4 gennaio 2015 Intervista al Procuratore di Caltanisetta GIOVANNI TINEBRA

Giustizia: intervista all’ex Capo del Dap Giovanni Tinebra “Il Protocollo farfalla? Che è?”

È andato in pensione da procuratore generale di Catania, ma è anche stato a lungo al centro delle più grandi inchieste di mafia che la storia giudiziaria italiana ricordi. Giovanni “Gianni” Tinebra, 73 anni, non ha mai amato le interviste, ma si concede al vostro cronista che trascorse vicino a lui gli anni delle indagini per la strage Falcone e per la strage Borsellino.
Lui venne nominato procuratore capo di Caltanissetta nel giugno del ’92, a cavallo tra i due “attentatuni” di Palermo. Ha avuto una grande carriera, Tinebra, perché poi è stato anche per cinque anni direttore del Dap, il Dipartimento amministrazione penitenziaria. Che gli è rimasto alla fine? “Ho guardato dentro di me uomo più che magistrato e ho detto di sentirmi a posto con la coscienza per avere fatto fino in fondo il mio dovere”.
Tinebra fuma ancora, anche se limitatamente. Anni addietro mi aveva detto: “Devi smettere di fumare, fai come me, ogni giorno dal pacchetto metti via una sigaretta e così nemmeno te ne accorgi”. Si vede che ci ha ripensato. È nato a Enna, ma la sua famiglia è di Caltanissetta. Il primo incarico lo ebbe come sostituto alla Procura di Nicosia prima di diventarne il capo. Poi, quando Salvatore Celesti lasciò la Procura di Caltanissetta per andare a Palermo, il Csm lo designò a reggere la piccola Procura di Caltanissetta.
“C’erano due magistrati e mezzo – ricorda – e ho dovuto inventare una Procura che praticamente non esisteva. Poi il Csm mi mise a disposizione in applicazione temporanea i migliori magistrati d’Italia che accorsero a Caltanissetta con entusiasmo. Parlo della Boccassini, di Fausto Cardella, di Paolo Giordano e tanti altri, un elenco lungo di magistrati eccellenti. Anche Ilda Boccassini che alcuni giudicano piantagrane lavorava moltissimo.
Ora a carriera finita posso dire di avere avuto al mio fianco dei magistrati uno più brillante dell’altro. Di quel primo periodo ricordo una cosa: tutti guardavano a me, come dire la patata bollente è tua e te la devi sbrigare tu. Come se ci fosse scetticismo sul risultato delle indagini, soprattutto perché dopo meno di due mesi dall’agguato a Falcone sterminarono Borsellino e la sua scorta. A quel tempo era normale lo scetticismo nei confronti della lotta alla mafia.
Questo però, lungi dallo scoraggiarmi, mi fece da pungolo, perché io sono così, reagisco alle sfide. Oltre ai magistrati impegnati nelle indagini c’è stata anche la task force guidata dal questore di Palermo Arnaldo La Barbera che è stata utilissima”.

Che rapporti avevi con Borsellino?

“Con Paolo eravamo vecchi amici, eravamo in confidenza. Mi disse: senti, vieni presto, ho delle cose da dirti, però non ti seccare, parliamo quando tu sarai investito ufficialmente. Lui era molto rispettoso delle regole. Quella settimana accaddero tante cose: giorno 15 luglio presi possesso della Procura, lui mi disse che l’appuntamento del venerdì doveva saltare perché lui doveva ancora rientrare dalla Germania e stabilimmo che ci saremmo visti il lunedì. La domenica doveva andare a salutare sua madre e quel giorno ci fu la strage in via D’Amelio. In pratica non abbiamo avuto tempo per parlare di niente. Quindi m’è rimasto il dubbio su che cosa mi voleva dire”.

Ma almeno ti aveva fatto capire che pista stava seguendo per la strage di Capaci?

“L’idea, l’idea, è quella dell’alta mafia, di altissima mafia, quella delle menti raffinatissime di cui parlava Falcone dopo l’attentato dell’Addaura”.

Cosa possiamo intendere per altissima mafia? Anche quella legata ai gruppi industriali del Nord?

“Non posso dire, perché non ci sono prove”.

Ma Paolo che ti diceva? Aveva una pista? La pista degli appalti ad esempio?

“Lui diceva di sì, o comunque si occupava anche degli appalti. D’altra parte la pista era quella: o mafia e appalti, o mafia e politica, o mafia e imprenditoria. O mafia e basta, perché c’è anche questa ipotesi, perché la mafia aveva tale e tanta forza da poter contare sui contatti che voleva, sulle consulenze che le servivano”.

Adesso però è diverso. La morte di quegli uomini non è stata inutile.

“Sì, adesso è diverso, il sacrificio di Giovanni e di Paolo e di tanti amici non è stato inutile. Altrimenti non saremmo qui a parlarne, non ci sarei stato nemmeno io. Hanno cambiato la Sicilia, hanno costretto la mafia a rintanarsi. Il fatto incredibile e per certi versi misterioso è che ci sia stato così poco tempo tra Capaci e via D’Amelio, due stragi dirompenti”.

C’è stato anche qualche sbaglio nelle indagini, tipo le rivelazioni del falso pentito Scarantino.

“Non ho mai voluto parlare di questo, né voglio parlarne adesso. Dico solo che sbagli non ne abbiamo fatto, perché ci siamo limitati a prendere atto di quello che dicevano i pentiti e di quello che era stato riscontrato. Le cose senza riscontri finivano nel cestino”.

Quanto sei rimasto a Caltanissetta?

“Nove anni, in cui ho fatto le seguenti cose: ho messo in galera circa 5000 mila mafiosi, ho celebrato processi per le stragi Falcone e Borsellino, e per l’uccisione di Livatino, Saetta, Chinnici, Ciaccio Montalto, attentato dell’Addaura e qualche altra cosa che dimentico. Tutti definiti con sentenza passata in giudicato. Tutti siamo andati fino in fondo”.

Da direttore del Dap hai mai saputo del cosiddetto “protocollo farfalla”, cioè di ufficiali dei servizi che entravano nelle carceri per interrogare i boss?

“Per la verità non ho mai saputo di questo protocollo. Posso solo dire che sono venuti da me dei capi delle strutture investigative, come ad esempio il generale Mori, che mi hanno chiesto un appoggio. E io ho sempre risposto di sì nell’ambito delle regole. Tieni poi presente che la struttura è così complessa che si gestisce delegando: 45 mila poliziotti, diecimila dipendenti, 60.000 detenuti, 208 carceri”.

Come ti sei trovato negli ultimi anni da Pg? Com’era il clima attorno a te? E con il procuratore Salvi che tipo di rapporti avevi?

“Sono stato in buoni rapporti con tutti. All’inizio possono avere avuto qualche diffidenza, ma poi conoscendomi sono nate stima e amicizia. Il procuratore Salvi? Brillante, serio, capace, assolutamente disinteressato”.