Improvvisamente, l’inferno. In un caldo sabato di maggio, alle 17:56, un’esplosione squarcia l’autostrada che collega l’aeroporto di Punta Raisi a Palermo, nei pressi dell’uscita per Capaci: 5 quintali di tritolo distruggono cento metri di asfalto e fanno letteralmente volare le auto blindate. Muore Giovanni Falcone, magistrato simbolo della lotta antimafia. È il 23 maggio 1992
19 luglio, 57 giorni dopo. Il magistrato Paolo Borsellino, impegnato con Falcone nella lotta alle cosche, va a trovare la madre in via Mariano D’Amelio, a Palermo. Alle 16:58 un’altra tremenda esplosione: questa volta in piena città. La scena che si presenta ai soccorritori è devastante. Seguono giorni convulsi. La famiglia Borsellino, in polemica con le autorità, non accetta i funerali di Stato. Non vuole la rituale parata dei politici. E alle esequie degli agenti di scorta una dura contestazione accoglie i vertici istituzionali. Il neo-presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, è trascinato a stento fuori dalla Cattedrale di Palermo, con il capo della polizia Vincenzo Parisi che gli fa da scudo. Sono passati 26 anni anni, eppure nuovi colpi di scena hanno aperto squarci di luce su queste vicende su cui non c’è ancora completa chiarezza. Ma chi erano i due magistrati-simbolo che hanno sacrificato la vita al servizio dello Stato? E perché sono stati uccisi in modo così efferato?
Nel quartiere arabo. Le vite di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino risultano intrecciate fin dall’inizio. Entrambi nacquero a Palermo: Giovanni il 20 maggio 1939, Paolo 8 mesi dopo, il 19 gennaio. Ed entrambi crebbero nella Kalsa, l’antico quartiere di origine araba di Palermo, zona di professori, commercianti ed esponenti della media borghesia. Abitavano a poche decine di metri di distanza l’uno dall’altro e furono amici fin da bambini: si ritrovavano a giocare in piazza della Magione. La fototessera di Giovanni Falcone all’Accademia navale di Livorno, nel 1957. Vi andò dopo la maturità classica, ma poi cambiò idea e si iscrisse a Giurisprudenza. Nella vita del piccolo Giovanni c’erano la scuola, l’Azione cattolica e pochi divertimenti. Per il padre, un uomo molto austero, viaggi e villeggiatura non esistevano. “Mio padre stava molto in casa” raccontava Falcone nel libro di Francesco La Licata Storia di Giovanni Falcone (Feltrinelli). “Per lui era un punto d’orgoglio non aver mai bevuto al bar una tazzina di caffè”. E anche la madre era una “donna energica e autoritaria. Con i 7 e gli 8 la mia pagella veniva considerata brutta”. In casa Borsellino, invece, l’ambiente era più vivace: c’erano spesso amici in visita e si discuteva di libri e di filosofia. A scuola Paolo non sbagliava un colpo. In greco aveva 10, si alzava alle 5 del mattino per studiare e la sua memoria prodigiosa faceva il resto. I suoi genitori possedevano una farmacia in via della Vetreria, e anche per questo il padre era un’autorità nel quartiere.
Stesso liceo, stessa laurea. Giovanni e Paolo frequentarono tutti e due il liceo classico. Per il primo le scuole secondarie furono particolarmente importanti: grazie al suo professore di Storia e filosofia, Franco Salvo, imparò a sfuggire ai dogmi e a coltivare il dubbio, fino ad abbandonare il rito della messa domenicale con la madre. Dopo la maturità entrò all’Accademia militare di Livorno, poi ci ripensò e si iscrisse a Giurisprudenza. Borsellino invece optò subito per gli studi di Legge, ma mentre frequentava l’università gli morì il padre, e le condizioni economiche della sua famiglia peggiorarono. Nonostante le difficoltà, a 22 anni si laureò con 110 e lode.
Studenti modello. Anche Falcone si laureò a pieni voti. E l’anno successivo conobbe una donna di nome Rita: fu un colpo di fulmine, al quale seguì il matrimonio. I primi passi della sua carriera Falcone li mosse a Lentini (Siracusa) come pretore, per poi trasferirsi nel 1966 a Trapani, dove rimase per 12 anni. Così, un po’ alla volta, il magistrato si emancipò definitivamente dalla famiglia (tanto che la sorella Anna raccontò di averlo ritrovato “comunista”) e cominciò a entrare in contatto con la realtà della mafia. Non era ancora costretto a vivere sotto scorta, quindi trovò il tempo per dedicarsi ad alcune attività sociali e si impegnò a favore del referendum sul divorzio. Paolo Borsellino riceve i complimenti della commissione d’esame: si laureò in Giurisprudenza con 110 e lode a soli 22 anni. Pochi mesi prima era morto il padre Diego.
Di nuovo insieme. Nel frattempo Paolo aveva cominciato la sua carriera al tribunale civile di Enna come uditore giudiziario. Nel 1967 ebbe il primo incarico direttivo – pretore a Mazara del Vallo (Trapani) – e nel dicembre 1968 sposò Agnese Piraino Leto, dalla quale avrà 3 figli. Nel 1969 fu trasferito a Monreale, vicino a Palermo, dove lavorò fianco a fianco con il capitano dei carabinieri Emanuele Basile. Quest’ultimo, però, fu ucciso dalla mafia nel 1980. “Mi hanno ammazzato un fratello” disse Borsellino in quell’occasione, e si mise a indagare sull’omicidio. Falcone, intanto, si era trasferito anche lui a Palermo, dove lavorò al processo al costruttore edile Rosario Spatola, accusato di associazione mafiosa. Fu così che i due vecchi amici tornarono in contatto e cominciarono a scambiarsi informazioni sulle inchieste. Il processo Spatola mise tra l’altro in luce le qualità di Falcone, che accompagnò l’istruttoria con indagini bancarie e societarie: un metodo di indagine innovativo che si rivelò efficacissimo.
I “viddani” di Corleone. La situazione a Palermo era in rapido cambiamento. Falcone si era accorto che spesso gli indagati e i membri delle cosche sotto inchiesta venivano uccisi o sparivano misteriosamente. Il motivo? Era cominciata una guerra di mafia, che tra gli ultimi mesi del 1981 e i primi del 1982 causò nel capoluogo siciliano un morto ogni tre giorni. Alla fine le vittime furono circa 1.200, una cifra da guerra civile, che andarono ad assottigliare le file delle cosche nemiche del boss dei boss Totò Riina. Si scoprì, infatti, che dietro gli omicidi c’erano i “viddani” (villani, cioè contadini) di Corleone, circa settanta persone provenienti dal paese vicino a Palermo. E Riina era il loro capo. Per Giuseppe Ayala, pubblico ministero al Maxiprocesso di Palermo che seguirà, il successo criminale di Riina fu «frutto della straordinaria violenza con la quale egli agì: senza precedenti anche per Cosa nostra». La “guerra” finì nel 1983, ma già l’anno prima la violenza dei corleonesi si era rivolta contro lo Stato: la mattina del 30 aprile 1982 Pio La Torre, segretario regionale del Partito comunista e membro della Commissione antimafia, fu ucciso a Palermo mentre si recava in auto alla sede del partito. Per rispondere alla violenza mafiosa, il governo inviò in Sicilia come prefetto antimafia il generale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa, protagonista della lotta al terrorismo delle Brigate rosse. Per Cosa nostra era una minaccia seria. Così, il 3 settembre, anche Dalla Chiesa fu freddato a Palermo con la moglie Emanuela Setti Carraro. Le immagini di quei due corpi riversi uno sull’altro dentro un’A112 bianca, crivellati di colpi, sono rimasti per sempre nella mente di molti. E sul luogo della strage comparve un cartello: “Qui muore la speranza dei palermitani onesti”.
Nasce il pool antimafia. L’omicidio del generale Dalla Chiesa fu solo una tappa della strategia di Totò Riina, che voleva lo scontro frontale con lo Stato. Il 29 luglio 1983 il passo successivo: un’autobomba ammazzò Rocco Chinnici, capo dell’Ufficio istruzione di Palermo. Per sostituirlo, il Consiglio superiore della magistratura (Csm) scelse Antonino Caponnetto, 63 anni. Siciliano di Caltanissetta, Caponnetto lasciò la famiglia a Firenze per sottoporsi a una vita da recluso tra la caserma della Guardia di finanza e il suo ufficio. Il magistrato non aveva esperienza di processi di mafia, ma era nota la sua serietà professionale. Falcone lo chiamò subito per dirgli di arrivare in fretta a Palermo. “Quello che mi colpì della telefonata di Giovanni” avrebbe raccontato Caponnetto nel libro Nella terra degli infedeli, di Alexander Stille “fu il tono assolutamente confidenziale e amichevole che usò nei miei confronti. Come se ci conoscessimo da una vita, e invece non ci conoscevamo affatto”. Caponnetto si rese conto della necessità di costituire un pool di magistrati per frazionare i rischi dei singoli e avere una visione unitaria del fenomeno mafioso. Il primo a essere scelto fu proprio Falcone, che già all’epoca era un protagonista della lotta a Cosa nostra. Poi arrivò Giuseppe Di Lello Finuoli, che vantava una certa esperienza di processi di mafia ed era stato il pupillo di Rocco Chinnici. Su consiglio di Falcone, fu scelto anche Borsellino. E qualche tempo dopo si aggiunse Leonardo Guarnotta, uno dei procuratori con più anni di esperienza.
Momento magico. Il pool iniziò a lavorare a gran ritmo, mentre sulla scena stava arrivando la stagione dei pentiti. A partire da Tommaso Buscetta, “don Masino”, che nella guerra scatenata da Totò Riina aveva perso due figli, un fratello, un genero, un cognato e quattro nipoti. Trafficante di droga, riparò in Brasile dove fu arrestato e poi estradato in Italia. Iniziò a collaborare, ma voleva parlare solo con il numero uno del pool palermitano: Giovanni Falcone. Buscetta dichiarò di fidarsi solo di lui e del vicequestore Gianni De Gennaro. E disse a Falcone, come raccontò il magistrato stesso nel libro Cose di Cosa nostra: “L’avverto signor giudice. Dopo questo interrogatorio lei diventerà una celebrità. Ma cercheranno di distruggerla fisicamente e professionalmente. Non dimentichi che il conto che ha aperto con Cosa nostra non si chiuderà mai. È sempre del parere di interrogarmi?”.
Falcone lo interrogò e Buscetta parlò. Risultato: il 29 settembre 1984 vennero spiccati 366 mandati di arresto. Nello stesso libro, Falcone mette in evidenza l’importanza storica delle confessioni di Buscetta: “Prima di lui non avevamo che un’idea superficiale del fenomeno mafioso. Con lui abbiamo iniziato a guardarvi dentro. Ci ha fornito numerosissime conferme sulla struttura, le tecniche di reclutamento, le funzioni di Cosa nostra. Ma soprattutto ci ha dato una visione globale, ampia, a largo raggio del fenomeno”. Era il momento magico del pool. “Tra il settembre 1984 e il maggio 1985 avevamo il massimo della tensione e dell’appoggio” ricordò Borsellino nel libro I disarmati, di Luca Rossi. “Si sentiva una particolare atmosfera di consenso anche tra i colleghi del Palazzo di giustizia. Bastava aprire bocca e il ministero concedeva tutto: aerotaxi, segretarie, materiale”. L’aula-bunker in cui si sarebbe svolto il Maxiprocesso fu costruita nel giro di un anno. 1984: Tommaso Buscetta, pentito di mafia, torna dal Brasile dopo l’estradizione nel nostro Paese. Voleva parlare solo con Falcone. E gli disse: “Cercheranno di distruggerla”. Il maxiprocesso basatosi anche sulle sue confessioni fu il più grande attacco a Cosa nostra in Italia: 475 imputati, 360 condanne. E Totò Riina non perdonò.
A proprie spese. Nel frattempo però, nell’ombra, Totò Riina stava preparando un’estate di sangue. Il 28 luglio 1985 fu ucciso Beppe Montana, capo della Sezione latitanti della polizia di Palermo, e pochi giorni più tardi Ninni Cassarà, vicedirigente della squadra mobile e stretto collaboratore di Falcone. “Uccisero Cassarà” disse Borsellino sempre ne I disarmati “e venne fuori che la Mobile non esisteva, che non era una struttura, ma un impegno di pochi. Il lavoro di Cassarà e il nostro erano già il massimo di quanto lo Stato volesse fare”. La paura di altri attentati era forte. I due magistrati, con le rispettive famiglie, furono trasferiti in fretta e furia all’Asinara, l’isola-carcere a nord-ovest della Sardegna, per concludere l’istruttoria del Maxiprocesso, che fu depositata l’8 novembre di quello stesso anno. Alla fine di quel periodo, durato 33 giorni effettivi, lo Stato ebbe l’ardire di presentare ai magistrati il conto del soggiorno: “Prima di andarcene ci fecero pagare 415.800 lire a testa per il pernottamento, 12.600 lire al giorno” rivelò ancora Borsellino nel libro di Rossi. Fu uno dei momenti di maggiore amarezza per i due magistrati. Non solo. Scossa dagli eventi, Lucia, la figlia quindicenne di Borsellino, fu colpita da una grave forma di anoressia che la portò a pesare soltanto 30 chili.
A giudizio. Il Maxiprocesso, con ben 475 imputati, fu il più grande attacco alla mafia mai realizzato in Italia. Ebbe inizio il 10 febbraio 1986. Ma a maggio Paolo Borsellino fu nominato procuratore della repubblica a Marsala (Trapani). «Senza Paolo» ricorda Ignazio De Francisci, uno dei nuovi membri del pool «si accentuò la distanza tra noi e Falcone. Borsellino aveva l’esperienza professionale per parlare con lui da pari a pari. Nello stesso tempo era più umano, più simile a noi». Il Maxiprocesso si chiuse il 16 dicembre 1987 con 360 condanne e 114 assoluzioni. E, con questo, Caponnetto ritenne chiusa la sua esperienza palermitana. Era ragionevolmente sicuro che il suo posto sarebbe stato preso da Falcone. Ma così non fu. Il clima politico era sfavorevole. Alle elezioni di giugno il partito socialista aveva raddoppiato i suoi voti e il nuovo ministro della Giustizia Giuliano Vassalli si era dichiarato contro il programma di protezione dei pentiti. Tutto questo ebbe riflessi anche all’interno del Csm, che il 19 gennaio 1988 nominò Antonino Meli capo dell’Ufficio istruzione di Palermo, bocciando Falcone. Quel giorno l’anzianità vinse sulla competenza: Meli, infatti, aveva scarsa esperienza in fatto di processi di mafia. E da quel giorno, disse lo stesso Caponnetto, “Falcone ha iniziato a morire”. Falcone e Borsellino sorridenti durante un dibattito a Palermo nel 1992. Da piccoli si incontravano nel quartiere arabo di Palermo. Da grandi, nel 1983, si ritrovarono insieme nel Pool Antimafia. Nel 1992 morirono entrambi da eroi.
La fine del pool. Meli cominciò subito ad assegnare a magistrati esterni al pool le inchieste di mafia, e sul tavolo di Falcone e dei suoi colleghi piovvero invece indagini per borseggi, scippi, assegni a vuoto. Borsellino provò a reagire, nonostante lavorasse a Marsala. In un’intervista all’Unità disse: “Hanno tolto a Falcone la titolarità delle grandi inchieste antimafia. Le indagini di polizia giudiziaria sono bloccate da anni. La squadra mobile di Palermo non è mai stata ricostituita. Ho l’impressione di grandi manovre per smantellare il pool antimafia”. Falcone era sempre più isolato. Un’altra sconfitta arrivò quando il governo nominò Domenico Sica alto commissario per la lotta antimafia, bocciando la sua candidatura. Falcone si candidò allora al Csm, ma non fu eletto. Lettere anonime lo accusarono di una gestione discutibile del pentito Salvatore Contorno, e nel giugno del 1989 fu sventato un attentato ai suoi danni- Lo scontro con Meli raggiunse livelli altissimi in seguito all’inchiesta sulle confessioni del pentito Antonino Calderone: Meli voleva dividere il processo tra 12 procure diverse (secondo la competenza territoriale) mentre Falcone insisteva che dovesse occuparsene il pool (per non disperdere le indagini, dal momento che unica era l’origine mafiosa).
Da Palermo a Roma. Ancora una volta vinse Meli. Era la fine del pool: Falcone chiese di essere destinato ad altro ufficio e fu nominato procuratore aggiunto presso la Procura della repubblica. Appoggiò la nomina di Pietro Giammanco, il suo superiore, a procuratore capo di Palermo, ma da questi fu lentamente messo da parte e ostacolato. Infine Leoluca Orlando, ex sindaco di Palermo e fino ad allora in ottimi rapporti con lui, lo accusò di tenere nei cassetti prove contro i politici mafiosi. Per Falcone fu un periodo molto duro e maturò allora la scelta di accettare la proposta del nuovo ministro della Giustizia Claudio Martelli, lasciando Palermo per la direzione degli Affari penali a Roma. Nella capitale, però, Falcone non allentò il suo impegno contro la mafia. Con un decreto da lui ideato, infatti, tornarono in carcere gli imputati di Cosa nostra scarcerati da una sentenza di Corrado Carnevale, il presidente della prima sezione penale della Corte di Cassazione soprannominato “Ammazzasentenze”. Per disinnescare la possibile influenza di quest’ultimo sull’esito finale del Maxiprocesso, inoltre, Falcone ideò la rotazione dei giudici della corte suprema. In questo modo Carnevale fu assegnato ad altro incarico e la Cassazione confermò le condanne. Inoltre il governo approvò un piano di Falcone per riorganizzare la lotta a Cosa nostra. Nel frattempo Paolo Borsellino era tornato a Palermo come procuratore aggiunto e con un ruolo direttivo nelle indagini di mafia.
La vendetta. Sconfitto nel Maxiprocesso che gli costò l’ergastolo, Totò Riina volle vendicarsi tanto per cominciare di chi non gli aveva garantito l’impunità: il 12 marzo 1992, a Mondello, la spiaggia dei palermitani, fu assassinato Salvo Lima, capo della corrente andreottiana in Sicilia. Era il primo passo verso la strage di Capaci del 23 maggio, nella quale persero la vita, oltre a Falcone, anche la moglie Francesca Morvillo – che aveva sposato nel 1986, dopo il divorzio da Rita – e tre uomini della scorta Solo, ferito dalla morte del suo amico, ostacolato dal capo della procura palermitana Giammanco, nei due mesi successivi Paolo Borsellino lavorò con frenetica intensità. Sentì pentiti importanti, viaggiò in continuazione – lui che aveva paura dell’aereo – ed ebbe un incontro (dal quale uscì turbato) con il ministro dell’Interno Nicola Mancino, che però ha sempre dichiarato di non ricordare quel colloquio. Dietro le quinte, intanto, circolava un “papello”, un documento nel quale Totò Riina avanzava 12 richieste allo Stato. Si andava dalla revisione della sentenza del Maxiprocesso all’annullamento del 41 bis (l’articolo di legge sul carcere duro per i mafiosi) fino alla riforma della legge sui pentiti. Borsellino fu avvisato della trattativa da Liliana Ferraro, che aveva sostituito Falcone alla Direzione affari penali del ministero, e sicuramente lui si oppose, firmando per sé una condanna a morte. 23 maggio 1992: allo svincolo di Capaci, sull’autostrada da Punta Raisi a Palermo, 500 kg di tritolo uccidono Giovanni Falcone, la moglie e 3 agenti della sua scorta. Sono le 17.58: un boato terribile, un intero lembo di autostrada che si solleva, una nube nera altissima, il muro di asfalto e cemento. L’istituto nazionale di geofisica registra l’esplosione.
Un muro da scavalcare. La sua, come hanno raccontato alcuni pentiti, era una morte programmata da tempo, ma anticipata con una “premura incredibile”. Perché Totò Riina aveva detto: “Bisogna scavalcare un muro”. E quel muro era Paolo Borsellino. “La tempistica della strage è stata certamente influenzata dall’esistenza e dalla evoluzione della cosiddetta trattativa tra uomini delle istituzioni e Cosa nostra” scrissero i pubblici ministeri nell’atto d’accusa che concluse quasi quattro anni di indagini. Il presunto tradimento di un generale dei carabinieri suo amico aumentò lo sconforto del magistrato, che sapeva di andare incontro alla morte. Secondo il colonnello dei carabinieri Umberto Sinico, inoltre, Borsellino chiese che fosse lasciato “qualche spiraglio” alla sua sicurezza, perché altrimenti sarebbe stata colpita la sua famiglia. Il 13 luglio, sconsolato, dichiarò: “So che è arrivato il tritolo per me”. Alla moglie Agnese disse: “La mafia mi ucciderà quando gli altri lo decideranno”. E il 17, fra lo stupore di tutti, salutò uno a uno i colleghi abbracciandoli. Il 19 luglio faceva molto caldo a Palermo. Il magistrato decise di andare a trovare la madre in via D’Amelio. Due minuti prima delle 17, l’esplosione dell’autobomba che uccise lui e 5 uomini della scorta si sentì in tutta Palermo. “È tutto finito” fu il commento di Antonino Caponnetto.
Non arrendersi mai. Ma lo stesso Caponnetto, negli ultimi anni della sua vita, girò l’Italia per raccontare nelle scuole la storia dei due eroi, affermando: “Le battaglie in cui si crede non sono mai battaglie perse”. Oggi Totò Riina e Bernardo Provenzano sono morti mentre scontavano l’ergastolo in regime di 41 bis (il carcere duro).
I corleonesi sono stati disarticolati. Ma la lotta alla mafia è ancora lunga. La nebbia in Sicilia, insomma, è ancora fitta.