Maresciallo Vito Ievolella, il ricordo della figlia Lucia

 

 

10 Settembre 2022

«Mio padre era uno spirito libero che aveva due compagni di viaggio, il senso del dovere e il senso dello Stato»

È il 10 settembre 1981. Siamo a Palermo, in piazza Principe di Camporeale. Sono passate da poco le 20:30. C’è una Fiat 128 gialla, parcheggiata, al cui interno ci sono un Vito Ievolella, maresciallo dell’Arma dei carabinieri, e Iolanda, la moglie. Sono in attesa che Lucia, la figlia, termini la lezione di scuola guida e stanno chiacchierando tra loro. All’improvviso, sei colpi di arma da fuoco fendono l’aria e frantumano il vetro posteriore della Fiat 128. Iolanda vede il marito accasciarsi verso di lei, in una pozza di sangue che gli fuoriesce dalla testa. Il gruppo di fuoco si allontana velocemente con un’auto che era ferma in loro attesa.

La firma sulla sua condanna a morte venne apposta, come accertato in via definitiva, da Tommaso Spadaro, a causa di un importante indagine che il Maresciallo aveva svolto tra il 1980 e il 1981 e che si era conclusa con un esplosivo rapporto, “Savoca + 44”,  all’interno del quale venivano individuate le responsabilità ed i loschi affari di personaggi di spicco della mafia dell’epoca, tra i quali proprio Spadaro. Da quel giorno, a causa delle ripetute minacce gli fu affidata una scorta, revocata però proprio un mese prima dell’agguato, quando Ievolella fu ricoverato per un sospetto tumore allo stomaco, notizia per la quale, si dice, all’Ucciardone, il carcere palermitano, furono stappate bottiglie di spumante. Dopo lunghe indagini e un percorso processuale su cui pose la “mano” il giudice Carnevale, in via definitiva fu accertato che Tommaso Spadaro fu il mandante e Giuseppe Lucchese uno dei molti esecutori materiali. Entrambi sono stati condannati all’ergastolo, a seguito delle collaborazioni di Salvatore Cancemi, Salvatore Cucuzza, Antonino Marchese, accusatisi del delitto e di Pasquale Di Filippo. Gli altri membri del nutrito commando furono Pino Greco, Filippo Marchese, Giovanni Fici e Mario Prestifilippo.

In occasione del 41° anniversario della sua morte, abbiamo parlato con la figlia Lucia e le abbiamo chiesto di raccontarci Vito, l’uomo e il padre.

Vito Ievolella, più uomo e padre o maresciallo?

«Tracciare una demarcazione precisa tra il maresciallo, l’uomo e il padre non è per niente semplice. Una delle caratteristiche della natura di mio padre è sempre stata quella di essere, a 360° tutto se stesso in ogni aspetto e in ogni dimensione della sua personalità. Ciò ha significato che, anche quando ero una bambina, mio padre era sempre il carabiniere, inteso come uomo di legge. Era sì il padre e il marito, ma sempre quella persona che possedeva un universo valoriale che, seppur semplice e basico, era costante e ineludibile in ogni momento della sua esistenza. Mio padre mentre era maresciallo era padre e viceversa. Questa precisazione è importante perché il maresciallo Ievolella era quel padre che, mentre svolgeva il suo lavoro, quando si trovava di fronte a persone che delinquevano o che, comunque, in qualche modo potevano essere vicine o collegate al contesto, quell’humus socio-culturale in cui questi malavitosi si formano, oggi come allora, era pur sempre un padre. Se vedeva un bambino malvestito, malnutrito o tenuto in condizioni igieniche non adeguate, in lui scattava l’atteggiamento amorevole del padre, compassionevole nei confronti di quella creatura e naturalmente orientato non a giudicare pesantemente ma a cercare di comprendere cosa ci fosse nel vissuto di quelle persone che come ordinarietà della loro vita avevano deciso di delinquere. Quel maresciallo, padre e uomo, capiva che certe scelte sono tali fino ad un certo punto e che, spesso, potevano essere condizionate dall’ambiente in cui si vive, dagli esempi che si ricevono per cui ci sono ambiti in cui non è facile pensare che esistano modi alternativi diversi. La stessa cosa che è successa a noi, che abbiamo avuto la fortuna di crescere e vivere, invece, in famiglie che ci hanno educato, orientato e ci hanno insegnato a seguire la cosiddetta “retta via”. Per noi è obbligatorio e naturale considerare questa la strada maestra, per quelle persone, in molti casi, la confusione tra il bene e il male è notevole e li fraintendono o male interpretano e si instradano su una via che è stata loro indicata».

Un maresciallo che mai smetteva di essere padre, quindi…

«Il punto fondamentale è questo. Il maresciallo Vito Ievolella non smetteva di commuoversi, non smetteva di aiutare economicamente, sulla base delle sue disponibilità, queste famiglie se c’era necessità di farlo e non smetteva di commuoversi quando si trovava di fronte a storie umane di mogli, madri e figli la cui vita era stravolta perché i legami familiari e affettivi condizionano e possono portare a dolore e perdite.

Senza mai fare riferimento alla sua divisa, al suo lavoro e alla sua vita, era un padre che ti mostrava con il suo esempio che nella vita ciò che conta è essere coerenti, ligi al proprio dovere, a quello che è il proprio compito, farlo sempre nel miglior modo possibile, leali e onesti. Quando dico onesti intendo che anche se si ha la possibilità di acquistare un capo di abbigliamento all’anno o due, perché quello è ciò che puoi permetterti, ciò che conta che quel denaro sia guadagnato onestamente e altrettanto onestamente speso».

Era un padre presente?

«Un padre che ho imparato a vedere poco, perché usciva di casa in prima mattinata e rientrava molto tardi la notte. Un padre che non ritrovavo a pranzo ma, indipendentemente dall’ora in cui la notte rientrava, sentivo il tocco del suo bacio della buonanotte. Nelle occasioni in cui ci incontravamo, era sempre attento alle mie necessità, a quanto mi succedesse a scuola. Era un padre fiero e orgoglioso dei miei risultati scolastici anche perché non aveva avuto la possibilità di studiare quanto avrebbe voluto e proiettava su di me il desiderio di realizzare quanto per lui non era stato possibile. Una delle sue passioni era la storia. Come dicevo era molto attento a far sì che non mi mancassero gli strumenti per studiare, a partire dai libri sino allo spazio che in casa mi serviva. Da mio padre ho sicuramente ereditato anche questo, la sua passione per lo studio che, per me, non ha mai rappresentato un peso. Quando fu ucciso frequentavo l’università, ero iscritta a filosofia, ed era molto contento della mia scelta anche perché ci teneva molto che il mio percorso di studi fosse approfondito. Ripensando a lui, anche oggi, ritengo che fosse uno spirito libero che aveva due compagni di viaggio, il senso del dovere e il senso dello Stato».

Un uomo con una visione molto aperta, quindi…

«Mio padre, benché fosse un uomo di altri tempi, aveva una un’idea molto chiara nei confronti del ruolo della donna che riteneva dovesse essere indipendente e, proprio perché donna, pensava che io dovessi essere ancora più convinta e determinata nel conquistare la mia indipendenza. Si sentiva il custode della mia vita, colui che mi avrebbe accompagnata nelle varie tappe della mia vita ma, anche per il lavoro che faceva, aveva la consapevolezza che avrebbe potuto succedere qualcosa che gli avrebbe impedito di essere al mio fianco».

Un uomo consapevole del suo possibile destino?

«Di mio padre ricordo l’attenzione. Sempre, quando eravamo per strada, camminavamo assieme, parlavamo, ricordo il modo in cui muoveva gli occhi, in cui si guardava intorno, perché riusciva, nonostante avesse l’attenzione su di me, a osservare quanto si muoveva intorno a lui. Negli anni meno pericolosi questo derivava dal fatto che Palermo, allora come oggi, può essere una città insidiosa e questo derivava da una deformazione professionale. Negli ultimi anni, soprattutto nell’ultimo, il suo sguardo era più incisivo e lo portava a essere più vigile, anche per tutelare la nostra incolumità. Mi diceva sempre: “I mafiosi sono dei conigli. Se sparano lo fanno alle spalle oppure sapendo di non poter essere colpiti. Sanno anche però che io ho sempre la pistola pronta e qualcuno lo porterò con me“. Non a caso lo hanno colpito in un momento di forte fragilità, in cui non ha potuto reagire. Aveva però la consapevolezza di essere al centro del mirino».

Poi arrivò il 10 settembre 1981. Quanto è durato quel 10 settembre?

«Quel 10 settembre non è mai finito. Penso che sia un’esperienza che quanti sono vittime di mafia, come me, possono confermare. Quelle date non finiscono mai. Certo si trasformano in modo fisiologico nel processo di elaborazione del lutto. In caso di eventi luttuosi così crudi, il percorso è certamente più difficile. Ma, al di là di questo, si tratta di un giorno che non finisce mai, che ha creato un vuoto nella tua vita per sempre immotivatamente, senza alcuna ragione plausibile. Inoltre non c’è un contesto che ti aiuta nella metabolizzazione della perdita perché, nonostante siano trascorsi 41 anni, oggi gli anniversari si siano trasformati in passerelle e l’eccessivo protagonismo distoglie dai valori veri. L’elemento più grave, a mio giudizio, è che non abbiamo ereditato nulla e lo dimostra il fatto che oggi non abbiamo una classe politica, al di là degli schieramenti, in cui ci sia una vera leadership, con soggetti integri dal punto di vista morale, capaci di senso del dovere e di bene comune. Anche questo fa sì che quel 10 settembre non sia ancora finito».

Il maresciallo Ievolella è stato un anticipatore di quella strategia di lotta contro la criminalità mafiosa che si è perfezionata soltanto negli anni successivi, con l’apporto di altrettanto valorosi magistrati e rappresentanti delle forze dell’ordine. È ricordato dai colleghi per la sua capacità di conciliare la qualità di rapporti familiari con il peso e i vincoli delle responsabilità professionali. All’inizio degli anni 2000 gli è stata intitolata la nuova sede della stazione Carabinieri “Falde” sita nel quartiere Monte Pellegrino, una strada cittadina e la “Sala Rapporto” del Comando Provinciale dei Carabinieri.

A Vito Ievolella è stata riconosciuta la Medaglia D’oro al Valor Civile con la seguente motivazione:

«Addetto a nucleo operativo di Gruppo, pur consapevole dei pericoli cui si esponeva, s’impegnava con infaticabile slancio e assoluta dedizione al dovere in prolungate e difficili indagini – rese ancora più ardue dall’ambiente caratterizzato da tradizionale omertà – che portavano alla individuazione e all’arresto di numerosi e pericolosi aderenti ad organizzazioni mafiose. Proditoriamente fatto segno a colpi d’arma da fuoco in un vile agguato, tesogli da quattro malfattori, immolava la vita ai più nobili ideali di giustizia e di grande eroismo».

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