VIA D’AMELIO – Gli angeli custodi di Paolo Borsellino

 

 

Sono passati 32 anni  dalla strage di via d’Amelio a Palermo nella quale persero la vita  Paolo Borsellino e cinque dei sei membri della sua scorta:Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Emanuela Loi, Claudio Traina e Vincenzo Fabio Li Muli.


 

 

Borsellino e la scorta – video



“Erano persone che facevano parte della nostra famiglia. Condividevamo le loro ansie e i loro progetti. Era un rapporto, oltre che di umanità e di amicizia, di rispetto per il loro servizio. Mio marito mi disse ‘quando decideranno di uccidermi i primi a morire saranno loro’, per evitare che ciò accadesse, spesso usciva da solo a comprare il giornale e le sigarette quasi a mandare un messaggio ai suoi carnefici perché lo uccidessero quando lui era solo e non in compagnia dei suoi angeli custodi” AGNESE BORSELLINO


19 luglio 2024 L’ordine di servizio alla “QUARTO SAVONA 21” per il servizio di scorta al dottor Borsellino

 

 

AGNESE BORSELLINO: “PAOLO e i suoi angeli custodi”  – video

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Paolo mi diceva “quando decideranno di uccidermi, i primi a morire saranno loro. Per evitare che ciò accadesse spesso e quasi sempre alla stessa ora, mio marito usciva da solo per comprare le sigarette o il giornale, come se volesse mandare un messaggio ai suoi carnefici, perché lo uccidessero quando lui era solo e non quando si trovava con i suoi angeli custodi. «Per me, come per mio marito, erano persone che facevano parte della nostra famiglia e vivevano quasi in simbiosi con noi, condividevamo le loro ansie, i loro progetti. Un rapporto oltre che di umanità, di amicizia e di reciproca comprensione e rispetto». AGNESE BORSELLINO


Lo sapeva Paolo Borsellino, lo aveva già previsto, ma sapeva anche di non poterlo evitare, non era solo la mafia a volerlo morto. A riportarci i pensieri del giudice è la moglie: “Mi ucciderà la mafia ma saranno altri a farmi uccidere. La mafia mi ucciderà quando i miei colleghi ed altri lo consentiranno”. Agnese Borsellino non si è mai tirata indietro quando le hanno chiesto di parlare degli uomini della scorta di suo marito: “Erano persone che facevano parte della nostra famiglia. Condividevamo le loro ansie e i loro progetti. Era un rapporto, oltre che di umanità e di amicizia, di rispetto per il loro servizio. Mio marito mi disse ‘quando decideranno di uccidermi i primi a morire saranno loro’, per evitare che ciò accadesse, spesso usciva da solo a comprare il giornale e le sigarette quasi a mandare un messaggio ai suoi carnefici perché lo uccidessero quando lui era solo e non in compagnia dei suoi angeli custodi”.
Spesso o quasi sempre alla stessa ora, mio marito usciva da solo per comprare le sigarette o il giornale, come se volesse mandare un messaggio ai suoi carnefici, perché lo uccidessero quando lui era da solo e non quando si trovava con i suoi angeli custodi. Lui diceva sempre: il mio scudo è Giovanni Falcone quando non avrò più questo scudo, avverrà la mia fine. Io ritengo che mio marito sia stato abbandonato al suo destino di morte. AGNESE BORSELLINO

 

 


 

 

 

PAOLO BORSELLINO, primo magistrato antimafia sotto scorta. Prima dei Carabinieri e poi della Polizia di Stato dopo il trasferimento a Marsala

 

 

RELAZIONE RISERVATA – I corpetti “antiproiettile” in dotazione alle scorte


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LE AUTOPSIE “RACCONTANO” L’ATROCITÀ DEL MASSACRO

 

«A poche ore dal fatto, il 20.7.1992 alle 00.25, il Pubblico Ministero di Caltanissetta in persona dei dott. Giovanni TINEBRA, Francesco Paolo GIORDANO e Francesco POLINO, ai sensi dell’art. 360 C.P.P., aveva affidato incarico di consulenza tecnica autoptica sui cadaveri delle vittime della strage a un collegio di esperti medici legali, costituito dal dott. Paolo PROCACCIANTE (rectius Procaccianti: n.d.e.), Direttore dell’Istituto di Medicina Legale dell’Università di Palermo, e dai dott. Livio MILONE e Antonina ARGO, assistenti nel predetto Istituto.

L’ispezione esterna dei cadaveri e l’esame autoptico dei medesimi, per la determinazione delle cause della morte, sono stati effettuati nell’immediatezza del conferimento dell’incarico, come appare dai relativi verbali e relazioni autoptiche.
Il cadavere di Paolo BORSELLINO, trovato con indosso una cintura in cuoio marrone con frammento in stoffa, residuo della cintola dei pantaloni e frammento di stoffa di cotone verde, residuo di maglietta tipo “polo”, si presentava depezzato, risultando assenti l’arto superiore destro ed entrambi gli arti inferiori.
All’esame esterno si rilevava vasta area di ustione su buona parte dell’addome e del torace, nonché al viso, con colorito nerastro sulle regioni frontali e parietali.
Al capo si riscontrava soluzione di continuo lineare interessante il cuoio capelluto dalla regione frontale al padiglione auricolare destro, con distacco pressoché completo del padiglione stesso ed esposizione del condotto uditivo e della sottostante teca cranica; ferita all’arcata sopraciliare destra, frattura alle ossa nasali, ampia ferita lacero-contusa al cuoio capelluto.
Inoltre, si riscontrava asimmetria dell’emitorace destro con spianamento della regione mammaria, e fratture costali multiple; deformazione del profilo dell’addome; squarcio perineale; numerose soluzioni di continuo alla superficie cutanea del dorso.
L’esame con il “metal-detector” rilevava in varie sedi la presenza di numerosi frammenti metallici di varie dimensioni, ritenuti superficialmente sino ai piani muscolari, in particolare rinvenuti al capo in regione temporo-occipitale e al dorso in regione lombare.
Unitamente al cadavere si rinvenivano altri residui umani, verosimilmente appartenuti al medesimo, elencati e descritti nella relazione autoptica agli atti.
I medici legali concludevano che il decesso di Paolo BORSELLINO era stato determinato “da imponenti lesioni cranio-encefaliche e toraco-addominali da esplosione”.

GLI ACCERTAMENTI SUI CORPI DEGLI AGENTI

Il cadavere di Walter CUSINA veniva trovato con indosso un paio di pantaloni tipo “jeans” di colore verde, camicia in cotone a righe, slip in cotone bianco. L’ispezione esterna evidenziava aree di affumicamento cutaneo alla nuca e alla regione cervicale, nonché deformazione del massiccio facciale, frattura della mandibola e delle ossa nasali; ampio squarcio cutaneo alla regione anteriore del collo, da un angolo all’altro della mandibola, “… da cui protrude grosso frammento metallico, che viene repertato; detto frammento appare penetrare in profondità pervenendo sino alla cavità orale, con ampio sfacelo delle parti molli e recisione del fascio vascolo-nervoso destro del collo”.
Inoltre, si rilevava: uno squarcio in regione sternale e soluzioni di continuo al tronco e alle regioni anteriori degli arti inferiori; area di sfacelo delle parti molli alla coscia destra, con perdita di sostanza ed esposizione dei piani ossei; deformazione della coscia sinistra con aumento di volume; analoga area di sfacelo delle parti molli a carico della gamba destra.
I consulenti concludevano che il decesso di Walter CUSINA era stato determinato da “lesione degli organi vascolo-nervosi del collo e da politraumatismo da esplosione”.

L’ispezione esterna del cadavere di Emanuela LOI evidenziava la copertura della superficie cutanea da induito nero, vaste aree di disepitelizzazione e carbonizzazione delle estremità; sulla superficie anteriore del tronco si riscontravano varie soluzioni di continuo interessanti il torace e il collo.
Il cadavere appariva depezzato, perché mancante dell’avambraccio destro, degli arti inferiori all’altezza del terzo medio superiore femorale.
Alla regione sottomammaria si trovava ampia breccia interessante i piani ossei, con esposizione dei visceri della cavità toracica; inoltre si rilevavano: un ampio sfacelo delle parti molli residue del piano perineale; lesione da scoppio di tutto l’ovoide cranico, ampia ferita a spacco del cuoio capelluto in regione occipitale con sottostante scoppio della teca cranica; zona di distruzione delle parti molli ed ossee alla regione claveare e latero-cervicale sinistra; fratture costali multiple e squasso di tutti i visceri toracici; eviscerazione completa della matassa intestinale.
Si repertavano poi alcuni resti ritenuti appartenenti al cadavere, elencati e descritti nella relazione dei consulenti.
Gli stessi concludevano che la morte di Emanuela LOI era stata determinata da “ustioni diffuse in soggetto con squasso cranio-encefalico, depezzamento ed eviscerazione toraco-addominale da esplosione”.

Il cadavere di Agostino CATALANO veniva trovato con indosso brandelli di camicia e dei pantaloni, con la relativa cintola.
Il cadavere, la cui intera superficie cutanea appariva ricoperta da induito nero, risultava depezzato, perché mancante dell’arto superiore sinistro all’altezza del terzo superiore omerale e degli arti inferiori, all’altezza del terzo medio superiore femorale, con ampio sfacelo delle parti molli residue del piano perineale ed esposizione del piano osseo sacrale.
Si rilevava un’estesa carbonizzazione alla cute del viso, alla faccia anteriore del torace e all’addome; la cute del dorso e dei glutei appariva interessata da numerose soluzioni di continuo.
Inoltre, si riscontrava un’ampia soluzione di continuo alla cute della regione occipitale, con frattura della teca cranica; distacco della base di impianto del padiglione auricolare destro; soluzione di continuo in regione frontale destra.
L’apertura della calotta cranica permetteva di rilevare, in corrispondenza delle lesioni sopra descritte, l’infossamento dei margini ossei con presenza di numerose schegge ossee infisse nella materia cerebrale e con fuoriuscita di materiale cerebrale; frammenti di materiale metallico si rinvenivano alla regione temporo-auricolare destra e alle parti molli residue dell’arto inferiore sinistro.
I consulenti del Pubblico Ministero concludevano che la morte di Agostino CATALANO era stata determinata da “ustioni diffuse in soggetto con squasso cranio-encefalico e depezzamento da esplosione”.

Il cadavere di Vincenzo LI MULI era stato trovato con indosso brandelli di stoffa appartenenti alla cintola, residuo di “slip” e frammenti di tessuto carbonizzato non identificabile.
L’ispezione esterna del cadavere permetteva di rilevare una copertura pressoché totale di induito nero e il depezzamento conseguente alla mancanzadell’avambraccio e della mano sinistra, dell’arto inferiore sinistro e del terzo superiore della gamba destra.
Si rilevava la presenza di vaste aree di abbruciamento agli arti superiori, con carbonizzazione completa degli strati superficiali; inoltre si osservavano: otorragia destra; ampio squarcio in regione occipitale e cervico-occipitale con esposizione dei piani ossei sottostanti; soluzione di continuo in regione frontale, con esposizione della teca cranica, apparsa fratturata con avvallamento di grosso frammento osseo; vasta perdita di parti molli alla regione pubo-perineale, con sfacelo traumatico della regione pelvica.
I medici legali perciò stabilivano che la morte di Vincenzo LI MULI era stata determinata da “ustioni diffuse a tutta la superficie corporea, politraumi e depezzamento da esplosione”.

Il cadavere di Claudio TRAINA si presentava depezzato, mancando l’arto superiore sinistro, e interamente ricoperto da induito nero.
Si riscontrava lo sfacelo completo di tutto il distretto cervico-cefalico e dell’arto superiore destro, con componenti ossee pluriframmentate e vasta perdita di sostanza dell’avambraccio e della mano, ampio squarcio del cavo ascellare; inoltre si osservavano numerose soluzioni di continuo all’addome e al dorso, lo sfacelo dell’intero distretto pelvico, con eviscerazione della matassa intestinale; squasso degli arti inferiori e numerose soluzioni di continuo in tutta la relativa superficie cutanea; frattura della clavicola destra e di quattro costole; squarcio del sacco pericardico; lesione da scoppio della parete laterale del lobo inferiore del polmone sinistro; lesioni da scoppio a carico della faccia anteriore del fegato e della milza.
I consulenti del Pubblico Ministero concludevano che il decesso di Claudio TRAINA era stato provocato da “squasso cranio-encefalico e dal politraumatismo toraco-addominale con maciullamento degli arti, da esplosione”».

 

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Lunedì 1 giugno 1992
Alla sera qualcuno suona al campanello della casa di Paolo Borsellino in via Cilea a Palermo. È una processione di carabinieri e poliziotti che vogliono chiedere al giudice una “raccomandazione” per essere annessi alla sua scorta. Ad aprire la porta di casa è Lucia, mentre Borsellino è ancora al lavoro in ufficio. Lucia fa accomodare tutti in salotto. Quando il giudice torna a casa ha però una reazione inaspettata: vede questi estranei in casa, chiama i familiari nella stanza più lontana e comincia a gridare contro di loro perché colpevoli di aver fatto entrare queste persone, non sopporta di vedere gente in casa, è stanchissimo. Solo dopo qualche minuto i familiari riescono a spiegargli il perché di quella inconsueta visita. Borsellino fa in tempo a bloccare il gruppo che, capita l’antifona, sta per andarsene. Il giudice chiede scusa e dà appuntamento per l’indomani in procura: “Parliamone lì ragazzi”, acconsente. Tratto dal libro Agende Rosse   dal film PAOLO BORSELLINO
 

 


Agostino, Claudio, Emanuela, Vincenzo e Walter. In ricordo del Quarto Savona 21

 

Quel 19 luglio 1992, seppur lasciato solo dal Palazzo, dalle Istituzioni e dalla politica, Paolo Borsellino era con la sua scorta: Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Emanuela Loi, Claudio Traina, Vincenzo Fabio Li Muli e Antonino Vullo

 

Sapeva che la sua morte avrebbe coinvolto la sua scorta. Aveva dato, ai suoi assassini, diverse occasioni, sfuggendo all’occhio vigile delle sue sentinelle e concedendosi momenti di solitudine, momenti con la moglie Agnese. Aveva detto, con la lucidità e la visione d’insieme che hanno sempre contraddistinto le sue indagini: “Mi ucciderà la mafia ma saranno altri a farmi uccidere” e ancora “La mafia mi ucciderà quando altri lo consentiranno”.
Quel 19 luglio 1992, seppur lasciato solo dal Palazzo, dalle Istituzioni e dalla politica, era con la sua scorta: Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Emanuela Loi, Claudio Traina, Vincenzo Fabio Li Muli e Antonino Vullo. Chi erano? Ricorda Agnese Borsellino: “Erano persone che facevano parte della nostra famiglia. Condividevamo le loro ansie e i loro progetti. Era un rapporto, oltre che di umanità e di amicizia, di rispetto per il loro servizio. Mio marito mi disse ‘quando decideranno di uccidermi i primi a morire saranno loro’, per evitare che ciò accadesse, spesso usciva da solo a comprare il giornale e le sigarette quasi a mandare un messaggio ai suoi carnefici perché lo uccidessero quando lui era solo e non in compagnia dei suoi angeli custodi”.
Si salva Antonino Vullo, che sposta l’auto a causa delle troppe auto parcheggiate. È un cul-de-sac, non una strada, via D’Amelio. Se ne rendono conto, per l’ennesima volta al loro arrivo. La richiesta zona rimozione non è mai stata messa in atto. Così Antonino sposta la sua auto. Dopo la strage di Capaci, il livello di attenzione era cresciuto moltissimo e l’impossibilità di una via di fuga inquietava Catalano. Lo spostamento di quel pomeriggio, peraltro, non era previsto. La madre avrebbe dovuto essere accompagnata dal medico il pomeriggio precedente ma, a causa di un imprevisto occorso al medico, l’appuntamento fu spostato, visto la relazione amicale che intercorreva tra la famiglia Borsellino e il medico, nel pomeriggio della domenica. Un tappa non prevista. Potevano aspettarsi una pioggia di fuoco di AK47, forse di un bazooka, ma non 90 chilogrammi di Semtex-H, una miscela composta da T4, tritolo e PETN posizionati all’interno di un’auto in attesa. Non pensava che qualcuno li stesse guardando e aspettasse il momento giusto per premere un pulsante. Da lontano, vigliaccamente, senza guardare l’avversario negli occhi. Tipico della mafia quando diventa serva di poteri forti o di accordi scellerati.

  • Agostino Catalano era il Caposcorta. Aveva 43 anni. Era sposato, ma aveva perso la moglie ed era rimasto solo con le sue due figlie. Qualche settimana prima aveva salvato un bambino che stava per annegare in mare di fronte alla spiaggia di Mondello.
  • Claudio Traina aveva quasi 27 anni. Si era arruolato in Polizia giovanissimo e, dopo essere stato a Milano e Alessandria, aveva ottenuto il trasferimento a Palermo, la sua città.
  • Emanuela Loi aveva 24 anni. Emanuela è stata la prima donna poliziotto entrata a far parte di una “squadra di agenti addetti alla protezione di obiettivi a rischio”. Era entrata nella Polizia di Stato nel 1989 e viene trasferita a Palermo due anni dopo. Quell’anno, il 1992, era l’anno in cui si sarebbe dovuta sposare.
  • Vincenzo Fabio Li Muli aveva 22 anni. Era il più giovane della pattuglia. Era nella Polizia di Stato da tre anni e aveva ottenuto pochi mesi prima la nomina ad agente effettivo.
  • Walter Eddie Cosina aveva 31 anni. Era nato in Australia ed era arrivato volontariamente a Palermo qualche settimana prima, subito dopo la strage di Capaci, dalla Questura di Trieste. E’ morto durante il trasporto in ospedale e ha lasciato la moglie Monica.

Roberto Greco per referencepost.it 19 luglio 2019


 

ANDREA GORLERO agente di scorta Paolo Borsellino : «Io mi ricordo quella volta che tornavamo dal Palazzo di Giustizia e salivamo a casa del dottor Borsellino. Lui era molto pensieroso e ad un certo punto disse: “Mi dispiace che probabilmente ci sarete pure voi”».Andrea Gorlero, non ha dubbi: «Io penso che il sacrificio dei ragazzi delle scorte e dei giudici Falcone e Borsellino sia servito, perché ha cambiato la coscienza popolare».

 «Io, caposcorta di Borsellino all’ultimo cambiai turno: salvo per un testa o croce»

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Nicola Catanese (a detsra) col figlio di Borsellino, Manfredi

 

A decidere fu il lancio della monetina, testa o croce. «Uscì croce e chiedemmo il cambio ai colleghi del turno pomeridiano, che arrivarono a Villagrazia di Carini e ci sostituirono. Se invece fosse uscito testa avremmo riaccompagnato noi il giudice Borsellino in via D’Amelio, e il cambio lo avremmo fatto dove c’era l’autobomba. Che sarebbe successo? I colleghi arrivati prima avrebbero notato la macchina sospetta o, com’è più probabile, saremmo morti anche noi?». Il vice-sovrintendente di polizia Nicola Catanese — 59 anni, in servizio da 36, uno dei capiscorta di Paolo Borsellino — se lo chiede da trent’anni. Da quel 19 luglio del 1992 in cui salutò il magistrato nella sua casa sul mare per apprendere, qualche ora dopo, che era stato ammazzato insieme a chi avrebbe dovuto proteggerlo. Poteva toccare a lui, la sorte decise che fossero altri.
Essendo fuori Palermo dal mattino, c’era la possibilità di attivare lo straordinario (guadagnando qualcosa in più su una busta paga non ricca) e spostare il cambio turno al rientro in città; ma si poteva anche chiedere il rimpiazzo all’orario previsto, fuori Comune. Un’alternativa decisa da una coincidenza: il compleanno della futura moglie di Catanese, nata il 20 luglio, che viveva a Messina come lui. «Io tendevo ad accumulare i turni di riposo — ricorda il poliziotto — per avere qualche giorno in più quando tornavo a casa, e quella domenica avevo deciso di non rientrare. Dunque potevamo rimanere con il giudice fino al ritorno a Palermo. Verso fine mattinata, da una cabina telefonica, chiamai Sofia, la mia fidanzata, e le confermai che non sarei andato, ma si dispiacque. Così pensai di farle una sorpresa e di andare, senza dirglielo. Tornai dai colleghi e dissi: io vorrei smontare, voi che dite? Eravamo in sei, il responso fu tre a tre. A quel punto potevo decidere io, ma per non scontentare nessuno scelsi di affidarmi alla monetina: testa restiamo, croce chiediamo il cambio».  CORRIERE DELLA SERA

Il messinese Nicola Catanese caposcorta di Borsellino: “Cambiai turno: salvo per un testa o croce”

 

Trent’anni e un numero di processi di cui è difficile tenere il conto. Borsellino 1, bis, ter, quater, un giudizio di revisione per rimediare a sette ergastoli inflitti ingiustamente, poi l’atto d’accusa contro quello che è stato definito «il depistaggio più grave della storia repubblicana» e infine il giudizio, ancora in corso in secondo grado, a carico dell’ultimo superlatitante di Cosa nostra: il boss Matteo Messina Denaro. Senza contare gli appelli e le pronunce della Cassazione. Decine di sentenze che hanno chiarito certamente il ruolo della mafia nell’attentato al giudice Paolo Borsellino e agli agenti della scorta, ma che lasciano ancora senza risposta tanti interrogativi: dalle responsabilità esterne a Cosa nostra, alla sorte dell’agenda rossa, il diario sul quale il giudice scriveva i suoi segreti, sparita nel nulla, fino ai nomi degli autori del depistaggio delle indagini sull’eccidio di quella indimenticabile domenica del 19 luglio 1992. Quel giorno in via d’Amelio, insieme con Paolo Borsellino, persero la vita gli agenti di scorta Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Emanuela Loi, Claudio Traina e Vincenzo Li Muli.

E si interroga ancora su una delle vicende più intricate e misteriose legate alla mafia siciliana, l’assistente capo messinese Nicola Francesco Catanese, 59 anni, in servizio da 36, che fu uno dei capi scorta di Paolo Borsellino, e scampò alla strage di via d’Amelio perché quel giorno fu di turno la mattina, e si salvò da quella tragica fine che toccò ai colleghi che quel 19 luglio gli diedero il cambio. «Credo molto nel destino e, probabilmente, era scritto che quel giorno non dovevo essere io a morire» ha raccontato qualche anno fa alla Gazzetta de Sud. La figura del giudice Borsellino è rimasta però impressa nei suoi ricordi, e d’altronde non potrebbe essere altrimenti: «Era una persona molto umile, pacata, tranquilla. Sapeva quel che faceva e svolgeva il suo lavoro con professionalità, ma soprattutto ci voleva bene come se fossimo figli suoi, e si metteva sempre a nostra disposizione. Proteggerlo era il nostro lavoro, ma si può dire che lui facesse lo stesso con noi».

«Da qualche giorno – ha raccontato Nicola Catanese in questi giorni al Corriere della Sera – lo vedevo nervoso e più preoccupato del solito, così il lunedì precedente la strage gli chiesi se ci fosse qualcosa che non andava. Borsellino mi rispose “Sono dispiaciuto per voi”. Domandai perché e lui aggiunse: “Perché so che è arrivato l’esplosivo destinato a me, e mi dà angoscia pensare che possano colpire anche voi”.

Alla vigilia della strage, Catanese voleva tornare a casa per festeggiare il compleanno della futura moglie, nata il 20 luglio, e che viveva a Messina come lui. Ma decidere chi dovesse essere di turno quel giorno fu il lancio della monetina, testa o croce. “Uscì croce – spiega Catanese al Corsera – e chiedemmo il cambio ai colleghi del turno pomeridiano, che arrivarono a Villagrazia di Carini e ci sostituirono. Se invece fosse uscito testa avremmo riaccompagnato noi il giudice Borsellino in via D’Amelio, e il cambio lo avremmo fatto dove c’era l’autobomba. Che sarebbe successo? I colleghi arrivati prima avrebbero notato la macchina sospetta o, com’è più probabile, saremmo morti anche noi?”.

Rientrato in caserma a Palermo, Catanese si cambiò e partì per Messina. Arrivato a casa in riva allo Stretto, trovò la madre in lacrime che gli gettò le braccia al collo: «Non capivo perché, e mio padre mi indicò il televisore con le immagini della strage; si sapeva che c’erano dei poliziotti morti e pensavano che io fossi tra loro. Rimasi a lungo immobile davanti alla tv – racconta ancora al Corriere – piansi anch’io. E a Sofia, la donna che poi diventò mia moglie dissi: “Sono vivo grazie a te”. Perché è andata proprio così». GAZZETTA DEL SUD 22.7.2022


«Io, caposcorta di Borsellino all’ultimo cambiai turno: salvo per un testa o croce»

di Giovanni Bianconi 17.7.2022 CORRIERE DELLA SERA

L’agente nicola Catanese a 30 anni dalla strage: devo tutto a mia moglie: stavamo per sposarci, era il suo compleanno e voleva che stessi con lei, così le feci una sorpresa. «Il magistrato mi disse: è arrivato l’esplosivo per me, ma temo più per voi.

A decidere fu il lancio della monetina, testa o croce. «Uscì croce e chiedemmo il cambio ai colleghi del turno pomeridiano, che arrivarono a Villagrazia di Carini e ci sostituirono. Se invece fosse uscito testa avremmo riaccompagnato noi il giudice Borsellino in via D’Amelio, e il cambio lo avremmo fatto dove c’era l’autobomba. Che sarebbe successo? I colleghi arrivati prima avrebbero notato la macchina sospetta o, com’è più probabile, saremmo morti anche noi?». Il vice-sovrintendente di polizia Nicola Catanese — 59 anni, in servizio da 36, uno dei capiscorta di Paolo Borsellino — se lo chiede da trent’anni. Da quel 19 luglio del 1992 in cui salutò il magistrato nella sua casa sul mare per apprendere, qualche ora dopo, che era stato ammazzato insieme a chi avrebbe dovuto proteggerlo. Poteva toccare a lui, la sorte decise che fossero altri.

Il compleanno della moglie e il cambio di turno

Essendo fuori Palermo dal mattino, c’era la possibilità di attivare lo straordinario (guadagnando qualcosa in più su una busta paga non ricca) e spostare il cambio turno al rientro in città; ma si poteva anche chiedere il rimpiazzo all’orario previsto, fuori Comune. Un’alternativa decisa da una coincidenza: il compleanno della futura moglie di Catanese, nata il 20 luglio, che viveva a Messina come lui. «Io tendevo ad accumulare i turni di riposo — ricorda il poliziotto — per avere qualche giorno in più quando tornavo a casa, e quella domenica avevo deciso di non rientrare. Dunque potevamo rimanere con il giudice fino al ritorno a Palermo. Verso fine mattinata, da una cabina telefonica, chiamai Sofia, la mia fidanzata, e le confermai che non sarei andato, ma si dispiacque. Così pensai di farle una sorpresa e di andare, senza dirglielo. Tornai dai colleghi e dissi: io vorrei smontare, voi che dite? Eravamo in sei, il responso fu tre a tre. A quel punto potevo decidere io, ma per non scontentare nessuno scelsi di affidarmi alla monetina: testa restiamo, croce chiediamo il cambio».

 
 

 

Il lancio della monetina e l’autobomba

Croce. Dopo poco, a Villagrazia arrivarono le due pattuglie guidate da Agostino Catalano e Claudio Traina, insieme a Walter Eddie Cosina, Vincenzo Li Muli, Emanuela Loi e Antonio Vullo. Tutti saltati in aria con Borsellino tranne Vullo, l’unico superstite della strage di via D’Amelio. Cinque vittime «collaterali» selezionate dal caso, come in una sliding door, di un attentato dato per certo dallo stesso bersaglio. Al punto di preoccuparsi non per sé, ma per i morti che si sarebbe tirato dietro.

«Disse: è arrivato l’esplosivo per me, ma temo per voi»

Come racconta Catanese: «Da qualche giorno lo vedevo nervoso e più preoccupato del solito, così il lunedì precedente la strage gli chiesi se ci fosse qualcosa che non andava. Borsellino mi rispose “Sono dispiaciuto per voi”. Domandai perché e lui aggiunse: “Perché so che è arrivato l’esplosivo destinato a me, e mi dà angoscia pensare che possano colpire anche voi”. Io cercai di tranquillizzarlo, poi ne parlai con gli altri colleghi: eravamo tutti coscienti del rischio che correvamo, e decidemmo di continuare a proteggerlo. Con la paura, certo, ma anche con la convinzione di fare una cosa giusta, tentando di farla nel miglior modo possibile. Anche perché il giudice si faceva volere bene, ci trattava sempre con grande rispetto e riguardo, non potevamo abbandonarlo».

la visita del giudice alla madre

Le sirene quasi sempre accese, la tensione al massimo in ogni spostamento, l’attenzione ai minimi particolari, nella consapevolezza che non tutti i pericoli si potessero evitare: «Il giudice doveva continuare a fare la sua vita. Non sempre, ad esempio, poteva aspettare che arrivasse la seconda macchina di scorta prima di muoversi da casa». Accadde pure alla vigilia della strage, il pomeriggio del 18 luglio. «Mi comunicò che doveva andare dalla madre, era con un’altra persona, probabilmente un medico. Io gli dissi di attendere qualche minuto, il tempo di far arrivare l’altra auto, ma lui aveva premura, volle partire subito, e così fece arrivare la staffetta direttamente in via D’Amelio».

Le troppe auto parcheggiate in via D’Amelio

In quella strada Catanese era già stato altre volte — «di solito la domenica mattina dopo la messa, anche se noi sconsigliavamo le abitudini fisse» — e aveva notato con disappunto le tante auto parcheggiate davanti al portone dove entrava Borsellino: «Segnalai la situazione al dirigente dell’ufficio, si sarebbe dovuta istituire la zona rimozione, ma in quel periodo non era facile per le proteste dei residenti, le concedevano solo per le abitazioni dei potenziali obiettivi». Davanti a casa Borsellino fu messa solo qualche settimana dopo la strage di Capaci.

La 126 carica di tritolo

Grazie al mancato divieto di parcheggio, i mafiosi poterono sistemare la Fiat 126 carica di tritolo davanti al civico 19 di via D’Amelio. Probabilmente la sera di sabato 18 luglio o la mattina di domenica 19: in trent’anni di indagini non si è arrivati a ricostruire nel dettaglio le ultime fasi della preparazione e dell’esecuzione dell’attentato. Quella domenica il magistrato cambiò programma, rinviando la visita alla madre al pomeriggio. «La mia squadra montò alle 7 — racconta Catanese —, e verso le 9 il giudice mi avvisò che saremmo andati nella casa di Villagrazia».

La gita al mare

Borsellino aveva deciso di trascorrere qualche ora al mare con la moglie, il figlio e alcuni amici. «Avvertii la staffetta — continua il caposcorta — aspettammo il suo arrivo e siamo partiti. Verso la tarda mattinata decise di fare un giro in motoscafo, io provai a dire che non era prudente ma lui andò ugualmente. Chiamai la sala operativa per sapere se c’era una motovedetta o un elicottero in zona per controllare, ma mi risposero di no. Dopo nemmeno mezz’ora il giudice tornò a casa. Poi arrivò l’ora di cambio turno, telefonai alla mia fidanzata e tirai la monetina».

«Sono vivo grazie a te»

Rientrato in caserma a Palermo, l’agente scelto Nicola Catanese si liberò dell’equipaggiamento, salì sulla sua macchina e partì per Messina. Senza avvisare nessuno, e senza sapere nulla della strage. Arrivato a casa, aprì la porta e trovò la madre in lacrime che gli gettò le braccia al collo: «Non capivo perché, e mio padre mi indicò il televisore con le immagini della strage; si sapeva che c’erano dei poliziotti morti e pensavano che io fossi tra loro. Rimasi a lungo immobile davanti alla tv, piansi anch’io. E a Sofia, la donna che poi diventò mia moglie dissi: “Sono vivo grazie a te”. Perché è andata proprio così».



Il mio ricordo personale di Borsellino attraverso la testimonianza di Agnese e di Giovanni uomo della scorta

 

Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha più volte affermato che “La memoria di persone come Falcone e Borsellino continua ad accompagnarci. Il senso del loro impegno viene condiviso da tanti giovani”. E noi non dimentichiamo.

 

I Magistrati vengono ricordati, quasi sempre, nel giorno della loro morte, oggi invece desideriamo ricordali nel giorno della loro nascita, come metafora dell’immortalità, perché essi per noi non sono mai morti. Paolo Borsellino nasce a Palermo il 19 gennaio 1940, nell’antico quartiere di origine araba della Kalsa.

Raccontare del giudice Borsellino è impresa relativamente facile, raccontare l’uomo è estremamente difficile. Caparbio, allegro, altruista, una persona speciale, perché prima del magistrato si ergeva in lui colui che sapeva trasmettere valori positivi ai giovani e a coloro che gli stavano accanto.

’U zi Paolo”, racconta Giovanni, un uomo delle scorte, “così lo chiamavamo. Un uomo semplice, uno di noi. A volta, si arrabbiava perché non riusciva a mettere in moto la sua Vespa al primo colpo. Zi’ Paolo, si mittissi ri sciancu, ca ci pensu io!”. Una lacrima solca il viso di Giovanni al ricordo di Paolo Borsellino.
“Al mio intervento la moto partiva, lui saliva dietro e scorrazzavamo per le vie di Palermo, con i capelli a vento. E lui era divertito come un bambino”.

“Falcone aveva un carattere burbero, a volte scontroso, soprattutto con gli uomini delle scorte dai quali pretendeva sempre il massimo” prosegue il racconto di Giovanni veterano delle scorte a Palermo. “Paolo no! Paolo era buono, comprensivo, passava tanto tempo con noi, anche a bere un caffè, eravamo parte integrante della sua vita e accettava sempre i nostri consigli nel campo della sicurezza”.

Tante volte, chi scrive ha preso, per ragioni del suo lavoro, un tè/caffè con la signora Agnese Piraino, moglie di Paolo, nella sua abitazione di Palermo. “Veda, mio marito era consapevole che la mafia lo avrebbe ucciso. Era turbato dopo la morte di Giovanni, sapeva già che il prossimo obiettivo era lui. Eppure, era fortemente preoccupato per gli uomini delle scorte, Agostino, Vincenzo, Walter Eddie, Emanuela e Claudio “che lui considerava come i suoi figli”.
Con queste parole della moglie Agnese, traspare tutto il senso della vita dell’uomo Borsellino amante del prossimo. “Erano persone che facevano parte della nostra famiglia” prosegue Agnese Piraino, “Condividevamo le loro ansie e i loro progetti. Era un rapporto, oltre che di umanità e di amicizia, di rispetto per il loro servizio. Mio marito mi disse ‘quando decideranno di uccidermi i primi a morire saranno loro’, per evitare che ciò accadesse, spesso usciva da solo a comprare il giornale e le sigarette quasi a mandare un messaggio ai suoi carnefici perché lo uccidessero quando lui era solo e non in compagnia dei suoi angeli custodi”.
L’uomo Borsellino non si scompone nemmeno difronte alle critiche ricevute da Leonardo Sciascia in occasione della sua nomina a Procuratore Capo a Marsala, rivoltagli dallo scrittore nel libro “A futura memoria (se la memoria ha un futuro)”, sui professionisti dell’antimafia. Borsellino non cercò mai lo scontro con lo scrittore, ma di prodigò per un incontro a chiarimento della vicenda della sua promozione, tant’è che i rapporti tra Sciascia e Borsellino divennero, nel tempo, amichevoli e cordiali.
Egli amava la sua terra ed era cosciente che il suo riscatto passava dalla giustizia e dall’affermazione del ‘diritto’, per tutto questo si impegnò per diventar magistrato inquirente.

Era consapevole che l’azione di contrasto al fenomeno mafioso sarebbe passato attraverso la presa di coscienza dei giovani. Ad un certo punto della sua vita, comincia a promuovere e a partecipare ai dibattiti nelle scuole, parla ai giovani nelle piazze, alle tavole rotonde per spiegare e per sconfiggere una volta per sempre la cultura mafiosa. Fino alla fine della sua vita cercherà di incontrare i giovani, con l’auspicio di sensibilizzare e educarli ad un nuovo approccio nella lotta alla mafia e alla realtà siciliana.
Possiamo affermare senza essere smentiti che Paolo Borsellino è un eroe, senza fare retorica, non solo per il suo impegno professionale da magistrato, ma da siciliano tra i siciliani, uomo coraggio, cercando il dialogo con i giovani, tra coloro che si opponevano al pizzo, diventando un simbolo di libertà e riscatto morale.  Quotidiano dei contribuenti 21 Luglio 2023 di Ettore Minniti


“I ragazzi delle scorte”, il film sugli agenti che morirono con i giudici Falcone e Borsellino

 

È stato presentato ieri, 5 dicembre, in anteprima alle 18 presso la sala cinema Anica di Roma, il film della serie “Memories” “I ragazzi delle scorte” che, a trent’anni di distanza, racconta la storia degli otto agenti di polizia che morirono insieme a Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Francesca Morvillo negli attentati mafiosi del 1992.
Prima della proiezione il presidente della Repubblica ha ricevuto al Quirinale il capo della Polizia, direttore generale della Pubblica sicurezza prefetto Lamberto Giannini e i familiari delle vittime delle stragi.
“Io sono rimasta intrappolata, io non ne esco più da questa storia”. Inizia così il film Memories “I ragazzi delle scorte”, coprodotto dal ministero dell’Interno – Dipartimento pubblica sicurezza e dalla Presidenza del Consiglio dei ministri – Struttura di missione per gli anniversari nazionali con 42° Parallelo.
La voce è quella di Rosaria Costa, vedova dell’agente della Polizia di Stato Vito Schifani morto a Capaci, e sintetizza in maniera profonda e intima il sentimento di un intero Paese. Il senso di colpa che prepotentemente ci riporta a quei giorni, a Capaci, a via D’Amelio
Il film “I ragazzi delle scorte”, che nei prossimi giorni sarà pubblicato su RaiPlay ed andrà in onda su RaiUno il 30 dicembre in seconda serata, mette al centro del racconto le vite spezzate di Antonio Montinaro (nel settembre scorso omaggiato a Calimera, il suo comune natale, nel giorno in cui avrebbe compiuto 60 anni), Vito Schifani, Rocco Dicillo, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Claudio Traina, Eddie Walter Cosina ed Emanuela Loi, gli otto poliziotti che facevano parte della scorta di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino.
Insieme a Rosaria Costa nel film la testimonianza del vice sovrintendete della Polizia di Stato Salvatore Lopresti, membro del reparto scorte della Questura di Palermo, che racconta come la ferita personale per la perdita di otto colleghi sia di fatto anche una ferita più grande, che tocca tutti gli italiani.
“Per 27 anni non sono riuscito a ritornare in via D’Amelio – racconta Lopresti nel film – perché mi ritornava sempre addosso quella puzza di polvere mista a tritolo e carne bruciata. Ogni tanto quell’odore ancora riaffiora, ora sono passati 30 anni, io credo nelle istituzioni e spero che prima o poi si possa affermare tutta la verità e che quella verità riesca a far finalmente scomparire quella puzza di tritolo e carne bruciata”. LECCE PRIMA 6.12.2022

 

 
 
 
 

PAOLO e i suoi ANGELI