13-19 settembre 2017 AUDIZIONE del PM ANTONINO DI MATTEO alla Commissione Parlamentare Antimafia 

 

VIDEO 19 settembre 2017



Seduta n. 223 di Mercoledì 13 settembre 2017
Testo del resoconto stenografico

  La seduta inizia alle 14.30.

Sulla pubblicità dei lavoriPRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche mediante l’attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso e la trasmissione in diretta streaming sperimentale sulla web-tvdella Camera dei deputati.

Comunicazioni della Presidente.

  PRESIDENTE. All’esito della riunione dell’ufficio di presidenza integrato dai rappresentanti dei Gruppi testé svoltasi, comunico che una delegazione della Commissione si recherà in missione nei Paesi Bassi, all’Aja e a Rotterdam, dal 25 al 28 settembre prossimo, per una visita presso istituzioni nazionali olandesi e istituzioni europee che ivi hanno sede.

Audizione del sostituto procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo, Antonino Di Matteo.

  PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca l’audizione del sostituto procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo, Antonino Di Matteo.
  L’audizione odierna rientra nei compiti di cui all’articolo 1, comma 1, lettera f), della legge istitutiva, relativo al rapporto tra mafia e politica, riguardo alle sue manifestazioni che, in successivi momenti storici, hanno determinato delitti e stragi di carattere politico-mafioso.
  L’audizione è dedicata, in particolare, alla strage di via D’Amelio e fa in particolare seguito all’audizione della dottoressa Fiammetta Borsellino, svoltasi lo scorso luglio a Palermo, in occasione della commemorazione per l’assassinio di suo padre Paolo e degli agenti della scorta, e a quanto riportato in quella sede in merito alle indagini e ai processi celebratisi a Caltanissetta sulla strage di via D’Amelio.
  L’ufficio di presidenza integrato dai rappresentanti dei gruppi ha ritenuto di dare priorità all’audizione del dottor Di Matteo, già da tempo in programma, e inserirla immediatamente nel calendario di settembre, anche alla luce della disponibilità subito offerta spontaneamente dallo stesso dottor Nino Di Matteo a essere ascoltato in merito a vicende di cui si è occupato direttamente quando era in servizio presso la procura di Caltanissetta, all’inizio della sua carriera in magistratura.
  Ricordo che la seduta odierna si svolge nelle forme dell’audizione libera e che, ove necessario, i lavori potranno proseguire in forma segreta.
  Nel ringraziarlo per la disponibilità e la presenza, cedo pertanto la parola al dottor Di Matteo.

  ANTONINO DI MATTEO, sostituto procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo. Volevo prima di ogni cosa ringraziare il presidente e tutti i membri della Commissione per avere accolto la mia richiesta di essere audito davanti a codesta Commissione.
  Quella richiesta è motivata dal perseguimento di un duplice scopo: da una parte, spero di poter fornire un contributo alla Pag. 3verità; dall’altra parte, se me lo consentite, spero di stimolare quegli approfondimenti che ritengo necessari anche in sede politica sul probabile coinvolgimento nella strage di soggetti esterni a cosa nostra.
Il primo scopo. Sono convinto di poter fornire un contributo di chiarezza rispetto alle tante inesattezze, alle tante bugie, alle ingiuste generalizzazioni che da tempo – e in ultimo in occasione dell’ultimo anniversario della strage – vengono diffuse e rilanciate con grande clamore mediatico. Ciò sia con riferimento generale ai processi per la strage di via D’Amelio celebratisi a Caltanissetta negli anni tra il 1992-1993 e il 1999, sia, ancora più in particolare, con riferimento alla mia attività in quel poolantimafia e al tentativo di coinvolgermi in vicende di investigazioni e indagini che non ho vissuto e delle quali nemmeno marginalmente sono stato protagonista.
In occasione dell’ultimo anniversario della strage si è parlato di venticinque anni di depistaggi e silenzi: si è parlato, si è scritto, si è commentato da parte di autorevoli esponenti della stampa, di venticinque anni persi nella ricerca della verità sulla strage.
Ritengo, sulla base dei fatti che vi esporrò o che vi ricorderò, che queste siano affermazioni profondamente ingiuste – cercherò di spiegarlo di qui a poco – e anche molto pericolose, paradossalmente utili a chi teme e ha da temere che il percorso di accertamento completo della verità possa andare avanti.

  Nell’ultimo periodo, anche grazie a indagini da me e da altri colleghi condotte a Palermo, sono emersi a mio avviso importanti elementi di prova che indicano ulteriormente che la strage non fu solo una strage di mafia. Però, proprio in questo momento – e temo che non sia un caso – il dibattito e l’attenzione, invece di concentrarsi sulla necessità di ulteriori approfondimenti in tal senso, si orientano a screditare e delegittimare il mio lavoro e la mia professionalità.

Comincio a citare dei dati di fatto che spero anche di collegare in maniera chiara e precisa a delle date che possano guidarvi nella vostra importantissima valutazione. Si finge di dimenticare – e comunque da più parti sistematicamente si ignora – che tra il cosiddetto «via D’Amelio-bis» e, ancora più importante, il cosiddetto «via D’Amelio-ter» ben ventisei imputati sono stati condannati definitivamente per concorso in strage, nella strage appunto di via D’Amelio.
  Nel Paese che purtroppo è stato definito «il Paese delle stragi impunite» non mi pare, quello dei ventisei ergastoli definitivi, un risultato irrilevante. Attenzione: ventisei imputati per cui l’affermazione di responsabilità per strage è stata confermata fino alla Cassazione e mai minimamente messa in discussione, neppure dopo le acquisizioni più recenti, che partono dalla collaborazione di Gaspare Spatuzza.
  Ventisei condanne definitive: non sono stati venticinque anni persi nella ricerca della verità.
  Il processo di revisione ha riguardato, per quanto concerne le accuse di strage di imputati del cosiddetto «via D’Amelio-bis», sette posizioni.
  Nessuno dice, nessuno ricorda un dato di fatto che potete facilmente controllare: già all’esito del processo di primo grado di quel troncone «via D’Amelio-bis», sentenze di primo grado del 13 febbraio 1999, sei dei sette soggetti successivamente revisionati erano già stati assolti dalla corte d’assise di primo grado.
  Nessuno ricorda, tutti fingono di dimenticare che per tre posizioni di quelle sei erano stati gli stessi pubblici ministeri a chiedere l’assoluzione. Tornerò più specificamente sul punto tra poco.
  È imbarazzante dover parlare della mia attività, ma sono stato, anche da molti articoli di stampa, chiamato in causa per quello che non ho fatto e allora devo anche ricordare il contributo minimo che ho dato a queste indagini e a questo accertamento dei fatti, che continua ora e continuerà per sempre a rimanere uno dei punti principali del mio impegno.
  Mi consentirete dunque di dire che io sono orgoglioso – e lo considero un’esperienza professionale e umana unica – di un dato oggettivo, presidente. Io ho seguito, tra i processi per la strage, un solo processo, Pag. 4dall’inizio delle indagini alla conclusione della sentenza di primo grado: il cosiddetto processo «via D’Amelio-ter». È stato l’unico che ho seguito dal momento in cui è stato iscritto il fascicolo nel registro delle notizie di reato nei confronti di alcuni soggetti al momento in cui, il 9 dicembre 1999, è stata emessa la sentenza di primo grado.
  In quel processo sono state irrogate venti condanne per concorso in strage. Quel processo, l’unico che io ho seguito dall’inizio dell’indagine, prescinde completamente e assolutamente dalle dichiarazioni di Scarantino Vincenzo. In quel processo, Scarantino Vincenzo non è stato chiamato neppure a testimoniare. Nelle sentenze del processo, negli atti di quel processo, non c’è alcun riferimento, non troverete alcuna dichiarazione di un soggetto che noi non abbiamo chiamato neppure a testimoniare. Quel processo, quelle venti condanne per strage sono state il frutto di un lavoro particolarmente complesso e molto delicato, sia nella fase delle indagini che in un dibattimento – mi permetterete di ricordare e sottolineare – presieduto con una professionalità e un impegno eccezionali dal presidente Zuccaro.
  Quelle indagini e quel processo, in primo grado conclusosi con sentenza del 9 dicembre 1999, quelle centinaia di udienze, che spesso iniziavano alle 9 del mattino e si concludevano alle 9 di sera, sono state la sede dove per la prima volta sono emerse, con un grado di approfondimento notevole già in quella sede, molte e concrete circostanze che anche oggi mi inducono a ritenere che la strage non fu soltanto una strage di mafia e che il movente non è stato certamente esclusivamente mafioso. In quella sede, grazie all’impegno di quei magistrati.
  Quella è la sede processuale in cui il pubblico ministero – all’epoca era un giovane pubblico ministero che da allora fino ad oggi ha cambiato la sua vita ed è costretto a vivere in un certo modo – ha fatto emergere, tra le altre, in quella sede, le piste che portano al possibile collegamento tra l’accelerazione della strage di via D’Amelio e la trattativa Ciancimino-ROS dei Carabinieri.
  Quella, signor presidente, è la sede processuale dove per la prima volta Salvatore Cancemi, un pentito già appartenuto alla commissione provinciale di cosa nostra, quindi a quella che giornalisticamente viene chiamata «cupola», in quattro estenuanti udienze affermò che nello stesso contesto temporale – giugno 1992 – nelle stesse riunioni in cui Riina, di fronte agli altri membri della commissione, si assumeva la responsabilità e la paternità di uccidere subito, a meno di sessanta giorni di distanza da Giovanni Falcone, Paolo Borsellino… Cancemi ha dichiarato in quella sede processuale che in quel momento, in quelle riunioni in cui Riina si assumeva la responsabilità di fare un’altra strage a meno di due mesi da quella di Capaci, citava Berlusconi e Dell’Utri come soggetti che bisognava appoggiare ora e in futuro, e rassicurava gli altri componenti della cupola dicendo che fare quella strage sarebbe stato alla lunga un bene per tutta cosa nostra, anche per i soggetti già all’epoca detenuti.
  Questi sono due degli spunti che ho voluto citare, ma ce ne sono tanti altri, che sono stati alimentati anche recentemente – in particolare il secondo spunto che vi ho detto – da numerose altre acquisizioni che (questo però è il mio avviso) dovrebbero portare a una immediata riapertura delle indagini sui mandanti esterni a cosa nostra e a un rinnovato impegno collettivo di tutte le Istituzioni nel senso del completamento del percorso di ricerca della verità.
  Da magistrato, da uomo delle Istituzioni, mi preoccupa – e non personalmente, perché vi dimostrerò che personalmente non ho nulla da temere da questo approfondimento – il dato che molti vogliono concentrare, e ci stanno riuscendo, il dibattito e l’interesse, spero non anche quello istituzionalmente importantissimo di codesta Commissione, esclusivamente sulla questione Scarantino, che – lo ripeto – nel compendio del lavoro dell’autorità giudiziaria di Caltanissetta nel periodo 1992-1999 è questione inizialmente centrale – non si può non ammetterlo – ma solo Pag. 5inizialmente centrale e via via sempre più marginale.
  Affermare che tre processi sono stati fondati sulle dichiarazioni di Scarantino è semplicemente un falso, è assolutamente infondato. Vi ho già anticipato alcuni dati in questo senso. Vi ho ricordato il dato del «via D’Amelio-ter», processo nel quale Scarantino non è stato nemmeno citato nella lista dei testimoni di accusa. Ma, andando a ritroso, affermare che anche il «via D’Amelio-bis» si sia fondato esclusivamente sulle dichiarazioni di Scarantino è un altro dato falso, tant’è vero che molte condanne inflitte da quella corte nel «via D’Amelio-bis» – Salvatore Riina, Pietro Aglieri, Salvatore Biondino, Carlo Greco, Francesco Tagliavia, Giuseppe Graviano – sono state confermate e mai successivamente messe in discussione, nonostante le dichiarazioni di Spatuzza.
Ecco perché, anche per il «via D’Amelio-bis», affermare che quel processo abbia dato credito incondizionato alle dichiarazioni di Scarantino è semplicemente falso. Significa non conoscere gli atti; significa adeguarsi a una prospettazione che, molto abilmente, qualcuno sta instillando anche nella mente di persone in buonafede; significa non avere letto la requisitoria.
Fingere di non ricordare che lo stesso pubblico ministero, già nel «via D’Amelio-bis», aveva sostenuto che le dichiarazioni di Scarantino erano state inquinate dopo i primi tre interrogatori e potevano essere utilizzate – così si esprime il pubblico ministero in quella requisitoria – solo se confortate in maniera particolarmente significativa da altri e forti elementi di prova, da altre dichiarazioni di altri pentiti, da altre testimonianze, da altre intercettazioni telefoniche… Per questo motivo lo stesso pubblico ministero, in assenza di significativi elementi di prova diversi dalle propalazioni di Scarantino, già nel «via D’Amelio-bis» chiese e ottenne l’assoluzione per il delitto di concorso in strage di Calascibetta Giuseppe, Murana Gaetano e Gambino Antonino, soggetti che poi vennero condannati perché altre fonti di prova vennero in appello – in processi che quindi non seguivo io, non seguiva la procura di Caltanissetta, ma casomai l’organo inquirente della procura generale di Caltanissetta – e le assoluzioni, anche queste sollecitate dal PM, si trasformarono poi in condanne. Ecco il perché oggi della revisione.
In questi anni si è letto di tutto, a proposito delle motivazioni del presunto depistaggio, vero o non vero questo non spetta a me dirlo. A proposito del movente e delle motivazioni del depistaggio si è detto di tutto. La prima cosa che si è detta e si è scritta da parte di tutta la stampa, di tutti gli orientamenti politici e culturali, è stata che coinvolgere falsamente Scarantino nell’inchiesta e pilotare poi il suo pentimento fosse stato finalizzato a tenere fuori i fratelli Graviano e il mandamento di Brancaccio dalla fase esecutiva del delitto. Questa ipotesi, contrabbandata ormai come una certezza quantomeno a livello mediatico, cozza con un dato obiettivo: Scarantino, nelle sue dichiarazioni – obiettivamente penso false, in gran parte – indicò subito i Graviano e i principali uomini dei Graviano, come Francesco Tagliavia e Lorenzo Tinnirello, come partecipi alla fase esecutiva della strage. Non è possibile, quindi, che il depistaggio cosiddetto Scarantino abbia avuto la finalità di tenere fuori i Graviano perché essi erano i titolari o i detentori principali di determinati rapporti di tipo politico.
Ancora, si è ipotizzato che arrestare Scarantino e poi costruire lo Scarantino collaboratore e pilotare le sue dichiarazioni possa essere stato finalizzato a escludere ogni possibile coinvolgimento di apparati deviati dei servizi nella preparazione ed esecuzione della strage. Anche questo dato cozza con un altro dato che vi esporrò.
Scarantino fu il primo a chiamare in correità, nella fase della preparazione della strage, Gaetano Scotto. Secondo le informazioni di molti collaboratori di giustizia, quelli ritenuti ora attendibili con sentenze passate definitive, Gaetano Scotto ha costituito per molti anni il principale punto di collegamento tra le cosche mafiose più sanguinarie di Palermo, quella dei Madonia di Resuttana e dei Galatolo dell’Acquasanta, e apparati deviati dei servizi. 
Recentemente anche uno dei degli avvocati che si è costituito parte civile nel cosiddetto «Borsellino-quater» ha affermato che il ruolo di Scotto come anello di collegamento tra mafia e servizi sia particolarmente evidente. Io sono assolutamente d’accordo.
L’indagine che partì dalle dichiarazioni di Scarantino coinvolgeva Scotto. Tant’è vero che Scotto fu condannato, non solo sulla base delle dichiarazioni di Scarantino, ma per concorso in strage in primo e secondo grado, confermato dalla Cassazione. Oggi, questi è tra i soggetti revisionati ed è tornato in libertà a Palermo.
Vorrei essere chiaro: con queste che sono annotazioni di fatto, non voglio difendere assolutamente le dichiarazioni di Scarantino, che sono state smentite inequivocabilmente da Spatuzza e dalle successive indagini. Si tratta, però, di capire qualcosa che è molto più difficile comprendere, a mio parere: come mai queste dichiarazioni false, che sono state fatte da un soggetto che non era stato, di fatto, coinvolto nella strage, in parte coincidono con quelle ritenute attendibilissime di Spatuzza?

Per esempio, nel coinvolgimento, durante la fase esecutiva della strage, del mandamento di Brancaccio, dei fratelli Graviano, di Francesco Tagliavia e di Lorenzo Tinnirello e nel ruolo attribuito a questi soggetti da Scarantino e da Spatuzza, c’è una sostanziale incredibile coincidenza, il che lascia spazio a ipotesi che i colleghi della procura di Caltanissetta dovranno vagliare legittimamente. Personalmente, si può ipotizzare che alcune informazioni vere siano arrivate a qualcuno che, per sfruttarle, ha commesso, se l’ha fatto, un errore gravissimo, mettendo in bocca a un soggetto che non sapeva nulla. Informazioni che chi le aveva ricevute riteneva attendibili.
Questa è un’ipotesi, ma c’è un dato di fatto.
Mi permetterete adesso di fare un discorso che vi può sembrare finalizzato a rispondere alle accuse che mi vengono fatte. In realtà, il mio discorso è finalizzato a un contributo di chiarezza che prescinde dalla mia figura e dal mio ruolo, che contano poco.
Signori commissari e signora presidente, Scarantino è un soggetto che viene sottoposto a custodia cautelare per concorso in strage con un’ordinanza del GIP di Caltanissetta il 26 settembre del 1992, quindi – attenzione alle date – le presunte indagini depistanti portano all’arresto di Scarantino il 26 settembre 1992 e vengono condotte dalle 16.59 del 19 luglio (un minuto dopo l’esplosione) fino al 26 settembre 1992.
Scarantino non è un soggetto che, dal nulla, si presenta ai magistrati e dice «sono stato autore della strage, arrestatemi». Le indagini che portarono all’arresto di Scarantino mossero da dichiarazioni e da indagini precedenti, quindi si tratta, per cercare di comprendere il contesto, di capire chi condusse e svolse quelle indagini e i motivi degli errori o dei possibili depistaggi volontari dal 19 luglio 1992 al 26 settembre 1992.
Vi dimostrerò più analiticamente, con le date e con i dati oggettivi, che crolla miseramente l’assunto di chi vuole, a tutti i costi – scusate, se parlo del mio lavoro – e per screditare il mio lavoro di oggi, coinvolgermi in vicende che non ho vissuto e di cui eventualmente altri sono stati protagonisti.
Quando vennero avviate le indagini, un minuto dopo la strage, io non avevo nemmeno le funzioni di magistrato ed ero – si chiamavano «uditori giudiziari» allora – un tirocinante presso la procura della Repubblica di Palermo.
Divenni sostituto procuratore a Caltanissetta alla fine di settembre del 1992, nei giorni in cui il GIP di Caltanissetta sottoponeva a custodia cautelare Scarantino.
Mi occupavo solo, essendo appena arrivato, di procedimenti ordinari (fino al dicembre del 1993). Solo il 9 dicembre del 1993 entrai a far parte della direzione distrettuale antimafia, con il compito esclusivo, che ho mantenuto fino al novembre del 1994, signor presidente, di inchieste e processi che riguardavano la mafia e la stidda di Gela.
Entrai a far parte, per la prima volta, del gruppo di magistrati che seguivano le indagini e i processi per le stragi solo nel novembre del 1994, quindi due anni e quattro mesi dopo la strage e due anni e due mesi dopo l’arresto di Scarantino, avvenuto sulla base di accuse di pentiti (Candura, Valenti, Andriotta) e di intercettazioni di pentiti, che io non avevo e non ho mai interrogato, nonché di intercettazioni telefoniche che io non ho avuto mai modo né di leggere né di ascoltare, all’epoca.
Io sono entrato a far parte del pool che si occupava delle stragi del 1992 sei mesi dopo l’inizio della collaborazione di Scarantino, quindi ben dopo i colloqui investigativi della Polizia, che solo nei mesi scorsi, dalle cronache processuali, ho appreso avevano anticipato e accompagnato quei primi interrogatori. Questa è la verità oggettiva.
Non mi sono, a nessun titolo, mai occupato del primo processo per la strage di via D’Amelio, in cui era imputato Scarantino.

 

Nel processo Borsellino-bis ho rappresentato l’accusa solo in dibattimento e, anche nell’udienza preliminare, i magistrati che rappresentavano l’accusa erano altri. L’unico troncone che ho seguito in ogni fase, come vi ho detto, è quello del Borsellino-ter.

Questi sono dati di fatto e mi dispiace che questi dati vengano sistematicamente ignorati.
Naturalmente io sono qui nella piena volontà di dare un contributo alla verità, quindi lo farò anche rispondendo a tutte le domande e le osservazioni che ciascuno dei membri della Commissione potrà e vorrà fare.
  Dalle cronache giornalistiche so che alcune questioni sono state già trattate. Mi permetto di anticipare alcuni dati su quelle questioni.
  Questione della lettera della dottoressa Boccassini che, nell’ottobre 1994, esprimeva al procuratore di Caltanissetta le proprie perplessità sull’attendibilità delle prime dichiarazioni di Scarantino.
  Dell’esistenza di questa lettera ho appreso – non ricordo se quattro o cinque o sei anni fa – nel momento in cui, svolgendo delle indagini a Palermo sulla cosiddetta «trattativa Stato- mafia», avevamo avviato un collegamento investigativo con Caltanissetta. Ho avuto modo di saperlo dai colleghi e di leggere poi il contenuto di quella lettera, tra il 2011 e il 2012. Nel momento in cui è stata redatta la lettera, io – ho controllato la data, che risale all’ottobre del 1994 – non ero nemmeno entrato a far parte del pool per le stragi.
  In più, come ho già detto in occasione della mia testimonianza al processo Borsellino-quater, io, giovane magistrato di allora e appena arrivato, non ho mai parlato di indagini sulle stragi o di altro tipo con la dottoressa Boccassini. Lei era forse, da un certo punto di vista, il più autorevole esponente del pool per le stragi ed io ero un magistrato che ancora non faceva nemmeno parte di quel pool. Non ho mai parlato di indagini con la Boccassini né la Boccassini ha mai parlato di Scarantino con me o avrebbe avuto modo e, soprattutto, il dovere di farlo. Io non ho mai partecipato a nessuna riunione della direzione distrettuale antimafia cui partecipasse la dottoressa Boccassini.
  All’epoca ero un giovane magistrato che, con un certo – penso sia comprensibile – timore reverenziale, salutava i colleghi più anziani. La Boccassini era molto gentile e mi salutava. Li vedevo in compagnia degli ufficiali di polizia giudiziaria più importanti e più autorevoli di allora.
Mi capitava spesso di trattenermi fino a tarda sera in ufficio, soprattutto quando ero di turno sugli affari ordinari, e vedevo spessissimo la dottoressa Boccassini con il dottor La Barbera. Posso dirvi che, mentre la dottoressa Boccassini rispondeva al mio saluto, il dottor La Barbera neanche mi salutava, per cui non ho mai parlato con il dottor La Barbera di vicende relative a indagini.
  Ora, se a settembre 1992 si arriva a un arresto in base a un’indagine errata o addirittura depistata, chiamare in causa il dottor Di Matteo, che inizia a occuparsene, a poco a poco, dal novembre 1994, è un fuor d’opera che, certe volte, temo sia volontariamente portato avanti, sfruttando anche la buona fede e la comprensibile sete di verità di molte persone. 
  So che è stata posta una questione, che ha sempre costituito un cavallo di battaglia di alcuni avvocati e di cui vi ricorderò alcune cose accertate dai giudici. Mi riferisco al cosiddetto «mancato tempestivo deposito», agli atti del processo Borsellino-bis, che ho seguito in fase dibattimentale e che mi si potrebbe imputare, dei confronti che, nel gennaio del 1995, appena entrato a far parte del pool, assieme ad altri colleghi disposi e feci effettuare tra Scarantino e altri tre collaboratori di giustizia: Salvatore Cancemi, Gioacchino La Barbera e Mario Santo Di Matteo.
  Intanto vorrei fare due premesse.
  Per il mancato tempestivo deposito di questi verbali siamo stati oggetto, all’epoca, di una denuncia penale da parte di alcuni avvocati alla procura della Repubblica di Catania. La vicenda si è chiusa con un’archiviazione: non sono mai stato né sentito né avvisato di essere sottoposto a indagini.
  Tuttavia, la premessa più importante è che – non voglio riferirmi soltanto alla vicenda formale – tutti quei confronti sono stati da noi depositati a disposizione dei difensori degli imputati nel processo Borsellino-bis e prodotti alla corte d’assise ben prima della conclusione dell’istruttoria dibattimentale del processo.
  Il processo si è concluso con la piena consapevolezza e la piena e legittima conoscenza di tutte le parti processuali, quindi di tutti i difensori e di tutti gli imputati, dell’esistenza e dei contenuti di quei confronti.
  Tanto è vero che oggetto del confronto era la partecipazione, assunta da Scarantino e negata dagli altri tre collaboratori, del Cancemi, del Di Matteo e di La Barbera a una riunione preparatoria della strage a casa di tale Calascibetta.
  Abbiamo depositato quei confronti ed eravamo talmente convinti, nella fase valutativa, che Scarantino su quel punto avesse mentito che, per il Calascibetta, che era accusato soltanto della partecipazione in questo segmento preparatorio, la riunione a casa sua, abbiamo chiesto l’assoluzione.
  Perché i verbali non sono stati depositati immediatamente, ma solo dopo alcuni mesi, senza pregiudicare alcun diritto di difesa? Per rispondere, bisogna entrare nello specifico di un dato: in quel momento, c’era la pendenza in dibattimento del cosiddetto «via d’Amelio-bis» e la pendenza in fase di indagine, presidente, di quello che poi sarebbe diventato il «via d’Amelio-ter». In quel momento, per il via D’Amelio-ter, erano indagati anche Cancemi e Di Matteo Mario Santo e avevamo dei motivi ben precisi per ritenere che anche loro fossero stati reticenti sulla strage di via D’Amelio.
  Salvatore Cancemi aveva negato, fino a quel momento, qualsiasi sua conoscenza sulla strage di via D’Amelio: aveva ammesso la sua partecipazione alla strage di Capaci, ma giurava e spergiurava di non sapere nulla della strage di via D’Amelio.
  Noi lo ritenevamo impossibile e ritenevamo Cancemi reticente sul punto della strage di via D’Amelio. Forse avevamo ragione, se è vero, com’è vero, che poi, solo a partire dalla seconda parte del 1996, Cancemi ammise la sua partecipazione alla strage di via D’Amelio: Cancemi riferì le circostanze di cui vi ho detto all’inizio sulla riunione a casa di Guddo e la citazione ripetuta di Riina delle persone di Berlusconi e Dell’Utri e disse di non avere parlato prima della strage di via D’Amelio perché erano troppo delicate le dichiarazioni che avrebbe dovuto fare.
  In un primo momento avevamo delle forti perplessità, che credo che continuino a essere tali, sulla reticenza anche dell’altro collaboratore che contraddiceva Scarantino, Mario Santo Di Matteo.
  Nel dicembre del 1993, poco dopo il rapimento del figlio del collaboratore di giustizia, ossia il sequestro del piccolo Di Matteo, su disposizione della procura di Caltanissetta, la DIA di Roma effettuò un’intercettazione del primo drammatico colloquio, successivo alla notizia del sequestro del figlio, tra Mario Santo Di Matteo e la moglie Francesca Castellese.
  Nel momento in cui Di Matteo, anche lui reo confesso della strage di Capaci, aveva detto che di via D’Amelio non sapeva nulla, ci fu una registrazione drammatica. I due coniugi si abbracciarono – era la prima volta che si vedevano dopo la notizia Pag. 9del sequestro del ragazzo – e la moglie Franca Castellese invocava il marito di non parlare della strage di via D’Amelio perché, in quella strage, c’era il coinvolgimento di quelli che la signora Castellese definiva «infiltrati della Polizia».
Il mancato iniziale deposito di quei confronti, che non ha pregiudicato per nulla i diritti di difesa degli imputati del processo Borsellino-bis, dipendeva dal fatto che, in relazione agli elementi di fatto che vi ho ricordato, pendeva un’indagine che poi sfocerà nel cosiddetto «via D’Amelio-ter», per cui noi, prima di depositarli, volevamo cercare di capire chi avesse detto la verità e chi non l’avesse fatto.
  Non appena siamo stati convinti che comunque la riunione a casa di Calascibetta non c’era stata, non solo abbiamo depositato e prodotto, ma lo abbiamo anche chiesto in dibattimento, un ulteriore confronto davanti alla corte, che è stato fatto tra i pentiti che si contraddicevano, e abbiamo pure chiesto l’assoluzione del soggetto che aveva ospitato…

  PRESIDENTE. Quanto tempo è passato tra le due fasi, quella in cui avete trattenuto i documenti per fare ulteriori accertamenti e il momento in cui, avendo fatto gli accertamenti, li avete depositati?

  ANTONINO DI MATTEO, sostituto procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo. Presidente, credo sarà passato un anno o, forse, qualche mese in più o in meno.
  Durante quell’anno, non c’è stata una tappa processuale perché c’era stato già il rinvio a giudizio dei sedici imputati del Borsellino-bis. Non c’era stata ancora la sentenza e non era ancora iniziata l’assunzione delle prove a favore della difesa, quindi non c’è stato alcun passaggio o alcun momento che abbia potuto in qualche modo pregiudicare il diritto di difesa degli imputati.
  Perché, quando tutti invocano e dicono che i PM dovrebbero chiedere scusa anche a quelli che sono stati condannati e che oggi sono stati revisionati, nessuno ricorda che, per una parte consistente di quei soggetti, i PM già allora avevano chiesto l’assoluzione?
  

Inoltre si è parlato – so che questo è stato un tema che ha occupato quantomeno le cronache giornalistiche – delle ritrattazioni di Scarantino, prima della sentenza del Borsellino-bis

In merito, vorrei fare un’affermazione. A me, nelle occasioni in cui l’ho interrogato, in fase d’indagine e in fase di dibattimento, Scarantino non ha mai minimamente fatto cenno al fatto di essersi inventato alcunché o di essere stato indotto da chicchessia a dire qualcosa.

Come ho già detto nella testimonianza a Caltanissetta, ho letto che lo stesso Scarantino, interrogato in dibattimento, ha detto che, siccome il dottor Di Matteo manteneva un atteggiamento assolutamente formale e distaccato, non gli ha mai detto nulla.
Addirittura Scarantino ha detto – l’ho dovuto smentire, apparentemente in danno mio, perché la verità deve essere la prima cosa – che lui non aveva mai nemmeno telefonato all’utenza in uso al dottor Di Matteo per lamentare i modi in cui veniva gestita la protezione.
L’ho smentito perché quanto detto non è vero: qualcuno aveva dato il numero di telefono dei sostituti procuratori a Scarantino. Ricordo benissimo che, in occasione di una cena fuori con mia moglie, ho ricevuto otto chiamate di seguito, che mi hanno fatto allarmare nel momento in cui ho riacceso il telefono e ho visto che c’erano otto chiamate nella segreteria telefonica, di questo soggetto che voleva tornare a Pianosa perché erano state disattese le promesse che riguardavano l’aspetto del posto di lavoro a lui…

PRESIDENTE. Lui era in una località protetta in quel momento?

ANTONINO DI MATTEO, sostituto procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo. Sì, lui era in una località protetta che ovviamente non sapevo quale fosse.
Erano state disattese le promesse che gli erano state fatte dagli organi di Polizia deputati alla protezione sua e dei suoi familiari circa la possibilità di trovare, a lui e ai suoi familiari, un posto di lavoro.
Scarantino, quindi, a me non ha mai detto nulla. Io non ho mai autorizzato né mai ho letto di un’autorizzazione di un magistrato per colloqui investigativi della Polizia con Scarantino.
Sono venuto recentemente a sapere, dalle cronache sul processo Borsellino-quater, che, addirittura prima dell’interrogatorio del 24 giugno 1994, quando io non ero nemmeno entrato a far parte del pool sulle stragi, erano stati autorizzati da altri magistrati colloqui investigativi con Scarantino, che credo siano stati svolti dal dottor La Barbera. Questo fatto è accaduto prima del primo interrogatorio e l’ho saputo dalle cronache processuali recenti.

  PRESIDENTE. E quanto dice non corrisponde al vero?

ANTONINO DI MATTEO, sostituto procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo. Non lo so. Penso che questo fatto corrisponda al vero.
Il dato è precedente al 24 giugno del 1994 e – lo ripeto – mi sono occupato delle indagini sulle stragi, quindi anche di quella sulla strage di via D’Amelio, solo a partire dal novembre 1994.
Personalmente, non ho mai autorizzato chicchessia ad avere un colloquio investigativo con Scarantino e nemmeno con altri collaboratori di giustizia.
Presidente, sui punti principali e sulle date principali, questa è la verità.

Sulla ritrattazione di Scarantino, ricordo bene – ho seguito il Borsellino-bis nella fase dibattimentale – che Scarantino, nell’ultima fase, chiese e ottenne di essere sentito di nuovo.

La corte si trasferì, con i pubblici ministeri e difensori, nell’aula bunker di Como e Scarantino affermò di essersi inventato tutto, quindi ritrattò la sua versione.
In quella circostanza, Scarantino accusò i magistrati e anche me – ora, Scarantino, ritenuto credibile sulle vicende, afferma che a me non aveva mai detto niente – di averlo costretto a dire quelle cose.
Sulla base di quest’aspetto, ovviamente non interrogammo più Scarantino, anche perché siamo stati indagati ancora un’altra volta dalla procura di Catania, o almeno lo immagino, considerando che io non ho mai avuto contezza di una mia iscrizione nel registro delle notizie di reato e ho solo letto sulla stampa di una richiesta di archiviazione.
Noi dovevamo, in fase di requisitoria, fare le nostre valutazioni sulla ritrattazione di Scarantino. Sulla collaborazione le avevamo già fatte: abbiamo detto che Scarantino era attendibile molto parzialmente e che lo non avremmo mai utilizzato per chiedere una condanna, se non ci fossero stati altri autonomi elementi di prova, come, infatti, abbiamo fatto.

Riguardo alla ritrattazione, oltre a noi, la corte, sulla base, presidente, di elementi oggettivi, ha ritenuto che comunque quella ritrattazione, veritiera o non veritiera che fosse sui contenuti, fosse stata illecitamente indotta.

Noi ne avevamo la prova, attraverso le dichiarazioni di un sacerdote, tale don Neri, di una parrocchia in provincia di Modena, che, nei giorni precedenti a quella ritrattazione clamorosa in dibattimento, Scarantino era stato avvicinato da tutta una serie di familiari suoi e di altri imputati nella località protetta dove viveva, a quanto pare in Emilia-Romagna.
Guarda caso, intercettando l’allora latitante Gaetano Scotto, soggetto legato ai servizi…

Poi, se ci sarà modo di dire che nessuno voleva intercettare, io imposi l’intercettazione – non sua perché non sapevamo dove fosse, ma dei familiari – ambientale a casa della moglie. Dall’ambientale a casa della moglie D’Amore Cosima (le ambientali sono depositate agli atti) ci accorgemmo che alcuni avvocati, oggi le parti civili, signor presidente… Alcuni di questi sono parti civili nel processo Borsellino-quater e sono quelli che, a mio parere, pensano che tutti i misteri siano legati esclusivamente alla vicenda iniziale Scarantino. Dunque, alcuni avvocati avevano avviato una raccolta di soldi, avevano chiesto soldi pure al latitante e alla moglie del latitante per farli pervenire a Scarantino per ritrattare.
Ci sono le parole di D’Amore Cosima, che hanno fatto scrivere ai giudici della corte d’assise, non soltanto ai pubblici ministeri, a pagina 249 della motivazione della sentenza del via D’Amelio-bis, dopo che si era parlato dell’avvicinamento dei familiari di cui aveva testimoniato Don Neri, quel sacerdote modenese: «Una conferma indiretta di una simile indecente operazione si trae, come si è detto, dall’anomalo comportamento che questa corte ha potuto verificare con riferimento al disposto esame di Basile Rosalia, moglie di Scarantino Vincenzo, ma soprattutto si trae dalle intercettazioni e dai pedinamenti compiuti nei confronti di D’Amore Cosima, moglie dell’imputato Scotto Gaetano, intercettazioni e pedinamenti dai quali emerge in modo assolutamente inequivoco l’impegno di carattere economico richiesto ai familiari di un imputato latitante per offrire a Scarantino Vincenzo le garanzie anche di assistenza processuale da lui richieste, nonché, a seguito di apposito servizio di osservazione, un anomalo intervento nella vicenda al di fuori dell’ordinario ambito processuale da parte del difensore di Scotto Gaetano, avvocato Giuseppe Scozzola».
Oggi Scotto Gaetano è stato revisionato, patrocinato dall’avvocato Scozzola. Credo che abbia chiesto i danni che la legge prevede vengano liquidati.
Questi sono i fatti. Se qualcuno ha depistato via D’Amelio, andatelo a cercare tra chi ha condotto le indagini che hanno portato all’arresto di Scarantino. Se qualcuno poi in dibattimento ha creduto a Scarantino, al di là delle valutazioni che devono essere fatte, ricordatevi che i pubblici ministeri (parlo per me) che vengono citati in causa – io ho seguito tutto il ter e il bis solo in dibattimento – per metà degli accusati da Scarantino hanno chiesto l’assoluzione e per l’altra metà hanno chiesto la condanna non sulla base delle dichiarazioni di Scarantino, ma sulla base di altro.
Se qualcuno si lamenta del fatto che sette posizioni siano state revisionate, bisogna ricordare che la stessa corte di primo grado di quelle sette persone ne aveva assolte sei. Questa è la verità. Questi sono i dati oggettivi su quelle vicende, che qualcuno vuole falsamente e strumentalmente utilizzare nei miei confronti.
Non voglio fare dietrologia. So benissimo che c’è anche una gran parte di persone, di giornalisti, di politici che aspira alla verità e che pensa che questa sia la questione centrale nell’accertamento della ricerca della verità su via D’Amelio. Tuttavia, sarò dietrologico, ma ho motivo di temere che, invece, ci sia qualcuno che vuole azzerare, delegittimare, buttare al vento tutto quello che si è fatto (i ventisei ergastoli definitivi).
Temo che ci sia qualcuno che intende dire che su via d’Amelio non sappiamo niente, buttarla in questa prospettiva per non andare avanti e abbattere anche le parti solide dell’impianto probatorio per non ripartire mai più, presidente.
Invece, se me lo consentite per dieci minuti, ci sono alcuni spunti delle parti solide che quei processi e quelle indagini, soprattutto il via D’Amelio-ter, hanno iniziato a tracciare che oggi meriterebbero l’approfondimento e su cui oggi si dovrebbe…

  PRESIDENTE. Ce li dice?

ANTONINO DI MATTEO, sostituto procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo. …appuntare l’attenzione non solo della magistratura e degli organi investigativi, ma – questa è la mia opinione – anche della politica, della Commissione parlamentare antimafia e dell’opinione pubblica in generale.

  PRESIDENTE. Per esempio?

ANTONINO DI MATTEO, sostituto procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo. Signor presidente, uno dei principali protagonisti della stagione delle stragi del 1992, Mario Santo Di Matteo, nel momento drammatico del primo colloquio con la moglie dopo il rapimento del figlio, viene in maniera disperata pregato dalla moglie di non parlare della strage di via D’Amelio, perché lì ci sono infiltrati della Polizia.
Nell’ambito delle indagini sul via D’Amelio-ter ho interrogato Mario Santo Di Matteo e la moglie. Li ho posti a confronto e loro hanno sostanzialmente negato la valenza di quelle intercettazioni, che però sono lì e pesano come un macigno.
Signor presidente, così come avevo fatto già a Caltanissetta, per me è un momento liberatorio poter dire che questi venticinque anni proprio persi non sono stati e che in questi anni qualcuno ha non solo rischiato – rischiare la pelle è proprio di tutti i magistrati – ma si è anche esposto in una maniera particolare per queste indagini. Pertanto, leggere di venticinque anni di insabbiamenti e di queste cose fa male. Fa molto male, ma non ha alcuna importanza.
C’è uno spunto, per esempio, che è stato sempre trascurato. Il giorno dopo la strage di via D’Amelio un ufficiale molto stimato del ROS dei Carabinieri, l’allora capitano Sinico, si presentò in procura a Palermo e ad alcuni magistrati – se non ricordo male, Antonio Ingroia, ma credo anche un altro magistrato, di cui in questo momento non ricordo il nome – disse di aver saputo che nel momento immediatamente successivo all’esplosione in via D’Amelio era stato visto il dottor Contrada allontanarsi dal teatro della strage. Adesso non ricordo se disse anche con un’agenda in mano. Questo all’indomani della strage.
  Presidente, il collega Ingroia riferì immediatamente a verbale questi fatti a chi conduceva le indagini all’epoca. La dottoressa Boccassini, in particolare, prese a verbale il dottor Ingroia. Io questo lo leggo poi quando, nel 1995, comincio a sfogliare le carte delle indagini precedenti.
  Sinico era stato chiamato dalla dottoressa Boccassini e, alla domanda «Chi è la persona che le ha detto questa cosa?», aveva risposto: «Dottoressa, siccome si tratta di un mio amico fraterno e non lo voglio esporre, io non le dico chi è questa persona». Dal 1992 fino a quando il giovane pubblico ministero, nel 1995 mi pare, prende queste carte e legge questo verbale, quest’affermazione di Sinico bloccò l’indagine sul punto.
  Io lessi questa cosa, andai dal procuratore dell’epoca e dissi: «Questo ufficiale non può invocare il diritto a non rivelare la fonte della sua informazione, perché non ha nemmeno detto “Si tratta di un mio confidente”, quindi non può invocare la possibilità del segreto dell’identità della fonte. Ha detto: “Si tratta di un mio amico”. È una giustificazione che non sta né in cielo, né in terra. È stato reticente».
  Lo richiamai. Questo ufficiale, Sinico, che tra l’altro era stato indicato, poco prima della strage di via D’Amelio, dal confidente D’Anna come possibile oggetto di un attentato assieme al dottor Borsellino, era un ufficiale particolarmente efficace ed esposto nella lotta alla criminalità.
  Mi disse testualmente, a verbale: «Pubblico ministero, lei ha ragione e ha coraggio, però io mi faccio incriminare. Non si tratta di una mia fonte confidenziale, ma di un mio amico e io non rivelo il nome di chi ha visto o ha saputo che Contrada era in via D’Amelio».
  Io lo iscrissi nel registro degli indagati per false informazioni al PM. Quando lo stavo per rinviare a giudizio, si presentò spontaneamente. Mi ricordo che era un sabato pomeriggio. Mi trovò per caso in procura, perché di solito il sabato pomeriggio me ne stavo a casa, e mi disse: «Ho deciso di fare il nome».
Siccome nel frattempo altri ufficiali dei Carabinieri avevano detto di aver saputo da Sinico la stessa cosa, io avevo messo a confronto gli ufficiali dei Carabinieri. In una prima fase Sinico aveva detto a Canale: «No, tu ti stai inventando tutto». Poi venne e disse: «Guardi che Canale non si è inventato niente.
Il soggetto che mi ha detto di aver saputo nell’immediatezza che Contrada era lì era un funzionario di Polizia, dottor Di Legami», il quale prima era un sottufficiale del ROS, poi aveva vinto il concorso in Polizia ed era passato alla Squadra mobile. «Mi ha detto che la stessa sera del 19 luglio alla Squadra mobile alcuni agenti di Polizia che erano sopraggiunti per primi sul luogo della strage avevano visto Contrada in via D’Amelio. Avevano preparato una relazione di servizio che attestasse questa circostanza e gli era stato intimato di non presentarla, anzi di distruggerla».
  A fronte di questo, quindi, da una parte, Sinico dice: «È stato il mio amico fraterno, dottor Di Legami. Ve lo può confermare Pag. 13anche un altro ufficiale del ROS, tale tenente Del Sole, che era con me quando lui mi disse questa cosa».
  Io disposi dei confronti, presidente, tra ufficiali dei Carabinieri e stimati – tutti stimati, da una parte e dall’altra – funzionari di Polizia. Uno diceva «Tu mi hai detto che c’era Contrada», l’altro, il dottor Di Legami, ribatteva (si davano del tu perché erano amici fraterni): «Tu stai dicendo una bugia e io so perché la stai dicendo». Io l’invitavo e dicevo: «Lo dica perché avrebbe dovuto l’ufficiale dei Carabinieri…»
  Si trattò di un contrasto su una circostanza che non è proprio di poco momento, la presenza di Contrada o meno in via D’Amelio al momento della strage. Noi avevamo, da una parte, due ufficiali dei Carabinieri e, dall’altra parte, un funzionario della Polizia di Stato che dicevano il contrario, tanto che, nel momento in cui io poi venni trasferito a Palermo e, rispetto a questa ipotesi, non si sapeva bene chi avesse detto la verità, scelsi comunque di esercitare l’azione penale.
  Si è tenuto un processo, signor presidente, che è passato completamente sotto silenzio. Probabilmente anche voi, che siete ed eravate informati, non ne avete avuto notizia, all’epoca. Si è tenuto un processo per false informazioni al pubblico ministero nei confronti del dottor Di Legami (che nel frattempo dalla Polizia di Stato venne destinato a un incarico internazionale a L’Aja) che si è concluso con un’assoluzione. Però, il fatto è che, se non ha mentito Di Legami, allora avrebbero mentito gli ufficiali del ROS.
  Questi sono tutti spunti che ci sono in quelle indagini.
  Ancora, presidente, c’è Salvatore Cancemi. Ecco quali sono i tanti spunti. Dal 1993 al 1996, nel momento in cui – credo unico tra i collaboratori di giustizia all’epoca – era sotto la protezione diretta, materialmente custodito, presso una caserma del ROS dei Carabinieri… Quando facevamo le citazioni per interrogarlo, non le facevamo tramite il Servizio centrale di protezione, ma il ROS dei Carabinieri, non di sua spontanea iniziativa – bisogna dire le cose come stanno – aveva ricevuto personalmente dai procuratori di Caltanissetta Tinebra e di Palermo Caselli l’incarico di custodire materialmente Cancemi.
  Cancemi viveva al ROS. Dal 1993 al 1996 dice di non sapere nulla della strage di via D’Amelio. Dopodiché, nel 1996 ci chiama e ci dice che aveva partecipato alla strage e, la mattina, ai pedinamenti degli spostamenti del dottor Borsellino. Ci dice anche, in quelle quattro udienze in cui io lo interrogavo… Lui aveva sempre detto che Raffaele Ganci, un altro componente della cupola, gli aveva riferito che Riina aveva parlato con persone importanti e che aveva le spalle coperte da persone importanti.
  Continuo a chiedere quella cosa e lui risponde, per la prima volta, dicendo: «Ricordo una riunione a casa di Girolamo Guddo, nel giugno del 1992, tra Capaci e via D’Amelio, quando Riina ci disse: “Adesso dobbiamo mettere mano – così si esprimono – all’eliminazione del dottor Borsellino”». Qualcuno degli esponenti chiese: «Perché in questo momento?».
  Vi ricorderete tutti che, dopo la prima iniziale reazione che portò al decreto-legge 8 giugno del 1992, con l’introduzione del 41-bis, in Parlamento stava maturando chiaramente, e se ne aveva conoscenza da parte dei giornali, una maggioranza contraria alla conversione in legge di quel decreto istitutivo del 41-bis.
  Qualcuno a Riina fece notare che fare un’altra strage a ridosso avrebbe comportato delle conseguenze negative, con l’espressione plasticamente raccontata da due collaboratori di giustizia che c’erano alla riunione, Cancemi e Brusca, che Ganci Raffaele utilizzò nei confronti di Riina, dicendo: «Ma che dobbiamo fare, la guerra allo Stato?»
  Riina disse: «La responsabilità è mia. Si deve fare ora. Sarà un bene per cosa nostra». Secondo Cancemi, in quel momento avrebbe detto: «Ora e in futuro noi dobbiamo sempre appoggiare Berlusconi e Dell’Utri. Dobbiamo fare riferimento a queste persone. Cosa nostra ne avrà dei benefici».
  Signor presidente, mi permetto semplicemente di dire questo a proposito dell’insabbiamento, della procura para-massonica e via discorrendo. Eravamo due giovani  magistrati in particolare all’epoca, io e il dottor Tescaroli, che con quelle dichiarazioni abbiamo chiesto, ottenuto e sostenuto – non siamo stati i soli, perché alcuni magistrati ci appoggiarono – davanti al procuratore capo, dottor Tinebra, che… Adesso, purtroppo, non può confermare, perché è morto. Mi dispiace citare certi particolari, ma è storia, Venne alla riunione con il quotidiano Il Giornale, che in prima pagina titolava «Le balle di Cancemi».
  Noi pretendemmo che venissero iscritti per concorso in strage Berlusconi e Dell’Utri, i quali vennero iscritti con i nomi di copertura, a tutela del segreto, che infatti resse per moltissimo tempo, non mi ricordo se Alfa e Beta o Alfa e Omega. Facemmo delle indagini e delle deleghe di indagini che venivano firmate esclusivamente dai due giovani magistrati della procura, Di Matteo e Tescaroli.
  Con riguardo agli spunti, non voglio… anche se ho sempre la tentazione di evidenziare le cose che emergono e che riguardano la competenza soprattutto di Caltanissetta e Firenze. Con riguardo ai mandanti esterni, prima di passare all’argomento credo più importante, ricorderò sempre il dato che poi è stato ripetuto processualmente anche da un collaboratore di giustizia più recente, Vito Galatolo. Si tratta di quel soggetto, appartenente a una famiglia stragista, che scrisse, nel novembre del 2014, chiedendo di avere un colloquio con me. Io ormai ero alla procura di Palermo.
  Come è poi diventato noto a questa Commissione, che si è occupata tempestivamente e molto approfonditamente del caso, questo soggetto, quando fu al cospetto mio e dell’ufficiale di Polizia giudiziaria che mi accompagnava per verbalizzare, non volle verbalizzare niente, ma disse, in maniera molto agitata, che dovevo stare attento, perché l’attentato nei miei confronti era già pronto nei minimi dettagli. Raccontò di aver acquistato e visto l’esplosivo destinato a quell’attentato e, alla mia sommessa domanda «Scusi, ma perché?», fece un gesto particolare.
  C’era in quell’auletta della sezione 41-bis del carcere di Parma la fotografia, molto nota, che si trova in molti uffici pubblici, di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Era molto agitato e disse: «La sua situazione è come quella – mi disse, indicando Giovanni Falcone – non come quello, ma come l’altro. A noi com’era avvenuto per l’altro ce l’hanno chiesto. Io ero giovane a quell’epoca, ma sono figlio di mio padre e queste cose le ho sapute».
Io poi, ovviamente, non mi sono mai più potuto occupare di interrogare Vito Galatolo. Penso che altri l’avranno fatto ma, signor presidente, gli spunti – lei mi chiedeva di dirli – sono tanti. Voglio riferirvi l’ultimo, perché non voglio veramente sostituirmi ai colleghi e a voi nell’approfondimento.
Per anni, soprattutto da quando si è pentito Spatuzza, noi abbiamo saputo che il principale protagonista intanto della fase esecutiva della strage di via D’Amelio è stato Giuseppe Graviano.
Se mi consentite, non l’abbiamo saputo solo da Spatuzza, ma l’abbiamo saputo dalle indagini già all’epoca da me condotte che, per esempio, accertarono che Giovanbattista Ferrante, l’uomo che era incaricato di pedinare il dottor Borsellino, vide transitare il convoglio delle macchine in via Belgio alle 16.52. Per dire che stava arrivando dalla madre, dove sapevano che doveva arrivare, chiamò un telefono che era nella disponibilità di Cristoforo Cannella, più stretto uomo di fiducia di Giuseppe Graviano.
Quindi, che Giuseppe Graviano fosse nella fase esecutiva e fosse il principale attore di quella fase già lo sapevamo prima di Spatuzza. L’abbiamo saputo ancora meglio con Spatuzza, ma sappiamo anche che Giuseppe Graviano – lo sappiamo da sentenza definitiva – è stato il principale protagonista degli attentati a Roma, Firenze e Milano del 1993.
Oggi sappiamo – noi lo sappiamo da un po’ più di tempo, grazie alla collaborazione che abbiamo sempre avuto con la procura di Reggio Calabria – che Giuseppe Graviano è stato il principale protagonista dell’accordo con la ’ndrangheta che portò, nei primi mesi del 1994, il 18 gennaio, al duplice omicidio dei due appuntati dei Carabinieri Pag. 15 a Scilla, Fava e Garofalo, e ad altri attentati, per fortuna falliti, nei confronti dei Carabinieri, sempre in territorio calabrese.
Soprattutto sappiamo che Giuseppe Graviano è stato il principale protagonista del fallito attentato all’Olimpico del 23 gennaio 1994. Il 27 gennaio, assieme al fratello Filippo, viene arrestato a Milano. Quell’attentato – questo lo sapete meglio di me – è uno dei grandi misteri, in merito non tanto a perché non sia riuscito il 23 gennaio, quanto a perché non sia stato mai più tentato e ripetuto, io dico per fortuna, ma qualcuno… Ci dovremmo chiedere il perché.
Quando Spatuzza si pentì, fecero scalpore le dichiarazioni sull’incontro al bar Doney, qui a Roma, in via Veneto, incontro che riusciamo a collocare investigativamente proprio pochi giorni prima del 23 gennaio.
Spatuzza dice: «Graviano, l’attentato lo dobbiamo fare lo stesso. I calabresi si sono mossi. Dobbiamo dare quest’ultimo colpo. Lo dobbiamo fare lo stesso, tanto ormai comunque ci siamo messi il Paese nelle mani». Avrebbe fatto i nomi di Berlusconi e Dell’Utri come i soggetti con i quali erano stati stipulati quegli accordi. All’epoca si disse e si scrisse abbondantemente «Sì, ma sono delle dichiarazioni de relato. Comunque Spatuzza può essere attendibile, ma dice di avere saputo queste cose da Graviano».
Oggi, con la nostra attività alla procura di Palermo, con un anno di intercettazioni ambientali dei colloqui tra Giuseppe Graviano e il suo compagno di socialità, c’è la viva voce di Graviano Giuseppe, cioè di quello che era ritenuto il perno di tutte queste vicende, che, quando parla del 1992-93 e delle stragi, parla di cortesie fatte e di contatti politici (si capisce in maniera assolutamente chiara con Berlusconi).
Presidente, mi auguro di sbagliare, rispetto a questa escalation di elementi di prova sul punto, ma temo l’indifferenza, la minimizzazione, lo svilimento ingiustificato della valenza probatoria anche di queste dichiarazioni di Graviano attraverso quella che è, a mio parere, ma questo verrà poi discusso nei processi, la discutibilissima affermazione che è stata prospettata da alcuni difensori, ma fatta propria dalla maggior parte dei giornali, che Graviano sapeva di essere intercettato. A noi risulta il contrario. Cercheremo di convincere la corte, per quanto di nostra competenza, del contrario.
  Vorrei anche dire un’altra cosa, scusate se faccio una considerazione: questo non è un dato di fatto. Ammesso e non concesso che sapesse di essere intercettato, il fatto che si riferisse a quelle vicende e a quelle persone in relazione a quel periodo delle stragi, in ogni caso, in un senso o nell’altro, un significato dovrà pure avere.
  Presidente, sono veramente tanti gli spunti che dovrebbero ancora essere approfonditi. Molti spunti sono stati il frutto del lavoro, non soltanto mio, per carità, ma di magistrati tra i quali ci sono stato io. Tutto viene concentrato sulla vicenda Scarantino. Si vuole fare credere che tutto il lavoro fatto finora da decine di magistrati non sia servito a nulla. Io temo che questo sia controproducente all’accertamento della verità.
  Spero che questa mia audizione, finora e per quello che voi mi vorrete chiedere, possa servire anche a stimolare quello sforzo di prosecuzione e completamento del percorso di verità sulle stragi che oggi – lo affermo con molta amarezza, ma con piena consapevolezza e senza enfatizzazione – è rimasto, nel disinteresse generalizzato, sulle spalle di pochi magistrati, pochi investigatori e pochi esponenti della politica.
  Vi ringrazio per l’attenzione che mi avete riservato.

  PRESIDENTE. Grazie a lei, procuratore. Consideriamo molto importante tutto quello che ci ha detto e sicuramente non cadranno nel vuoto gli spunti che ci ha offerto. Tuttavia, forse già da ora, per il poco tempo che ci rimane…
  Credo che per le 16 sarà necessario interrompere i nostri lavori. Magari ci potremo aggiornare, perché le domande sono molte. Ho due iscritti, ma credo che, se apro le iscrizioni… Iscrivetevi tutti.
  Prima di darci appuntamento per la prossima volta, sento la necessità di mettere Pag. 16 a punto almeno due questioni, rimandando poi alla fase successiva l’approfondimento. La prima è che vorrei che, almeno in questa sede, si sgombrasse il campo da un fatto: per noi Scarantino non è un pretesto, procuratore. Stabilire perché ci sia stato questo che, a nostro avviso, appare un vero e proprio depistaggio significa andare all’origine della vicenda, non cercare di spostare l’attenzione sulla questione principale della strage di via D’Amelio.
  Anch’io sono convinta, come lei, che questi venticinque anni non siano totalmente persi e che non siano stati totalmente inutili, non solo per il numero delle condanne alle quali lei ha fatto riferimento, ma anche perché in questi venticinque anni si è scoperto che Scarantino stava raccontando… che era un collaboratore che aveva come finalità quella di sviare, in realtà, le indagini e la ricerca della verità.
  Si è arrivati ad accertamenti molto importanti. A tutt’oggi ci sono ancora molti interrogativi e noi vorremmo fare la nostra piccola parte, in coda del nostro lavoro, negli ultimi mesi, per offrire il nostro contributo, quantomeno, se non riusciamo a trovare le risposte, come io dico sempre, per lasciare le domande giuste per il futuro, quelle che a noi sembrano giuste.
  Io vorrei che intanto si sgombrasse il campo da questo versante: Scarantino per noi non è un pretesto. Noi siamo ancora alla ricerca di capire perché sia successo questo e chi ci fosse dietro questo depistaggio. Questo è il punto. Per noi questo è molto importante.
  Tra l’altro, come altro aspetto, non posso pensare che le domande, che magari possono anche averla in qualche modo personalmente ferita, ma che vengono da una Fiammetta Borsellino siano finalizzate a screditare il suo lavoro di oggi piuttosto che ad accertare la verità. Anche su questo punto ci terrei a ridimensionare…
  Noi l’abbiamo ascoltata con molta attenzione e ci teniamo molto. Abbiamo anche accolto subito la sua richiesta, perché l’ultima cosa che vogliamo fare … Lei ha sentito la nostra Commissione vicina fin dall’inizio di questo percorso.
  La prima uscita pubblica l’abbiamo fatta a Palermo, in occasione della conoscenza delle minacce dalle intercettazioni di Riina, proprio per esprimerle la nostra solidarietà. Era il 2013. Noi seguiamo e abbiamo sempre seguito il suo lavoro con grande rispetto, procuratore, al punto tale che forse non abbiamo iniziato un determinato percorso in questa Commissione proprio perché non volevamo interferire con il processo della trattativa.
  Ora siamo in una fase più matura. Sono nati nuovi interrogativi, ci sono nuove possibilità e noi vogliamo fare la nostra piccola parte. Ci muoviamo con questo intento.
  Io ci terrei intanto a dire questo: proprio per questo motivo mi interesserebbe capire se lei ha qualche elemento in più per fare questa affermazione, ossia che l’accanirsi su Scarantino sia un modo per deviare da altre ricerche. Perché ci sarebbe questa separazione? Mentre per noi stabilire la verità su Scarantino significa mettersi anche sull’eventuale pista di mandanti esterni all’uccisione di Borsellino, per lei, invece, l’accanimento su Scarantino sarebbe un modo per sviare questa ricerca. Questo per me è molto importante, in via di principio.
  Poi c’è un dettaglio. Non posso pensare che persone che stimiamo, come lei e il procuratore Boccassini, siano su questo punto l’una contro l’altra. C’è un passaggio – io qui le devo chiedere questa cosa – nella deposizione fatta al procuratore Lari da parte del procuratore Boccassini, la quale non aveva quest’indagine – era a Caltanissetta su Capaci, non su via D’Amelio – in cui si segnala con documenti e dati di fatto che Scarantino non è attendibile. Sostanzialmente, la sua lettera, il suo documento viene ignorato dal procuratore Tinebra, che noi non possiamo sentire. Nella deposizione che fa il procuratore Lari, alla domanda «Le viene esibita una nota del 12 ottobre 1994 che lei trasmise con nota del 19 ottobre 1994 al procuratore di Palermo. Si tratta di nota non sottoscritta. Ebbe a depositarla alla procura di Caltanissetta?» lui risponde: «Si tratta di appunti di lavoro, come risulta chiaramente, di cui riconosco la paternità, anche se nella copiaesibitami, trasmessa a codesta procura dalla procura di Palermo, mancano le firme di sottoscrizione mia e della collega Saieva. Tale nota fu fatta per iscritto in previsione di una riunione della DDA, in modo che i colleghi di Caltanissetta Tinebra, Di Matteo, Anna Palma e tutti gli altri che si occupavano delle stragi avessero la possibilità di conoscere le nostre perplessità. Tali perplessità erano scaturite dalla lettura dei verbali di Scarantino. Preciso che avevamo consegnato la nota in originale al procuratore Tinebra e ai colleghi sopra menzionati. Ignoro se il dottor Tinebra abbia disposto la conservazione della nota agli atti del protocollo riservato all’ufficio. Prendo atto, a tal proposito, che la Signoria Vostra mi comunica che di tale nota non si è trovata sinora alcuna traccia presso gli archivi della procura di Caltanissetta e non so, a tal proposito, fornire alcuna spiegazione».
  Questo è un passaggio fondamentale. Perché le dico questo? Perché, fermo restando lo scadenzario che lei ci ha fornito del suo coinvolgimento nella vicenda, la domanda, al di là che lei sapesse o non sapesse, è: a oggi considera un errore giudiziario la vicenda Scarantino o no? Al di là della buona fede (anche dei morti), ad oggi considera un errore giudiziario o no la vicenda Scarantino?

  ANTONINO DI MATTEO, sostituto procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo. Posso rispondere?

  PRESIDENTE. Sì, poi però ci sono le domande…

  FRANCO MIRABELLI. Presidente, io lascerei le risposte e le domande alla prossima volta.

  ANTONINO DI MATTEO, sostituto procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo. A queste due, però, vorrei anche brevemente…

  PRESIDENTE. Sì, gliele ho fatte apposta.

  ANTONINO DI MATTEO, sostituto procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo. Vorrei cominciare a rispondere ora.

  PRESIDENTE. Sì, lo faccia.

  ANTONINO DI MATTEO, sostituto procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo. Altrimenti rimangono dei dati…
  Presidente, mi sono, in alcuni punti, evidentemente spiegato male. Io non penso assolutamente che per la Commissione la vicenda Scarantino possa minimamente – non posso pensare questo – costituire un pretesto per non indagare in altre direzioni. Per questo motivo, quando, dopo le vostre audizioni del 18 e 19 luglio a Palermo, si è scatenata tutta quella campagna mediatica, non ho replicato con un’intervista. Ho rifiutato decine di interviste. Ho chiesto di rappresentare dei dati di fatto perché devo trovare una sede, e per me la sede istituzionale più autorevole è questa, in cui poter rappresentare quello che avevo già rappresentato in Aula a Caltanissetta. In quella circostanza evidentemente non erano state riprese da molti quelle mie dichiarazioni.
  Quindi, assolutamente non ho detto questo… non intendevo dire questo.

Come avrete notato, io non ho mai citato, né in interviste, né ora, le dichiarazioni di Fiammetta Borsellino. Io dico, e l’avevo detto anche prima, che – questo è il mio parere – non tutti quelli che dicono che… Innanzitutto anche per me è assolutamente importante che si accerti se nella fase iniziale sia intervenuto un depistaggio, perché ciò può essere indicativo di mandanti o complicità esterne. È chiaro.
  Quello che io intendo dire è che ci sono alcuni… Adesso lo posso dire, tanto sono mie opinioni. C’è una parte della stampa, quella che da sempre fa riferimento – non so – a Giuliano Ferrara, al Foglio, la quale viene molto spesso ripresa da organi importanti di informazione in Sicilia, che concentra tutto ed esclusivamente tutto quello che c’è ancora da approfondire sulla strage di via D’Amelio sulla fase iniziale di Scarantino. Tutto questo, a mio parere, ho il sospetto che tragga origine dal fatto che si vuole azzerare tutto, che si vuole dimostrare che nulla è stato fatto, per dire che nulla ancora si può fare. Questa è la mia considerazione.
  Scarantino si è scoperto essere un collaboratore inattendibile, o poco attendibile. Presidente, su questo punto la mia precisazione è questa: nel via D’Amelio-ter – abbiamo fatto il processo tra il 1997 e il 1999 – noi non l’abbiamo nemmeno citato. Nel via D’Amelio-bis l’istruttoria dibattimentale era tra… Io parlo per i processi… Scarantino è stato sfruttato minimamente nelle sue dichiarazioni. Noi stessi abbiamo parlato di inquinamento delle sue dichiarazioni. Abbiamo chiesto l’assoluzione di parte importante delle persone accusate da Scarantino e di tutti quelli che erano accusati solo da Scarantino. Anche questo, io ho notato, si vuole fare…
  I processi sulla strage di via D’Amelio…

  PRESIDENTE. Lei dice che non è stato così importante, che non è stato così pesante il suo depistaggio, il suo tentativo di depistaggio.

  ANTONINO DI MATTEO, sostituto procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo. È stato pesante nella prima fase, nel primo processo, e solo in parte nel secondo, ma poi è stato completamente disatteso dallo sviluppo delle indagini, perché poi si sono pentiti Cancemi, Ferrante e la stessa procura di Caltanissetta dell’epoca – ripeto – non l’ha nemmeno messo nella lista dei testimoni.

  PRESIDENTE. Erano passati tanti anni, nel frattempo, però, procuratore. Il merito di quello…

  ANTONINO DI MATTEO, sostituto procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo. Presidente, il processo via D’Amelio-bis e il processo via D’Amelio-ter vengono celebrati nel 1996-97. Vi invito sempre, presidente, con la grande stima che ho nei vostri confronti – poi esprimerò anche la mia opinione, perché lei me l’ha chiesta e, quindi, esprimerò la mia opinione – a non guardare solo alle dichiarazioni di Scarantino.
  Se Scarantino è il pupo che qualcuno ha vestito per fare le dichiarazioni, bisogna vedere come si è arrivati a individuarlo. Scarantino viene arrestato il 26 settembre del 1992. Si deve essere precisi in queste cose. Il 26 settembre del 1992 a occuparsi delle stragi in generale erano altri magistrati, tra i quali, ma questa non è un’accusa…

  PRESIDENTE(fuori microfono). Chi erano?

  ANTONINO DI MATTEO, sostituto procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo. Per quello che poi ho letto erano la dottoressa Boccassini, il dottor Cardella, il dottor Tinebra in prima persona. Credo che già fossero arrivati… che fosse arrivato anche…

  PRESIDENTE. La Boccassini dichiara ripetutamente di essere lì per Capaci. Era Tinebra che…

  ANTONINO DI MATTEO, sostituto procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo. Ricorderò male, ma mi pare che al primo interrogatorio di Scarantino – forse ricordo male – ci fosse anche la Boccassini. Comunque era…

  PRESIDENTE. Elementi per indicarlo come non attendibile, ovviamente, li aveva.

  ANTONINO DI MATTEO, sostituto procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo. Se c’è stato un depistaggio, e adesso esprimerò la mia opinione sul punto, per quello che vale, perché è un’opinione, né spetta a me, il depistaggio si è cominciato a realizzare, se c’è stato, prima del settembre 1992. Io due anni e due mesi dopo entro a far parte del pool stragi.
  C’è un’altra cosa che mi fa sempre riflettere e che mi fa veramente scervellare. È possibile che qualche informatore della Polizia avesse indicato in parte la verità e che, con un’operazione assolutamente spregiudicata, che sempre depistaggio è, la Polizia  19 abbia in qualche modo trovato una persona che si assumesse e mettesse a verbale la paternità di quelle conoscenze? A me fa letteralmente paura, da questo punto di vista, il dato che – ripeto – Scarantino non accusi solo persone innocenti. Accusa delle persone del mandamento di Brancaccio, che poi anche Spatuzza accuserà e che comunque sono state condannate definitivamente. Questo è un altro dato, secondo me, importante.
  Per quanto riguarda la lettera della Boccassini, sotto giuramento, da testimone, ho detto prima di oggi le cose che ho detto oggi, cioè che quella lettera l’ho conosciuta soltanto negli ultimi anni, ora, a Palermo, dallo scambio di notizie, di informazioni e di atti con i colleghi. Mi dispiace. Forse non c’è nemmeno contraddizione, a meno che la dottoressa Boccassini non dica di averne parlato con me. Con me non ha mai parlato. Io quella lettera, che ora apprendo non essere nemmeno firmata, non l’avevo mai vista. Nessuno me ne ha parlato e questa è la realtà dei fatti.
  Presidente, non è certamente la Commissione…

  PRESIDENTE. Qualcuno l’avrà ricevuta, però, procuratore, oppure no?

  ANTONINO DI MATTEO, sostituto procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo. Penso proprio di sì, ma evidentemente…

  PRESIDENTE. La nostra domanda, che ci facciamo, è che, come si pensa a politici, poliziotti, carabinieri, magari c’è anche qualche magistrato implicato in questa vicenda, o no?

  ANTONINO DI MATTEO, sostituto procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo. È possibile, ma i magistrati che in quella vicenda potevano essere implicati non erano certamente il dottor Di Matteo, che ancora… Però, presidente…

  PRESIDENTE. Procuratore, ci ha chiesto lei di venire. Noi non l’abbiamo chiamata per chiederle ragione di questa cosa.

  ANTONINO DI MATTEO, sostituto procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo. Presidente, il mio nome è stato fatto e, guarda caso, il mio nome è al centro, da tanto tempo, ancor prima del 19 luglio, per questa vicenda Scarantino, di una continua campagna di stampa, soprattutto di alcuni organi di stampa che notoriamente sono vicini ad alcuni soggetti di cui alle piste investigative che io ho delineato.

  PRESIDENTE. Noi l’abbiamo ascoltata molto volentieri. Per quanto ci riguarda, l’oggetto della nostra inchiesta non è il procuratore Di Matteo. A Di Matteo eventualmente chiediamo aiuto per procedere. Sulla domanda se lo ritiene un errore giudiziario, però, non mi ha risposto.

  ANTONINO DI MATTEO, sostituto procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo. No. Se qualcuno ha messo in bocca a un soggetto che non sapeva niente, come io ho ipotizzato ora, qualcosa che aveva appreso da altri, non è semplicemente un errore. È un depistaggio ed è una condotta gravissima. Se qualcuno nella magistratura l’abbia avallata, è altrettanto grave.
  Ci mancherebbe altro. Non sono semplicemente errori. L’errore può essere la valutazione (credibilità piena, credibilità non piena, credibilità parziale), ma, se questo è avvenuto, e questa è l’ipotesi che ritengo più credibile, non si tratta semplicemente di un errore, ma di qualcosa di ben più grave, che è certamente – ci mancherebbe altro – opportuno accertare.

  PRESIDENTE. Procuratore, la ringraziamo. Colleghi, quando ci aggiorniamo con il procuratore Di Matteo? Ditemi voi. Volete che continuiamo stasera, se siete liberi? No, è meglio che facciamo un confronto tra di noi. È troppo importante questo passaggio. La prossima settimana, il 19, come è messo, procuratore?

  ANTONINO DI MATTEO, sostituto procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo. Per me va bene.

  PRESIDENTE. Volete fare la mattina? 
  Facciamo martedì mattina alle 10? Vedo che alcuni preferiscono la sera alle 20. La sera alle 20 va bene per lei, procuratore?

  ANTONINO DI MATTEO, sostituto procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo. Sì.

  PRESIDENTE. Allora alle 20 di martedì 19.
  Dichiaro conclusa l’audizione.

  La seduta termina alle 16.15.


XVII Legislatura Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali, anche straniere
Resoconto stenografico
Seduta pomeridiana n. 225 di Martedì 19 settembre 2017

  La seduta comincia alle 20.05.

  (La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente)

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche mediante l’attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso e la trasmissione in diretta streaming sperimentale sulla web-tv della Camera dei deputati.

  (Così rimane stabilito)

Seguito dell’audizione del sostituto procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo, Antonino Di Matteo.

  PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito dell’audizione del sostituto procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo, Antonino Di Matteo, iniziata lo scorso 13 settembre. Nella scorsa seduta il procuratore Di Matteo ha svolto una relazione sul tema dell’audizione dedicata, in particolare, alle indagini e ai processi celebrati a Caltanissetta sulla strage di via D’Amelio.
  Nel ricordare, come di consueto, che l’audizione è in forma libera e che, se necessario, i lavori potranno proseguire in forma segreta, se il dottor Di Matteo non ha aggiunte da fare – mi ha comunicato che non ne ha – al suo intervento, riprendiamo dalla fase delle domande.
  Do la parola ai colleghi che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

  DAVIDE MATTIELLO. Grazie, presidente. Ringrazio il dottor Di Matteo per essere di nuovo con noi. Per brevità, non torno con commenti su quello che abbiamo ascoltato nella scorsa audizione. Mi limito soltanto a manifestare profondo apprezzamento per quello che lei, dottor Di Matteo, ha voluto raccontarci, così da introdurre le due domande.
  Mi sembra che lei abbia voluto, da un lato, fare chiarezza sul suo lavoro e, dall’altro, allarmarci su quella che potrebbe essere – la definisco così – una sorta di rischio distrazione rispetto a quelle che, ancora in questo momento storico, sono le questioni nodali sulle quali varrebbe la pena di concentrare l’attenzione, non solo dell’autorità giudiziaria, ma anche della autorità parlamentare e istituzionale, in questo caso della Commissione parlamentare antimafia.
  Se ho capito bene, discendendo da questa premessa, sul lato dei chiarimenti mi piacerebbe, per come lei riterrà opportuno, tornare su una vicenda indubbiamente collegata a quella per la quale lei ha chiesto di incontrarci, la vicenda Agostino. In questo prezioso sforzo di chiarimento – ripeto, per come lei vorrà declinare la questione – ritengo che sarebbe importante capire un po’ meglio che cosa sia successo nel momento in cui la vicenda Agostino (intendo l’omicidio di Nino Agostino e della moglie Ida Castelluccio del 5 agosto del 1989) sembrava aver ripreso vigore, almeno rispetto alla possibilità probatoria. Ricordo il confronto che ci fu in aula bunker nel febbraio del 2016 con Giovanni Aiello, nel frattempo deceduto.
  Non sintetizzo ulteriormente per non rubare tempo, tanto lei, dottor Di Matteo, ha chiarissima la situazione. La procura di Palermo va verso la richiesta di archiviazione e arriva l’avocazione da parte della procura generale. Un approfondimento su quel passaggio, Pag. 3 su quello che è successo, nel rispetto delle responsabilità di ciascuno, per me è importante.
  La seconda questione, che attiene all’allarme sui nodi su cui varrebbe la pena concentrarci, la titolo così: il destino degli atti di impulso della Direzione nazionale antimafia presieduta dal dottor Grasso, con riferimento a quegli atti di impulso che il dottor Grasso costruì a partire dalle deleghe conferite al dottor Donadio, allora sostituto. Si tratta di atti di impulso che sembrano tornati di grande attualità, perché proprio l’inchiesta della DDA di Reggio Calabria ’ndrangheta stragista, alla quale lei stesso ha più volte fatto riferimento nella scorsa audizione, prende – almeno in parte – le mosse da quegli atti di impulso.
  Tra il 2012 e l’estate del 2013 in particolare sul lavoro del dottor Donadio sembra essersi creata una tempesta perfetta, che non risintetizzo più, per non incorrere nelle rampogne della presidente, perché tante altre volte l’ho fatto. Vorrei chiederle, dottor Di Matteo, di nuovo…

  PRESIDENTE. Ne siamo ormai al corrente.

  DAVIDE MATTIELLO. Ne siamo tutti consapevoli. Resta il fatto che questa legislatura rischia di chiudersi senza che almeno noi parlamentari della Commissione antimafia possiamo capire un po’ meglio che cosa sia successo proprio all’inizio della nostra legislatura. Anche su questa vicenda il suo punto di vista, per come vorrà esporlo, per me è prezioso.

  PRESIDENTE. Possiamo far formulare tutte le domande, alle quali lei risponderà dopo?

  ANTONINO DI MATTEO, sostituto procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo. Come ritiene opportuno.

  PRESIDENTE. Di solito facciamo così, se per lei va bene.

  FRANCESCO D’UVA. Rieccoci, dottor Di Matteo. Ho un paio di domande.
  Sono mai state acquisite al processo sulla trattativa o ad altri, come il procedimento Mori-Obinu, le risultanze delle indagini condotte a Firenze dal procuratore Chelazzi?
  Quando lei muoveva i suoi primi passi a Caltanissetta, qualcuno dei suoi colleghi le ha mai riferito, anche in via informale, delle perplessità in merito alle dichiarazioni o alla gestione del collaboratore Scarantino? Lei ha mai interrogato Scarantino? Mi permetto di porre questi quesiti come unica domanda.
  Quando e se ha cominciato a intuire che c’era dell’altro sui mandanti esterni in merito alla strage di via D’Amelio rispetto a quanto emerso nel primo processo celebrato a Caltanissetta?
  A Caltanissetta, seppure fosse giovane e alle prime armi, come ha detto lei l’ultima volta e come sappiamo, ha mai notato movimenti strani o fatti irrituali, qualcosa che comunque le è apparso fuori luogo nei procedimenti?

  GIUSEPPE LUMIA. Anch’io ringrazio il dottor Di Matteo. La volta scorsa il dottor Di Matteo, con fatti e circostanze e con una ricostruzione molto particolareggiata della vicenda che ha sottolineato e, in particolare, del suo ruolo in quegli anni di gestione delle indagini sulle stragi, sia quella del 23 maggio, sia quella di Borsellino, ci ha fornito un quadro che la Commissione ha potuto conoscere meglio e, dal mio punto di vista, anche apprezzare.
  Un punto mi è sembrato importante ed è che la vicenda Scarantino, insieme naturalmente anche a quella di Salvatore Candura e Francesco Andriotta, va valutata come un gravissimo depistaggio. Contemporaneamente, lei ci ha sollecitato a non far diventare questo un elemento strumentale, per dare uno sguardo e allargare l’orizzonte dell’analisi da parte della Commissione sulle responsabilità più ampie che, a partire dalle dichiarazioni di Spatuzza e dai processi – in particolare, lei ci invitava a guardare bene i processi Borsellino bis e ter – emergono nella vicenda più complessiva che si è giocata all’interno del nostro Paese con il ruolo di cosa nostra e con chi con cosa nostra ha concorso a chiudere, con le stragi del 1992, la cosiddetta prima Repubblica (questa è una mia traduzione) e ad avviare, con le stragi del Pag. 41993, un rapporto collusivo con la cosiddetta seconda Repubblica, quella ancora in vita.
  Volevo chiederle, alla luce del lavoro che ha portato avanti sull’indagine e poi sul processo trattativa, di aiutarci a focalizzare il punto d’inizio della crisi che ebbe a manifestarsi nel rapporto mafia-potere, rappresentato dall’attentato all’Addaura. Corriamo il rischio – il presidente Bindi lo sa – che, da qui a poco tempo, i reati che si sono consumati in quel contesto vadano in prescrizione, il che sarebbe un fatto gravissimo.
  Questo, però, non esime la Commissione antimafia dal fare il suo lavoro di inchiesta e dal provare a sviscerare quell’espressione emblematica che utilizzò Falcone, un’espressione che viene fuori dalla bocca di un magistrato che era lontano mille miglia dalla retorica e dalle parole enfatiche e strumentali. Falcone usò l’espressione «menti raffinatissime».
  Volevo sapere se, nel corso della sua attività, ha potuto incrociare e valutare questa espressione, «menti raffinatissime» che agirono all’Addaura e che furono protagoniste dell’Addaura. L’onorevole Mattiello ha ricordato, collegandosi – penso – a questo contesto, anche la vicenda Agostino, che è dentro quel crogiolo della vicenda dell’Addaura.
  Questo sarebbe importante, perché dalle «menti raffinatissime» dell’Addaura possiamo fare un balzo sulle menti che hanno organizzato quel depistaggio. La Commissione antimafia è chiamata a stabilire se quel depistaggio fu una tipica scelta di allora per sbattere il mostro in prima pagina, oppure un continuum con quell’azione, che già all’Addaura si era manifestato, di menti raffinatissime che provarono a destabilizzare il Paese, a vivere quella stagione della crisi della prima Repubblica e a chiudere un rapporto e una fase, insieme con la prima Repubblica, del rapporto potere e mafia.
  Sarebbe importante, anche da questo punto di vista, avere la sua opinione e capire la questione attraverso il suo lavoro di indagine e di conoscenza. Penso che in questo contesto, presidente, possiamo acquisire non solo freddamente i dati di un magistrato che lavora, naturalmente, all’interno del giudizio penale, con i dati probatori e senza le valutazioni più generali sociologiche che, in quel contesto, non appartengono all’attività dei magistrati. In questo contesto, avere le opinioni e le valutazioni che si traggono per una Commissione che, sempre a partire dai fatti e dai dati, deve esprimere poi un giudizio sulle responsabilità politico-istituzionali potrebbe essere interessante.
  Vorrei ripercorrere il filo di questo lavoro dalle menti raffinatissime al depistaggio e poi alla vicenda Cassazione, da cui, anche attraverso la procura di Reggio Calabria, stanno emergendo elementi abbastanza chiari di un intervento da parte della ’ndrangheta, in rapporto con cosa nostra, con gli omicidi che anche lì si consumarono, oltre che con l’omicidio per antonomasia, che abbiamo conosciuto, del magistrato che allora era stato chiamato a vivere l’esperienza da procuratore in Cassazione del maxiprocesso.
  Attraverso questo filo si può provare a capire, dottor Di Matteo, se la trattativa prese il via, magari anche con soggetti diversi, con soggetti più articolati, prima della strage stessa di Capaci. È importante comprendere se già prima della strage di Capaci, oltre che, come già è stato accertato, prima della strage di via D’Amelio, lo Stato instaurò… pezzi dello Stato, naturalmente, soggetti dello Stato entrarono in rapporto con cosa nostra attraverso uno scambio. L’abbiamo chiamato trattativa, ma a noi interessa la sostanza di un rapporto anomalo che si è venuto a creare, che ha destabilizzato il nostro Paese e che ha generato quella stagione delle stragi che ancora dobbiamo conoscere meglio e che ancora dobbiamo approfondire sino in fondo.
  Le «menti raffinatissime» agirono anche nella strage di Capaci. Le «menti raffinatissime» agirono anche nella strage di via d’Amelio. Le «menti raffinatissime» agirono, poi, lungo quell’altra sanguinosa stagione delle stragi che si consumarono nel continente. Ricordo sempre non solo quelle che già si consumarono a Roma, Firenze e Milano, ma anche quella stessa dell’attentato all’Olimpico. Lo dobbiamo considerare un tentativo stragista che, se fosse andato in porto, avrebbe potuto diventare veramente deflagrante, non solo per il numero di omicidi, ma anche per le ripercussioni devastanti che avrebbe potuto avere nel rapporto con la vita democratica del nostro Paese in quel momento delicatissimo della sua crisi.
  Vorremmo provare, se lei ci può aiutare, attraverso questo filo delle «menti raffinatissime», a scandire le fasi della trattativa e conoscere le valutazioni, attraverso il lavoro che ha potuto svolgere all’inizio a Caltanissetta e poi soprattutto a Palermo.
  Per ultimo, lei ci ha invitato a fare attenzione al fatto che sia menti lucide – potremmo dire, ma non vorrei esagerare, «menti raffinatissime» anche adesso – sia chi magari è in buona fede (l’ha sottolineato) vorrebbero costruire una delegittimazione del lavoro che lei ha svolto, provando a creare un conflitto intorno alla gestione di allora di quel depistaggio gravissimo che – confermo – si è consumato sulla vicenda Scarantino.
  Vorrei capire, attraverso una domanda che magari poi nella risposta, se la presidente lo riterrà opportuno, potremmo segretare, quali sono le indagini che lei con i suoi colleghi svolgete ancora intorno al tema della trattativa. C’è un processo. Volevo capire se la fase delle indagini si è conclusa e se tutto è già stato riversato nel processo, oppure se avete ancora dei filoni di indagine, per esempio, alla luce di quello che Graviano ha potuto esprimere e che voi avete potuto raccogliere con le intercettazioni che abbiamo potuto conoscere e che non so, presidente, se la Commissione parlamentare antimafia abbia potuto acquisire nella sua completezza qui in Commissione oppure no.
  Sarebbe importante capire se, anche oggi, quelle menti raffinatissime siano in azione per provare a depistare, bloccare o delegittimare quel lavoro che ancora oggi si sta sviluppando – se c’è, come non c’è – ed eventualmente provare a portare a conoscenza della Commissione parlamentare antimafia gli sviluppi di questa importante eventuale attività di indagine.

  SALVATORE TITO DI MAGGIO. Scusi, presidente, poiché, per rispondere al senatore Lumia, ci vogliono il Nuovo e l’Antico Testamento, possiamo vedere se il procuratore…

  PRESIDENTE. Facciamo tutte le domande. Se è vero che, per rispondere a Lumia, ci vogliono il Nuovo e il Vecchio Testamento, ciò prenderebbe tutto il tempo. È più giusto che facciate tutte le domande. Il procuratore Di Matteo saprà come amministrarle. Non vi preoccupate.

  LUIGI GAETTI. Dottor Di Matteo, ho letto sul Fatto Quotidiano quello che lei ha riferito a Marina di Pietrasanta e mi sento di dire che la sua solitudine, che è più che comprensibile, proprio per il lavoro che fa, per la sua delicatezza e per quello che le sta accadendo, non è poi del tutto solitudine. Io e molti altri cittadini vorremmo manifestarle la nostra vicinanza.
  Detto questo, volevo porre due questioni. Una è un po’ più filosofica. Lei sta facendo, ovviamente, un lavoro estremamente importante, con un gruppo ristretto di persone, su questo processo. Tuttavia, questo è ormai rimasto in ambito giudiziario. Dopo venticinque anni, ritengo che sarebbe forse più opportuno affrontare questo problema in maniera un po’ diversa, ossia fare un’analisi più storica, per indurre le persone a parlare.
  Da medico, suggerirei di fare la vera diagnosi e di omettere poi la terapia, intendendo eventuali condanne e cose di questo tipo, perché, dopo venticinque anni e dopo tutte queste situazioni, ritengo che forse, studiando un modo diverso, si indurrebbe la possibilità di far emergere la verità, che in questo modo, invece, viene sottaciuta da molti. Volevo sentire il suo parere su questo.
  Lei ci ha già detto una cosa estremamente importante: queste stragi non sono stragi di mafia, o non sono solo stragi di mafia, ma ci sono altre componenti, che poi valuteremo se siano servizi segreti nel loro complesso, persone e cose di questo genere. Una visione di questo tipo era già stata segnalata da un ex poliziotto, Genchi, il quale, in un libro del 2009, segnalò molte di queste questioni, come la presenza dei servizi segreti, la localizzazione telefonica e via elencando.
  Segnalò anche altre cose nel suo libro. Ripeto un esempio anche perché è stato fatto da altre persone audite. Nel condominio di fronte a via D’Amelio c’era un edificio in costruzione, ma con una parete che era un vetro antisfondamento, un vetro altamente protetto, dietro il quale una persona soggiornò a Pag. 6lungo, perché furono ritrovati molti mozziconi di sigaretta. Nessuno indagò su questo.
  È ovvio che questa domanda non dovrei farla a lei, perché ci ha già spiegato che è arrivato molto più tardi. Quel depistaggio, che io credo ci sia stato alla grande, invece, ha omesso queste analisi. Volevo chiedere il suo parere su alcune informazioni di Genchi che, quantomeno leggendo il libro, forse non sono vere, ma sono verosimili, con delle possibilità di riscontri. Volevo sapere la sua valutazione sugli elementi che sono emersi, come quello che ho sottolineato precedentemente e altri ancora, che diversi auditi hanno evidenziato.

  SALVATORE TITO DI MAGGIO. Ringrazio innanzitutto il dottor Di Matteo per la disponibilità che già aveva dato la settimana scorsa. Sulla base delle cose che ci ha raccontato, che sono estremamente interessanti, vorrei formulare alcune domande.
  In primo luogo, lei ha una lunga esperienza come pubblico ministero. Secondo lei, chi guida, quando si fanno le indagini di polizia giudiziaria, la magistratura o i corpi di polizia ai quali eventualmente vengono affidate queste indagini?
  Come seconda domanda, di Scarantino abbiamo parlato a lungo e lei ci ha rappresentato anche il fatto di come lei in questa vicenda sia entrato a giochi già iniziati. Ricordo, però, nella deposizione che fece la dottoressa Boccassini a Caltanissetta, un fatto che mi lasciò molto sorpreso: sui tabulati che erano a disposizione dell’autorità giudiziaria già nei giorni 17 e 19 luglio, alcuni intercettati facevano riferimento a operazioni che potevano coinvolgere direttamente Gaspare Spatuzza, per cui Spatuzza avrebbe potuto essere già sentito in tempi non sospetti rispetto alle indagini che furono poi iniziate a seguito delle rivelazioni di Scarantino. Chiedo se le risulta questo.
  Come ultima cosa, durante il periodo delle deposizioni di Scarantino c’è stato un fatto, anche questo estremamente importante, almeno a mio avviso, di cui però non riesco a delineare i contorni. Chiedo se in questo ci può aiutare. Furono le dimissioni proprio di Genchi, in contrasto – credo – con La Barbera. Domando se sul fatto lei ha qualche memoria.

  PRESIDENTE. Se non ci sono altri interventi, posso aggiungere qualche domanda anch’io? Ci ricorda quando è arrivato alla procura di Caltanissetta? Ce l’aveva già detto l’altra volta, ma è per la domanda che vorrei farle.

  ANTONINO DI MATTEO, sostituto procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo. Alla procura di Caltanissetta presi servizio il 16 settembre del 1992. Poi in DDA entrai nel dicembre del 1993 e nel pool che si occupava delle stragi nel novembre 1994.

  PRESIDENTE. Alcune domande gliele faccio per avere il suo punto di vista.
  Secondo lei, perché Borsellino, che chiedeva insistentemente di essere sentito dalla procura di Caltanissetta, non fu sentito nel periodo che separò la strage di Capaci dalla strage di via D’Amelio? Che idea si è fatto?
  La seconda domanda ritorna sulla vicenda Boccassini. Rileggendo la sua deposizione e avendo ben chiare le sue responsabilità, che lei ci ha ricordato nelle varie fasi processuali, anche qui, se non ha elementi suoi che potremmo definire in qualche modo testimoniali, per quale motivo le osservazioni della Boccassini furono ignorate, secondo lei, da parte di chi aveva la responsabilità di condurre quelle indagini? Indubbiamente, rileggendole, si nota che tutti gli elementi che poi sono apparsi successivamente erano contenuti nelle deposizioni della Boccassini, al di là – ripeto – delle sue responsabilità.
  L’altro aspetto, invece, riguarda una sua dichiarazione nei confronti della mancata messa a disposizione delle parti del confronto che vi era stato tra Scarantino e altri collaboratori di giustizia. Lei ha dichiarato: «Ritenemmo in quella circostanza di non metterle a disposizione del dibattimento».
  La domanda è se, con i fatti che si sono verificati successivamente, ripeterebbe o si esprimerebbe a favore di questa decisione che fu presa da tutta la DDA? Secondo lei, fu una scelta saggia? A parte che, processualmente, forse è discutibile da certi punti di vista, lo chiedo per entrare nel merito della vicenda.
  Aggiungo altri due aspetti che forse possono servire a chiarire anche punti di vista Pag. 7diversi che sono emersi in tutte queste varie considerazioni che ci sono state sugli organi di stampa o altro.
  A lei fu mai chiesto di verificare l’attendibilità di Scarantino, da parte di Tinebra o di chi, comunque, dirigeva le indagini?
  L’altra domanda è se ha mai letto il verbale del sopralluogo al garage Orofino fatto da La Barbera.
  Infine, come avete valutato, in quel momento, le dichiarazioni di Scarantino, che diceva di essere stato in qualche modo costretto da La Barbera, anche con metodi violenti, a fare le dichiarazioni che aveva fatto?
  Questa è una domanda che feci anche all’attuale procura di Caltanissetta, anche per collegarmi ad alcune domande del senatore Lumia. Fu un desiderio di prestazione che spinse gli inquirenti, in quella fase, a dare attendibilità a dichiarazioni che poi si sono rivelate infondate, oppure questa sorta di depistaggio era stata costruita?
  Mi fermo qui. Do la parola al dottor Di Matteo per la replica.

  ANTONINO DI MATTEO, sostituto procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo. Ringrazio tutta la Commissione. Non solo il numero, ma soprattutto la qualità e la problematicità di ogni vostra domanda mi confortano ulteriormente sulla scelta che avevo fatto nel momento in cui avevo chiesto di essere sentito dalla Commissione parlamentare antimafia. Non c’era bisogno che lo cogliessi io, ma si coglie proprio un intento di approfondimento della questione che, da cittadino, mi conforta moltissimo.
  Presidente, in relazione a molte delle domande che mi sono state poste – vi ringrazio anche perché alcune domande mi invitano a una riflessione, ossia non soltanto a riferire fatti, ma anche a esprimere delle opinioni – vorrei chiedere che si procedesse con la seduta segreta. Proprio nell’intento di poter cercare di collaborare con voi anche sotto il profilo di una riflessione, credo che dovrò fare riferimento anche a fatti che magari per la procura di Caltanissetta, di Palermo o di Firenze possono essere di inopportuna diffusione mediatica.

  PRESIDENTE. Procuratore, noi riteniamo questa sua richiesta una volontà di collaborazione con la Commissione. Ci dispiace per tutti coloro che erano in ascolto, ma credo che sarà proficuo per noi procedere in seduta segreta. Eventualmente, alla fine, riprendiamo, se vogliamo fare una sintesi.
  Propongo di passare in seduta segreta.

  (Così rimane stabilito. I lavori procedono in seduta segreta, indi riprendono in seduta pubblica).

  PRESIDENTE. Ringrazio il dottor Di Matteo e dichiaro conclusa l’audizione.

  La seduta termina alle 22.35.

 

 

Per prima cosa volevo ringraziare il presidente e tutti membri della Commissione per aver accolto la mia richiesta di essere audito, motivata dal perseguimento di un duplice scopo: da una parte spero di poter fornire un contributo alla verità, dall’altra di stimolare quegli approfondimenti che ritengo necessari, anche in sede politica, sul probabile coinvolgimento nella strage di soggetti esterni a Cosa nostra. Sono convinto di poter fornire un contributo di chiarezza rispetto alle tante inesattezze, bugie e ingiuste generalizzazioni che da tempo, ed in ultimo in occasione dello scorso anniversario della strage, vengono diffuse e rilanciate con grande clamore mediatico. E ciò con riferimento generale ai processi per la strage di via d’Amelio, celebratisi a Caltanissetta tra il ’92-‘93 e il ‘99, ma ancor più in particolare alla mia attività in quel pool antimafia, nel tentativo di coinvolgermi in vicende di investigazioni ed indagini che non ho vissuto e delle quali nemmeno marginalmente sono stato protagonista.

In occasione dell’ultimo anniversario della strage si è parlato, scritto e commentato di 25 anni di depistaggi e silenzi, da parte di autorevoli strumenti della stampa. Di 25 anni persi nella ricerca della verità sulla strage. Ritengo, sulla base dei fatti che vi esporrò, che queste sono affermazioni profondamente ingiuste. E anche molto pericolose, paradossalmente utili a chi teme e ha da temere che il percorso di accertamento completo della verità possa andare avanti. 

Nell’ultimo periodo, anche grazie a indagini da me ed altri colleghi condotte a Palermo, sono emersi a mio avviso importanti elementi di prova che indicano che la strage non fu solo di mafia.
Però, proprio in questo momento, e temo che non sia un caso, il dibattito e l’attenzione invece di concentrarsi sulla necessità di ulteriori approfondimenti in tal senso, si orientano a screditare e delegittimare il mio lavoro e la mia professionalità. Si finge di dimenticare, e da più parti sistematicamente si ignora, che tra il cosiddetto via d’Amelio bis e, ancora più importante, il cosiddetto via d’Amelio ter, ben 26 imputati sono stati condannati definitivamente per concorso in strage, per i quali l’affermazione di responsabilità è stata confermata fino alla Cassazione e mai messa in discussione, neppure dopo le acquisizioni più recenti che partono dalla collaborazione di Gaspare Spatuzza. Il nostro è stato definito il Paese delle stragi impunite, ma questo non mi pare un risultato così irrilevante. 
26 condanne definitive: non sono stati 25 anni persi nella ricerca della verità. Il processo di revisione ha riguardato, per quanto concerne le accuse di strage di imputati del cosiddetto via d’Amelio bis, 7 posizioni. Nessuno ricorda che già all’esito del processo di primo grado di quel troncone, via d’Amelio bis – sentenza di primo grado del 13 febbraio 1999 – 6 dei 7 soggetti successivamente revisionati erano già stati assolti dalla Corte d’Assise di primo grado. Tutti fingono di dimenticare che per 3 posizioni di quelle 6 erano stati gli stessi pubblici ministeri a chiedere l’assoluzione.

Sono stato chiamato in causa, anche da molti articoli di stampa, per quello che non ho fatto. Allora devo ricordare il contributo minimo che ho dato a queste indagini, e a questo accertamento dei fatti che continua e continuerà per sempre a rimanere uno dei punti principali del mio impegno.
Io sono orgoglioso, e la considero un’esperienza professionale e umana unica, di un dato oggettivo. 
Ho seguito, tra quelli per la strage, un solo processo dall’inizio dell’indagine alla conclusione della sentenza di primo grado: il cosiddetto Via d’Amelio ter. In quel processo sono state irrogate 20 condanne per concorso in strage.
Quel processo prescinde completamente dalle dichiarazioni di Vincenzo Scarantino che non era stato chiamato neppure a testimoniare.
Nelle sentenze e negli atti del processo non c’è alcun suo riferimento.
Quelle 20 condanne per strage sono state il frutto di un lavoro particolarmente complesso e delicato, sia nella fase delle indagini che in dibattimento, presieduto con una professionalità e un impegno eccezionali dal presidente Zuccaro. Quelle indagini e quel processo, in primo grado conclusosi con sentenza del 9 dicembre del ’99, sono stati la sede dove per la prima volta sono emerse con un grado di approfondimento notevole molte e concrete circostanze che anche oggi mi inducono a ritenere che la strage non fu solo di mafia, e che il movente non è stato esclusivamente mafioso. 

L’allora giovane pubblico ministero ha fatto emergere in quella sede le piste che portano al possibile collegamento tra l’accelerazione della strage di via d’Amelio e la trattativa Ciancimimo-Ros dei Carabinieri. Qui, per la prima volta, Salvatore Cancemi, pentito già appartenuto alla commissione provinciale di Cosa nostra, affermò che nello stesso contesto temporale, giugno ’92, nelle stesse riunioni in cui Riina di fronte agli altri membri della commissione si assumeva la responsabilità e la paternità di uccidere subito, a meno di 60 giorni di distanza da Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Riina citava Berlusconi e Dell’Utri come soggetti da appoggiare ora e in futuro, e rassicurava gli altri componenti della Cupola che fare quella strage sarebbe stato alla lunga un bene per tutta Cosa nostra, anche per i soggetti già all’epoca detenuti.

Sono solo due spunti, ma ce ne sono tanti altri recentemente alimentati da numerose altre acquisizioni, che a mio avviso dovrebbero portare ad una immediata riapertura delle indagini sui mandanti esterni a Cosa Nostra e a un rinnovato impegno collettivo di tutte le istituzioni nel completamento del percorso di ricerca della verità.
Da magistrato e uomo delle istituzioni mi preoccupa il fatto che molti vogliono concentrare il dibattito e l’interesse esclusivamente sulla questione Scarantino, che nel compendio del lavoro dell’autorità giudiziaria di Caltanissetta, nel periodo ’92-’99, è questione solo inizialmente centrale, e via via sempre più marginale.
Affermare che tre processi sono stati fondati sulle dichiarazioni di Scarantino è un falso, ed è assolutamente infondato. 
Affermare che anche il via d’Amelio bis si sia fondato esclusivamente sulle dichiarazioni di Scarantino è un altro dato falso, tanto è vero che molte condanne inflitte da quella Corte – Salvatore Riina, Pietro Aglieri, Salvatore Biondino, Carlo Greco, Francesco Tagliavia, Giuseppe Graviano – sono state confermate e mai successivamente messe in discussione nonostante le dichiarazioni di Spatuzza. Ecco perchè nel fare questa affermazione significa non conoscere gli atti, adeguarsi ad una prospettazione che molto abilmente qualcuno sta instillando, anche nella mente di persone in buona fede.

Significa non avere letto la requisitoria, fingere di non ricordare che lo stesso pubblico ministero, già nel via d’Amelio bis, aveva sostenuto che le dichiarazioni di Scarantino erano state inquinate dopo i primi 3 interrogatori, e che potevano essere utilizzate solo se confortate in maniera particolarmente significativa da altri e forti elementi di prova. Per questo motivo lo stesso pubblico ministero, in assenza di altri elementi di prova diversi dalle propalazioni di Scarantino, già nel via d’Amelio bis chiese ed ottenne l’assoluzione per il delitto di concorso in strage di Giuseppe Calascibetta, Gaetano Murana e Antonino Gambino. Soggetti poi condannati perchè altre fonti di prova in appello – in processi che non seguivo io né la Procura di Caltanissetta, ma l’organo inquirente della procura nissena – e le assoluzioni si trasformarono poi in condanne, ecco il perchè della revisione.

 

In questi anni si è detto di tutto, a proposito del movente e delle motivazioni del depistaggio, presunto o reale non spetta a me dirlo. Per prima cosa è stato scritto, da parte di tutta la stampa e degli orientamenti politici e culturali, che coinvolgere Scarantino nell’inchiesta e pilotare il suo pentimento fosse stato finalizzato a tenere fuori i fratelli Graviano (in foto) e il mandamento di Brancaccio dalla fase esecutiva del delitto.
Questa ipotesi, contrabbandata ormai come una certezza, cozza con un dato obiettivo: Scarantino nelle sue dichiarazioni obiettivamente false in gran parte, indicò subito i Graviano e loro principali uomini come Francesco Tagliavia e Lorenzo Tinnirello, come partecipi alla fase esecutiva della strage. Non è possibile, quindi, che il depistaggio Scarantino abbia avuto la finalità di tenere fuori i Graviano perchè erano i detentori principali di determinati rapporti di tipo politico.

Ancora, si è ipotizzato che arrestare Scarantino e pilotare le sue dichiarazioni possa essere stato finalizzato ad escludere ogni possibile coinvolgimento di apparati deviati dei servizi nella preparazione ed esecuzione della strage. Anche questo dato cozza con un altro: Scarantino fu il primo ad accusare nella fase di preparazione della strage Gaetano Scotto, che secondo molti collaboratori di giustizia ritenuti ora attendibili ha costituito per molti anni il principale punto di collegamento tra le cosche mafiose più sanguinarie di Palermo, i Madonia di Resuttana e i Galatolo dell’Acquasanta, e apparati deviati dei Servizi. Recentemente anche uno degli avvocati costituitosi parte civile nel cosiddetto Borsellino quater ha affermato che il ruolo di Scotto come membro di collegamento tra mafia e servizi sia particolarmente evidente, ed io sono assolutamente d’accordo. L’indagine che partì dalle dichiarazioni di Scarantino coinvolgeva Scotto, tanto che quest’ultimo fu condannato per concorso in strage, ma non solo sulla base delle dichiarazioni di Scarantino. Oggi Scotto è tra i soggetti revisionati ed è tornato in libertà a Palermo.

Non si tratta di difendere le dichiarazioni di Scarantino, smentite inequivocabilmente da Spatuzza e dalle successive indagini. Ma di capire qualcosa di più difficile: come mai queste dichiarazioni, false perchè fatte da un soggetto non coinvolto nella strage, in parte coincidono con quelle, ritenute attendibili, di Spatuzza?
Per esempio, nel coinvolgimento della fase esecutiva della strage del mandamento di Brancaccio, dei fratelli Graviano, di Francesco Tagliavia, di Lorenzo Tinnirello, nel ruolo attribuito a questi soggetti da Scarantino e Spatuzza c’è una sostanziale ed incredibile coincidenza. Il che lascia ipotizzare che alcune informazioni vere erano arrivate a chi, per sfruttarle, ha fatto un errore gravissimo mettendo in bocca a un soggetto che non sapeva nulla informazioni che chi le aveva ricevute riteneva attendibili. 

Il dato di fatto è che Scarantino è un soggetto sottoposto a ordinanza di custodia cautelare per concorso in strage con ordinanza del gip di Caltanissetta il 26 settembre 1992. Quindi le presunte indagini depistanti vengono condotte dal 19 luglio, un minuto dopo l’esplosione, al 26 settembre. Scarantino non è un soggetto che dal nulla si presenta ai magistrati per farsi arrestare. Quelle indagini che portarono al suo arresto mossero da dichiarazioni e indagini precedenti. Quindi si tratta di capire chi condusse quelle indagini e i motivi degli errori o dei possibili depistaggi dal 19 luglio al 26 settembre ’92. 

Ed è qui che crolla miseramente l’assunto di chi a tutti i costi, per screditare il mio lavoro di oggi, vuole coinvolgermi in vicende che non ho vissuto e di cui altri sono stati protagonisti. Quando vennero avviate le prime indagini dopo la strage non avevo nemmeno la funzione di magistrato. In quel momento ero un uditore giudiziario presso la Procura della Repubblica di Palermo. Divenni sostituto procuratore a Caltanissetta a fine settembre ‘92, proprio nei giorni in cui il gip sottoponeva a custodia cautelare Scarantino. Essendo neo arrivato, mi occupavo solo di procedimenti ordinari fino al dicembre del 1993. Solo il 9 dicembre ‘93 entrai a far parte della Direzione distrettuale antimafia, ma con il compito esclusivo, che ho mantenuto fino al novembre del ‘94, di inchieste e processi che riguardavano la mafia e la stidda di Gela. Entrai a far parte per la prima volta del gruppo di magistrati che seguivano le indagini e i processi per le stragi solo nel novembre del ‘94: 2 anni e 4 mesi dopo la strage, 2 anni e 2 mesi dopo l’arresto di Scarantino avvenuto sulla base di accuse di pentiti – Candura, Valenti e Andriotta – che io non ho mai interrogato, e di intercettazioni telefoniche che all’epoca non ho mai avuto modo di leggere o ascoltare. Sono entrato a far parte del pool che si occupava delle stragi del ’92 sei mesi dopo l’inizio della collaborazione di Scarantino, ben dopo quei colloqui investigativi della polizia che solo nei mesi scorsi, dalle cronache processuali, ho appreso che avevano anticipato e accompagnato quei primi interrogatori.

Questa è la verità oggettiva. Non mi sono mai a nessun titolo occupato del primo processo per la strage di via d’Amelio, nel quale era imputato Scarantino. Nel processo Borsellino bis ho rappresentato l’accusa solo in dibattimento, ed anche nell’udienza preliminare i magistrati che rappresentavano l’accusa erano altri. L’unico troncone che ho seguito in ogni fase è quello del ter. Questi sono dati di fatto che mi dispiace vengano sistematicamente ignorati.

Cito alcuni dati su delle questioni, come la lettera della dottoressa Boccassini, che nell’ottobre ‘94 esprimeva al procuratore di Caltanissetta le proprie perplessità sull’attendibilità delle prime dichiarazioni di Scarantino. Io dell’esistenza di questa lettera ho appreso quattro, cinque o sei anni fa nel momento in cui, svolgendo indagini a Palermo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, avevamo avviato un collegamento investigativo con Caltanissetta, e ho avuto modo di sapere prima dai colleghi e poi di leggere il suo contenuto tra il 2011 e il 2012. Quando è stata redatta non ero nemmeno entrato a far parte del pool stragi. Come ho già detto in occasione della mia testimonianza al processo Borsellino quater io, giovane magistrato di allora appena arrivato, non ho mai parlato di indagini sulle stragi o di nessun tipo con la dottoressa Boccassini. Lei era l’autorevole esponente del pool, io non ne facevo ancora parte. Nè la Boccassini ha mai parlato con me di Scarantino. Non ho mai partecipato a nessuna riunione della Direzione distrettuale antimafia a cui partecipò la dottoressa Boccassini. La vedevo spesso gli ufficiali di polizia più importanti ed autorevoli di allora, e con il dottor La Barbera, che neanche mi salutava. Non ho mai parlato con lui di vicende relative ad indagini. 
Se a settembre ‘92 si arriva ad un arresto in base ad un’indagine errata o addirittura depistata, chiamare in causa il dottor Di Matteo che inizia ad occuparsi dal novembre ’94 è un fuor d’opera, che certe volte temo sia volontariamente portato avanti sfruttando anche la buona fede e la comprensibile sete di verità di molte persone. 
So che è stata posta la questione del cosiddetto mancato tempestivo deposito agli atti del processo Borsellino bis, che ho seguito in fase dibattimentale, dei confronti che nel gennaio ‘95 assieme ad altri colleghi disposi e feci effettuare tra Scarantino e i collaboratori di giustizia Salvatore Cancemi, Gioacchino La Barbera e Mario Santo Di Matteo. 
Per questi mancati depositi siamo stati oggetto di una denuncia penale alla Procura di Catania, poi chiusa con un’archiviazione, da parte di alcuni avvocati. Ma tutti quei confronti sono stati da noi depositati, a disposizione dei difensori degli imputati, e prodotti alla Corte d’Assise ben prima della conclusione dell’istruttoria dibattimentale del processo. Il processo si è concluso con la piena e legittima consapevolezza e conoscenza di tutte le parti processuali dell’esistenza e dei contenuti di quei confronti. Tanto è vero che oggetto di quel confronto era la partecipazione, assunta da Scarantino e negata dagli altri tre collaboratori, ad una riunione preparatoria della strage a casa di Calascibetta. Tanto abbiamo depositato quei confronti, e tanto eravamo convinti nella fase valutativa che Scarantino su quel punto avesse mentito, che per Calascibetta, accusato solo di partecipazione in questo segmento preparatorio, abbiamo chiesto l’assoluzione. 

Perchè non abbiamo depositato subito, ma solo dopo alcuni mesi, senza comunque pregiudicare alcun diritto di difesa? In quel momento avevamo la pendenza in dibattimento del via d’Amelio bis e in fase di indagine del ter, dove erano indagati anche Cancemi e Di Matteo, e avevamo dei motivi ben precisi per ritenere che anche loro fossero stati reticenti sulla strage di via d’Amelio. Cancemi aveva ammesso la sua partecipazione alla strage di Capaci, ma giurava di non sapere nulla su via d’Amelio, cosa che ritenevamo impossibile. Per noi era reticente, e solo a partire dalla seconda parte del 1996 Cancemi ammise la sua partecipazione alla strage di via d’Amelio, riferì di quelle circostanze sulla riunione a casa di Guddo e la citazione, da parte di Riina, di Berlusconi e Dell’Utri, e disse di non aver parlato prima perché troppo delicate erano le sue dichiarazioni su via d’Amelio.

In quel primo momento avevamo delle forti perplessità anche sulla reticenza di Mario Santo Di Matteo, che come Cancemi sosteneva di non sapere nulla di via d’Amelio. Ma nel dicembre del ‘93, poco dopo il rapimento del figlio del collaboratore di giustizia – il piccolo Di Matteo – su disposizione della Procura di Caltanissetta la Dia di Roma effettuò un’intercettazione del primo drammatico colloquio, successivo alla notizia del sequestro, tra Mario Santo Di Matteo e la moglie Francesca Castellese. In quel momento la moglie invocava il marito di non parlare di via d’Amelio perché erano coinvolti quelli che la signora Castellese definiva infiltrati della polizia. Quindi il mancato iniziale deposito di quei confronti dipendeva dal fatto che in relazione a questi elementi pendeva un’indagine che poi sfocerà nel via d’Amelio ter, per cui dovevamo capire chi avesse detto la verità e chi no. Quando siamo stati convinti che quella riunione a casa di Calascibetta non c’era stata non solo abbiamo depositato e prodotto, ma abbiamo chiesto in dibattimento un ulteriore confronto davanti alla Corte tra i pentiti che si contraddicevano.

La presidente Bindi interviene per chiedere al dott. Di Matteo quanto tempo sia passato tra la fase degli accertamenti e il loro deposito.

Credo un anno. Ma in questo anno non c’è stata una tappa processuale, non c’è stato alcun momento che abbia potuto pregiudicare il diritto di difesa degli imputati. Perchè, quando tutti dicono che i pm dovrebbero chiedere scusa per i revisionati, nessuno ricorda che per una parte di quei soggetti i pm già allora avevano chiesto l’assoluzione?

Si è parlato anche delle ritrattazioni di Scarantino prima della sentenza del Borsellino bis. Nelle occasioni in cui ho interrogato Scarantino in fase di indagine e dibattimento, non mi ha mai fatto cenno di essersi inventato alcunchè o di essere stato indotto da chicchessia a dire qualcosa. L’ho già riferito nella testimonianza a Caltanissetta: ho letto che lo stesso Scarantino, interrogato al dibattimento, ha detto che siccome il dottor Di Matteo manteneva un atteggiamento assolutamente formale e distaccato lui non gli ha mai detto questo. Addirittura ha detto – e ho dovuto smentirlo – che lui non aveva mai nemmeno telefonato all’utenza in uso al dottor Di Matteo per lamentare i modi in cui veniva gestita la protezione. L’ho smentito perché qualcuno aveva dato il numero dei sostituti procuratori a Scarantino, e in un’occasione ho ricevuto nella segreteria telefonica 8 chiamate di seguito da parte di questo soggetto che diceva di voler tornare a Pianosa perché erano state disattese le promesse fatte dagli organi di polizia deputate alla protezione sua e dei suoi familiari e sulla possibilità di trovare un posto di lavoro.

Scarantino a me non ha mai detto nulla. Io non ho mai autorizzato, né mai ho letto un’autorizzazione di un magistrato, a colloqui investigativi della polizia con Scarantino o con altri collaboratori di giustizia. Sono venuto recentemente a sapere dalle cronache del processo Borsellino quater che addirittura prima dell’interrogatorio del 24 giugno 1994 erano stati autorizzati da altri magistrati colloqui investigativi con Scarantino, svolti credo dal dottor La Barbera, quindi prima del primo interrogatorio. 

Sulla ritrattazione di Scarantino ricordo bene che nell’ultima fase chiese e ottenne di essere risentito, e nell’aula bunker di Como affermò di essersi inventato tutto. In quella circostanza accusò i magistrati, e anche me – mentre ora afferma di non avermi detto niente – di averlo costretto a dire quelle cose. Sulla base di questo non interrogammo più Scarantino, perchè siamo stati indagati un’altra volta dalla Procura di Catania, almeno immagino, perchè non ho avuto contezza di una mia iscrizione nel registro degli indizi di reato, poi ho letto sulla stampa di una richiesta di archiviazione.

In fase di requisitoria dovevamo fare le nostre valutazioni sulle ritrattazioni di Scarantino. Sulla sua collaborazione l’avevamo già fatta, dicemmo che era attendibile solo molto parzialmente, che non l’avremmo mai usato per chiedere una condanna senza altri autonomi elementi di prova, e così abbiamo fatto.
La Corte, sulla base di elementi oggettivi, ha ritenuto che la ritrattazione, veritiera o meno, fosse stata illecitamente indotta. Noi avevamo la prova attraverso le dichiarazioni di un sacerdote di Modena, don Neri, che nei giorni precedenti a quella ritrattazione Scarantino era stato avvicinato da familiari suoi e di altri imputati nella località protetta dove viveva in Emilia Romagna.
Ma soprattutto, intercettando l’allora latitante Gaetano Scotto, dall’ambientale a casa della moglie Cosima D’Amore, ci accorgemmo che alcuni avvocati, alcuni oggi parti civili nel quater – quelli che pensano che tutti i misteri siano legati esclusivamente alla vicenda iniziale di Scarantino – avevano chiesto soldi anche al latitante e alla moglie così da farli pervenire a Scarantino per ritrattare.
Ci sono delle parole di D’Amore Cosima che hanno fatto scrivere ai giudici della Corte d’Assise nella motivazione della sentenza di via d’Amelio bis: “Si trae dall’anomalo comportamento che questa Corte ha potuto verificare con riferimento al disposto esame di Basile Rosalia, moglie di Scarantino Vincenzo, ma soprattutto si trae dalle intercettazioni e dai pedinamenti compiuti nei confronti di D’Amore Cosima, moglie dell’imputato Scotto Gaetano, intercettazioni e pedinamenti dalle quali emerge in modo assolutamente inequivoco l’impegno di carattere economico richiesto ai familiari di un imputato latitante per offrire a Scarantino Vincenzo le garanzie anche di assistenza processuale a lui richieste nonché, a seguito di apposito servizio di osservazione, un anomalo intervento nella vicenda al di fuori dell’ordinario ambito processuale da parte del difensore di Scotto Gaetano, avvocato Giuseppe Scozzola”.

Questi sono i fatti. Se qualcuno ha depistato via d’Amelio andatelo a cercare in chi ha condotto le indagini che hanno portato all’arresto di Scarantino. Se qualcuno in dibattimento ha creduto a Scarantino, ricordate che quei pm citati in causa – io parlo per me – per metà degli accusati di Scarantino hanno chiesto l’assoluzione e per gli altri hanno chiesto la condanna sulla base di altri. Se qualcuno si lamenta del fatto che 7 posizioni sono state revisionate, bisogna ricordare che la stessa Corte di primo grado ne aveva assolte.

Questi sono i dati oggettivi su quelle vicende che qualcuno vuole falsamente e strumentalmente utilizzare nei miei confronti. Non voglio fare dietrologia, so benissimo che c’è anche una gran parte di persone, politici, giornalisti, che aspira alla verità e pensa che questa sia la questione centrale dell’accertamento della ricerca della verità su via d’Amelio. Ma temo che ci sia invece qualcuno che voglia azzerare, delegittimare e buttare al vento tutto quello che si è fatto: i 26 ergastoli definitivi, dire che su via d’Amelio non sappiamo niente, per non andare avanti. Abbattere anche le parti solide dell’impianto probatorio per non ripartire mai più. 
E invece ci sono degli spunti, delle parti solide per dire che quei processi quelle indagini, soprattutto il via d’Amelio ter l’ha iniziato a tracciare, che oggi meriterebbero l’approfondimento, su cui oggi si dovrebbe appuntare l’attenzione, non solo della magistratura e degli organi investigativi ma anche della politica, della Commissione parlamentare antimafia e dell’opinione pubblica in generale.

Uno dei principali protagonisti della stagione delle stragi del ’92, Mario Santo Di Matteo, nel momento drammatico del primo colloquio con la moglie dopo il rapimento del figlio viene in maniera disperata pregato di non parlare della strage di via D’Amelio. Nell’ambito delle indagini su via d’Amelio ter io li ho poi posti a confronto: hanno negato la valenza di quelle intercettazioni, che però pesano come un macigno. 
Per me è un momento liberatorio poter dire che questi 25 anni proprio persi non sono stati. E che in questi anni qualcuno si è esposto in maniera particolare per queste indagini, per cui leggere 25 anni di insabbiamenti fa molto male. 

C’è uno spunto che è stato sempre trascurato: il giorno dopo la strage di via d’Amelio un ufficiale molto stimato del Ros dei Carabinieri, l’allora capitano Sinico, si presentò in procura a Palermo e ad alcuni magistrati – Antonio Ingroia e un altro – disse che aveva saputo che nel momento immediatamente successivo all’esplosione in via d’Amelio era stato visto il dottor Contrada allontanarsi dal teatro della strage, non ricordo se disse o meno con un’agenda in mano. Il collega Ingroia riferì immediatamente a verbale questi fatti a chi conduceva le indagini all’epoca. La dottoressa Boccassini, in particolare, prese a verbale il dottor Ingroia. Io lo leggo quando, nel ’95, comincio a sfogliare le carte delle indagini precedenti. Sinico era stato chiamato dalla dottoressa Boccassini e aveva detto: “Si tratta di un mio amico fraterno, e non lo voglio esporre, non le dico chi è la persona”.

Dal ’92 fino a quando il giovane pubblico ministero nel ’95 prende queste carte e legge il verbale, questa affermazione di Sinico bloccò le indagini su quel punto. Io andai dal procuratore dell’epoca e dissi che questo ufficiale non poteva invocare il diritto di non rivelare la fonte della sua informazione, non si trattava di un confidente ma di un amico. Richiamai quell’ufficiale, particolarmente efficace ed esposto nella lotta alla criminalità, che era stato indicato dal confidente D’Anna come il possibile oggetto di un attentato insieme al dottor Borsellino. Mi disse a verbale: “Lei ha ragione ed ha coraggio, però io mi faccio incriminare, non rivelo i nomi di chi ha saputo che Contrada era in via d’Amelio”. Io lo iscrissi nel registro degli indagati per false informazioni al pm. Quando lo stavo per rinviare a giudizio si presentò spontaneamente e mi disse: “Ho deciso di fare il nome”. Nel frattempo altri ufficiali dei Carabinieri avevano detto di aver saputo da Sinico la stessa informazione. Io avevo messo a confronto gli ufficiali ed in una prima fase Sinico aveva detto a Canale che si stava inventando tutto, poi mi disse che Canale non si era inventato niente.
Il soggetto che gli aveva detto di aver saputo che Contrada era lì era un funzionario di polizia, dottor Di Legami, prima sottufficiale del Ros, poi vinse il concorso in polizia e passò alla Squadra Mobile. Di Legami aveva riferito a Sinico che la stessa sera del 19 luglio alla Squadra Mobile degli agenti di polizia sopraggiunti per primi sul luogo della strage avevano visto Contrada in via d’Amelio, avevano preparato una relazione di servizio che attestasse questa circostanza ed era stato intimato loro di distruggerla.
Sinico dice: “E’ stato il mio amico, il dottor Di Legami, a dirlo, e ve lo può confermare anche un altro ufficiale del Ros, tenente Del Sole, che era con me quando me lo disse”. Io disposi dei confronti tra ufficiali dei carabinieri e funzionari di polizia, tutti stimati, da una parte e dall’altra. Uno diceva “tu mi hai detto che c’era Contrada”, l’altro, il dottor Di Legami, disse “tu stai dicendo una bugia e io so perché”. Un contrasto su una circostanza che non è proprio di poco momento. Avevamo da una parte due ufficiali di Carabinieri, dall’altra un funzionario della Polizia di Stato, che dicevano il contrario. Tanto che nel momento in cui venni trasferito a Palermo, scelsi di esercitare l’azione penale. Si è fatto un processo che è passato completamente sotto silenzio, nei confronti del dottor Di Legami per falsa informazione al pubblico ministero, concluso con un’assoluzione. Ma il dato di fatto è che se non ha mentito Di Legami l’avrebbero fatto gli ufficiali del Ros. Tutti questi spunti sono nelle indagini.

Anche su Salvatore Cancemi ci sono molti spunti. Il Ros aveva ricevuto dai procuratori di Caltanissetta, Tinebra, e Palermo, Caselli, l’incarico di custodirlo. Dal ’93 al ’96, nel momento in cui era sotto la protezione diretta del Ros – credo fu l’unico collaboratore di giustizia – materialmente custodito in una caserma dei carabinieri, dice di non sapere nulla della strage di via d’Amelio. Nel ’96 ci chiama e ci dice che aveva partecipato alla strage, ai pedinamenti la mattina degli spostamenti del dottor Borsellino. Cancemi aveva detto che Raffaele Ganci gli aveva detto che Riina aveva parlato con persone importanti, grazie alle quali aveva le spalle coperte. In quell’occasione per la prima volta mi dice: “Ricordo una riunione a casa di Girolamo Guddo nel giugno ’92, tra Capaci e via d’Amelio, quando Riina ci disse ‘adesso dobbiamo mettere mano all’eliminazione del dottor Borsellino’. Qualcuno degli esponenti disse ‘perchè in questo momento?’”. Ricorderete tutti che dopo l’iniziale reazione che portò al decreto legge l’8 giugno ’92 con l’introduzione del 41 bis in Parlamento stava maturando, e se ne aveva conoscenza dai giornali, una maggioranza contraria alla conversione in legge di quel decreto. Qualcuno fece notare a Riina che fare un’altra strage a ridosso avrebbe comportato delle conseguenze negative, con l’espressione raccontata da due collaboratori di giustizia, Cancemi e Brusca, con la quale Ganci Raffaele disse a Riina “ma che dobbiamo fare, la guerra allo Stato?”. E Riina disse: “La responsabilità è mia, si deve fare ora e sarà un bene per Cosa nostra” e, secondo Cancemi, in quel momento avrebbe detto: “Ora e in futuro dobbiamo sempre appoggiare Berlusconi e Dell’Utri, fare riferimento a queste persone, Cosa nostra ne avrà dei benefici”.

A proposito dell’insabbiamento, della “procura paramassonica” e quant’altro. All’epoca eravamo due giovani magistrati, io e il dottor Tescaroli, anche se non siamo stati i soli, perchè alcuni magistrati ci appoggiarono. Davanti al procuratore capo, dottor Tinebra, che venne alla riunione con Il Giornale che titolava in prima pagina “le balle di Cancemi”, pretendemmo che venissero iscritti per concorso in strage Berlusconi e Dell’Utri, con i nomi di copertura Alfa e Beta. Facemmo delle indagini e delle deleghe di indagini firmate esclusivamente dai due giovani magistrati della procura, Di Matteo e Tescaroli. 

Ricorderò sempre il dato poi ripetuto processualmente anche da un collaboratore di giustizia più recente: Vito Galatolo, soggetto appartenente ad una famiglia stragista, che scrisse nel novembre del 2014 chiedendo di avere un colloquio con me, che ero alla Procura di Palermo. E come è diventato noto anche a questa Commissione, quando fu al cospetto mio e dell’ufficiale di polizia giudiziaria non volle verbalizzare niente ma disse in maniera agitata che dovevo stare attento perchè l’attentato nei miei confronti era già pronto nei minimi dettagli. Raccontò del tritolo acquistato e di aver visto l’esplosivo destinato all’attentato, e alla mia domanda “perchè?” fece un gesto: c’era in quell’aula del carcere di Parma una nota fotografia di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, e Galatolo disse: “La sua situazione è non come quello – indicando Giovanni Falcone – ma come l’altro. A noi, come era avvenuto per l’altro, ce l’hanno chiesto. All’epoca ero giovane ma sono figlio di mio padre e queste cose le ho sapute”.

Ovviamente non mi sono più potuto occupare di interrogare Galatolo, penso che altri l’avranno fatto. Ma gli spunti sono tanti. Per anni, soprattutto da quando si è pentito Spatuzza, abbiamo saputo che il principale protagonista della fase esecutiva della strage di via d’Amelio è stato Giuseppe Gravano. L’abbiamo appreso anche prima, dalle indagini da me condotte: c’è il dato che Giovanbattista Ferrante, l’uomo incaricato di pedinare il dottor Borsellino, vide transitare il convoglio delle macchine in via Belgio alle 16.52, per dire che stava arrivando dalla madre, dove sapevano che doveva arrivare, chiamò un telefono nella disponibilità di Cristoforo Cannella, più stretto uomo di fiducia di Giuseppe Graviano. Poi, del ruolo di Graviano, abbiamo saputo ancora meglio con Spatuzza. Però sappiamo anche che Graviano è stato il principale protagonista degli attentati a Roma, Firenze e Milano del ‘93. Oggi sappiamo che è stato anche il principale protagonista dell’accordo con la ‘Ndrangheta che portò nei primi mesi del ’94: il 18 gennaio al duplice omicidio dei due appuntati dei carabinieri a Scilla, Fava e Garofalo, e gli altri attentati per fortuna falliti nei confronti dei carabinieri, sempre in territorio calabrese. Soprattutto, sappiamo che Graviano è stato il principale protagonista del fallito attentato all’Olimpico, il 23 gennaio 1994. Il 27 gennaio, insieme al fratello Filippo, viene arrestato a Milano. Quell’attentato è uno dei grandi misteri, non tanto perchè non sia riuscito il 23 gennaio, ma perchè non sia stato mai più ripetuto, per fortuna, anche se ci dovremmo chiedere il perchè. 
Quando Spatuzza si pentì fecero scalpore le dichiarazioni sull’incontro al bar Doney a Roma, in via Veneto, che riusciamo a collocare pochi giorni prima del 23 gennaio. Rivela Spatuzza di come Graviano gli dice che l’attentato lo devono fare lo stesso, che i calabresi si sono mossi, che dobbiamo dare quest’ultimo colpo, tanto ormai “ci siamo messi il Paese nelle mani” e avrebbe fatto i nomi di Berlusconi e Dell’Utri come i soggetti con i quali erano stati stipulati quegli accordi. All’epoca si disse che erano dichiarazioni de relato. Oggi, con la nostra attività alla Procura di Palermo, un anno di intercettazioni ambientali dei colloqui tra Giuseppe Graviano e il suo compagno di socialità, c’è la viva voce di Graviano, perno di queste vicende, che parlando del ’92 e ’93 e delle stragi fa riferimento di cortesie fatte e di contatti politici con Berlusconi. 
Mi auguro di sbagliare, ma rispetto a questa escalation di elementi di prova sul punto, temo l’indifferenza, la minimizzazione, lo svilimento ingiustificato della valenza probatoria anche delle dichiarazioni di Graviano, attraverso la discutibilissima affermazione prospettata da alcuni difensori e fatta propria dalla maggior parte dei giornali, che Graviano sapeva di essere intercettato. A noi risulta il contrario, ma ammesso e non concesso che sapesse di essere intercettato, il fatto che si riferisse a quelle vicende e persone, in relazione al periodo delle stragi, in ogni caso un significato dovrà pur averlo.

Sono veramente tanti gli spunti che ancora dovrebbero essere approfonditi. Molti sono stati il frutto del lavoro di magistrati tra i quali c’ero anch’io. Tutto viene concentrato sulla vicenda Scarantino: si vuole far credere che il lavoro fatto finora da decine di magistrati non è servito a nulla. Io temo che questo sia controproducente all’accertamento della verità. 
Spero che questa mia audizione possa servire anche a stimolare lo sforzo di prosecuzione e completamento del percorso di verità sulle stragi che oggi, lo affermo con molta amarezza ma piena consapevolezza e senza enfatizzazione, è rimasto nel disinteresse generalizzato sulle spalle di pochi magistrati, investigatori ed esponenti della politica.

La presidente interviene evidenziando che per la Commissione Antimafia Scarantino non rappresenta un pretesto per spostare l’attenzione da quello che appare come un vero e proprio depistaggio. La Bindi domanda quindi al dott. Di Matteo se consideri la vicenda Scarantino un errore giudiziario.

Io non penso assolutamente che per la Commissione la vicenda Scarantino possa costituire un pretesto per non indagare in altre direzioni. Per questo motivo, quando dopo le vostre audizioni del 18 e 19 luglio a Palermo si è scatenata quella campagna mediatica, non ho replicato con un’intervista, ma ho chiesto di rappresentare dei dati di fatto, e per me la sede istituzionale più autorevole è questa dove poter rappresentare ciò che avevo già riferito in aula a Caltanissetta. 

Non ho mai citato né le interviste né le dichiarazioni di Fiammetta Borsellino. Anche per me è importante che si accerti se nella fase iniziale sia intervenuto un depistaggio, perchè può essere indicativo di mandanti o complicità esterne. Ma c’è una parte della stampa – che da sempre fa riferimento a Giuliano Ferrara, al Foglio, molto spesso ripresa da organi di informazione importanti in Sicilia – che concentra tutto quello che c’è ancora da approfondire sulla strage di via d’Amelio sulla fase iniziale di Scarantino, e ho il sospetto che tragga origine dal fatto che si vuole azzerare tutto. Si vuole dimostrare che nulla è stato fatto per dire che nulla ancora si può fare. Si è scoperto che Scarantino era un collaboratore inattendibile o poco attendibile, sul punto preciso che nel via d’Amelio ter, tra il ’97 e il ’99, non l’abbiamo nemmeno citato. Nel via d’Amelio bis, nell’istruttoria dibattimentale, le dichiarazioni di Scarantino sono state usate minimamente, noi stessi abbiamo parlato di inquinamento. Abbiamo chiesto chiesto l’assoluzione di parte importante delle persone accusate da Scarantino, e di tutti quelli che erano accusati solo da Scarantino.

La presidente Bindi interviene ulteriormente sulla questione del depistaggio.

E’ stato pesante nella prima fase: nel primo processo e solo in parte nel secondo. Poi è stato completamente disatteso dallo sviluppo delle indagini. Sul punto sono stati poi sentiti Cancemi, Ferrante, e la stessa Procura di Caltanissetta dell’epoca non l’ha nemmeno messo nella lista dei testimoni. I processi via d’Amelio bis e ter vengono celebrati nel ’96-’97. Non guardate solo alle dichiarazioni di Scarantino. Se lui è il pupo che qualcuno ha vestito bisogna vedere come si è arrivati a individuarlo il 26 settembre ‘92. E quel giorno, ad occuparsi delle stragi in generale, erano altri magistrati, tra i quali i dottori Boccassini, Cardella, Tinebra. Ricorderò male, ma mi pare che al primo interrogatorio di Scarantino ci fosse anche la Boccassini. 
Se c’è stato depistaggio, secondo la mia opinione, si è cominciato a concretizzare prima del settembre ‘92. Io entro a far parte del pool stragi due anni e due mesi dopo. È possibile che qualche informatore della polizia avesse indicato in parte la verità, e con un’operazione spregiudicata la polizia abbia trovato una persona che si assumesse e mettesse a verbale la paternità di quelle conoscenze? A me fa paura il dato che Scarantino non accusa solo persone innocenti, ma anche soggetti del mandamento di Brancaccio che anche Spatuzza accuserà, e poi condannate definitivamente. Questo è un altro dato secondo me importante. 
Per quanto riguarda la lettera della dottoressa Boccassini anch’io, sotto giuramento da testimone, ho detto prima di oggi queste cose, e cioè che quella lettera l’ho conosciuta soltanto negli ultimi anni a Palermo. Forse non c’è nemmeno contraddizione, a meno che la dottoressa Boccassini non dica di avermene parlato. Ma con me non ne ha parlato. Quella lettera, che ora apprendo non essere nemmeno firmata, non l’avevo mai vista, nessuno me ne ha parlato. E questa è la realtà dei fatti.

La presidente della Commissione Antimafia interviene per chiedere se, al di là di politici, poliziotti e carabinieri implicati in questa vicenda, vi sia anche qualche magistrato.

E’ possibile, ma tra i magistrati che in quella vicenda potevano essere implicati non c’era certamente il dottor Di Matteo… Però, presidente, il mio nome è stato fatto e guarda caso da tanto tempo, da prima del 19 luglio, per la vicenda Scarantino è al centro di una continua campagna di stampa, soprattutto di alcuni organi di stampa che notoriamente sono vicini ad alcuni soggetti di cui alle piste investigative che ho delineato.

L’On. Bindi conclude la seduta chiedendo nuovamente al dott. Di Matteo se ritiene la vicenda Scarantino un errore giudiziario.

Se qualcuno ha messo in bocca a un soggetto che non sapeva niente, come ho ipotizzato ora, qualcosa che aveva appreso da altri, non è semplicemente un errore: è un depistaggio e una condotta gravissima. Se qualcuno nella magistratura l’abbia avallata è altrettanto grave. L’errore può essere la valutazione sulla credibilità piena, non piena o parziale. Se questo è avvenuto, ed è l’ipotesi che ritengo più credibile, non si tratta semplicemente di un errore ma di qualcosa di ben più grave, che è certamente opportuno accertare.  ANTIMAFIA DUEMILA trascrizione a cura di Miriam Cuccu (n.b. le evidenze in rosso sono ns.)

 

 

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