PAOLO BORSELLINO: la fede di un uomo giusto – di Alessandra Turrisi

 

“Ho sempre accettato, più che il rischio, quali sono le conseguenze del lavoro che faccio, del luogo dove lo faccio e, vorrei dire, anche di come lo faccio. Lo accetto perché ho scelto, ad un certo punto della mia vita, di farlo e potrei dire che sapevo fin dall’inizio che dovevo correre questi pericoli. La sensazione di essere un sopravvissuto e di trovarmi, come viene ritenuto, in estremo pericolo, è una sensazione che non si disgiunge dal fatto che io credo ancora profondamente nel lavoro che faccio, so che è necessario che lo faccia, so che è necessario che lo facciano tanti altri assieme a me. E so anche che tutti noi abbiamo il dovere morale di continuarlo a fare senza lasciarci condizionare dalla sensazione o financo, vorrei dire, dalla certezza che tutto questo può costarci caro”.  Paolo Borsellino, luglio 1992.


PAOLO BORSELLINO: la fede di un uomo giusto – di Alessandra Turrisi

di Alessandra Turrisi

Un ritratto inedito del giudice antimafia che fondava il suo servizio per la giustizia su una vita cristiana profonda ma non ostentata

Per Paolo Borsellino l’attenzione all’uomo veniva prima di tutto. Si trattasse di un amico sincero, di un testimone di giustizia, di un criminale, il giudice ucciso nella strage di via D’Amelio il 19 luglio 1992 assieme ai suoi cinque “angeli custodi” – gli agenti di scorta Emanuela Loi, Claudio Traina, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Agostino Catalano – aveva una parola di sostegno, di incoraggiamento, di rispetto per la persona che aveva davanti.
A distanza di 25 anni dalla terribile strage, costellata ancora da troppi misteri e buchi neri, ciò che resta sono i preziosi ricordi custoditi nella memoria di chi lo ha conosciuto nel quotidiano e ne può testimoniare una integrità morale fatta non di gesti eroici, ma di piccole azioni.
Il rispetto per l’uomo e per la giustizia prevede che per mandare in carcere un accusato le prove debbano essere di ferro, altrimenti «meglio un criminale fuori che un innocente dentro». È il ricordo di Giovanni Paparcuri, ex autista del giudice istruttore Rocco Chinnici, solo per un caso scampato alla strage di via Federico Pipitone a Palermo, il 29 luglio 1983, diventato poi collaboratore informatico di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino per microfilmare gli atti dell’istruttoria del maxiprocesso a Cosa nostra.

SOLO PROVE CERTE «Un giorno dobbiamo spiccare il mandato di cattura per alcune persone coinvolte nell’omicidio del capitano Basile. Nella stesura del mandato all’inizio ne sono indicate cinque. Io batto a macchina tutti i fogli, li porto al dottor Borsellino, li riprendo e vedo che la quinta persona è depennata. Penso a un errore, così riscrivo quella pagina e gliela riporto. Ma lui toglie di nuovo quel nome. A un certo punto, si alza e viene nella mia stanza: “Insomma, a cosa stiamo giocando? Giovanni, questo non lo devo arrestare. Se le prove non reggono al dibattimento, che figura facciamo?”. Lo guardo negli occhi, capisco cosa vuole dire».
Quando Paparcuri racconta questo episodio al figlio del giudice, Manfredi Borsellino, oggi commissario di Polizia, questi lo ringrazia:«Hai fatto bene a dirmelo, perché episodi come questo mi fanno capire che mio padre non era forcaiolo».Un senso fortissimo della giustizia che tocca anche chi è al di fuori di quel mondo di fascicoli e leggi. «Forse l’eredità che mi ha lasciato Paolo è proprio il suo credere nella giustizia. Non ha mai infierito sulle persone, pur facendo bene il suo lavoro», osserva il cardiologo Pietro Di Pasquale, da cui quel terribile pomeriggio del 1992 il giudice doveva accompagnare la madre che aveva problemi al cuore. E don Cesare Rattoballi, parroco di periferia che nell’ultimo periodo fu molto vicino al giudice: «Vedo ancora gli occhi e il sorriso di Paolo, la conferma della sua vicinanza: un sorriso di accoglienza. Borsellino non tratta nessuno come un illustre sconosciuto. Ha una cordialità che mette a proprio agio, come se ti conoscesse da sempre».

FEDE E RISERVATEZZA Una cura per l’altro che probabilmente era frutto della sua profonda fede cristiana, mai ostentata, eppure vissuta ogni giorno, alimentata dalla partecipazione alla Messa domenicale, dalle assidue confessioni, dai colloqui con alcuni sacerdoti nei momenti più difficili della sua esistenza. Una voce “laica” come quella del suo giovanissimo sostituto alla procura di Marsala, alla metà degli anni Ottanta, Diego Cavaliero, lo descrive con efficacia: «Credo che la fede lo abbia aiutato in quello che è il concetto di morale, che va anche al di là della religione, ma individua ciò che è giusto o sbagliato in senso assoluto. Borsellino era credente, cattolico praticante, ciò gli indicava la strada nell’applicazione della pietas cristiana, nel rispetto dell’altro, perché Paolo era convinto che dietro a ogni imputato ci sia un uomo che va anche rispettato. La fede non faceva altro che rafforzare la sua personalità votata alla ricerca del rapporto con l’altro. Il suo rapporto con la fede era intimo. È certamente un uomo di misericordia».
La domenica mattina, alla prima Messa delle 8.30 di Santa Luisa di Marillac, il dottor Borsellino manca raramente, proclama quasi sempre una delle letture. Oltre ai numerosi abitanti di questa zona residenziale, ne è testimone monsignor Francesco Ficarrotta, dal 1979 al novembre 1991 guida della parrocchia che si trova proprio davanti all’alto condominio di via Cilea in cui vive il giudice con moglie e figli.
«Un giorno mi confessa il rammarico per non avere la forza, quando gli capita di partecipare ai funerali di uomini importanti, magari uccisi dalla mafia, di disporsi in fila per ricevere la Comunione», spiega Ficarrotta. «Vuole evitare di mettersi in mostra, ma così, e questo è il suo cruccio, non dà la giusta testimonianza di cristiano. Borsellino è veramente un uomo di fede» continua l’ex parroco.

PRONTO AL SACRIFICIO Don Cosimo Scordato, rettore della chiesa di San Francesco Saverio all’Albergheria, un antichissimo quartiere del centro storico di Palermo, riesce a catturare un altro aspetto di questa figura di magistrato cristiano, ucciso a causa della giustizia. Di tanto in tanto, il giudice fa capolino all’Albergheria, attirato dall’intensa attività di volontariato che la figlia più piccola, Fiammetta, svolge con i bambini più poveri del quartiere. «In realtà, incontro Paolo in occasioni molto disparate. Ricordo un evento in particolare. Siamo negli anni Ottanta e stiamo celebrando i venticinque anni di matrimonio di un suo cugino omonimo, Paolo Borsellino», racconta don Cosimo. «Dopo la Messa, molto partecipata, andiamo a festeggiare tutti insieme. In quell’occasione ho scoperto che il giudice Paolo è una persona di grande carattere, ha voglia di divertirsi».
Una ricchezza d’animo che don Cosimo impara a conoscere poco a poco. «Alcune volte Paolo si reca a San Saverio per partecipare alla Messa domenicale. Si siede quasi in fondo, durante la consacrazione, è tra i pochissimi fedeli a mettersi sempre in ginocchio. Rientra tra quelle persone il cui cammino di fede è segnato da un incontro particolare, magari un parroco, qualcuno che diventa determinante non per i tanti discorsi ma perché va all’essenziale. La dimensione religiosa la intravedo come il dato unificante della sua vita. E, nell’osservarlo, mi fa piacere vedere come quella persona riesca a tenere uniti due aspetti della sua vita apparentemente così lontani, ma invece vicinissimi. Sa essere un ragazzone scherzoso, che diverte con tutta la sua verve, e insieme un uomo con un’interiorità profonda».
Il giorno prima della strage don Rattoballi incontra il magistrato al Palazzo di giustizia. Quello che si trova davanti è un uomo che ha consapevolezza di andare incontro all’estremo sacrificio: «Vado a trovarlo in Procura alla vigilia della sua morte e, dopo un lungo colloquio, mi dice: “Fermati, voglio confessarmi. Vedi, mi sto preparando”. Aveva un senso profondo di ciò che doveva accadere».

GLI AGENTI DELLA SCORTA Nell’attentato di via D’Amelio insieme a Paolo Borsellino morirono cinque agenti di età compresa tra i 22 e i 43 anni. Tra le vittime, anche la prima donna a cadere in servizio nella Polizia italiana. Solo un poliziotto si salvò. Altre 23 persone rimasero gravemente ferite. Come mandante, insieme a numerosi altri mafiosi, è stato condannato Totò Riina.  Alessandra Turrisi.   3 luglio 2017 AVVENIRE


GLI ARTICOLI DEL DOSSIER di FAMIGLIA CRISTIANA


PAOLO BORSELLINO: LA FEDE DI UN UOMO GIUSTO


Don Cesare Rattoballi: «Borsellino mi disse: confessami, mi sto preparando


Don Cesare Rattoballi, 54 anni, parroco dell’Annunciazione del Signore a Medaglie d’Oro, un quartiere della periferia di Palermo, è un testimone privilegiato del travaglio degli ultimi mesi di vita del magistrato ucciso nella strage di via D’Amelio
con cinque agenti di scorta. Il 19 luglio saranno vent’anni da quella esplosione che, assieme a quella del 23 maggio 1992, cambiò la storia della Sicilia e dell’Italia intera, ma le lacrime gli sgorgano ancora al pensiero delle lunghe chiacchierate col giudice Borsellino, delle confidenze raccolte e di ciò che vide in quella strada sventrata.Accetta di parlare dopo vent’anni di silenzio don Cesare, che il mondo ricorda al fianco della vedova Rosaria Schifani durante i funerali delle vittime della strage di Capaci, mentre dall’ambone invoca la conversione dei mafiosi. Perché don Cesare era cugino di Vito Schifani, uno degli agenti di scorta morti assieme al giudice Giovanni Falcone, e – per casi della vita che nessuno conosce – si è trovato a incrociare il suo destino con quello di altre vittime di mafia, da Calogero Zucchetto, un giovane poliziotto ucciso nel 1982 al centro di Palermo proprio mentre don Cesare passava da quella strada, a don Pino Puglisi, il sacerdote ucciso dalla mafia nel 1993.

Don Cesare, come nasce il suo rapporto con Borsellino?

Facevamo parte della stessa parrocchia, Santa Luisa di Marillac, perché anche io abitavo in quella zona, quindi ci salutavamo cordialmente. Ma fu la notte della camera ardente allestita al Palazzo di giustizia dopo la strage di Capaci ad avvicinarci. Io mi trovavo lì, perché mio cugino era tra le vittime.
Quella notte io e la moglie di Vito Schifani scrivemmo la lettera che fu letta durante i funerali. Quella sera feci una lunga chiacchierata con Paolo Borsellino, lui volle conoscere la vedova di Vito, e al mattino, prima dei funerali, le mise il braccio sulla spalla per accompagnarla. Era un padre.Il giudice rimase colpito dalle parole che Rosaria Schifani disse piangendo: «Rivolgendomi agli uomini della mafia e non, ma certamente non cristiani: sappiate che anche per voi c’è possibilità di perdono. Io vi perdono, però voi vi dovete mettere in ginocchio…».
Cosa le disse?

A Borsellino piacque moltissimo quell’invito alla conversione. Mi disse di andarlo a trovare a casa con mia cugina. Ci disse che quello che avevamo fatto quel giorno stava già dando i suoi frutti, che alcuni mafiosi in carcere, quando avevano visto in tv lo strazio di quella donna, avevano vomitato, avevano chiesto di parlare coi magistrati. Paolo ci disse di andare avanti. In meno di due mesi ci incontrammo almeno una quindicina di volte. Lo invitai a partecipare alla marcia organizzata dagli scout a fine giugno, perché ero assistente regionale dell’Agesci. Affidò il testimone ai ragazzi e in quel rotolo di carta c’erano scritte le Beatitudini.

Con che stato d’animo viveva Borsellino quelle settimane?

Un giorno nel suo studio a casa mi confidò che il Ros aveva scoperto che era arrivato il tritolo anche per lui. Gli chiesi: «Perché non te ne vai?». Mi rispose: «Prega per la mia famiglia». E mi disse anche che da un po’ di tempo guardava i suoi figli da lontano, li contemplava, non gli dava più carezze, «così li farò abituare alla mia assenza. Amava profondamente i suoi figli, era un vero padre.

Quale fu il vostro ultimo incontro?

Andai a trovarlo in Procura alla vigilia della sua morte e, dopo un lungo colloquio, mi disse: «Fermati, voglio confessarmi. Vedi, io mi preparo». Aveva un senso profondo di ciò che doveva accadere. Giovanni Paolo II lo definì martire della giustizia e davvero penso che Paolo e tutti i magistrati e gli agenti uccisi dalla mafia sono beati a causa della giustizia.

Ha mai pensato quello che disse il giudice Caponnetto: «È finito tutto»?

No, ho sempre sperato. Quello di Caponnetto fu uno sfogo dettato dall’amarezza del momento. Lì non finì nulla, anzi tutto ebbe inizio. Palermo oggi è libera. Se nessuno avesse dato la vita, saremmo ancora schiavi.Si riuscirà a capire chi ordinò davvero la strage?Paolo direbbe ancora oggi: convertitevi. Chi sa, chi conosce la verità, deve parlare, perché la verità vuole la sua giustizia

 tratto da AVVENIRE Alessandra Turrisi 16 luglio 2022


«L’ultimo sorriso di Borsellino». Parla l’allievo, Diego Cavaliero

 

«Paolo era un macinacarte. Per lui il lavoro era importantissimo, ma non era la sua vita». Non ha mai fatto a gara per essere amico o erede di Paolo Borsellino, ma Diego Cavaliero, oggi 59 anni e consigliere di Corte d’Appello di Salerno, del magistrato assassinato in via D’Amelio esattamente 25 anni fa assieme ai cinque agenti di scorta era una sorta di «figlio putativo ».
Per un quarto di secolo ha tenuto i suoi ricordi come un tesoro prezioso da custodire gelosamente. Del suo rapporto con il giudice palermitano ha parlato solo nelle aule di giustizia di Caltanissetta, durante gli innumerevoli processi per fare luce sulla strage del 19 luglio 1992, ma senza giungere a nessuna verità.
Adesso di colui che riconosce come «padre, amico e maestro», parla nel libro ‘Paolo Borsellino. L’uomo giusto’ (San Paolo Editore) e tira fuori aneddoti, che fanno del giudice Borsellino una persona capace di porre attenzione all’altro con cui entra in relazione. Cavaliero incontra Borsellino, che è stato appena nominato procuratore capo a Marsala, quando viene assegnato come uditore giudiziario proprio alla procura di Marsala.
I due magistrati, gli unici in servizio, a partire dal gennaio 1987, si dividono il lavoro a metà. Ma Borsellino capisce di avere alcune lacune sul lavoro da svolgere come pubblico ministero, avendo svolto sempre il ruolo di giudice istruttore, in vigore nel vecchio Codice di procedura penale sostituito poi nel 1988.
Così un giorno, davanti a un piatto di spaghetti sul lungomare di Marsala, dice a Cavaliero: «Diego, insegnami a fare il procuratore della Repubblica.
Ho sempre fatto il giudice istruttore, ma mi rendo conto che ho delle grosse lacune. Tu sei più fresco di studi». «Lui in ogni caso è il capo, un leader» sottolinea.
«Grazie anche al suo ruolo in famiglia, riesce a mediare sempre tra la funzione di padre e quella di magistrato.  Il pedagogo parla al giudice».
I due vivono e lavorano in maniera simbiotica. Cavaliero diventa di casa dai Borsellino, frequenta la villetta di Villagrazia, fa amicizia coi figli, accompagna il giudice dalla mamma in via D’Amelio.
Poi il giovane magistrato è costretto, per motivi familiari, a tornare a Salerno, ma ogni scusa è buona per incontrarsi. Accade anche alla fine di giugno 1992, a Giovinazzo, in Puglia, dove Borsellino si trova per un convegno. Giovanni Falcone è stato ucciso da poco più di un mese, l’albergo è assediato per motivi di sicurezza.

«Mi dice: ‘Sai Diego, quando subisci la perdita di un parente caro, tu vai al suo funerale e piangi non solo perché ti è morto il parente o l’amico, ma perché sai che la tua fine è più vicina‘» racconta Cavaliero.
È la prova che Borsellino è perfettamente consapevole della fine a cui sta andando incontro.
Cavaliero desidera che Borsellino faccia da padrino di battesimo al suo bambino, Massimo. La risposta è immediata: «Ne sono felice, così tolgo questo bambino dalle mani di un miscredente come te».
Il battesimo è fissato a Salerno per il 12 luglio, domenica.«Ma non è Paolo quello che ho di fronte – racconta Cavaliero – è completamente assente ». Tranne per un momento, quando prende il suo nuovo figlioccio sulle gambe e sorride.
Probabilmente è l’ultima fotografia, appena sette giorni prima della strage.
Cavaliero è un testimone prezioso anche del modo di vivere la fede cristiana di queste giudice: «Credo che la fede lo abbia aiutato in quello che è il concetto di morale, che va anche al di là della religione, ma individua ciò che è giusto o sbagliato in senso assoluto ». Resta l’amarezza e la delusione su quella verità negata. «Perché è morto Paolo non si sa e forse non si saprà mai. Ci sono due fatti che da uomo della strada non riesco a capire.
Il primo è il problema dell’agenda rossa sparita dalla borsa ritrovata dentro la Croma blindata in via D’Amelio.
Perché non è stato fatto l’esame del Dna sulla borsa, visto che lo hanno fatto sui mozziconi di sigaretta ritrovati a Capaci, rendendo immediata l’individuazione di chi aveva schiacciato il telecomando per la strage?» si interroga Cavaliero. E poi la creazione del falso pentito Vincenzo Scarantino: «Come si è arrivati a questa figura? ».
«Paolo è morto da solo – aggiunge – con la consapevolezza di andare a morire, ha affrontato il proprio destino come un samurai, che credeva nella giustizia non come principio astratto ma come affermazione di verità, affrontando un nemico armato della propria fede cristiana e della propria idea di legalità e di giustizia».

Alessandra Turrisi AVVENIRE 19 Luglio 2017