🔴 L’ultima notte di Borsellino e quell’appalto insanguinato

 
 

Cosa c’era nel fascicolo numero 5261/90? Le indagini sull’omicidio dell’imprenditore palermitano Luigi Ranieri, ammazzato da Salvatore Biondino con tre colpi di lupara il 14 dicembre del 1988.
La sua famiglia si occupava di costruzioni da generazioni, i nonni avevano realizzato la stele della Madonna di Messina che si vede dai traghetti, lui stesso si era occupato del rifacimento del Teatro Massimo e di una commessa all’aeroporto di Punta Raisi.
La colpa? Non essersi assoggettato con la sua Sageco al modus operandi disvelato dal famoso dossier «mafia-appalti», il rapporto dei carabinieri del Ros al quale Borsellino intendeva lavorare dopo la morte di Giovanni Falcone ma definitivamente archiviato a fine estate 1992. È il sistema degli appalti decisi intorno a un tavolino, messo in piedi da Cosa Nostra e da imprenditori collusi.
La resistenza di Ranieri alle lusinghe dei boss è stata confermata da vari pentiti, tanto che Totò Riina è stato condannato all’ergastolo come mandante dalla Cassazione con la sentenza 573/1998.

Ma cosa cercava Borsellino? È pacifico, ricorda uno degli inquirenti dell’epoca, che Ranieri dava fastidio a Cosa nostra non solo perché non si voleva piegare, ma perché grazie a un know how di tutto rispetto faceva affari a dispetto dei boss.
Mandando un messaggio distonico rispetto al do ut des tra mafia e imprenditori spregiudicati.
Un accordo, dirà Giovanni Falcone negli appunti (anch’essi declassificati) del suo discorso a Castel Utveggio del 15 marzo 1991, difficile da cristallizzare per la mancanza di indagini attendibili e precise: «In concreto ignoriamo la portata dell’infiltrazione mafiosa nel tessuto economico, non lo sappiamo ancora con precisione», scriveva il magistrato saltato in aria a Capaci il 23 maggio 1992. Il condizionamento «è più grave di quello che appare», fece capire il magistrato.

Ma quelle indagini che invocava Falcone non si fecero mai. Anzi. Lo scontro dentro la Procura di Palermo potrebbe essere stato fatale per entrambi.

Per Fabio Trizzino, legale della famiglia e marito di Lucia Borsellino, pochi giorni prima che Borsellino morisse il pm Guido Lo Forte gli nascose di avere firmato l’archiviazione dell’inchiesta mafia-appalti. Anche il generale dei carabinieri Mario Mori, nel libro La verità sul dossier mafia-appalti scritto con Giuseppe De Donno, è convinto che quel dossier frettolosamente accantonato sia il vero movente delle stragi di Capaci e Via d’Amelio e che Borsellino «fu scientemente ostacolato da qualche collega in procura a Palermo». Per l’ex pm Roberto Scarpinato c’entrano i invece i soliti servizi segreti, italiani e stranieri.

Ma c’è un’altra vicenda che unisce idealmente i due giudici. Sappiamo per certo che Borsellino il 17 luglio aveva visto Gaspare Mutolo, che mesi prima Falcone aveva interrogato nel carcere di Spoleto, uscendone persuaso del fatto che non fosse intenzionato a collaborare, come invece farà. Sappiamo che altri inquirenti erano al corrente di alcune sue dichiarazioni ma non gliene ne fecero cenno. «È molto probabile siano stati uccisi proprio per le rivelazioni di Mutolo – dirà Gioacchino Genchi in una frase ripresa nel libro I Diari di Falcone di Edoardo Montolli (edito da Chiarelettere nel 2018) – non a caso le sue dichiarazioni con Borsellino faranno accelerare la strategia stragista».
C’è un filo rosso che lega Mutolo all’omicidio Ranieri e al dossier mafia-appalti? È uno dei nodi che questa Antimafia, finalmente libera dai troppi condizionamenti ideologici che l’hanno paralizzata in passato, dovrà sciogliere. Se il movente sulla morte dei due giudici ammazzati dalla mafia e da pezzi di Stato è frammentata e claudicante è anche per chi ha convinto la magistratura a scandagliare piste inconsistenti che ancora oggi tengono lontana la verità.

Felice Manti 15 Febbraio 2024 – IL GIORNALE


1.7.1992 PROCURA DELLA REPUBBLICA PRESSO IL TRIBUNALE DI PALERMO  – DIREZIONE DISTRETTUALE ANTIMAFIA

L’anno millenovecenonovantadue, addi’ 1 del mese di luglio, alle ore 9.00 in Roma negli Uffici del Servizio Centrale Operativo davanti ai Procuratori della Repubblica Aggiunti, Dr. Vittorio ALIQUO’ e Dr. Paolo BORSELLINO, assistiti dal V. Isp. LAPI Enrico e con la presenza per esigenze investigative del V. Questore Agg. Dr. Andrea CARIDI e V. Questore Agg. Dr. CASABONA Carmelo, Dirigente della Squadra Mobile di Caltanissetta, e’ comparso MESSINA Leonardo gia’ qualificato il quale prosegue a rendere le dichiarazioni iniziate in data di ieri. Non e’ presente l’Avvocato LI GOTTI, sebbene regolarmente avvisato. Il MESSINA dichiara: all’appalto dei lavori dell’Istituto Tecnico per Geometri di Caltanissetta va ricollegato anche all’omicidio del titolare della SAGECO, un grosso imprenditore che fu ucciso in Palermo certamente per ordine di SIINO Angelo. Invero, come in ogni altro appalto che l’organizzazione mafiosa si riproponeva di controllare, si passo’ anche con riguardo a quello di cui trattasi a tre successive fasi di pressione. Dapprima i titolari della ditta destinata a vincere l’appalto avvicinano gli altri concorrenti inducendoli a rinunciare alla gara o a concordare con loro preventivamente l’offerta. Se tali pressioni non hanno esito e’ lo stesso SIINO Angelo che avvicina le ditte concorrenti che non addivengono all’accordo. Se neanche le pressioni del SIINO Angelo hanno esito entrano in azione i componenti della famiglia mafiosa con atti di intimidazione che possono giungere fino all’omicidio. Nel caso specifico dapprima si mossero i fratelli ANZALONE designati alla vincita della gara d’appalto che in effetti poi vinsero.
Quindi si mosse il SIINO Angelo anch’egli senza esito in quanto l’imprenditore che ora ricordo chiamarsi RANIERI non volle ricevere ne gli ANZALONE ne il SIINO Angelo medesimo. Io ero stato incaricato di richiedere l’appuntamento per il SIINO Angelo e gli riferii che non era stato possibile ottenerlo. Egli di rimando mi disse ” ora ci pensiamo noi”.

Dopo circa una settimana appresi dal giornale che il RANIERI era stato ucciso in Palermo. Con il SIINO Angelo e’ in contatto anche l’Ing. DI VINCENZO Pietro che e’ incaricato di portare i guadagni e le tangenti che spettano direttamente alla ” Regione” e per essa ovviamente al RIINA Salvatore.

Quest’ultimo inoltre e’ il maggiore interessato della CALCESTRUZZI S.p.A. che agisce in campo nazionale. Cio’ mi risulta per averlo appreso da FERRARO Salvatore detto “barone” ambasciatore di MADONIA

Giuseppe nella provincia di Caltanissetta ed anche a Palermo. Io mi ero rivolto a lui per lamentarmi del fatto che l’Ing. DI VINCENZO Pietro mi avesse dato solo 15 milioni in relazione ad un appalto per la canalizzazione delle acque che e’ in corso d’opera nei pressi di San Cataldo e che ha un valore di molti miliardi. Il FERRARO Salvatore mi disse che dovevo lasciare perdere e mi spiego’ che c’erano gli interessi di RIINA Salvatore come sopra ho detto. A questo punto interviene l’Avv. LI GOTTI. 

ADR. Conosco i fratelli RIBISI di Palma di Montechiaro. Ebbi occasione di conoscere per primo RIBISI Gioacchino il quale venne presso la mia macelleria a San Cataldo accompagnato da DE CARO Giuseppe che si portava dietro il figlio che non e’ uomo d’onore e che conducente una Renault 21. Nella mia macelleria si incontrarono con me IANNI’ Francesco da Sommatino, TERMINIO Cataldo, NARO Lorenzo, PACINO Gaetano, sottocapo della provincia di Caltanissetta. Le ragioni dell’incontro vertevano sui fratelli PIRRELLO di Riesi, pastori che avevano rubato delle pecore che erano di proprieta’ del cognato di un magistrato di Sciacca. Si stabili’ che io RIBISI e FERRARO ci saremmo recati ad uccidere i fratelli PIRRELLO in zona nella provincia di Enna. L’omicidio in effetti non fu consumato perche’ i PIRRELLO non furono trovati ed il giorno successivo l’ordine di uccidere venne addirittura revocato. Dopo questo episodio io contrassi forte amicizia con RIBISI tantoche’ per sua intercessione consentii a tale SAVAIA Pasquale, Palmese, che mi era debitore per acquisti non pagati di carne, a rilasciarmi delle cambiali a copertura di un assegno che non mi era stato pagato. Si tratta delle cambiali e dell’assegno che le SS.LL. hanno esaminato ieri tra i miei documenti. I rapporti con il RIBISI Gioacchino continuarono con frequenza pressoche’ giornaliera che coinvolgeva anche le rispettive famiglie.

Cosi’ conobbi anche i suoi fratelli RIBISI Ignazio, RIBISI Pietro, RIBISI Calogero e RIBISI Rosario. A RIBISI Pietro vendetti una Honda 900 Bordor alcuni pezzi della quale sono ancora in mio possesso. Frequentai anche le loro abitazioni in Palma di Montechiaro in occasione di una fiera nella quale intervenne COTUGNO Toto’. Fui designato quale padrino di cresima del figlio di RIBISI Gioacchino del nome Nicola. Andavamo al mare assieme, allorche’ io mi trovavo a soggiornare a San Leone. I RIBISI si determinarono ad uccidere BORDINO del quale non ricordo il nome, che era sottocapo della famiglia di Palma, della quale RIBISI Rosario era il rappresentante. Ritengo che il BORDINO rappresentasse la corrente del vecchio SANBITO e con la sua uccisione i RIBISI avrebbero acquisito l’assoluto predominio della famiglia.

In previsione dell’omicidio di detto BORDINO, RIBISI Gioacchino si allontano’ da Palma per non essere sospettato in quanto veniva ritenuto il piu’ sanguinario. Di uccidere il BORDINO si incarico’ RIBISI Rosario in compagnia di ANZALONE Traspadano, tuttavia l’arma gli si inceppo’ e BORDINO pote’ riconoscerlo, perche’ si tolse il cappuccio. Subito dopo io ricevetti la visita di RIBISI Pietro, che non mi e’ stato mai presentato come uomo d’onore. Costui mi prego’ di recarmi subito ad uccidere io il BORDINO, ed avrei dovuto farlo a faccia scoperta perche’ forestiero. Accettai l’incarico e con RIBISI Pietro mi recai da RIBISI Rosario da li’ fui accompagnato sul luogo dove era programmato l’agguato dal suocero di RIBISI Ignazio con la sua macchina. Tuttavia il BORDINO non si fece vedere e non fu possibile consumare l’omicidio. In buona sostanza i RIBISI ritenevano che essendo fallito il primo attentato il BORDINO non avrebbe avuto ragioni di immagginarsene uno subito dopo e pertanto sarebbe stato facile sorprenderlo, ma il BORDINO si guardo’ bene da farsi vedere.

Sta di fatto che dopo qualche giorno uccisero il RIBISI Gioacchino, mentre mangiava al ristorante “zingarello” di Palma di Montechiaro. Quella sera dovevo essere anch’io con lui ed infatti eravamo stati assieme al mare, ma poi avevo preferito defilarmi poiche’ preferivo non farmi vedere a Palma Montechiaro dove molti mi conoscevano. L’indomani vennero a trovarmi al villaggio Mose’ RIBISI Pietro ed RIBISI Ignazio i quali mi confidarono che DE CARO Giuseppe pretendeva che proprio loro due si recassero ad uccidere il BORDINO. Io protestai mettendoli sull’avviso poiche’ non e’ affatto prudente condurre azioni di fuoco in prossimita’ temporale con l’omicidio di un proprio congiunto col rischio di incappare facilmente nei controlli delle Forze dell’Ordine gia’ impegnate nelle indagini, facendo nel contempo notare la propria assenza alla veglia o alle esequie funerarie. Il RIBISI Pietro e RIBISI Ignazio poco intesero delle mie raccomandazioni ed insistettero perche’ io con loro partecipassi alla azione di fuoco voluta da DE CARO Giuseppe, infatti quel giorno io mi recai a Palma e mi appartai con i fratelli RIBISI, vi erano RIBISI Pietro ed RIBISI Ignazio, il suocero di Ignazio, ANZALONE Traspadano, CASTRONOVO, quello che e’ rimasto vittima della lupara bianca, che proprio quel giorno aveva avuto ucciso un fratello. Ci fornimmo di armi e partimmo io RIBISI Pietro, RIBISI Ignazio a bordo di una Fiat 127 condotta da Pietro. Pietro ed Ignazio erano incappucciati. Io sul sedile laterale anteriore, senza cappuccio, che cercavo di nascondermi il viso. Durante il tragitto io protestavo poiche’ non condividevo la scelta di tempo di quella azione criminosa

infatti mi accompagnavo a loro perche’ sentivo di avere un personale obbligo morale ma ben conscio di contravvenire sia alle regole di prudenza sia a quelle di Cosa Nostra poiche’ mi trovavo fuori provincia. Il suocero di RIBISI Ignazio mi era stato detto che si sarebbe trovato nei pressi dell’abitazione di BORDINO per darci il segnale positivo della sua presenza. Senonche’ non si fece trovare. Giunti di fronte all’abitazione del BORDINO notammo solo la moglie la quale con un calcio chiuse la porta a vetri. Io non vidi traccia del BORDINO ma i RIBISI insistettero perche’ sparassi comunque tanto che sparai qualche colpo di pistola, ed io sparai in effetti alcuni colpi di revolver 38 contro il muro evitando di indirizzarli contro la donna che io vedevo chiaramente alla distanza di circa 3 o 4 metri. Infatti la porta che la BORDINO aveva chiuso era in realta’ una mezza porta che lasciava pertanto libera la parte superiore. Risalimmo in macchina e facemmo il percorso inverso e poiche’ i RIBISI erano cosi’ imbranati che si erano lasciati i cappucci fui io a strapparglieli. Giungemmo ad una cava dove ritrovai il suocero di Ignazio, ANZALONE Traspadano il CASTRONOVO, e RIBISI Rosario. Io ero particolarmente all’erta e tenevo costantemente la mano sulla pistola poiche’ covavo il timore che a questo punto mi ero messo nella condizione di poter essere ucciso io che mi trovavo fuori regola rispetto alle norme di Cosa Nostra perche’ avevo partecipato ad una azione criminosa fuori provincia senza il regolare permesso e potevo essere un teste pericoloso. In epoca precedente a questo episodio RIBISI Gioacchino mi aveva pregato di procurargli un appuntamento con MADONIA Giuseppe perche’ intendeva accusare DE CARO Giuseppe il quale aveva mandato l’ordine ai RIBISI di uccidere il Giudice SAETTA tramite il di lui figlio (di DE CARO) che non era uomo d’onore. Io lo pregai di esonerarmi da tale incarico poiche’ gia’ mi trovavo in difetto col MADONIA Giuseppe a causa di altra vicenda. Infatti il MADONIA Giuseppe, che io ero andato a trovare in una villa a Bagheria assieme a FERRARO Salvatore, mi aveva pregato di fargli un favore personale, di uccidere cioe’ IANNI’ Francesco il quale era amico di tale DI BILIO che a MADONIA Giuseppe aveva ucciso il padre. Io feci una imprudenza, cioe’ confidai di questo incarico datomi dal MADONIA Giuseppe a NARO Lorenzo mio capo famiglia e cio’ perche’ trattandosi di incarico non commessomi dalla famiglia e che doveva restare segreto anche all’interno di Cosa Nostra (IANNI’ Francesco era infatti capo mandamento e sarebbe stato necessario l’ordine della Regione) volevo tutelarmi assicurandomi che il NARO Lorenzo avrebbe provveduto all’assistenza della mia famiglia se mi fosse successo qualcosa. Successivamente litigai col NARO Lorenzo perche’ mi rifiutai di fare uomo d’onore tale

VASSALLO Calogero ed il NARO Lorenzo, recatosi dal MADONIA Giuseppe gli riferi’ diverse cose contro di me tra le quali la mia intenzione di uccidere IANNI’ Francesco. Cosi’ il MADONIA Giuseppe apprese che io avevo confidato a taluno del suo incarico e resto’ di malanimo nei miei confronti. Anzi mi incastro’ poiche’ sciolse temporaneamente la famiglia di San Cataldo dandomi l’incarico di tutelare la vita di NARO Lorenzo. Dopo la morte di RIBISI Gioacchino io non mi sono piu’ recato a Palma di Montechiaro e con i RIBISI ho avuto un solo contatto tranne taluni con la sorella che abita a Termine Imerese alla quale portai del denaro da destinare ai suoi fratelli. Sino a quando io ebbi contatti con i fratelli RIBISI sapevo che costoro erano in ottimi rapporti con gli ALLEGRO di Palma, anch’essi aderenti a Cosa Nostra insieme a due loro cugini di Serradifalco che mi sono stati personalmente presentati come uomini d’onore.

Non conosco l’esistenza in Palma di Montechiaro di una cosca mafiosa chiamata dei “cudi chiatti”. Se esiste non e’ una costa aderente a Cosa Nostra ma semplicemente una banda. A tal proposito voglio precisare che in provincia di Agrigento sono particolarmente potenti, e specialmente a Favara i cosi’ detti “stiddarioti”. In questo caso si tratta di una cosca perfettamente speculare a Cosa Nostra della quale osserva tutte le regole anche se non si riconosce nei loro capi provinciali e regionali. Gli stiddarioti sono “come noi” ed hanno origine dal consolidarsi di mafiosi attorno ad un uomo d’onore che e’ stato messo fuori da Cosa Nostra per colpe non gravi che gli garantiscono almeno la sopravvivenza. Mi riservo di riferire alle SS.LL numerosi particolari circa le vicende di Cosa Nostra in provincia di Agrigento.

F.L.C.S

F.TO: V. ALIQUO’, P. BORSELLINO, E. LAPI, A. CARIDI, C. CASABONA, L. MESSINA.

 

 

 

Il Rapporto “Mafia&Appalti” e l’eliminazione del dottor Paolo Borsellino