulle Istituzioni dello Stato, sul sistema di protezione dei collaboratori di giustizia e sugli stessi collaboratori di giustizia». 13.1.2020 DAMIANO ALIPRANDI – IL DUBBIO


12 settembre 2018 “Depistaggi” Borsellino, CSM lunedì 17 settembre 2018 sentirà DI MATTEO lunedì in seduta pubblica


L’ audizione del pm del processo sulla trattativa Stato-mafia, era slittata proprio per acconsentire alla richiesta del magistrato di essere sentito pubblicamente.  La Prima Commissione del Csm ha convocato per lunedì prossimo il pm del processo sulla presunta trattativa Stato-mafia Nino Di Matteo nell’ambito del fascicolo aperto su sollecitazione della figlia di Paolo Borsellino , Fiammetta, che ha chiesto di far luce sulle “disattenzioni” che ci sarebbero state sulle dichiarazioni del falso pentito Vincenzo Scarantino. Di Matteo doveva essere ascoltato la scorsa settimana, ma la sua richiesta che la seduta fosse pubblica, aveva fatto slittare l’audizione, ora fissata a lunedì.
CSM rinvia l’audizione di Nino Di MatteoDiventa un caso il rinvio deciso dal Csm dell’audizione del pm del processo sulla trattativa Stato- mafia Nino Di Matteo. Di Matteo doveva essere ascoltato oggi dalla Prima Commissione, nell’ ambito del fascicolo aperto sulla base dell’ esposto di Fiammetta Borsellino sui depistaggi sulle indagini sulla strage in cui persero la vita suo padre Paolo e gli agenti di scorta. E aveva chiesto di parlare in una seduta pubblica. Proprio “a causa della sua richiesta, pervenuta solo lunedì, “é stato necessario il rinvio, spiega in una nota la Commissione, chiarendo che è stato dovuto solo a ragioni “tecniche e regolamentari”. Un concetto ribadito dal vice presidente Giovanni Legnini, che avverte: “Ogni altra ricostruzione dietrologia è destituita di fondamento”. Quando un magistrato chiede di essere ascoltato in seduta pubblica “il regolamento Interno del Csm (agli artt. 27 e 29) prevede precisi obblighi procedurali – sottolinea la Commissione, presieduta dal laico Antonio Leone – poiché le sedute delle commissioni di norma non sono pubbliche e solo eccezionalmente la Commissione ne può disporre la pubblicità”. La Prima Commissione si è “pronunciata favorevolmente sulla richiesta di Di Matteo, nella seduta di ieri ed ha trasmesso la decisione al Comitato di Presidenza. Inoltre, poiché per espressa previsione regolamentare, la stampa e il pubblico, possono essere ammessi a seguire le sedute solo in separati locali, attraverso impianti audio-visivi (Art.29 comma 2), ciò richiede misure organizzative adeguate”. “Le ragioni tecniche e regolamentari indicate dalla commissione, conseguenti alla richiesta del dott. Di Matteo, sono quelle che hanno determinato la necessità del differimento dell’audizione”, ribadisce a sua volta Legnini. “Se la Prima Commissione farà in tempo o no prima della fine della Consiliatura lo si valuterà in relazione alle attività ed adempimenti previsti dal regolamento”, conclude il vice presidente.
Sulla vicenda interviene una delle figlie del magistrato ucciso, Fiammetta Borsellino. «Per me è una questione marginale che Nino Di Matteo abbia chiesto al Csm di essere sentito in seduta pubblica. Più importante è invece che si trovi il modo di fare chiarezza, e anche al più presto, sui depistaggi e su ciò che è accaduto nella gestione dell’inchiesta sulla strage di via D’Amelio».  «Vedo – aggiunge Fiammetta Borsellino – che sulle procedure e sulle modalità degli accertamenti da fare vanno sorgendo polemiche collaterali. Sono del tutto secondarie rispetto al fine ultimo dell’obiettivo perseguito dalla famiglia: chiarire tutto quello che c’è da chiarire».


4 luglio 2018 Via d’Amelio, Di Matteo: “Sentenza dice che il depistaggio inizia già nel 1992 con l’arresto di Scarantino”

 

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“Sono stato sentito come testimone nel Borsellino quater e ho espresso dei fatti. Poi in sede di commissione parlamentare antimafia, un anno fa, la presidente Rosy Bindi mi chiese una mia opinione su cosa potesse essere accaduto. Partendo dal fatto che il racconto del ‘pentito’ Vincenzo Scarantino era un racconto che si dimostrò sì in gran parte falso, ma corrispondente al vero in alcune parti significative, dissi allora che la polizia poteva avere una fonte confidenziale che avesse fornito quei dettagli veritieri, come quello sul furto della Fiat 126 usata per l’attentato a Borsellino. Una fonte rimasta sconosciuta”. A dirlo è stato il sostituto procuratore nazionale antimafia, Nino Di Matteo, alla presentazione del libro di Antonio Ingroia, “Le Trattative”, scritto con il giornalista e scrittore Pietro Orsatti. Il pm del processo sulla trattativa Stato-mafia, commentando le motivazioni della sentenza del Borsellino quater, ha aggiunto “che la polizia avesse, come diciamo in siciliano, ‘vestito il pupo’. Bindi mi disse ‘e quindi non è un depistaggio?’ Certo che lo è, risposi. Un depistaggio ancora più difficile da scoprire. È questa l’ipotesi che la stessa sentenza oggi ritiene più probabile: un depistaggio che inizia fin da subito, visto che Scarantino viene arrestato nel settembre del ’92”. “Che la trattativa fosse una boiata pazzesca lo possono dire tutti”, ha tuonato Di Matteo, ospite all’hotel Nazionale a Roma, dove sono intervenuti anche Antonio Padellaro e Vauro Senesi. “Le sentenze definitive dicono che la trattativa ci fu e che determinò in Riina un rafforzamento nell’intenzione di mettere le bombe”. FQ 4.7.2018

17 settembre 2018 – AUDIZIONE AL CSM  – DI MATTEO: su Via D’Amelio “Siamo ad un passo della verità anche grazie a me e ad altri magistrati

  • “Tutti abbiamo bisogno di un contributo di chiarezza rispetto alla ostinata reiterazione di falsità e ingiuste generalizzazioni che da tempo vengono diffuse e rilanciate con grande clamore mediatico…”  
  • “Siamo ad un passo dalla verità anche sotto il profilo del movente e della presenza di madanti esterni a Cosa nostrae ci siamo arrivati grazie e soprattutto al lavoro fatto a Caltanisetta nel Borsellino Ter e a Palermo nel processo Trattativa Stato-mafia”
  • “Siamo ad un passo della verità anche grazie a me e ad altri magistrati
  • “Il depistaggio non inizia con la collaborazione di Scarantino ma inizia con le prove oggi ritenute false che portano ad incriminare Scarantino
  • “I fatti vengono mistificati quotidianamente da parte di qualcuno
  • “Non ho mai saputo nulla dei colloqui investigativi con Scarantino”
  • “Scarantino aveva detto anche cose vere. Probabilmente gli sono state suggerite da qualcuno

Nell’audizione davanti al CSM il magistrato ha inoltre riferito sulle “anomalie” denunciate da  Fiammetta Borsellino


17 settembre 2018 DI MATTEO AL CSM: “IL DEPOSITO RITARDATO DEI CONFRONTI DI SCARANTINO? ABBIAMO PRIMA INDAGATO PER CAPIRE CHI MENTISSE” 

 

“Abbiamo cercato di fare un’indagine per capire chi stesse mentendo e poi abbiamo depositato i confronti. Che sono stati depositati prima della conclusione del Borsellino bis. Le difese non sono state private da quei confronti”. Lo ha detto il pm Nino Di Matteo al Csm. Il riferimento è per il confronto avvenuto il 13 gennaio 1995 tra il falso pentito Vincenzo Scarantino e i collaboratori di giustizia Salvatore Cancemi, Mario Santo Di Matteo e Gioacchino La Barbera. Il deposito ritardato di quegli atti al processo “Borsellino bis” aveva portato gli avvocati Rosalba Di Gregorio, Franco Marasà e Giuseppe Scozzola a denunciare i pm Annamaria Palma, Carmelo Petralia e lo stesso Di Matteo per “comportamento omissivo”. Anche i magistrati avevano denunciato i legali per calunnia. Nel 1998 il gip di Catania aveva archiviato l’inchiesta sui sostituti procuratori di Caltanissetta in quanto priva di alcun “comportamento omissivo”. “Noi avevamo il dubbio che Scarantino mentisse – ha ricostruito Di Matteo – Ma avevamo motivo per ritenere che anche gli altri collaboratori di giustizia mentissero. Non depositammo subito quel confronto perché c’era in corso un processo, il Borsellino bis, ma c’era in corso anche un’altra indagine, che poi sarebbe sfociata nel Borsellino ter. Cancemi fino a quel momento era un mentitore sulla strage: negava ogni coinvolgimento sull’assassinio di Borsellino. Solo l’anno dopo confessò in un interrogatorio che aveva partecipato alla strage. E al tempo del confronto Di Matteo viveva ancora la tragica situazione del sequestro del figlio (verrà poi assassinato dai boss e sciolto nell’acido ndr). Avevamo intercettato il pentito con la moglie, e quest’ultima gli aveva detto: non parlare della strage di via d’Amelio. Per questo, oltre che di Scarantino, non ci fidavamo neanche degli altri collaboratori”.

 


17 settembre 2018 Borsellino, Di Matteo al Csm: mai così vicini alla verità

Il magistrato: pagato prezzo altissimo per mio lavoro, contro di me accuse ingiuste

“Non è vero che in 25 anni non si è fatto niente, ci sono 26 condanne mai messe in discussione”, ha detto Di Matteo al Csm nell’ambito dell’istruttoria avviata dalla Prima Commissione dopo il deposito della sentenza Borsellino quater. “Non c’e’ strage in Italia che abbia un numero così alto di condannati definitivi”, ha aggiunto, ribadendo che “non è vero che sono stati 25 anni persi, ci sono 26 affermazioni di penale responsabilità per concorso in strage su cui non c’è alcun dubbio”.


AUDIO INTERVENTI da Radio Radicale


13 settembre 2017 -Di Matteo sulla strage di Via d’Amelio: «Mai entrato nelle indagini». 


Il sostituto procuratore nazionale antimafia Nino Di Matteo siede alla destra della presidentessa della Commissione parlamentare antimafia di Rosy Bindi. L’audizione è iniziata alle 14.30 in punto ed è la stessa Bindi ad affermare che l’incontro è successivo a quello in cui, a Palermo, Fiammetta Borsellino, aveva affermato che l’indagine sulla morte del padre Paolo era stata all’epoca affidata a magistrati inesperti della procura di Caltanissetta, tra i quali un giovanissimo Di Matteo.
E non è solo alla figlia del giudice che si rivolge Di Matteo, quando, nel ricostruire la storia del suo coinvolgimento nelle indagini successive alla strage di Via d’Amelio, smonta l’assunto secondo il quale sarebbe stato coinvolto a pieno titolo in quelle indagini.
Anzi. Di Matteo dirà subito, con riferimento a quello che poi si rivelerà essere un falso pentito, vale a dire Vincenzo Scarantino, che «quelle indagini mossero da dichiarazioni e indagini precedenti e dunque si tratta di capire chi condusse quelle indagini e quali siano stati eventuali depistaggi volontari. Ed è qui che crolla l’assunto per cui a tutti i costi mi si vuole coinvolgere». Sottinteso: negli errori di valutazione di un soggetto che menerà la Giustizia a largo dalla verità, nei quali lui non poteva essere coinvolto. E spiega perché.
«Scarantino è un soggetto che viene arrestato il 26 settembre 1992 – spiega Di Matteo – e le indagine vennero dunque condotte dal 19 luglio 1992 fino al 26 settembre. All’epoca ero un tirocinante e mi sono occupato di procedimenti ordinari fino al 9 dicembre 1993. Sono entrato nella Dda nissena il 9 dicembre con il compito esclusivo di occuparmi di processi della mafia e della stidda di gela e ho svolto al compito fino al novembre ’94. Nel pool che si occupava delle stragi sono entrato dunque nel novembre 1994, due anni e 4 mesi dopo la strage, 2 anni e 2 mesi dopo l’arresto di Scarantino. Non mi sono mai occupato ad alcun titolo del primo processo a Scarantino, nel secondo solo come pubblica accusa nel procedimento dibattimentale ed entrai solo dal processo Borsellino-ter».
Di Matteo, che ha affermato di voler dare un contributo di verità e di volersi sottoporre ad ogni tipo di domanda, ha anche affermato che «le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Scarantino e Spatuzza per alcuni versi sono coincidenti e questo lascia ipotizzare che alcune informazioni vere erano arrivate ed erano state messe in bocca a Scarantino». 13.9.2017 SOLE 24 ORE


13 luglio 2017 Quando Spatuzza parlò di via D’Amelio, e non successe niente per dieci anni

 

Il documento completo del “colloquio investigativo” del 1998 tra il collaboratore di giustizia e i magistrati Vigna e Grasso
Che cos’è questo documento
La mattina del 26 giugno 1998 il capo della Direzione Nazionale Antimafia e il suo vice – i magistrati Pier Luigi Vigna e Piero Grasso – andarono nel carcere dell’Aquila per avere un colloquio investigativo con un mafioso che vi era detenuto, Gaspare Spatuzza. Un colloquio investigativo è un formato di interrogatorio previsto dal codice che avviene tra investigatori e detenuti, per ottenere notizie ai fini di un’indagine ma il cui contenuto non può essere usato a processo: una sorta di raccolta informale di informazioni, su cui costruire successive indagini e verifiche, e che salvo eccezioni resterà riservato.
Il verbale di quel colloquio è una trascrizione linguisticamente molto maldestra e inaccurata che fu fatta undici anni dopo, con molti palesi errori, ma racconta molte cose che erano state tenute segrete – come da norma, come per altri colloqui del genere – per sedici anni, prima di comparire per un accidente imprevisto nelle carte pubbliche di un processo nel 2013, a cui fu accluso per errore. Per capire meglio quelle cose – diverse non si capiscono completamente tuttora – c’è bisogno di alcune premesse e descrizioni di contesti che abbiamo intervallato (in corsivo) alla trascrizione: il documento originale è qui.
Ma come può capire chiunque legga la trascrizione e le sue incertezze e i suoi vuoti, sarebbe prezioso un ascolto più accurato dell’audio originale, che la Procura di Caltanissetta – che ne è in possesso – ritiene non divulgabile, con valutazione che suona piuttosto illogica, essendo invece pubblica la sua trascrizione. Ugualmente preziosi alla comprensione di cose tuttora ignote sarebbero i contenuti degli altri colloqui investigativi con Spatuzza di quel periodo.

Chi sono i personaggi

  • Gaspare Spatuzzaè un mafioso palermitano, associato alla famiglia Graviano, che era stato arrestato nel luglio 1997 dopo un conflitto a fuoco. È uno degli assassini di don Puglisi, un parroco ucciso nel 1993 per il suo impegno contro la mafia, ha partecipato al rapimento di Santino Di Matteo – il figlio tredicenne di un collaboratore giustizia che fu ucciso dopo due anni di sequestro – ed è stato condannato in primo grado all’ergastolo a Firenze per la strage di via dei Georgofili, uno degli attentati del “periodo delle bombe mafiose” tra il 1992 e il 1993, che è il tema principale del colloquio con i due magistrati. Fu in contatto fin da dopo l’arresto con gli inquirenti, e nel colloquio viene “sondato” sulla possibilità che diventi un “collaborante”. Dal verbale del colloquio si capisce che ce ne sia stato almeno un altro precedente, e che Spatuzza stia trattando con risposte molto parziali e laconiche l’eventualità di diventare un collaboratore di giustizia – succederà ufficialmente solo nel 2008, dieci anni dopo – e valutando il proprio potere contrattuale.
  • Pier Luigi Vigna, noto magistrato che condusse molte inchieste importanti, fu il Procuratore nazionale antimafia dal 1997. Fiorentino, affida la gran parte dell’interrogatorio al suo vice, anche perché siciliano e maggiore conoscitore della lingua e della cultura mafiosa. Il loro interesse principale nel colloquio è ottenere eventuali conferme all’ipotesi di un rapporto tra Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri con i boss mafiosi Graviano, rapporto più volte indagato negli scorsi decenni e mai confermato (Dell’Utri è stato invece condannato nel 2014 a sette anni di carcere per avere costruito un rapporto di protezione ed estorsione da parte di alcuni boss mafiosi nei confronti di Berlusconi negli anni Settanta e Ottanta). Il procuratore Vigna andò in pensione nel 2005 e morì nel 2012.
  • Piero Grasso, che allora aveva 53 anni, era il vice Procuratore nazionale antimafia. Prima era stato giudice a latere in un famoso “maxiprocesso” alla mafia alla fine degli anni Ottanta, in conseguenza del quale era stato preparato un attentato mafioso contro di lui, poi non eseguito. Nel 1999 sarà nominato Procuratore capo a Palermo e nel 2005 Procuratore nazionale antimafia, succedendo a Vigna (oggi quel ruolo è del magistrato Franco Roberti). Nel 2013 è stato eletto senatore per il Partito Democratico ed è diventato presidente del Senato.
  • “I Graviano”, sono le persone di cui si parla più spesso nel colloquio. Sono Giuseppe e Filippo Graviano, boss del quartiere Brancaccio di Palermo, che erano stati arrestati nel gennaio 1994 a Milano e che sono considerati gli ideatori della campagna di stragi di Cosa Nostra tra il 1992 e 1993 su cui Grasso e Vigna stanno indagando. I due fratelli sono figli di Michele Graviano, che secondo alcuni pentiti investì nelle aziende di Silvio Berlusconi i soldi della mafia: e la conservazione di rapporti con Berlusconi da parte dei figli Graviano, e addirittura il coinvolgimento di Berlusconi nelle loro attività criminali, sono spesso evocati da Vigna e Grasso in diverse domande fatte a Spatuzza.

La storia del documento
Il colloquio del giugno 1998 tra Vigna, Grasso e Spatuzza fu registrato. Pietro Grasso ha riferito al Post, tramite il suo portavoce, che sicuramente le informazioni rilevanti furono inviate da Vigna alle procure competenti: quindi evidentemente anche a Caltanissetta, dove erano in corso inchieste e processi sulla strage di via D’Amelio, su cui Spatuzza dice cose importantissime. Da lì in poi però non risulta in undici anni nessun atto compiuto dalla procura di Caltanissetta per dare seguito o riscontro a quello che Spatuzza disse, e che avrebbe sovvertito i risultati dei processi allora in corso e le condanne a molti anni di carcere di diversi imputati estranei alla strage. A quanto disse poi, Spatuzza non venne mai interrogato fino a dopo il 2008, quando decise ufficialmente di “collaborare con la giustizia” e le sentenze precedenti vennero smentite e ribaltate. Di questo colloquio del 1998 e del suo contenuto si è saputo solamente nel 2013, quando la trascrizione dell’audio – compiuta nel 2009 dalla procura di Caltanissetta, per le indagini seguenti al “pentimento” di Spatuzza – venne inserita “per un disguido” tra le carte del pubblico ministero nel processo “Borsellino quater” e l’avvocato di uno degli imputati la citò in aula e contribuì a renderla pubblica. Il procuratore di Caltanissetta Lari disse allora di avere ricevuto verbale e trascrizione da Grasso – divenuto intanto Procuratore nazionale antimafia – a dicembre 2008. Fu di conseguenza messa agli atti del processo e da allora è un documento pubblico, mentre non lo è ancora la registrazione originale del colloquio.
La trascrizione del colloquio è molto trascurata, frammentata, incompleta: ma è stata mantenuta in originale salvo la correzione di pochi palesi refusi. IL POST 13.7.2017


Chi è Nino Di Matteo, il Pm che sognava di fare il ministro nonostante i fallimenti processuali


 

🔴15 settembre 1998 Scarantino ritratta: ‘Su Borsellino ho mentito’.  

 

COMO – Crolla e ritratta Vincenzo Scarantino, il pentito chiave del processo per la strage di via D’Amelio. E con lui rischia di crollare l’intero impianto accusatorio messo in piedi dalla procura di Caltanissetta. Davanti ai giudici del processo bis, che si sta svolgendo a Como, Scarantino oggi si è rimangiato tutto.
“Io dell’omicidio di Borsellino sono innocente”, ha detto l’uomo che si era accusato di aver procurato la Fiat 126 poi imbottita di tritolo che é costata la vita al giudice antimafia e ai cinque uomini della scorta.
Grazie alle dichiarazioni di Scarantino, nella prima tranche del processo erano stati condannati all’ergastolo Pietro Scotto, Giuseppe Orofino e Salvatore Profeta.
A lui stesso erano stati inflitti diciotto anni di carcere.
Immediata la replica del pubblico ministero che ha chiesto – insieme ai difensori degli imputati – che Scarantino fosse sentito non più come imputato ma come testimone: con l’obbligo quindi di dire la verità, pena l’incriminazione per falsa testimonianza. 
Ma l’accusa é andata oltre, paventando l’ipotesi di atti intimidatori ai danni del collaboratore di giustizia.
“Chiediamo – ha detto il pubblico ministero Antonio Di Matteo – l’esame di funzionari di polizia su quanto accertato in relazione a tentativi di arrivare a convincere Vincenzo Scarantino a ritrattare.
Mi riferisco in particolare a movimenti di denaro sino a qualche giorno fa”. Scarantino ha poi spiegato l’ennesima versione del suo pentimento.
Lo ha fatto platealmente, chiedendo agli agenti che lo circondavano di farsi da parte, perché le telecamere potessero riprenderlo.
Forti pressioni degli inquirenti mentre era in carcere, ha detto: “A Pianosa ho passato quaranta giorni indimenticabili. Scrivevo sui muri del bagno che se io facevo il bugiardo era perché mi volevano ammazzare”. Prigionia dura, denuncia Scarantino, “cibo scarso e con i vermi”, con un’unica via d’uscita: parlare. E allora Scarantino decide di collaborare, raccontando ciò che sapeva sul traffico di droga a Palermo.
“Ma il dottor La Barbera (al tempo dei fatti capo del gruppo antistragi, ndr) disse che gli interessavano solo gli omicidi”, ha detto oggi Scarantino. Aggiungendo: “La Barbera mi disse che mi sarei fatto solo qualche mese di galera e che mi avrebbe dato duecento milioni. Ma a me non interessavano i piccioli”.
Un altro clamoroso dietro front, quindi. L’ultimo della lunga serie di colpi di scena che hanno accompagnato la storia di questo strano pentito. Anomalo perché prima dell’arresto di lui, anche in ambienti investigativi, si sapeva poco quanto niente. Un delinquente di quartiere, secondo alcuni nemmeno un mafioso.
Viveva alla Guadagna, la zona controllata da Pietro Aglieri, con la moglie Rosaria Basile e tre figli. Ma rispondeva gli ordini del cognato, Salvatore Profeta, della cosca di Santa Maria di Gesú. Poi l’arresto e subito dopo – il 24 giugno del ’94 – le prime dichiarazioni. Che consentono di ricostruire la dinamica della strage di via D’Amelio e di risalire ai responsabili. Scarantino accusa, e si autoaccusa. Passa più di un anno, ma il 10 ottobre 1995 Rosalia Basile, la moglie, esce allo scoperto. Dice che il marito mente, che le sue dichiarazioni sono state estorte “a forza di botte e minacce” dai magistrati di Caltanissetta. Abbandona il marito, che viveva con lei sotto protezione, e con i figli torna alla Guadagna.
Ma su Scarantino in quei giorni sparano tutti. Gli avvocati degli imputati cercano di dimostrare che lui non può essere pentito di mafia perché uomo d’onore non é stato mai.
Chiamano in ballo due transessuali, che affermano di avere avuto rapporti con lui. Cosa che, secondo il codice d’onore di Cosa nostra, impedirebbe di entrare nell’organizzazione. Ma anche i boss pentiti dicono di non conoscerlo, lo fanno Cancemi, La Barbera e Di Matteo. Le sue dichiarazioni però reggono.
I riscontri ci sono. Lui ribadisce di essere un “leale collaboratore di giustizia”. E le condanne al primo “processo Borsellino” arrivano. Scarantino continua a parlare e fa altri nomi. Quelli di Giovanni Brusca e Raffaele Ganci, cha danno il via alla nuova inchiesta. “Non ho fatto prima i loro nomi per paura”, dice. Anche la moglie torna sui suoi passi e l’8 marzo 1997 si riconcilia col marito, rinunciando al divorzio. Il pentito Scarantino guadagna credibilità , diventa sempre più il pilastro su cui si regge l’intero processo. Un pilastro che si credeva stabile. Fino a oggi.  (La Repubblica 15 settembre 1998)


16 settembre 1992 «La rabbia per una strage annunciata, per uno Stato imbelle che non era riuscito a evitare ciò che tutti prevedevano: l’uccisione di Paolo Borsellino.
L’indignazione, il pianto, il disorientamento ma anche la consapevolezza che non potevo più tirarmi indietro. Era il momento in cui dovevo dare tutto, assicurare il massimo dell’impegno e della dedizione per poter fornire anche solo un piccolo contributo nella lotta contro il sistema di potere mafioso. Una lotta di liberazione, una catarsi etica e morale prima ancora che sociale e giudiziaria. Con questi sentimenti, con tanto entusiasmo e altrettante incertezze e paure, presi possesso delle mie funzioni di sostituto procuratore della Repubblica a Caltanissetta il 16 settembre 1992».  (Nino Di Matteo