“Ecco chi mi costrinse a confessare la strage”. Parla nell’aula bunker di Caltanissetta, il pentito “taroccato” Vincenzo Scarantino, le cui “rivelazioni” sono costate 17 anni di galeraa persone innocenti accusate della strage di via D’Amelio costata la vita a Paolo Borsellino e alla sua scorta. Ora Scarantino è accusato anche di calunnia, per aver fatto i nomi di chi – a suo dire – l’ha costretto a inventarsi la falsa pista.
Pensate che qualcuno abbia deciso di far luce su quei clamorosi depistaggi? Su una pista costruita a tavolino per accusare innocenti e sviare dai veri esecutori e mandanti? Macchè. “L’indagine sul depistaggio – scrive Repubblica in un servizio del 12 maggio firmato da Alessandra Ziniti – è finita in archivio”. E allora? Scarantino si dichiara comunque fiducioso: “Allora vedremo – dichiara Scarantino – la verità verrà fuori. Ora ci sono pm che vogliono vedere chiaro. Era tutto combinato, sin dall’inizio. Ma in questi giudici ho fiducia”.
“Un depistaggio, al momento, senza depistatori”, scrive Ziniti. “Anna Palma – continua la cronista – procuratore generale a Palermo, nel ’92 era uno dei pm di Caltanissetta titolari dell’inchiesta, non è stata mai indagata.
Mario Bo, funzionario di polizia, era uno degli investigatori del gruppo guidato da Arnaldo La Barbera che si occupavano della gestione di Scarantino”. E continua, aggiornando sulle ultime dal processo di Caltanissetta: “Nega tutto Bo e nega tutto Anna Palma, messa a confronto con Rosalia Basile, l’ex moglie di Scarantino che la accusa di aver redatto verbali falsi, di averla indotta a non testimoniare per evitare contraddizioni con il marito.Negano magistrato e poliziotti, o non ricordano. Come ha fatto il giorno prima un altro poliziotto, Angelo Tedesco, tanto da far esplodere il pm Stefano Luciani in un ‘vergognoso, non sono accettabili venti minuti di non ricordo. Faccia onore alla divisa che porta’”.
Già un anno fa Scarantino rese una testimonianza di fuoco, accusando senza mezzi termini la Palma di aver “architettato” la sua versione. E oggi Scarantino accusa ancora: “Erano in due, mi picchiarono, mi infilarono una pistola in bocca davanti ai miei bambini terrorizzati, neanche i mafiosi avrebbero fatto così”.
Sarà finalmente verità?
Sul maxi depistaggio e il giallo Scarantino ha scritto negli ultimi anni per la Voce il giornalista d’inchiesta Sandro Provvisionato, animatore del sito “Misteri d’Italia”. In basso alcuni link.
SENTIRE SCARANTINO PER CAPIRE LA TRATTATIVA – 13 febbraio 2014
Spero di non tediare i lettori della Voce se mi soffermo ancora sul depistaggio Scarantino che ritengo centrale se si vuole capire cosa sia davvero accaduto in via D’Amelio a Palermo il 19 luglio 1992 (strage Borsellino) e che relazione abbia quel depistaggio con il processo sulla Trattativa in corso a Palermo, purtroppo, nell’indifferenza generale.
Il 21 gennaio scorso, durante un’udienza del processo quater per la strage di via D’Amelio, la deposizione del pm di Milano Ilda Boccassini, a conferma di quanto da mesi andiamo scrivendo, ha gettato nuove inquietanti luci proprio sulla “gestione” del falso “pentito”. Con lo stile franco e diretto che le è abituale, la dottoressa Boccassini ha spiegato che sarebbe bastato, nel lontano 1994, approfondire i dubbi che lei stessa aveva manifestato per capire che la pista segnata dal sedicente “pentito” Vincenzo Scarantino non solo era sbagliata, ma addirittura pericolosa. «Quando arrivai a Caltanissetta – ha raccontato il magistrato – da parte di tutti c’erano perplessità sulla caratura criminale del personaggio Scarantino. Ricordo perfettamente che si trattava di dubbi nutriti non solo dai magistrati ma anche dagli investigatori. La prova regina che diceva fregnacce (testuale, ndr) la ebbi quando, dopo vari tentennamenti e oscillazioni, Scarantino decise di collaborare con la giustizia». Preoccupata per la falsa pista che l’inchiesta stava imboccando, la Boccassini, prima di lasciare l’inchiesta per far ritorno a Milano, decise, insieme al collega Roberto Sajeva, di indirizzare una nota al procuratore capo di Caltanissetta Giovanni Tinebra. Attenzione alle date: siamo al 12 ottobre 1994. Poco più di due anni dopo la strage, ma ben 15 anni prima dall’estromissione di Scarantino dal programma di collaborazione.
Nella nota, ora agli atti del processo, la Boccassini invitava il procuratore e i suoi sostituti a sospendere gli interrogatori di Scarantino, a «verificare bene le parole del collaboratore», ad «avvisare i colleghi di Palermo», a «fare i confronti» e a «ricominciare con saggezza, umiltà ed equilibrio, doti che dovrebbero avere i magistrati».
LA NOTA SCOMPARSA
Ma non accadde nulla. Non solo non venne convocata una riunione della Direzione distrettuale antimafia di Caltanissetta, ma la nota Boccassini-Sajeva scomparve. Primo interrogativo: perché quella nota indirizzata a Tinebra è rimasta ignota fino al 21 gennaio scorso? Perché i magistrati di Caltanissetta hanno pervicacemente creduto a Scarantino dal 1994 fino al 2009, buttando via 15 anni di indagini?
Interrogata sulle responsabilità di quella sciagurata inchiesta, la Boccassini ha cercato di salvare il superpoliziotto Arnaldo La Barbera, ritenuto oggi, assieme ad altri tre poliziotti, l’autore materiale del depistaggio, per accusare invece due suoi colleghi della procura di Caltanissetta: «Il dominus delle indagini – ha risposto il magistrato – è sempre il pm. E’ lui che decide». E i due pm sono – aggiunge la Boccassini – gli allora sostituti Anna Palma e Nino Di Matteo, la prima oggi in servizio al ministero della Giustizia, dopo aver fatto parte della segreteria dell’allora presidente del Senato Renato Schifani, e il secondo attualmente in servizio alla Procura di Palermo.
Con l’aggiunta di un altro magistrato, Carmelo Petralia, si tratta degli stessi nomi (in tutto quattro poliziotti e tre magistrati) emersi durante la puntata di Servizio Pubblico del 30 gennaio scorso, che ha avuto come ospite proprio Vincenzo Scarantino. Pressato dal direttore di PanoramaGiorgio Mulè, il falso “pentito”, oggi barbone di strada, nel pronunciare alcuni di quei nomi ha mostrato chiari segni di disagio e di paura. E, guarda caso, appena finita la trasmissione di Michele Santoro Scarantino è stato arrestato con un’accusa quanto mai occasionale: aver molestato una donna. Sì, ma più di due mesi prima. Mai cattura fu più tempestiva. Mai messaggio fu recapitato così velocemente. Quello che è sicuro è che quei nomi Scarantino non li ripeterà mai più.
NOMI PESANTI
Inutile dire che tra tutti i nomi il più pesante è indubbiamente quello di Nino Di Matteo. E viene da chiedersi: come mai, colui che è considerato oggi l’icona dell’antimafia a Palermo, ieri, a Caltanissetta, era così sprovveduto da non accorgersi del depistaggio Scarantino? Obiettano i più avvertiti mafiologi di superfice: ma Di Matteo quand’era a Caltanissetta era solo un giovane magistrato e, nella vicenda Scarantino, ha avuto un ruolo marginale. Dimenticando che Nino Di Matteo è stato pm nel capoluogo nisseno dal 1992 al 1999, cioè dall’anno della strage di via D’Amelio e ancora per cinque anni, durante i quali ha creduto alle continue “fregnacce” (tanto per usare lo stesso termine della Boccassini) di Scarantino. Ma non basta: Nino Di Matteo ha anche sostenuto l’accusa nel processo che – testimone sempre Scarantino – ha condannato all’ergastolo un bel manipolo di innocenti. E quando gli avvocati della difesa lo ricusavano, assieme alla collega Palma, imperterrito ha continuato a battere la falsa pista Scarantino.
Ma anche a Palermo Di Matteo ha già avuto qualche defaillance: secondo i giudici della quarta sezione di Corte d’Assise ha completamente sbagliato l’impostazione dell’accusa per la mancata cattura (ottobre ’95) di Provenzano contro il prefetto del Sisde (già generale dei carabinieri) Mario Mori e il suo braccio destro Mauro Obinu, entrambi assolti. In altre parole uno dei pilastri del processo sulla Trattativa è già miseramente crollato.
Ma bisogna anche dire che oggi a Palermo Nino Di Matteo vive blindato perché è sotto l’aperta minaccia di morte dell’ex “capo dei capi” Totò Riina. E su questo voglio essere chiarissimo: Nino Di Matteo merita la piena ed assoluta solidarietà da parte di tutti.
L’OPERAZIONE
“DAMA DI COMPAGNIA”
Purtroppo anche il capitolo “minacce di Riina” ha qualcosa di ancor più oscuro e inquietante delle minacce stesse. Ricordiamo che l’avvertimento di Riina di far fare «la fine del tonno» a Di Matteo emerge da una serie di intercettazioni raccolte nel carcere di Opera, intercettazioni avvenute durante l’ora d’aria del boss mafioso, che parla con un oscuro capo della Sacra Corona Unita, la mafia pugliese, tal Alberto Lorusso: nel gergo carcerario, la “Dama di compagnia”. A guardare i video che sono stati proposti e ad ascoltare le intercettazioni, saltano agli occhi e alle orecchie alcune stranezze: le intercettazioni non sono ambientali. L’audio è perfetto quando Lorusso e Riina sono uno di fronte all’altro, più debole e confuso quando i due sono fianco a fianco. Il che significa che Lorusso indossa un microfono. E che, quindi, più che una “Dama di compagnia” è un “agente provocatore”. Inoltre, lo stesso presunto boss pugliese, immediatamente trasferito e fatto sparire dopo la pubblicazione delle video-intercettazioni, parla con un accento siciliano molto pronunciato e, oltre a dimostrare una certa proprietà di linguaggio, è certamente ben informato sui fatti di attualità e conosce inoltre alcuni particolari di cui si dovrebbe essere a conoscenza solo in ambienti giudiziari. Da parte sua, Riina in alcuni momenti sembra più declamare che interloquire. Come se sapesse di essere intercettato.
Di queste intercettazioni, in realtà, si sa pochissimo: quando sono cominciate? Chi le ha ordinate? Chi ha scelto Lorusso come interlocutore del vecchio capomafia?
In un’intervista al settimanale Left del 25 gennaio 2014 Di Matteo dice: «Nel luglio scorso chiedemmo ed ottenemmo dal gip l’autorizzazione ad intercettare i colloqui di Riina nelle ore di socialità». Ma le trascrizioni disponibili dei colloqui sono molto antecedenti al luglio 2013. E sembrano ricondurci a quel “protocollo farfalla” siglato anni fa, un accordo tra il Dap, il Dipartimento carcerario del ministero della Giustizia, e l’allora Sisde, il servizio segreto civile e che probabilmente, sotto altre vesti, è ancora in funzione.
C’è poi il capitolo della caratura mafiosa del boss di Corleone, in carcere dal 15 gennaio 1993. Per Di Matteo (intervista a SkyTg24 del 1° febbraio scorso) Riina è stato certamente il capo di Cosa nostra fino al 2006 e probabilmente lo è ancora. Ma c’è da chiedersi come ha fatto a far uscire dal carcere i suoi ordini di capo se da sempre sta al 41 bis, articolo di legge creato apposta per impedire i contatti tra l’interno e l’esterno delle patrie galere. Oppure dobbiamo pensare che il 41 bis non abbia questo scopo?
LE PAURE DI UN VECCHIO BOSS
La mia impressione è che oggi Riina sia un vecchio boss di 83 anni, con scarsi o nulli collegamenti esterni, fiaccato da una detenzione in isolamento da 41 bis lunga 21 anni, che non ha altro da salvare se non il suo “prestigio” di vecchio capo di Cosa nostra. Che si infiamma al solo sentir parlare di Trattativa perché in questo ambito egli non sarebbe stato catturato sul campo, ma venduto da altri boss, come Bernardo Provenzano, e quindi non più un supercapo, ma un semplice picciotto babbeo. Non restandogli che il passato, a quello si aggrappa e lancia minacce a chi, parlando di una Trattativa che sicuramente è esistita, “infanga” il suo onore di uomo d’onore.
Intanto il processo sulla Trattativa Stato-mafia va avanti da nove mesi nel più assordante dei silenzi. E purtroppo – perché è lampante, la trattativa c’è stata – ricorda troppo da vicino quello che la procura di Giancarlo Casellimosse all’inizio degli anni Novanta contro Giulio Andreotti. Una montagna di accuse durata 11 anni che partorì un topolino: Andreotti colluso con Cosa nostra ma solo fino al 1980 e quindi colpevole di un reato prescritto. Altro che capo mafia.
Anche l’impianto di questo nuovo processo è di una debolezza impressionate. Perché continua a proporre una lettura dei fatti tutta appiattita solo e soltanto sulle finalità della giustizia penale. E, ancora, Andreotti insegna.
SCARANTINO E IL MARCIO CHE AFFIORA – 20 gennaio 2014
La storia infinita del falso “pentimento” di Vincenzo Scarantino, che racchiude in sé tutte le distorsioni della giustizia italiana e, nella migliore delle ipotesi, anche le incapacità, le impreparazioni e le poco professionali ostinazioni di molti magistrati antimafia, subisce una svolta nella primavera del 2001, quando ancora, nonostante tutto, il falso “pentito” è considerato un oracolo dalla procura della repubblica di Caltanissetta.
Il 23 maggio 2001 i dubbi sulle indagini effettuate e sulla loro modalità, i contatti telefonici fra esponenti mafiosi e uomini dei servizi segreti, l’ipotesi che uomini di Cosa nostra sarebbero stati utilizzati come manovalanza da apparati statali per mettere a segno l’attentato sono al centro della deposizione del vice questore Gioacchino Genchi.
Ex componente del gruppo investigativo Falcone-Borsellino, Genchi, rispondendo alle domande del presidente della corte, Francesco Caruso, afferma che la procura di Caltanissetta si sarebbe «chiusa a riccio» dopo che «erano emersi contatti fra i boss coinvolti nella strage ed apparati istituzionali». Per Genchi, la procura non avrebbe dato il via libera ad indagare su questi fatti. Genchi esprime inoltre perplessità sulla gestione dell’ormai ex “pentito” Vincenzo Scarantino.
Il funzionario avanza un’altra ipotesi investigativa, già illustrata a suo tempo ai magistrati di Caltanissetta. Secondo il teste, le persone che hanno premuto il pulsante che ha provocato l’esplosione non si potevano trovare nelle vicinanze di via D’Amelio perché sarebbero state raggiunte dall’onda d’urto. Gli investigatori avevano individuato come possibile base il Castello Utveggio, che sovrasta la città, dove ha sede la scuola di formazione del Cerisdi e dal quale con un binocolo si poteva controllare la strada in cui avvenne la strage. In questo punto di osservazione, secondo Genchi, si sarebbe insediato, per un periodo, un gruppo del Sisde.
Il 19 luglio, all’udienza d’Appello del “Borsellino bis”, la corte accoglie le richieste dell’avvocato Rosalba Di Gregorio, acquisendo al fascicolo del dibattimento anche la “proposta sanitaria” dell’ospedale militare di Chieti che esonerò dal servizio di leva Vincenzo Scarantino. Nel referto, Scarantino viene definito «neurolabile», un soggetto che «minaccia reazioni al minimo stimolo esogeno non gradito».
Il 1 febbraio 2002 ennesimo show di Scarantino che in aula, nel processo d’Appello, afferma: «Ho ritrattato perché mi hanno minacciato, la verità è quella che ho detto nel processo di primo grado». La ritrattazione della ritrattazione, secondo Scarantino, fu determinata dapprima da una serie di segnali e, successivamente, da precise indicazioni di un tale Antonio (nipote di Pietro Scotto) che conobbe a Padova quando era in regime di protezione con la sua famiglia.
A Scarantino il sostituto procuratore generale chiede se il fratello Rosario avesse avuto una parte nella ritrattazione: «Sì – risponde – Rosario mi disse di rimangiarmi tutto. In cambio della ritrattazione ottenni che mi liquidassero le mie proprietà che erano state sottratte dalla mafia in seguito alle mie dichiarazioni nel processo di primo grado. I miei parenti erano contenti della mia scelta, ma ormai anche con mia madre e i miei fratelli i rapporti si sono raffreddati e ognuno va per la sua strada».
22 novembre 2002: Vincenzo Scarantino viene condannato a otto anni di reclusione dal Gip di Roma Renato Croce per calunnia nei confronti dei pm palermitani Anna Palma e Carmelo Petralia oltre che del defunto Arnaldo La Barbera.
Trascorrono cinque anni e il 15 ottobre 2008 diventa ufficiale il “pentimento” di Gaspare Spatuzza, killer del gruppo di fuoco dei fratelli Graviano, boss di Brancaccio. Spatuzza fa una rivelazione che spiazza e sbugiarda definitivamente Scarantino. Dice Spatuzza: «Fui io a rubare la 126 usata come autobomba per la strage di Via D’Amelio. A commissionarmi il furto furono i fratelli Graviano». Il sicario, che ha sulle spalle una quarantina di delitti tra cui quello di don Pino Puglisi, parla da 4 mesi, ma non è stato ancora ammesso al programma di protezione. I magistrati ne stanno valutando l’attendibilità soprattutto alla luce delle contraddizioni tra la sua ricostruzione della strage e quella del “pentito” Vincenzo Scarantino. Sui racconti di quest’ultimo poggia infatti la verità giudiziaria dei tre processi celebrati su via D’Amelio.
Il 21 aprile 2009 è ufficiale che le dichiarazioni di Spatuzza sono state riscontrate in tutti i punti che riguardano la strage di via D’Amelio e che quindi Scarantino è un falso “pentito” a cui, sempre nella migliore delle ipotesi, troppi magistrati hanno creduto ciecamente. E di anni, per giungere a questa verità, ce ne sono voluti ben 17. Spatuzza apre così una bella voragine nel processo che si è già concluso definitivamente per mandanti ed esecutori della strage.
Il 29 luglio 2009 la procura distrettuale antimafia di Caltanissetta avvia indagini per accertare se davvero – come Scarantino aveva ammesso in passato – sia stato aggiustato il primo verbale di interrogatorio reso, nel 1994, dallo stesso. L’ipotesi si inserisce nell’ambito di un presunto depistaggio che potrebbe esserci stato nell’inchiesta sulla morte di Paolo Borsellino e della sua scorta. L’analisi dei magistrati parte da quel primo verbale. Il documento, agli atti del processo già definito con sentenze di condanna all’ergastolo, è pieno di annotazioni e suggerimenti scritti a mano a margine delle pagine. E anche in base a questo verbale i giudici avrebbero emesso le loro sentenze di condanna. I magistrati hanno accertato che a scrivere le note è stato un poliziotto. Ma per conto di chi? Il giorno dopo tornano a parlare i familiari di Scarantino. Dice la madre: «Sono stati poliziotti e magistrati a costringere mio figlio a dire cose false. Qui tutti lo sanno, come lo sanno anche i magistrati, furono loro, quelli interni allo Stato, a fare la strage».
Insomma verbali aggiustati, il famoso papello annunciato dal figlio di Ciancimino, indagini su cui grava l’ombra del depistaggio, veri e falsi “pentiti” e undici ergastoli definitivi che un probabile giudizio di revisione potrebbe mettere in discussione. 17 anni dopo la strage di via D’Amelio emerge la concreta ipotesi che alcuni investigatori abbiano estorto false confessioni e false accuse.
Chi tentò di indurre Scarantino a mentire? E’ la stessa domanda che si facevano gli avvocati che hanno assistito prima al “pentimento” di Scarantino, poi alla sua ritrattazione e infine alla ritrattazione della ritrattazione. In prima fila, ad esprimere dubbi sul collaboratore c’era, allora, l’avvocato Rosalba Di Gregorio, difensore di quattro degli 11 imputati che grazie alle dichiarazioni di Scarantino sono stati condannati all’ergastolo. E ancora l’avvocato Piero Milio che, da senatore della lista Pannella, nel febbraio del 1999, presentò un’interrogazione al ministro della Giustizia proprio sul verbale “aggiustato” del 1994. «Scarantino – dichiarò in quell’occasione Milio – ha addirittura prodotto atti e documenti non firmati e da lui acquisiti durante il periodo in cui è stato sottoposto a regime di rigorosa protezione. Per questo ho chiesto ai ministri se non ritengano di dover disporre una seria indagine ispettiva anche al fine di accertare come Scarantino abbia potuto disporre – e chi gliela abbia data – della copia degli interrogatori, quasi tutti annotati, mentre la difesa degli imputati ha avuto, a suo tempo, rilasciate solo copie parziali».
Quell’interrogazione parlamentare, presentata ai ministri del governo di centrosinistra presieduto da Massimo D’Alema, «non ebbe mai alcuna risposta».
Il 21 novembre 2009 la “attendibilità” di Spatuzza si rinforza. Vittorio Tutino, uomo della cosca palermitana di Brancaccio, nel corso di un interrogatorio a Caltanissetta, davanti ai magistrati del pool che indaga sulle stragi del ’92, fornisce una versione coincidente con quella di Gaspare Spatuzza.
La versione di Vincenzo Scarantino è così definitivamente smontata.
Ma il mistero Scarantino rimane intatto. Anche perché, come ha affermato un altro pm di Caltanissetta, estraneo alla vicenda Scarantino, Paolo Borsellino venne ucciso perché era un ostacolo alla trattativa che pezzi di Cosa nostra avevano avviato con lo Stato. L’ombra di un patto tra la mafia e le istituzioni sullo sfondo dell’eccidio di via D’Amelio rende infatti ancora più inquietante la manipolazione dello stesso falso “pentito”. Ed è un’ombra che si allarga e si conferma di giorno in giorno.
Il 20 maggio scorso, deponendo al processo Borsellino quater, il sovrintendente di polizia Francesco Maggi ha detto: «Quando sono arrivato sul posto della strage, c’erano almeno quattro, cinque uomini dei servizi. Avevano la spilletta del ministero dell’Interno. Era gente di Roma e non capivo che cosa facessero. Ma sono certo, perché li conoscevo. Sono arrivato quasi subito. Vidi i corpi dilaniati, una cosa che mi ha segnato. Non c’era più niente da fare, ma ho notato che c’erano gli uomini dei servizi segreti. E ancora oggi non mi spiego come fossero sul posto e chi li avesse avvisati in così poco tempo».
E Scarantino, che fine ha fatto? Oggi è un uomo solo e impaurito. Abbandonato dalla moglie da anni, lasciato solo dallo Stato che gli ha tolo il programma di protezione, non ha lavoro, né famiglia. Accusato di calunnia è sotto processo.
Chi e perché lo indusse a mentire?, gli è stato chiesto nell’udienza dell’11 giugno scorso. «I peggiori – ha risposto – furono Mario Bo e Arnaldo La Barbera». Ha raccontato un altro “pentito”, Giovanni Brusca: «Quando ero detenuto mi venne raccontato che, a Pianosa, Scarantino fu fatto salire su un elicottero e, mentre era in volo, uomini della polizia di Stato lo minacciarono di buttarlo giù».
Mentre nessun magistrato di Caltanissetta è stato sfiorato dall’ipotesi di un’indagine, resta aperta l’inchiesta sui poliziotti Mario Bo, Vincenzo Ricciardi e sul defunto Arnaldo La Barbera. Nell’udienza del 26 novembre 2013 del Borsellino quater Ricciardi e Bo, il primo ex questore di Novara oggi in pensione, il secondo capo della squadra mobile di Trieste, si sono rifiutati di rispondere.