Domenica prossima a Milano Marcelle Padovani, autrice di “Cose di Cosa Nostra”, libro intervista con Falcone, e di un altro libro intervista altrettanto importante a Sciascia, “La Sicilia come metafora”, e più modestamente io, presentiamo insieme a Book City i nostri libri “gemelli” su Falcone e Borsellino, usciti in occasione del trentennale delle stragi del 1992. Circostanza del tutto ordinaria, se non fosse che in questi giorni la chiusura a Palermo delle celebrazioni sugli anniversari di Capaci e via D’Amelio, con la titolazione dell’aula bunker del Maxiprocesso alla memoria dei due magistrati, in presenza del presidente della Repubblica, abbia tra le altre sollevato la reiterata questione della “dimenticanza” da parte della cosiddetta “memoria” ufficiale di due persone che ebbero un ruolo cruciale in quello stesso, storico processo: il presidente della corte Alfonso Giordano e il direttore dell’aula bunker Vincenzo Mineo.
A questi due grandi siciliani avevo dedicato “Paolo Borsellino. Per amore della verità”, non solo in virtù del loro storico ruolo, ma anche per l’importanza che hanno avuto nella mia vita. Alfonso Giordano, con generosità, era venuto a presentare il mio precedente “Giorni di mafia” edito da Laterza a Una Marina di Libri, con Giuseppe Di Lello e Matteo Di Gesù. E Vincenzo Mineo aveva tanto insistito perché presentassi a Palermo, nonostante la pandemia, “La notte della civetta” di Zolfo editore, ritenendo che dei temi che avevo sollevato in quel libro si dovesse pubblicamente parlare. L’ho poi fatto in suo nome, a Villa Filippina, insieme a Fiammetta Borsellino e l’editore Lillo Garlisi, quando Vincenzo purtroppo non c’era più.
Poi, l’estate scorsa, il successo di “Paolo Borsellino. Per amore della verità”, che aveva addirittura fatto capolino nella classifiche nazionali dei libri, mi aveva portato a essere insignito del premio Racalmare fondato da Leonardo Sciascia. Premio che, come qualcuno ricorderà, ho con riluttanza rifiutato per solidarietà con Giovanni Paparcuri, sopravvissuto alla strage Chinnici, per anni stretto collaboratore di Falcone e Borsellino, in relazione alle vicende che lo avevano portato a lasciare la direzione del “bunkerino”, il piccolo museo della memoria del tribunale da lui stesso fondato. In quella occasione ho usato parole forti: ho detto che l’Antimafia è morta se ha di fatto espulso e messo ai margini un uomo come Paparcuri. Che, del resto, non era stato il primo cui veniva inflitto un simile trattamento. Per questo sono stato accusato, in alto loco e da più parti, credo di “lesa maestà antimafia”, anche se mai direttamente. Per relata refero, diciamo. Pazienza: si è quel che si è, diceva Sciascia
Ieri Repubblica Palermo mi ha chiesto un pezzo sul poco ricordato quarantennale della morte dell’agente Lillo Zucchetto, una vittima di serie B. Ho pensato a quanti, nelle successive serie TV, si sono definiti “cacciatori di latitanti”, mentre quelli che lo furono davvero, quando era vietato da una legge non scritta arrestare i grandi boss a piede libero, che giravano serenamente per Palermo, sono morti nel tentativo di catturarli. Quando la lotta alla mafia, che in Sicilia è stata una guerra civile, si doveva fare con indagini e pistole e non, come nei trent’anni successivi alle stragi del ’92, con onorificenze, libri, cerimonie e carriere. Magistrato e scrittore, ho letto tante volte l’estate scorsa in certi cartelli promozionali. Chissà se sia vero per conseguenza anche l’opposto, che uno scrittore possa fare in automatico anche il magistrato…
Oggi, per quel che vale, ribadisco: l’Antimafia è morta. Ma non è stata cremata. Il cadavere giace in attesa di sepoltura e viene perciò necrofilicamente riutilizzato ancora. Un dottor Frankenstein ogni tanto si picca di rianimarlo. In passato, l’eccesso di protocolli ufficiali e di vanità aveva già molto spesso rimosso dalla “memoria” i protagonisti concreti e, insieme a loro, i fatti realmente accaduti. Siamo a un bivio: se si vorrà ancora “fare memoria” o battersi per la legalità si dovranno cercare altre forme. E chiudere finalmente con un passato che non passa mai, e che ci tiene in ostaggio. Solo con i piedi nel futuro si potrà ricostruire con freddezza e giusto distacco la concreta distopia vissuta in quei decenni in Sicilia, vedendone finalmente i collegamenti politici, istituzionali e internazionali, al momento quasi del tutto assenti dalle analisi storiche o cronachistiche, e che invece vi hanno inciso in larghissima parte. Si potrebbe persino dire che, in Sicilia, nessun delitto di mafia è stato mai solo un delitto di mafia.
Ma i miei conterranei ho visto che preferiscono le facili scorciatoie. Per esempio, sono stati con Alfredo Morvillo, magistrato e fratello di Francesca, moglie di Falcone, che non è andato alla cerimonia in aula bunker e al successivo concerto al Teatro Massimo, per via della presenza di rappresentanti delle istituzioni dal passato non proprio immacolato. Precisando per altro che il problema non sono certo loro, quando hanno scontato la pena, bensì quei siciliani che gli corrono dietro, nostalgici del bel tempo mafioso che fu. Ebbene, “io sto con Morvillo”, si è detto, ma poi vado anche in aula bunker o al concerto. Un bipolarismo che mi è ben noto, poiché è la malattia che offusca di più e da sempre noi siciliani. Che o diventiamo irriducibili come talebani oppure acquiescenti verso ogni potente, fosse pure un capo condominio. Per questo, dalle “cose di Cosa Nostra”, alla fine fa sempre inevitabilmente capolino anche la condizione dell’essere siciliani. E come si è siciliani? Sempre bipolarmente. Per questo, il famoso articolo di Sciascia sui “professionisti dell’antimafia, che fu allora – in pieno Maxiprocesso – un pugno nello stomaco, e poi tutte le drammatiche e dolorose conseguenze che ne seguirono, costituisce ancora oggi il frantoio che macina tanti dei nostri mali mai risolti. PIERO MELATI
PIERO MELATI e il suo racconto di Paolo Borsellino in PER AMORE DELLA VERITÀ
Intervista con Marcelle Padovani. Trent’anni dopo Capaci, vi racconto Giovanni FALCONE