Per altri pentiti poi liberati non ho visto l’indignazione per Giovanni Brusca

 


 

​Inizio col dire che la legge sui collaboratori di giustizia, voluta dal dottor Falcone, non dev’essere modificata: semmai occorrerebbe assegnare al neo pentito personale specializzato al fine di evitare casi come quello di Scarantino. Chi scrive, proprio sul tema del pentitismo, ebbe un ruolo simile a Caronte. E se il dottor Falcone più volte chiese la mia presenza negli interrogatori, un motivo ci sarà stato. Detto questo, ora che l’indignazione si è affievolita per la libertà concessa a Giovanni Brusca, vorrei richiamare la vostra l’attenzione. Esprimo rispetto verso chi ha mostrato indignazione, soprattutto nei confronti dei parenti delle vittime di mafia. Ma io, come ex esperto del settore, non posso farmi condizionare dall’emozione.
La mia esperienza nacque con Totuccio Contorno che, ancor prima di diventare collaboratore di giustizia, percorse la strada della collaborazione durata un paio d’anni con il nome in codice “Prima luce”.
Rilevo che le mafie hanno ucciso 108 bambini. Parimenti, affermo che le stragi ci sono state anche prima che il dottor Falcone si occupasse di Cosa nostra: quindi di stragi mafiose ne abbiamo avute a iosa. Mi riferisco a quelle compiute nel periodo della mia giovinezza e nel contesto della mia attività di poliziotto negli anni 80; medesimo arco temporale del ruolo di Falcone in quel di Palermo. Cito per dover di cronaca la strage di Portella della Ginestra, 1° maggio ’47.
Il 30 giugno 1963 nell’agro di Ciaculli – poco distante da mia casa – esplose una Giulietta e perirono tra carabinieri, militari e un poliziotto, sette persone; io sentii il boato. Occorre dire che la notte precedente a Villabate fu fatta esplodere un’auto per uccidere Giovanni Di Peri – da me conosciuto sin da bambino -; l’esplosione uccise due persone innocenti. Il Di Peri si salvò, ma poi venne assassinato a Bagheria nella cosiddetta “Strage di Natale” del 1981. Il 29 luglio 1983 a Palermo il padre putativo del pool antimafia, dottor Rocco Chinnici, morì insieme a 3 persone nella strage di via Pipitone. Un’altra strage, avvenne il 2 aprile 1985 a Pizzolungo, nel trapanese, il cui scopo era uccidere il magistrato Carlo Palermo: nell’esplosione perse la vita Barbara Izzo e suoi gemellini di sei anni, Giuseppe e Salvatore. Sin qui le stragi più eclatanti, ma ce ne sono state altre. Come si evince sia l’uccisione di bambini, di donne inermi e stragi mafiose, è piena la casistica. Sin dall’inizio degli anni Ottanta m’interessai della famiglia di Giovanni Brusca: il padre Bernardo era un esponente di primo piano di Cosa nostra, amico intimo di Totò Riina. Giovanni, all’epoca era più che ventenne, mentre il fratello Enzo un quindicenne.  
Voglio farvi una domanda: l’indignazione nei confronti della liberazione di Brusca è scaturita dal fatto che Brusca pigiò il telecomando, per essere stato il mandante dell’omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo, o per gli oltre 150 omicidi da lui compiuti? Ho posto questa domanda perché tre coautori della strage di Capaci, con ruoli primari nell’esecuzione – arrestati da noi della DIA -, si pentirono dopo l’arresto e sono liberi cittadini da un bel po’: nessuno si indignò. Giuseppe Monticciolo, carceriere ed esecutore materiale dell’omicidio di Giuseppe Di Matteo, in concorso con Enzo Brusca e Vincenzo Chiodo, si pentì immediatamente dopo il suo arresto: nessuno protestò, anzi ci si scrisse su pure un libro. A tal proposito ricordo di aver avuto un acceso battibecco col padre di Monticciolo.    
Certo, Giovanni Brusca, per lignaggio diretto, e per il ruolo apicale avuto in Cosa nostra, viene considerato un personaggio di primo piano e come tale, secondo la pubblica opinione, dev’essere trattato diversamente. No! Mi spiace, durante la mia carriera ho sempre fatto riferimento alle leggi dello Stato, e non capisco perché mai Brusca Giovanni non possa ottenere gli stessi benefici riservati ad altri.    
Mi permetto di invitarvi a riflettere: com’era Cosa nostra –e in generale le mafie – prima che Tommaso Buscetta ci prendesse per mano e ci conducesse nei santuari mafiosi? La legge voluta dal dottor Falcone fu vincente. E lo è ancora oggi: solo in un uomo di grande lungimiranza come lui poteva nascere tale intuizione. Mettete da parte propositi di vendetta; togliete il rancore dai vostri cuori e pensate che Falcone, fu un uomo che col proprio sangue scrisse le più belle pagine della lotta alla mafia. Davvero, qualcuno pensa che il sottoscritto non abbia ferite al cuore, per aver perso per mano mafiosa Lillo, Beppe, Roberto, Ninni, Natale e Filadelfio? Tutti miei compagni della Mobile di Palermo: eppur il rispetto della legge deve superare i sentimenti e quindi riflettete.

Giovanni Brusca è un uomo ‘inutile’, ma non ci si deve indignare per la sua liberazione: è giusto così – Il Fatto Quotidiano


Durante un recente incontro con gli studenti in terra corleonese, ebbi a definire i mafiosi “un agglomerato di menti bacate”. Ebbene, ho anche aggiunto che sono uomini inutili che, nel gergo siciliano, significa uomini di scarso valore, ovvero senza onore e dignità.
Detto ciò, un uomo che definisco il principe degli “uomini inutili” è senza dubbio Giovanni Brusca, non già per l’attentato di Capaci, ma per aver pianificato in quel di Misilmeri – insieme a Leoluca Bagarella e Matteo Messina Denaro – il sequestro del piccolo Giuseppe Di Matteo. Il bambino fu sequestrato e tenuto prigioniero per 779 giorni, per poi essere ammazzato e sciolto nell’acido. Il ricordo che mi tormenta è che, mentre facevamo di tutto per rintracciare il piccolo Giuseppe, io e alcuni colleghi della Dia pedinavamo la moglie di Brusca mentre conduceva il figlio all’asilo. La nostra speranza era di intercettare Giovanni Brusca durante il tragitto. Contestualmente avevamo piazzato le cimici in casa della donna. Ma la frase che frequentemente rimbomba nella mia mente è quella di Giovanni Brusca, che telefona al carceriere e ordina l’uccisione di Giuseppe: “Ammazzati u canuzzu”. Uccidete il cagnolino.

Quante notti e giorni che non finivano mai per poterlo catturare. Un giorno un “uccellino” ci disse che in un’abitazione isolata nel territorio di Altofonte (Palermo) poteva trovarsi Giovanni Brusca. Un pomeriggio, io con altri due facemmo un rapido (pochi secondi) sopralluogo per localizzare la casa e programmare gli appostamenti successivi. La stessa notte, acclarando che in quel momento l’abitazione era disabitata, entrammo e installammo dappertutto le cimici. Quella casa rimase per lungo tempo “silenziosa” e solo dopo il pentimento di Giovanni Brusca capimmo il motivo di quel silenzio.
Lo stesso Brusca racconta in un interrogatorio che, avendoci notato, disse a Leoluca Bagarella: “Ora esco col furgone, se noto sbirri e mi fermano li ammazzo tutti”. Ma noi eravamo già lontani e quindi non sapemmo se effettivamente Brusca uscì. Rifletto spesso su un probabile incontro con lui quel pomeriggio e sono giunto alla conclusione che quel giorno il signor Giovanni Brusca fu davvero “un uomo fortunato”. Tutto questo il passato; ora vengo al presente. Non capisco l’indignazione che sta procurando la libertà ottenuta da Giovanni Brusca. Signori: è una legge voluta fortemente dal dottor Giovanni Falcone, una legge premiale che riconosce benefici a coloro che si dissociano dalla mafia e si pentono collaborando con lo Stato. Come uomo, come siciliano, potrei anche non essere d’accordo: ma per i motivi che ho esposto, e come ex poliziotto che ha avuto modo di “lavorare” con nove pentiti di Cosa Nostra – compreso Tommaso Buscetta – dico che va riconosciuto al Brusca il fattivo apporto che ha dato allo Stato. 

Di una cosa sono sicuro: che se non ci fossero stati i collaboratori di giustizia, la lotta alle mafie sarebbe come ai tempi dei processi di Bari e Catanzaro, quando i mafiosi – compreso Riina – venivano assolti. E che dire sul fatto che prima dell’entrata in vigore del 416/bis non si poteva scrivere la parola “mafia” nei rapporti giudiziari? Oppure che l’ex capo di Cosa nostra Michele Greco detto il “Papa” era titolare di porto d’armi rilasciato dalla questura di Palermo, mentre noi tutti picciriddi sapevamo benissimo qual era il suo ruolo nel nostro territorio? Solo dopo il Rapporto dei 161 (prodromo del maxiprocesso) inviato a Rocco Chinnici, redatto da noi della Squadra mobile e dai carabinieri, fu revocato il porto d’armi.
Concludo dicendo che, nonostante le nefandezze compiute da Giovanni Brusca – la cui famiglia, prima il padre Bernardo e poi i figli Giovanni e Enzo, mi fecero perdere giorni e notti – è giusto che egli oggi sia un uomo libero. Comunque non pensiate che sia del tutto libero. Ha degli obblighi ben precisi.

Pippo Giordano

 

 

Liberazione Brusca. Fuori tempo, diseducativo e sbagliato incitare i palermitani alla sommossa.

 

Giovanni Brusca u verru, la bestia, u scannacristianu, il capo mandamento di San Giuseppe Jato che su ordine di Totò Riina il 23 maggio azionó il telecomando a Capaci, é in via definitiva un uomo libero. Brusca, un criminale sanguinario della peggior specie autore di oltre  centocinquanta omicidi. Un soggetto orrendo che non ricorda quanti ne ha ammazzati e neppure tutti i loro nomi. Il carnefice che ordinò il rapimento e lo strangolamento del piccolo Giuseppe Di Matteo (figlio di un pentito) e il suo scioglimento nell’acido dopo 779 giorni di prigionia in una buca. Il generale disprezzo nei confronti di questo ex “uomo d’onore” é totalmente meritato.
Brusca é un uomo libero grazie ad una legge. E’ libero grazie alla c.d. Legge sui “pentiti.
Brusca, che ha chiesto scusa  e perdono ai famigliari delle vittime, comprensibilmente, almeno credo mettendomi al loro posto, non potrà probabilmente mai essere perdonato dai famigliari delle vittime per aver privato loro del proprio caro.  
Gridare oggi allo scandalo per la sua liberazione è tuttavia un esercizio del tutto inutile.
Un conto è la legittima e personale indignazione, ben altra cosa è sollecitare  i palermitani alla ribellione e a scendere in piazza per protestare. Una discutibile scelta comunicativa che oltre ad essere fuori tempo, è pure sbagliata e fortemente diseducativa soprattutto nei confronti delle giovani generazioni alle quali si trasferisce l’immagine di uno Stato debole e ingiusto.
Nessuno ai tempi dell’approvazione delle leggi che hanno regolato la materia era arrivato a tanto.
Il primo “pentito” liberato anzitempo grazie agli sconti pena  (Legge Cossiga) fu il brigatista  Patrizio Peci e da allora molti altri ne sono seguiti. Uno per tutti lo strangolatore di  Cosa nostra Gaspare Mutolo. 
Giusta o sbagliata che sia la legge prevede uno scambio alla luce del sole. Io Stato ti riduco la pena e tu rendi “piena” confessione consentendomi di arrestare altri criminali come te al fine di evitare altri assassinii e stragi.
Arrestato nel 1996 e condannato a trent’anni di reclusione, Brusca è stato scarcerato il 31 maggio 2021 usufruendo di una riduzione di pena dovuta alla collaborazione con la giustizia dopo aver scontato 25 anni di carcere durante i quali ha beneficiato di numerosi permessi premio per buona condotta. Dopo la scarcerazione è stato sottoposto per quattro anni alla libertà vigilata, sotto protezione, con l’obbligo di vivere lontano dalla Sicilia e sotto falsa identità. In questo periodo, contravvenendo alle direttive, pare abbia comunque utilizzato sim riservate per comunicare con i cognati. Sulla genuinità del “pentimento” di Brusca, del resto, si sono nutriti sempre dubbi. Come pure sulla possibilità che non abbia raccontato tutto. Dubbi che  evidentemente non sono stati ritenuti sufficienti per negargli l’applicazione della legge.

Claudio Ramaccini
Direttore Centro Studi Sociali contro le mafie – Progetto San Francesco



Giovanni Brusca in libertà: ma siamo sicuri che il prezzo pagato sia equo?


Ci sono persone che hanno tutto il diritto di urlare la loro indignazione nel sapere libero chi ha ucciso i familiari e fatto scempio dei loro corpi. Vedove, madri, sorelle, figli delle vittime di mafia e quanti sono scampati per un soffio alla morte, portandone i segni, hanno titolo per dire le cose che dicono sulla scarcerazione di Giovanni Brusca, il boia di Capaci. Quella che per noi –  pur partecipi, ma sostanzialmente estranei al dolore –  è un’asettica applicazione di norme, per loro è carne viva: brucia, è sale su ferite che non si rimarginano. Piaghe eterne che meritano di avvicinarsi con pudore alla sofferenza. Meritano rispetto.

Non dimostra di averne chi ascrive sbrigativamente quelle dichiarazioni a reazioni emotive, arroccandosi dietro al feticcio di Giovanni Falcone, per difendere l’intangibilità di una legge del 1991. Fingendo di non vedere il tempo trascorso e le storture accumulate in 34 anni. Sul fronte opposto, chi le utilizza per liquidare la legislazione premiale sui collaboratori di giustizia, adombrando un’arrendevolezza dello Stato alla mafia e ai suoi contorcimenti, compie un’operazione vigliacca. Usa politicamente oggi il punto di vista dei parenti delle vittime. Mentre ha trascurato ieri e ignorerà domani la loro attesa di giustizia, le denunce su omissioni, depistaggi e mezze verità giudiziarie.

I collaboratori sono un elemento irrinunciabile per scardinare sodalizi omertosi. Permettono di conoscere dal di dentro cosa accade. Al pari delle intercettazioni, ancora più genuine, perché non viziate dall’interesse, dal tornaconto. Il punto non è, quindi, se i collaboratori siano utili, né tantomeno se siano autenticamente redenti, perché uno Stato laico non si occupa di ravvedimenti interiori. Il punto è semmai: che lotta alla mafia conduciamo? Come viene utilizzato uno dei pochi strumenti a disposizione? Insomma, cosa vogliamo davvero sapere, cosa chiediamo, di cosa ci occupiamo quando ci occupiamo di mafia?

Se la coralità degli sforzi per arginare lo strapotere di organizzazioni che controllano una fetta rilevante dell’economia sana è pressoché inesistente, la lotta alla mafia si è ridotta a una mera questione di contabilità processuale. Ora, il meccanismo che sta alla base dell’ingaggio di un collaboratore è chiaro: io compro delle informazioni e le pago con il soldo di alcuni benefici. È legittimo chiedersi fino a che punto può spingersi l’offerta, se la merce di scambio sia congrua. Più è alto il contributo, più si dovrebbe essere disposti a pagare. Ma se in questa procedura negoziale ci si assesta sul minimo, ci si accontenta, non si chiede di più –  per paura, inadeguatezza, connivenza – chiaro che la sproporzione del prezzo risalti. Chi compra e cosa vuol comprare non è irrilevante. Quanta sete di verità si ha davvero in un Paese opaco come il nostro?

Ora, per tornare a Brusca, quel che ha detto è tanto sul piano militare, ma quel che ha taciuto sul versante strategico e sui collegamenti con altri pezzi del disegno stragista italiano, è altrettanto. Sul piatto della bilancia sono quei silenzi ad autorizzare il giudizio sulla sproporzione tra i suoi racconti e l’enormità del ritorno in libertà. Dire che la legge è stata applicata è vero, ma è anche mistificatorio, perché equivale a considerare la sua scarcerazione alla stregua di un sigillo tombale su quanto ci siamo presi da lui, pagandolo il massimo. Con buona pace delle domande ancora senza risposta. Messa così non è il prezzo della libertà a essere esagerato, ma quanto poco abbiamo avuto in cambio. L’Espresso 13.6.2025


Parla il pm Alfonso Sabella, l’uomo che arrestò Brusca: “Comprendo i familiari delle vittime, ma…”

 

 

Brusca, il boss di San Giuseppe Jato torna in libertà, parla il Pm Alfonso Sabella: “Comprendo lo strazio dei familiari delle vittime, ma questa è legge”

Brusca è un uomo libero a tutti gli effetti, benché ancora scortato e protetto con una falsa identità lontano dalla Sicilia. Il boss di San Giuseppe Jato, che azionò il telecomando per far deflagrare 500 chili di tritolo a Capaci, dopo 25 anni in carcere torna alla vita. Forte è lo sdegno e la rabbia dei familiari delle vittime di mafia. Lui torna in libertà mentre i loro cari sono al cimitero.

Alfonso Sabella è il pm che lo ha arrestato. Ascoltato da L’identità dichiara: “Posso comprendere lo strazio dei familiari delle vittime e lo sdegno di alcuni. Ma è la legge. Ci sono collaboratori di giustizia che, pur avendo commesso gravissimi crimini, non hanno scontato pene significative. Chi non si è fatto un giorno di carcere mentre altri hanno ricevuto pene più severe. Lui ha scontato tutta la pena”.

Dottor Sabella, Giovanni Falcone durante un convegno a Courmayeur nel 1986, disse: “La legislazione premiale ha consentito una chiave di lettura dall’interno della criminalità organizzata, aprendo importanti brecce nel muro dell’omertà”. Il tema torna di grande attualità.
Falcone era il Maradona della magistratura. Questa legge è arrivata perché lo Stato con gli strumenti ordinari che aveva non sarebbe mai stato in grado di contrastare adeguatamente la mafia. È una legge che può essere considerata immorale, ma indispensabile.

Sta sollevando un problema di etica?
Per me è la legge più immorale che esista, perché implica un accordo tra lo Stato e un criminale affinché quest’ultimo tradisca i suoi compagni. Questo paradosso etico ha dimostrato l’efficacia della legislazione premiale. Più un individuo è criminale, in alto nella gerarchia e collabora, più le sue informazioni possono risultare utili per le indagini. E guai a cancellarla. Voglio ricordare che questa legge è stata emanata grazie all’influenza e lungimiranza di Giovanni Falcone e Antonino Scopelliti. Il testo della normativa venne redatto, da una persona a me cara, da un leale servitore dello Stato, che con abnegazione e una integrità morale integerrima lo porto nel cuore, Loris D’Ambrosio.

Che entrò nella gogna mediatico giudiziaria del processo Trattativa e morì di crepacuore.
Sì, purtroppo. Anche se in quel contesto i miei colleghi hanno fatto il loro dovere.

Può ripercorrere i momenti della cattura di Brusca e quali furono le difficoltà tecniche nell’operazione?
Ricordo tutto di quel giorno. L’adrenalina, l’attesa e poi l’urlo di gioia per l’arresto. Era il 20 maggio del 1996, in un’operazione che si rivelò complessa e piena di difficoltà tecniche. L’indagine iniziò grazie a un’agendina criptata trovata in possesso di Salvatore Cucuzza (capo mandamento del gruppo di fuoco di Porta Nuova, nel palermitano, agli ordini di Riina ndr), che portò a numeri di telefono di due GSM intestati ad una novantenne di San Giuseppe Jato. Brusca utilizzava uno dei due per comunicare solo per mezz’ora al giorno, il che complicava ulteriormente le operazioni di localizzazione. Una delle principali difficoltà tecniche riguardava la tecnologia dell’epoca, che non permetteva di localizzare con precisione i telefoni. Il margine di errore era di quasi 2 chilometri quadrati. Per questo motivo, gli investigatori, tutti provenienti dalla squadra “Catturandi” della Mobile di Palermo, che era l’eccellenza della grande scuola investigativa di Antonio Manganelli, decisero di prendere tempo per affinare la loro strategia. Dopo un precedente fallimento, in cui i rumori ambientali avevano disturbato le intercettazioni, agli agenti venne un’idea brillante. Decisero di creare un rumore artificiale, facendo partire una motocicletta smarmittata all’inverosimile per attirare l’attenzione di Brusca. Mentre alcuni poliziotti erano appostati a pochi metri dalla casa di latitanza e altri ascoltavano a Palermo la sua voce, la moto con la marmitta rotta passò nei pressi della villa di latitanza facendo un gran casino di rumore. Brusca infastidito perché era al telefono reagì. Era la prova che fosse proprio lì. In quella villa, che era del fratello. Così l’ok per il blitz. Quando vide i poliziotti con un gesto di stizza gettò il cellulare dalla finestra. Venne arrestato mentre stava vedendo un film su Giovanni Falcone.

Brusca, l’icona del male. Quando decise di collaborare quali sentimenti ed emozioni provò?
Non mi sarei mai e poi mai rapportato o confrontato con un criminale. Figuriamoci con uno del calibro di Brusca. Da uomo provavo e provo ribrezzo. Da uomo di legge, dovevo sforzarmi di avere il distacco emotivo. Brusca ci ha fornito un bagaglio di informazioni che ci hanno consentito di cancellare la storia dello stragismo corleonese. In questo dualismo tra il dovere professionale e l’etica personale, deve vincere lo Stato.

Pier Luigi Vigna audito in Antimafia nel 2010 sollevò preoccupazioni sulla millanteria di alcuni collaboratori di giustizia. Capitò anche con Brusca?
Sì. Depistò varie volte con le sue dichiarazioni. Una cosa fondamentale quando si interroga un collaboratore di giustizia è: non far mai capire al collaboratore qual è l’oggetto del tuo interrogatorio, quale, dove vuoi arrivare, che cosa, qual è la tua ipotesi che ti sei fatta, perché se gliela rappresenti, lui inevitabilmente prova a dartela e ti fornisce una versione che tu vuoi sentire, che è una polpetta avvelenata. I colleghi giovani spesso ritengono che basti un registratore acceso davanti a un collaboratore di giustizia per scoprire i fatti. Non funziona così. Ci vuole molta, molta professionalità, molta attenzione. Sono da maneggiare con molta cura, però se ci riesci, diventano uno strumento insostituibile.


 

MAGGIO 2021 Brusca lascia il carcere

Giovanni Brusca torna libero: l’ex boss lascia il carcere dopo 25 anni per fine pena

 

Ha lasciato il carcere dopo 25 anni, per fine pena, il boss mafioso Giovanni Brusca, fedelissimo del capo dei capi di Cosa nostra, Totò Riina, prima di diventare un collaboratore di giustizia ammettendo, tra l’altro, il suo ruolo nella strage di Capaci (nell’attentato morirono Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti di scorta Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo) e nell’uccisione del piccolo Giuseppe Di Matteo. Come scrive L’Espresso online, il boss lascia il penitenziario di Rebibbia, a Roma, con 45 giorni di anticipo rispetto alla scadenza della condanna. Sarà sottoposto a controlli e protezione ed a quattro anni di libertà vigilata, come deciso dalla Corte d’Appello di Milano.

La notizia, diffusa nella serata di lunedì 31 maggio, ha scatenato le reazioni e l’indignazione di molti. «Umanamente è una notizia che mi addolora, ma questa è la legge, una legge che peraltro ha voluto mio fratello, e quindi va rispettata. Mi auguro solo che magistratura e le forze dell’ordine vigilino con estrema attenzione in modo da scongiurare il pericolo che torni a delinquere», ha detto Maria Falcone, sorella del giudice. La stessa magistratura — ha aggiunto — «in più occasioni ha espresso dubbi sulla completezza delle rivelazioni di Brusca, soprattutto quelle relative al patrimonio che, probabilmente, non è stato tutto confiscato: non è più il tempo di mezze verità e sarebbe un insulto a Giovanni, Francesca, Vito, Antonio e Rocco che un uomo che si è macchiato di crimini orribili possa tornare libero a godere di ricchezze sporche di sangue». Un parere condiviso anche dall’ex procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia : «È comprensibile che possa fare impressione, ma un conto è la condanna morale, un conto quello che prevede l’ordinamento giuridico. E va accettato». Che Brusca, scontata la sua pena, venga scarcerato «è un fatto normale. Non è normale, invece, è che dopo 30 anni la verità sulle stragi sia ancora tenuta ostaggio di reticenze, viltà e menzogne», aggiunge il Presidente della commissione Antimafia Claudio Fava. «Mi riconosco nelle parole di Maria Falcone, di più non voglio dire», spiega Luigi Savina, l’ex vicecapo della Polizia che nel 1996, quando era dirigente della Mobile di Palermo, arrestò Brusca.
La liberazione di Brusca, «che per me avrebbe dovuto finire i suoi giorni in cella», è una cosa che «umanamente ripugna». Però, quella dello Stato contro la mafia è, o almeno dovrebbe essere, «una guerra e in guerra è necessario anche accettare delle cose che ripugnano. Bisogna accettare la legge anche quando è duro farlo, come in questo caso», ha commentato Salvatore Borsellino, fratello di Paolo ucciso da Cosa Nostra nella strage di via D’Amelio. «Questa legislazione premiale per i collaboratori di giustizia – ricorda l’ideatore del Movimento delle Agende rosse – fa parte di un pacchetto voluto da un grande stratega, Falcone, per combattere la mafia, dentro ci sono l’ergastolo ostativo, il 41 bis. Va considerata nella sua interezza ed è indispensabile se si vuole veramente vincere questa guerra contro la criminalità organizzata».
«Sono indignata, sono veramente indignata. Lo Stato ci rema contro. Noi dopo 29 anni non conosciamo ancora la verità sulle stragi e Giovanni Brusca, l’uomo che ha distrutto la mia famiglia, è libero. Sa qual è la verità? Che questo Stato ci rema contro. Io adesso cosa racconterò al mio nipotino? Che l’uomo che ha ucciso il nonno gira liberamente?…», ha detto Tina Montinaro, la vedova di Antonio Montinaro, il caposcorta di Falcone. «Dovrebbe indignarsi tutta l’Italia e non solo io che ho perso mio marito. Ma non succede».
Una notizia che «sicuramente non mi fa piacere. È un’offesa per le persone che sono morte in quella strage. Secondo me dovevano buttare via le chiavi», ha aggiunto Giuseppe Costanza, autista del giudice Falcone scampato alla strage di Capaci. «Che Paese è il nostro? Chi si macchia di stragi del genere per me non deve più uscire dalla galera». Indignato anche Giovanni Paparcuri, autista di Falcone nei primi anni ’80, rimasto ferito nell’attentato contro il consigliere istruttore Rocco Chinnici: «Non ho mai creduto al suo pentimento e mai ci crederò. L’avrei fatto marcire in galera per tutta la vita per gli innumerevoli morti che ha sulla coscienza. Ma essendo in uno Stato di diritto e se la legge prevede che a questi assassini poi divenuti collaboratori spettano dei benefici, da buon soldato, ma a malincuore ne prendo atto e me ne faccio una ragione, anche se è molta dura… durissima».
«La scarcerazione di Brusca è una vergogna di Stato. Sono sconvolta per quanto accaduto. Non mi aspettavo l’ennesima vergogna della giustizia in Italia», è quanto dichiarato da Rita Dalla Chiesa, primogenita del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, ucciso dalla mafia il 3 settembre del 1982 a Palermo, pochi mesi dopo il suo insediamento. «Brusca fa il suo gioco, nulla di nuovo. Le istituzioni devono fare la loro parte. Mattarella non ci abbandonerà in questo degrado», ribatte Sergio De Caprio, alias Capitano Ultimo, commentando la scarcerazione e invitando a «alzare la guardia» contro la «delegittimazione dello Stato».
«Dopo 25 anni di carcere, il boss mafioso Giovanni Brusca torna libero. Non è questa la giustizia che gli italiani si meritano», ha aggiunto il leader della Lega Matteo Salvini. «Non voglio crederci. È una vergogna inaccettabile, un’ingiustizia per tutto il Paese. Sempre dalla parte delle vittime e di chi lotta e ha lottato contro la mafia», ha scritto la sindaca di Roma, Virginia Raggi, su Facebook. «Una notizia che lascia senza fiato e fa venire i brividi. È una sconfitta per tutti, una vergogna per l’Italia intera», dichiara Giorgia Meloni, leader di Fdi. La scarcerazione è «un atto tecnicamente inevitabile ma moralmente impossibile da accettare. Mai più sconti di pena ai mafiosi, mai più indulgenza per chi si è macchiato di sangue innocente. Sono vicina ai parenti delle vittime, oggi é un giorno triste per tutti», è il commento affidato a Twitter da Mara Carfagna, ministro per il Sud e la Coesione territoriale. La liberazione di Brusca è «un pugno nello stomaco», ha concluso il segretario del Pd, Enrico Letta. CORSERA MAGGIO 2021


1.6.2021 – La liberazione di Brusca spacca la politica italiana

Gran parte del panorama politico italiano ha reagito con forte indignazione alla notizia della scarcerazione di Giovanni Brusca, ex boss mafioso, pentito, responsabile di numerosi omicidi nonché colui che nel 1992 fece esplodere la bomba di Capaci che uccise il giudice Giovanni Falcone, sua moglie e la scorta. Arrestato nel 1996, Brusca è uscito di prigione il 31 maggio 2021, 64enne, dopo 25 anni di reclusione grazie alla legge sui collaboratori di giustizia (decreto legge n. 8 del 15 gennaio 1991, convertito, con modificazioni dalla legge n .82 del 15 marzo 1991) che consente alcuni benefici e premi ai pentiti.
 Proprio la sorella di Giovanni Falcone, Maria Falcone, ha commentato la scarcerazione di Brusca ricordando la legge: «Umanamente è una notizia che mi addolora, però questa è la legge, che peraltro ha voluto mio fratello e quindi va rispettata». Non altrettanto razionali e pacate, come anticipato, le reazioni di numerosi politici. Vediamo qualche esempio.
La politica si indigna Il segretario della Lega, Matteo Salvini, su Twitter ha commentato in diversi post la scarcerazione di Brusca, sostenendo che «non è questa la “giustizia” che gli Italiani si meritano» o, citando Rita Dalla Chiesa (figlia del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa), chiedendosi polemicamente «che cosa deve fare uno di più in Italia per avere l’ergastolo?». La risposta alla domanda è “non aver collaborato con la giustizia”, con qualche precisazione, ma ci torneremo dopo.
Paola Taverna, senatrice del Movimento 5 stelle, ha invece commentato su Twitter: «La scarcerazione di Brusca riapre una ferita dolorosa per tutto il Paese. Una vergogna senza pari, un insulto alla memoria di chi è caduto per difendere lo Stato. Serve subito una nuova legge sull’ergastolo ostativo». L’ergastolo ostativo – di cui hanno parlato anche diversi altri esponenti pentastellati e che è stato oggetto di una recente decisione della Corte Costituzionale – con la scarcerazione di Brusca non c’entra nulla, ma anche su questo torneremo più avanti.
Antonio Tajani, coordinatore nazionale di Forza Italia, ha dichiarato che «è impossibile credere che un criminale come Brusca possa meritare qualsiasi beneficio. La sua uscita dal carcere fa venire i brividi. Questa non è giustizia giusta».
Anche nel Pd ci sono state prese di posizione su questa stessa falsariga, ad esempio il senatore Antonio Misiani ha scritto su Facebook: «Una vergogna. Non c’è altro modo per definire una notizia come questa (…). La libertà va meritata. Se questa è la legge, la legge va cambiata».
La maggior parte dei commenti dal Pd tuttavia – dal segretario Enrico Letta in giù, come vedremo tra poco – ha bilanciato lo shock causato dalla scarcerazione con la bontà della legge sui pentiti.
Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia, ha parlato di «orrore» e ha rilanciato alcune parole di Rita Dalla Chiesa (diverse da quelle citate da Salvini) che parla di «vergogna di Stato».
Voci fuori dal coro
Alcuni politici – soprattutto di Pd e Italia Viva, ma non solo – hanno tenuto una linea meno emotiva, molto spesso facendo tesoro delle parole di Maria Falcone. Vediamo alcuni esempi.
Come detto, Enrico Letta ha parlato della scarcerazione di Brusca come di un «pugno nello stomaco» ma ha allo stesso tempo ricordato le parole di Maria Falcone («La sorella di Falcone ricorda a tutti che quella legge applicata oggi l’ha voluta anche suo fratello, che ha consentito tanti arresti e di scardinare le attività mafiose»). Stessa posizione espressa anche da molti altri esponenti del partito, come il senatore Franco Mirabelli o l’eurodeputata Patrizia Toia.
Ettore Rosato, presidente di Italia Viva, ha ricordato le parole di Maria Falcone – come lui anche, ad esempio, i colleghi di partito Gennaro Miglioree Catello Vitiello – e ha sostenuto che «un sistema premiale per i mafiosi che collaborano in carcere deve esistere».
Nel M5s diversi esponenti (ad esempio gli onorevoli Davide Aiello e Cosimo Adelizzi) hanno riconosciuto che non è uno scandalo che in base alla legge Brusca torni libero, ma hanno legato la questione alla battaglia sull’ergastolo ostativo, su cui torneremo tra poco.
In Forza Italia una posizione leggermente più sfumata rispetto a quella di Tajani è stata espressa da Annamaria Bernini, che ha riconosciuto che la scarcerazione è avvenuta in base alla legge – di nuovo viene citata Maria Falcone – ma allo stesso tempo ha criticato il legislatore che quella legge ha prodotto.
Anche in Fratelli d’Italia, dove le condanne dell’avvenuto sono spesso state molto dure, la deputata Wanda Ferro ha precisato la propria posizione, riconoscendo da un lato che «l’impianto normativo sui pentiti, nato su impulso di Giovanni Falcone, ha dato ai magistrati uno strumento straordinariamente efficace nella lotta alla mafia, e non va messo in discussione» ma allo stesso tempo criticando la scelta della magistratura: «Far tornare in libertà un mafioso del calibro di Giovanni Brusca, responsabile di oltre centocinquanta efferati delitti, senza che abbia dato un contributo pieno alla ricostruzione delle pagine più drammatiche della storia della nostra Nazione, è una nuova offesa alle sue vittime».
Nella Lega, infine, non ci risultano posizioni diverse da quelle del segretario, che sostanzialmente chiede di cambiare la legge che ha portato alla scarcerazione di Brusca (ma, avendo le leggi penali solo effetto per il futuro e non retroattivo, l’eventuale modifica non si applicherebbe comunque al caso in questione).
E l’ergastolo ostativo? Giovanni Brusca, come detto, è stato scarcerato in quanto collaboratore di giustizia che dopo 25 anni di carcere ha maturato il diritto in base alla legge ad uscire dal carcere. Rimarrà comunque in libertà vigilata per i prossimi quattro anni e sotto controllo e protezione – in quanto pentito – probabilmente per il resto della sua vita. Non era sottoposto al regime di ergastolo ostativo – cioè il regime di carcere duro che esclude dall’applicabilità dei benefici penitenziari gli autori di taluni reati particolarmente gravi che non collaborano – in quanto collaboratore di giustizia. Quindi anche riformare l’ergastolo ostativo, come chiede il M5s, non impedirà in futuro di scarcerare mafiosi che abbiano collaborato con la Giustizia. Il punto, sollevato da diversi pentastellati, è però che in base a una recente decisione della Corte Costituzionale (e a una precedente della Corte europea dei diritti dell’uomo) l’ergastolo ostativo deve essere modificato, lasciando aperta la possibilità che anche un mafioso che non abbia collaborato possa accedere ai benefici di legge, come permessi premio e liberazione anticipata. Questo dipende, come avevamo spiegato in queste nostre analisi (qui e qui), dal fatto che non si può escludere in via teorica l’ipotesi di un ex boss che non abbia collaborato per valide ragioni (ad esempio, il fondato timore di ritorsioni contro la propria famiglia) ma che nonostante questo si sia sinceramente pentito e abbia troncato del tutto qualsiasi legame con l’organizzazione criminale. Negargli i benefici di legge, a queste condizioni, è incostituzionale. Si vedrà nel prossimo futuro – la Corte Costituzionale ha dato un anno di tempo al legislatore per trovare una soluzione, prima di disapplicare la norma che prevede l’ergastolo ostativo – come il Parlamento affronterà la questione.
In conclusione La scarcerazione dell’ex boss mafioso, responsabile della strage di Capaci, Giovanni Brusca ha scatenato aspre reazioni da parte della politica italiana. Anche all’interno dei medesimi partiti si sono create sostanzialmente due fazioni, una (prevalente nel centrosinistra) che difende l’impianto normativo esistente, che premia i mafiosi che scelgono di collaborare con la giustizia per incentivare i pentimenti, e una (prevalente nel centrodestra) che chiede di cambiare la legge. Il M5s ha una posizione variegata e ha scelto di sfruttare il clamore mediatico legato al caso Brusca per rilanciare la propria battaglia sull’ergastolo ostativo.
Si vedrà nel prossimo futuro se, passata la reazione emotiva del momento, ci saranno interventi del legislatore sulla legge sui pentiti. Sulla legge che prevede l’ergastolo ostativo, il legislatore deve invece necessariamente intervenire entro l’anno prossimo, altrimenti la Corte Costituzionale boccerà la norma in questione, con conseguenze potenzialmente pericolose per il regime carcerario dei mafiosi (motivo per cui i giudici costituzionali non hanno applicato subito la propria decisione ma hanno dato al Parlamento un anno di tempo). 01 giugno 2021 PAGELLA POLITICA

 

 

GIAN CARLO CASELLI  Fra pentiti di terrorismo e pentiti di mafia c’è però una grande differenza. I terroristi si pentono, tutti, prima dell’emanazione di una legge in loro favore. Quando Patrizio Peci il 1° Aprile 1980 si pente, dando il via a una vera e propria slavina di pentiti che causerà il tracollo delle Br, dichiara fin dall’inizio di voler collaborare perché non crede più nella lotta armata, perché vuole impedire che vi siano altri morti, perché vuole rifarsi una vita, perché il generale dalla Chiesa (col quale aveva avuto rapporti come confidente autorizzati dall’autorità giudiziaria) gli aveva parlato della possibilità di una legge di favore. In altre parole i terroristi si pentono perché sono “scoppiati” dal punto di vista psicologico e politico. I mafiosi invece si pentono in base a un calcolo di convenienza. Dopo le stragi del 1992 la forte reazione dello stato convince molti mafiosi a “cambiare bandiera”, abbandonando una mafia che stava perdendo. Senza dimenticare l’insegnamento di Falcone: ci si pente contro la mafia soltanto quando si ha fiducia nello Stato, perché il pentito di mafia consegna se stesso e i famigliari disposti a seguirlo alla protezione dello stato. E la Storia della mafia è anche storia infinita di rappresaglie contro i pentiti e i loro familiari». FAMIGLIA CRISTIANA 7.6.2025

 

GIOVANNI BRUSCA, u verru scannascristiani definitivamente libero

 

 

PENTITI, FALSI PENTITI e COLLABORANTI