Sono passati quasi 30 anni dalla strage di via D’Amelio, e da una stagione difficile per il Paese. E adesso che l’Italia vive un’altra crisi, Fiammetta Borsellino ci dà una lezione sul coraggio, ovvero «la capacità di raccontarsi una storia diversa»
All’epoca in cui le regioni d’Italia virano sempre più al rosso, e i contagi totali hanno superato il milione di casi, Fiammetta Borsellino esce di casa ogni mattina con la mascherina per accompagnare Felicita, 10 anni, e Futura, 7, alla scuola steineriana che «anche in una realtà complessa come Palermo, esiste». Sembra quasi estate, anche se siamo a novembre, nel quartiere della Kalsa, a pochi metri dalla casa in cui nacque, il 19 gennaio 1940, suo padre Paolo. Nonostante la sua vita sia stata sconvolta il 19 luglio 1992 dalla strage di via D’Amelio, non ha mai pensato di abbandonare questo posto.
«Era una città che papà amava visceralmente. All’inizio non gli piaceva, ed era per questo che, diceva, poi se ne era innamorato così tanto».
Come passa le sue giornate? «Ci sono le restrizioni per la pandemia, la sera non si esce. La giornata è assorbita completamente dagli impegni delle bambine, tra scuola, attività sportive e musica. Adesso ci stiamo riorganizzando. Se sarà possibile, nel fine settimana con mio marito continueremo ad andare nella casa in mezzo al bosco a Cefalù, un’oasi di benessere».
Ha paura del virus? «Seguo le regole e il buonsenso. Abbiamo avuto dei conoscenti malati, ma per fortuna nessun morto. La serenità di fondo che ho, mi deriva dal fatto di avere vissuto esperienze forti e dolorose. Ognuno di noi ha un rapporto personale con la morte».
Anche lei non riuscì a salutare suo padre, proprio come i parenti dei malati di Covid non riescono a salutarli se in ospedale non ce la fanno. «Quel 19 luglio ero in vacanza in Indonesia con una famiglia di amici, e ho sempre pensato che se non fossi stata lì probabilmente sarei morta, perché sarei andata anche io a trovare la nonna in via D’Amelio, con papà, dopo il mare. Che era morto l’ho saputo invece da una telefonata. Per questo capisco bene chi vede andar via i genitori, e li perde senza poterli nemmeno abbracciare. In più, mio padre aveva 52 anni: non abbiamo avuto molto tempo insieme. Tra l’altro è una pena che provo ancora adesso, la sto vivendo con mia sorella Lucia, che vive a Roma. Ha una grave malattia, è immunodepressa e posso metterla in pericolo, non posso starle vicino. L’ho vista a settembre dopo molti mesi, oggi spostarsi è ancora più complicato».
Lei che rapporto ha con la morte? «Sin da quando ero bambina è sempre stata una di famiglia. Vedere mio padre con la scorta, vedere morire i suoi amici, colleghi, giornalisti… ha fatto sì che per me fosse un pensiero sempre presente. Allo stesso tempo ho interiorizzato quello che diceva mio padre, ossia che bisogna comunque vivere. La paura è un fatto umano, ma bisogna farsi forza e andare avanti, perché la paura non diventi un ostacolo».
Non teme proprio nulla? «Avendo vissuto un clima di perdita perenne, posso solo dire che mio padre è stato bravo a prendere le cose con ironia, a scherzarci su, a farci vivere una normalità nell’anormalità degli anni ’70 e ’80. Le paure di oggi sono più che altro delle preoccupazioni sul futuro dei figli».
Da qualche anno ha iniziato a girare le scuole e le università, per chiedere la verità sulla morte di suo padre. Non ha paura anche che, dopo di lei, nessuno ne parli più? «Più che paura è sofferenza, il dolore che può provocarmi l’idea che tutto finisca nell’oblio, nel silenzio. Che questa possa diventare l’ennesima tragedia italiana che molto probabilmente rimarrà nel mistero. Mi riferisco ovviamente alla ricerca della verità, perché se parliamo della memoria, le vie e le piazze che vengono intitolate a mio padre, i ragazzi delle scuole, quella c’è ed è molto viva. Ma non basta. Occorre che accanto alla memoria ci sia la ricerca della giustizia, e la giustizia passa attraverso la verità. Se non c’è la verità è come fare morire due volte Paolo Borsellino, uno Stato che non riesce a far luce su queste ferite non ha futuro e non hanno futuro neanche i nostri figli. Non ha possibilità di progresso, che passa soprattutto sul far luce su fatti gravi che hanno segnato tutto il popolo italiano».
La sua vita, dopo quel 1992, ha avuto due fasi. Una prima parte di cui non si sa molto di lei, poi a 25 anni dalla strage è diventata più visibile, per chiedere, appunto, la verità. «Ho fatto il mio dovere, quello che mio padre diceva sempre di fare. A 19 anni il mio dovere era studiare, perché attraverso la cultura si combatte la mafia. E creare le basi per crescere, essere uomini e donne maturi. Non mi sono bloccata a quell’evento, come i miei fratelli».
Sua sorella Lucia diede un esame universitario poche ore dopo la morte di suo padre. «Era appunto il miglior modo di mettere in pratica gli insegnamenti di mio padre».
Dopo aver studiato, che cosa ha fatto? «Dopo la laurea in Legge ho lavorato 17 anni al Comune di Palermo come funzionario dei servizi educativi. Con la nascita della mia prima figlia ho però scelto di cambiare vita e dedicarmi totalmente a lei. Adesso che invece le bambine sono più grandi ho di nuovo cambiato vita. E ora che sono più consapevole, dopo anni a seguire le udienze e studiare i processi, ho deciso di impegnarmi per chiedere che cosa davvero è successo. Non avrei potuto farlo a 19 anni».
Se avesse la certezza che le rispondessero la verità, quale domanda farebbe «Le sentenze ci dicono chi è stata la mano armata della strage, chi materialmente, appartenendo all’organizzazione criminale denominata mafia o Cosa Nostra, ha ucciso. Quello che oggi non si sa è la verità su quel fatto, quali sono state le menti che hanno voluto che ciò accadesse e che quindi hanno dato un contributo fondamentale all’attuazione della strage. Se quindi dovessi fare una domanda, questo presupporrebbe un contributo di onestà dalle istituzioni. Chiederei che queste fossero chiare e non reticenti, perché è stato penoso vedere in tribunale poliziotti e magistrati che difendevano la loro posizione senza dare alcun contributo alla ricostruzione dei fatti».
Ai processi molti ora dicono «non ricordo», «non c’ero», «sono passati 28 anni». C’è ancora chi sa? «Sì, c’è assolutamente. Non sono tutti morti, e comunque le persone non agiscono da sole, gli alti vertici non potevano non sapere. Certo, più passa il tempo più la verità si allontana, ogni giorno che passa si sgretolano le prove».
Lei dopo i quattro processi sulla strage, ha denunciato il depistaggio in ogni sede. È cambiato qualcosa? «Il “Borsellino quater”si è concluso nel 2017 con una sentenza che sanciva il depistaggio. Si è aperto un nuovo processo nei confronti di alcuni poliziottiche aveva preso un buon ritmo, ma la pandemia ha rallentato tutto. Per i magistrati invece è stata chiesta l’archiviazione, abbiamo fatto ricorso e stiamo aspettando».
Che cos’è per lei il coraggio? «Credo che sia la capacità di andare avanti nonostante gli ostacoli che possono essere un freno a ideali o progetti. Coraggio è andare contro la corrente, la capacità di raccontarsi delle storie diverse da quelle che circolano».
Si sente simile a suo padre? «Avevamo un rapporto speciale, ero la piccola di casa, anche se poi abbiamo avuto i nostri screzi. Ricordo in particolare una litigata bestiale e una tensione che durò diverse settimane perché lui non mi fece andare a un concerto dei Duran Duran per cui mi avevano regalato dei biglietti. Del carattere di papà mi è arrivato molto, soprattutto la serenità di parlare di cose dolorose, di saperle condividerle. Lui era anche un po’ frivolo, amava l’ironia, il bello, giocare con i bambini, provocarli, insegnargli per gioco le parolacce, fare il bambino lui stesso, essere goliardico, strafottente. Era un cane che non aveva padroni, ho sempre detto. Mio fratello Manfredi ha più quel modo di fare, scherzoso. Non credo che abbiamo voluto emularlo, credo però che abbiamo assorbito molto di lui, i pochi anni che abbiamo vissuto insieme sono stati molto intensi, ed equivalgono a una vita intera».
Che cosa ha raccontato, alle sue figlie, di suo padre? «Non ho bisogno di raccontare, da quando sono nate sono cresciute a “pane e nonno Paolo”. Ne parliamo tanto, raccontiamo come se fosse accanto a noi, ci sono foto, libri che rimandano ai nonni. Le mie figlie hanno saputo sempre tutto, sia la parte felice sia quella dolorosa. Sono serene, anche se hanno la tristezza per non averlo potuto conoscere, e sono soprattutto orgogliose di avere avuto un nonno che era anche un esempio».
Perché le ha chiamate Felicita e Futura? «Felicita è un nome legato a mio padre, che, essendo un cultore della letteratura – adorava Dante che citava a memoria, era autodidatta della lingua tedesca –, tra i tanti amava anche Guido Gozzano. In particolare la poesia La signorina Felicita, ovvero la felicità. Me l’aveva fatta imparare a memoria e mi faceva anche esibire, sulla sedia, davanti agli altri, gli piaceva come la recitavo. Quando ho scoperto, al parto, che era una femmina, questo era uno dei nomi prescelti. Futurainvece si chiama così perché è il nome di una canzone di Lucio Dalla che amiamo particolarmente».
Liliana Segre, a 90 anni, ha deciso di terminare la sua testimonianza pubblica. Lei ha mai pensato di smettere? «Per ora non mi sono data una scadenza, non so come sarò tra cinque o sei anni, bisogna fermarsi se non si sta più bene. Ho avuto momenti difficili e di stanchezza. Ero passata da essere una madre iperpresente a una assente, stavo sempre fuori casa, giravo per l’Italia, avevo sempre la valigia in mano ed ero sempre in un aeroporto. Ho cercato un equilibrio. Non è facile raccontare i propri fatti personali e dolorosi davanti a un pubblico. Da una parte ti dà un benessere infinito, dall’altra un’enorme fatica».
Riesce a trattenere le lacrime? «È capitato che ho pianto, ma nel 90 per cento dei casi mi trovo a gestire le lacrime degli altri e riesco a mantenere la calma. È come se mi uscisse una determinazione, come se capissi che bisogna parlarne con il sorriso, solo così riesci a far breccia, a trasmettere la forza di questa storia. Se la prendi per quella che è, genera sconforto. Invece porsi in maniera decisa, con energia, è meglio, genera la volontà di andare avanti. E forse anche perché piangere lo vivo come una sconfitta. Sono convinta che noi, alla fine, con le nostre domande, ne usciamo vincitori. Sono altri che sono morti. Sono ancora vivi, ma sono morti dentro». 19 NOVEMBRE 2020 di SILVIA BOMBINO VANITYFAIR