Novantadue Falcone e Borsellino, 20 anni dopo

Novantadue
Falcone e Borsellino, 20 anni dopo
di Claudio Fava

Testo inedito-novità italiana
Con (in o.a) Filippo Dini, Giovanni Moschella e Pierluigi Corallo
Allestimento e Regia di Marcello Cotugno
Luci Stefano Valentini
Suono Gianfranco Pedetti
Progetto grafico Francesco Lampredi
Produzione BAM Teatro
In collaborazione con: XXXVII Cantiere Internazionale D’arte di Montepulciano e Festival L’Opera Galleggiante

Novantadue è una moderna tragedia classica. Suo malgrado.
La modernità è nei fatti, nel titolo che scandisce la nostra ridottissima distanza (solo temporale, perché nei fatti c’è già un universo a separarci) dalla storia che mette in scena.
La sua classicità è nella dimensione epica, consapevolmente eroica, dei suoi protagonisti: sarebbero piaciuti a Sofocle, Falcone e Borsellino.
Lo si potrebbe peraltro credere un testo di denuncia: Novantadue – o meglio, il 1992 – è stato un anno orribile della nostra storia, iniziato peraltro con la pronuncia da parte della Cassazione della sentenza storica e definitiva di condanna che chiuse di fatto il Maxi-processo.
Invece, Novantadue è soprattutto, sorprendentemente il racconto di una doppia solitudine.
Che si staglia sullo sfondo di una fase epocale della nostra storia repubblicana, ma sempre solitudine umana resta. È il racconto di due uomini abbandonati da quello Stato che hanno giurato di servire.
Due volti che in Novantadue tornano persone, dopo essere stati trasformati in icone.
Oggi li troviamo fotografati e riprodotti dappertutto, dalle aule di tribunali agli interni delle macellerie.
Fino al paradosso: una loro foto compare persino in quel circolo Arci di Paderno Duniano dove il 31 ottobre del 2009 i boss delle ‘ndrine si sono riuniti per eleggere il nuovo capo della ‘ndrangheta lombarda.
Ma erano – e non dobbiamo dimenticarlo – uomini, che lo Stato ha lasciato soli, a consumarsi ed immolarsi in una tragedia assolutamente annunciata.
E fuori dalla retorica celebrativa che si è affannata a piangerne l’eroico sacrificio, di loro non si è forse mai veramente parlato. Della loro umanità, delle loro passioni, delle loro piccole ostinazioni. Delle paure con cui hanno convissuto fino all’ultimo, del rigore dei loro pensieri, di quel senso dello Stato altissimo, non negoziabile, con cui ogni giorno servivano il Paese. Delle loro ore insonni o dei 200 e più caffè consumati (e messi in conto) durante il soggiorno di sicurezza al carcere dell’Asinara, quando erano “reclusamente” intenti a preparare il Maxi-processo.
Una storia del genere non si può raccontare con la retorica.
Per questo il nostro spettacolo trova la sua cifra estetica nell’essenzialità, funzionale a uno scavo profondo nell’intimità di due esseri umani.
A innescare sulla scena il contradditorio narrativo con Falcone e Borsellino, altri due personaggi: un collega magistrato e un mafioso comune. Il primo è il nemico che si cela dentro casa, è la zona grigia, è il terreno della contraddizione, dove crolla ogni rassicurante steccato tra il bene e il male. Il secondo è un mafioso, uno che abbassa la testa ed esegue gli ordini, ma che si è rifiutato di eseguirne uno: uccidere Paolo Borsellino.
Tutti i codici che circondano la recitazione degli attori sono dismessi: luci scarne e scenografia minimale ricordano un teatro povero, di ispirazione kantoriana. Ed ecco che bastano pochi elementi (come già nelle intenzioni dell’autore) – un tavolo, delle sedie – per mettere in scena la tragedia di due uomini comuni, chiamati dalla propria indole testarda a una missione straordinaria quanto impossibile: ripulire la Sicilia (e l’Italia) dalla mafia. Pochi altri segni ricostruiscono per accenni l’universo e la gestualità dei due personaggi.
Tutto, anche la musica (le note sussurrate di Nils Frahm, gli archi implacabili di Olafur Arnalds, le elaborazioni post neo-melodiche di Hugo Race e del suo The Merola Matrix, le canzonette pop del tempo, che vengono dalla radio), più che fare che da commento all’azione scenica, servirà da veicolo emozionale per attingere alla solitudine di ciascuno di noi, ai momenti di abbandono che anche noi abbiamo vissuto, al senso di impotenza che anche noi abbiamo patito. Ai sentimenti di rabbia, paura, sconforto, entusiasmo, che appartengono a tutti.
E che rendono umani anche gli eroi.
Così erano Falcone e Borsellino.
Così siamo tutti noi davanti alla menzogna di Stato che li ha uccisi.
E che continua ogni giorno a contaminare le nostre vite.

Marcello Cotugno

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