La pentita GIACOMA FILIPPELLO all’indomani dell’uccisione di Borsellino: “Ora sono rimasta veramente sola”

 

«Sono rimasta davvero sola» «Ora posso dire che veramente sono rimasta sola». La pentita Giacoma Filippello, ex convivente del capomafia Natale D’Ala, così ha sintetizzato al tg3 i suoi sentimenti all’indomani dell’uccisione di Borsellino: «C’eravamo sentiti una settimana dopo la morte di Falcone e gli avevo detto che avevo scritto una poesia per l’amico. Lui mi ha detto: “Sono felice che lei lo abbia ricordato nella maniera che solo lei sa fare, dedicandogli la poesia che mi sta leggendo’. Poi, con un nodo alla gola, per rianimarmi disse: “Speriamo che non debba scriverne una anche per me”». La Filippello ha aggiunto: «Borsellino mi diceva sempre che le cose che dicevo io si verificavano puntualmente; che come dicevo io, la mafia è come la matematica, precisa». «Ecco – ha concluso – ho un ricordo bellissimo di lui, sempre sorridente, in cerca sempre della verità e della giustizia». (Ansa)

Giacoma Filippello (‘Za Giacomina) per ventiquattro anni è stata la compagna di Natale L’Ala, e ha potuto assistere a scie di sangue e conosciuto uomini importanti dei clan, era parte del clan e da tale si è comportata a tutti gli effetti.
Quando ha capito che volere giustizia è diverso che vendicarsi uccidendo, s’è trovata sola. Le sue notti sono state tormentate da dubbi e nostalgia ma è diventata una pentita. Una delle prime donne di mafia che si sono messe a collaborare coi giudici.
Ma di tutta la sua vita avventurosa ’Za Giacomina sempre preferisce ricordare i momenti felici del passato e le indicibili tenerezze di cui l’uomo che ha amato, un boss cui sono attribuiti gravi reati, era capace.
Glielo hanno ammazzato, il suo uomo, il 7 maggio ’90, e lei s’è fatta pentita. Per amore e per vendetta. Con furore. “Quando vennero a dirmi che avevano ucciso Natale, mi si annebbiò la vista. Sapevo che prima o poi sarebbe arrivata la mala notizia.” Dissi: “Chi deve pagare, pagherà” ha raccontato al giornalista della Stampa Francesco La Licata, siciliano, esperto di mafia, con il quale – dopo il pentimento, in un periodo che era a Roma – aveva voluto parlare.


Omicidio Rostagno, depone la compagna del boss di Campobello di Mazara

 

È proseguito ieri con l’audizione in videoconferenza di Giacoma Filippello compagna del defunto boss di Campobello di Mazara Natale l’Ala, ucciso nella guerra di mafia degli anni ’90, il processo per falsa testimonianza che si celebra innanzi il Tribunale di Trapani, presidente Roberta Nodari, pubblico ministero Sara Morri. Accusa dalla quale si devono difendere 10 persone, testi nel processo di primo grado per l’omicidio di Mauro Rostagno. La Filippello ha risposto alle domande dell’avvocato Giuseppe De Luca, legale di Beniamino Cannas, sottufficiale dell’arma che partecipò alle indagini per il delitto Rostagno. Cannes è accusato di aver negato il vero «ed in particolare di aver riferito a Carla Rostagno (sorella di Mauro), nel corso di un colloquio con la stessa, di aver saputo dal fratello, poco prima che venisse ucciso, che lo stesso Rostagno aveva avuto un incontro con Natale L’Ala (mafioso e massone), dal quale era uscito sconvolto, in cui si era parlato delle vicende relative alla Loggia Scontrino di Trapani.


Una cena a casa di un preside e la morte del prefetto Dalla Chiesa

 

La testimonianza di Giacoma Filippello nel processo per il delitto di Mauro Rostagno ha aperto nuovi scenari sull’omicidio del 3 settembre 1982 dell’ex generale dei carabinieri. “I mafiosi trapanesi volevano quella morte”

Tre settembre 1982, Palermo via Carini. La mafia quella sera ammazzò il prefetto di Palermo Carlo Alberto Dalla Chiesa e sua moglie, Emanuele Setti Carraro. Stavano percorrendo quella strada a bordo della loro utilitaria, la guidava la donna. Con loro colpirono a morte anche l’agente Domenico Russo che seguiva la vettura con l’auto blu della prefettura. Prefetto per 100 giorni a Palermo dove era arrivato nel maggio del 1982 all’indomani di un altro efferato omicidio mafioso, quello del segretario regionale del Pci Pio La Torre. Ma quei giorni erano stati fatidici per il suo destino. La mafia si era ritrovato dinanzi uno dei suoi avversari più pericolosi perchè intelligente, capace di mettere a fuoco gli affari che interessavano Cosa nostra. E a quell’epoca la mafia cambiava pelle, dagli affari indiretti a quelli gestiti dalle sue imprese. La mafia che in quegli anni stava diventando qualcos’altro, quello che è oggi, ossia una organizzazione criminale che ha saputo bene parlare con la politica, che in questi mesi ha messo in luce anche un’altra sua abilità, quella di fare antimafia. L’ordine non si può dimenticare lo impartì Bernardo Provenzano dalla latitanza quando disse che le imprese mafiose dovevano associarsi ai movimenti antiracket. I vertici di Cosa nostra sono stati condannati all’ergastolo per il delitto del generale Dalla Chiesa, di sua moglie Setti Carraro e dell’agente Domenico Russo. Le indagini puntavano anche sui mandanti esterni, ma si sono arenate. Entità esterne ci sono state, viene difficile immaginare a quel commando armato con armi da guerra che commesso il triplice delitto si sia potuto dirigere nella sede della prefettura di Palermo, entrare nell’appartamento usato dal prefetto Dalla Chiesa, aprire la sua cassaforte svuotandola di ciò che conteneva. E’ un altro dei delitti dai “pezzi mancanti” (dal titolo di un libro del bravo Salvo Palazzolo), come in tanti eccellenti omicidi mafiosi poi ci si ritrova con cose che sono scomparse, e dalla cassaforte di Dalla Chiesa sono scomparse le carte sulle quali per poche settimane si era concentrato il lavoro del prefetto, mandato a Palermo per combattere la mafia ma senza ottenere quei poteri speciali che al Governo che lo mandò a Palermo inutilmente Carlo alberto Dalla Chiesa giornalmente chiedeva. Per la strage di via Isidoro Carini sono stati condannati all’ergastolo Totò Riina. Bernardo Provenzano, Michele Greco, Pippo Calò, Bernardo Brusca, Nenè Geraci, Vincenzo Galatolo, Nino Madonia, Francesco Paolo Anzelmo e Calogero Ganci, solo questi ultimi due a 14 anni, tutti gli altri, mandanti ed esecutori all’ergastolo. La sentenza scrive: “Si può, senz’altro, convenire con chi sostiene che persistano ampie zone d’ombra, concernenti sia le modalità con le quali il generale è stato mandato in Sicilia a fronteggiare il fenomeno mafioso, sia la coesistenza di specifici interessi, all’interno delle stesse istituzioni, all’eliminazione del pericolo costituito dalla determinazione e dalla capacità del generale”.Insomma ci sono altri scenari. E durante il processo per il delitto del giornalista e sociologo Mauro Rostagno d’improvviso sono comparsi elementi che viene da ricondurre a quegli scenari rispetto ai quali le indagini non sono riuscite a fare i giusti approfondimenti. Giacoma Filippello è stata per anni la compagna di un boss mafioso di Campobello di Mazara, Natale L’Ala. Ammazzato dopo avere subito diversi agguati. Il nome di L’Ala era tra quelli che compariva agli atti dell’indagine sulla massoneria deviata Iside 2 scoperta tre anni dopo il delitto Dalla Chiesa, si celava dietro il paravento di un circolo culturale che aveva sede nel centro storico di Trapani. La Filippello sentita nel processo ad un certo punto dovendo fare l’elenco dei mafiosi frequentati dal marito, si è ricordata di un castellammarese, l’odotecnico Mariano Asaro, anche lui assieme ad altri mafiosi tra gli iscritti nella loggia Iside 2, alla quale aderivano quelli che oggi verrebbero chiamati “colletti bianchi”. La Filippello si è così ricordata di una cena a casa di un preside di Castellammare del Golfo. “Io ed il mio compagno stavamo lì ed aspettavamo che si preparava la cena, esattamente, a casa di… di una signora. Dunque, il marito faceva il preside mi pare che faceva in una scuola, se non ricordo male. E stavamo lì a parlare del più e del meno, diciamo. Eravamo tutti… ed ho visto che lui si è andato a sedere sul bracciolo del… del divano e parlava con mio marito, parlavano del generale Dalla Chiesa… Lo dovevano ammazzare, signor Presidente. Detto crudo, mi dispiace proprio, che gliela dovevano fare pagare, insomma. Ecco. A lui ed a lei“. Insomma c’è la mafia trapanese dietro il delitto generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, la mafia che già nel 1983 era diventata ciò che la Cosa nostra di Riina non era riuscita ancora a diventare. La mafia che parlava con la politica, la massoneria, la mafia che era diventata impresa. La mafia alleata con Cosa nostra catanese e gli atti posti in essere da Dalla Chiesa avevano proprio preso di mira la Cosa nostra catanese, fino a quel momento collocata solo subalterna a quella palermitana, ma il prefetto Dalla Chiesa aveva compreso che le cose non stavano proprio in quel modo. Insomma mentre si dice che la mafia è sconfitta ancora una volta si scoprono che ci sono pagine che vanno scritte per intero e sino a quando questo non avverrà sarà difficile parlare di sconfitte. Come per Dalla Chiesa ci sono ancora delitti e stragi che attendono verità e giustizia, e senza verità e giustizia parlare di sconfitte è cosa alquanto sbagliata perchè dinanzi ad indagini che si fermano ci sono sempre mammasantissima con o senza coppole e lupare che mandano a ringraziare.

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