MATTEO MESSINA DENARO – L’arresto

 

È stato molto articolato il dispositivo di sicurezza predisposto per la cattura del boss di Cosa Nostra Matteo Messina Denaro, con l’apporto di varie componenti dell’Arma. La “punta” era rappresentata da personale del Gruppo Intervento Speciale dei Carabinieri, forza speciale e unità speciale di polizia che dal 1978 assicura supporto ai reparti investigativi nelle operazioni ad alto rischio.


 

Messina Denaro firma i verbali, le foto storiche del boss

 

 

Il giorno dell’arresto

Il padrino corlonese è stato portato prima alla compagnia di San Lorenzo e da qui all’aeroporto di Boccadifalco. All’interno di un hangar c’era la base operativa dei militari del Gruppo intervento speciale e Reparto operativo speciale. Le firme di rito, poi a bordo due elicottero il padrino di Castelvetrano è stato trasferito nel carcere di massima sicurezza de L’Aquila. Da quel giorno non ci sono altre foto di Messina Denaro.


Chi ha venduto Matteo Messina Denaro? I sospetti del boss dal carcere: «La Palermo bene mi ha tradito: e ora se ne sta “ammucciata”»

«Da qualche giorno a questa parte, tutta la Palermo bene ha le unghie ammucciate, nascoste». Sono queste le parole che Matteo Messina Denaro ha pronunciato di fronte alla dottoressa che lo ha visitato, in carcere, a 12 giorni da suo arresto. Frase detta con un ghigno sulle labbra, riporta stamattina la Repubblica, per lasciare intendere che con il boss fuori dalla circolazione,buona parte della Palermo bene avrebbe abbassato il profilo, vista la minore protezione da parte della criminalità organizzata. Ora non graffiano. Non parlano. Stanno rintanati. Perché hanno paura di lui, ma ancora di più delle indagini su chi ha protetto la sua latitanza. Ecco il senso delle insinuazioni dal carcere di Messina Denaro. Il mafioso si è rivolto alla dottoressa dopo le dichiarazioni del procuratore di Palermo Maurizio De Lucia, che due giorni dopo la cattura del boss nella clinica, il 18 gennaio, aveva denunciato: Cosa Nostra è riuscita a «entrare nei salotti buoni dove si discute di affari, finanziamenti, appalti, dove si decidono le politiche pubbliche. E vi è entrata dalla porta principale, parlando con i suoi interlocutori da pari a pari». Era stato chiaro De Lucia: «La mafia ha sempre avuto rapporti strettissimi con una parte della società» e «Messina Denaro ha sempre goduto di un appoggio molto ampio, non solo della borghesia».

Chi ha “venduto” Matteo Messina Denaro?

D’altronde, il boss aveva continuato a vivere nel suo territorio, da latitante per 30 anni, anche grazie a questo appoggio. Ma in carcere U Siccu si è scagliato contro la Palermo bene e ha fatto capire di aver avuto a che fare con vari esponenti della borghesia del capoluogo siciliano. Non si aspettava di essere arrestato, e teme che qualcuno possa averlo “venduto”. Magari proprio qualche contatto alla clinica La Maddalena dove si recava per ottenere le cure contro il tumore. Il boss è sicuro che se una soffiata è effettivamente arrivata, questa è partita da Palermo, e non da Campobello di Mazara, dove – le indagini hanno rivelato – godeva di collaborazione.

La rete di influenza del boss

A Palermo, invece, Messina Denaro poteva contare, ad esempio, sull’aiuto del dottor Giuseppe Guttadauro, aiuto primario di Chirurgia a lungo in servizio all’ospedale Civico. Il medico coordinava diversi colleghi ai quali impartiva lezioni di mafia, prevedendo e influenzando esiti di elezioni e appalti. Si inseriva così nella Palermo bene, e inviava messaggi a sindaci della zona e ai presidenti di regione. Questi, come Salvatore Cuffaro, riporta Repubblica, a loro volta ricambiavano dando soffiate sulle indagini in corso. Ad esempio quella che informò Guttadauro di cimici piazzate nel proprio salotto. Cosa vuol dire tutto ciò? Che buona parte dei professionisti, degli imprenditori e rappresentanti delle istituzioni ha per anni intessuto relazioni sociali con i capimafia che hanno poi influenzato anche gli strati più popolari della società palermitana. Messina Denaro sapeva come muoversi là in mezzo. Ma dopo l’arresto, la solidità del sistema sembra messa a repentaglio.


Quel pizzino che smonta ogni complotto sulla cattura di Messina Denaro


Messina Denaro, i retroscena dell’arresto: dal blitz fallito (col carabiniere travestito da medico) al pizzino nascosto dalla sorella


“Sono Messina Denaro”, preso dal Ros il superlatitante


Arresto di Messina Denaro, la svolta in 2 date: cosa accadde il 18 maggio e il 6 dicembre


I “pizzini” e la “posta” conservata, come è stato arrestato Messina Denaro


 CATTURA MESSINA DENARO – PM: comunità omertosa. Sindaco di Campobello: “E perché non lo avete trovato prima?»


“Lo abbiamo catturato”, l’audio dei carabinieri durante l’arresto di Matteo Messina Denaro (Esclusiva SKY)

AUDIO 


La GIOIA dei CARABINIERI e il RINGRAZIAMENTO dei  PALERMITANI – video ANSA

 

CATTURA MESSINA DENARO – PROCURATORE DE LUCIA: “Basta con le speculazioni e le dicerie.” – Fatti e antefatti.

 


VIDEO  MESSINA DENARO trasferito dai GIS 

 


 

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    Il boss mafioso Matteo Messina Denaro è stato arrestato dai carabinieri del Ros, dopo 30 anni di latitanza. L’inchiesta che ha portato alla cattura del capomafia di Castelvetrano (Tp) è stata coordinata dal procuratore di Palermo #MaurizioDeLucia  e dal procuratore aggiunto Paolo Guido. È quanto apprende l’ANSA da fonti qualificate.Secondo quanto si apprende, il boss trapanese sarebbe stato arrestato all’interno di una clinica privata di Palermo

     
     
     


    “Procuratore Palermo: “La cattura un debito verso i martiri della Repubblica”

    “Come sempre in questi casi è un lavoro di squadra portato a termine dal Ros dei carabinieri in maniera eccezionale, ma che viene da lontano perché è un lavoro sostanzialmente congiunto nella ricerca del latitante tanto da parte della Polizia di Stato, che ha chiuso alcuni spazi, quanto dei carabinieri che poi hanno portato a termine l’operazione di stamattina”. Così il procuratore di Palermo, Maurizio De Lucia, che ha coordinato con il procuratore aggiunto Paolo Guido l’operazione che ha portato all’arresto dell’ex primula rossa, su Rai Radio1 all’interno dello Speciale “Che giorno è”. “Per noi è una cosa di estrema importanza – ha aggiunto -. Per la Repubblica che ha dei doveri da adempiere nei confronti dei suoi martiri la cattura di Matteo Messina Denaro ha un’importanza storica perché era l’unico stragista rimasto in libertà, un debito che abbiamo cercato di onorare e ci siamo riusciti”.

     
     
     

     

    Messina Denaro al suo autista prima dell’arresto: «Cercano me, è finita»

    Per i magistrati Giovanni Luppino, fermato lunedì con il capomafia, potrebbe essere custode di molti segreti. Aveva in tasca due cellulari in modalità aerea e vari biglietti: «Bugia macroscopica che non conoscesse la vera identità del boss». 
    Un attimo prima che i carabinieri del Ros lo circondassero ha capito che la sua fuga era giunta al termine. «È finita», ha detto Matteo Messina Denaro al suo autista Giovanni Luppin o, arrestato lunedì col capomafia. Ed è stato proprio Luppino a raccontarlo al gip che oggi per lui ha disposto il carcere. Solo che l’autista del padrino di Castlevetrano, ufficialmente imprenditore agricolo, ha sostenuto davanti al giudice di avere ignorato, fino al quel momento, la vera identità del suo passeggero. «L’ho conosciuto mesi fa, me lo presentò Bonafede (il geometra che ha prestato l’identità a Messina Denaro) come Francesco e non l’ho più rivisto. La sera prima del viaggio a Palermo l’ho incontrato ancora e mi ha chiesto un passaggio per la clinica in cui doveva andare a curarsi il cancro». Vedendo avvicinarsi i carabinieri, dunque, Luppino si sarebbe reso conto che Francesco non era Francesco e avrebbe chiesto a Messina Denaro: «Cercano te?». Alla domanda il boss avrebbe risposto «Sì. È finita». Un racconto, al netto delle ultime parole da uomo libero del padrino trapanese, al quale i pm e il gip non hanno creduto nemmeno per un istante. «La versione dei fatti fornita dall’indagato è macroscopicamente inveritiera, non essendo credibile che qualcuno, senza preavviso, si presenti alle cinque del mattino a casa di uno sconosciuto per chiedergli la cortesia di accompagnarlo in ospedale per delle visite programmate, in assenza di una situazione di necessità e urgenza. Ma al di là di ogni considerazione logica, sono le risultanze investigative a fornire il dato decisivo, nella misura in cui il possesso del coltello e dei due cellulari — entrambi tenuti spenti ed in modalità aereo — suggeriscono che Luppino fosse talmente consapevole dell’identità del Messina Denaro da camminare armato e ricorrere ad un contegno di massima sicurezza per evitare possibili tracciamenti telefonici », ha scritto il gip nell’ordinanza di custodia cautelare. E, sulla stessa scia, chiedendo il carcere per l’imprenditore i pm l’avevano definito una persona di assoluta fiducia del boss. Anzi, trattandosi di un soggetto «a stretto contatto con il noto latitante — ha scritto il gip Fabio Pilato — può senz’altro presumersi che egli sia custode di segreti e prove che farebbe certamente sparire se lasciato libero. A ciò si aggiunga che occorre svolgere degli accertamenti sui pizzini dal contenuto sospetto rinvenuti al momento della perquisizione».

     

     

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    «Nessun elemento può allo stato consentire di ritenere che una figura che è letteralmente riuscita a trascorrere indisturbata circa 30 anni di latitanza —aveva detto il pm Piero Padova nella richiesta della misura cautelare — si sia attorniata di figure inconsapevoli dei compiti svolti e dei connessi rischi, ed anzi, l’incredibile durata di questa latitanza milita in senso decisamente opposto, conducendo a ritenere che proprio l’estrema fiducia e il legame saldato con le figure dei suoi stessi fiancheggiatori abbia in qualche modo contribuito alla procrastinazione del tempo della sua cattura che, altrimenti, sarebbe potuta effettivamente intervenire anche in tempi più risalenti».   di Lara Sirignano Corriere della Sera 20.1.2023


     

    Matteo Messina Denaro, arrestato anche Giovanni Luppino: “In clinica con il boss”

    Matteo Messina Denaro non era solo alla clinica La Maddalanea. Insieme a lui, infatti, come si vede dal video, è stato arrestato anche Giovanni Luppino, di Campobello di Mazara, accusato di favoreggiamento. Avrebbe accompagnato il boss alla clinica per le terapie. Intanto sono state perquisite alcune abitazioni di Campobello di Mazara e Castelvetrano. Uomini del Ros dei carabinieri e del comando provinciale di Trapani sono entrati anche in casa dei parenti di Messina Denaro. A Campobello di Mazara i carabinieri hanno perquisito anche la casa del fratello, Salvatore Messina Denaro, mentre a Castelvetrano i militari sono andati nell’abitazione della sorella Patrizia Messina Denaro, dove vive anche la mamma del boss, Enza Santangelo.

     

     

    “Il mafioso aveva anche un codice fiscale con i dati relativi ad Andrea Bonafede. È stato attraverso questo nome che si è giunti alla svolta nell’indagine investigativa “senza pentiti o soffiate anonime”, ha precisato il procuratore della Repubblica di Palermo, Maurizio de Lucia, che ha coordinato l’indagine insieme al procuratore aggiunto Paolo Guido.
    Dalle informazioni captate monitorando i parenti del boss latitante, si è infatti scoperto che Messina Denaro soffrirebbe del morbo di Chron, oltre ad una patologia tumorale.
    I pm a quel punto hanno incrociato i dati, cercando un uomo di 60 anni, siciliano, malato oncologico. Si è quindi scoperta l’esistenza di un soggetto corrispondente – Andrea Bonafede – sottoposto a due interventi chirurgici: uno in piena emergenza Covid in Sicilia e l’ultimo a maggio scorso, alla clinica La Maddalena.
    Tuttavia: nel giorno dell’intervento, Andrea Bonafede si trovava a Campobello di Mazara. In clinica sotto i ferri c’era qualcun altro. A questo punto – nel prosieguo delle indagini del Ros – è venuto fuori l’appuntamento fissato per oggi dove erano in programma prelievi e seduta di chemioterapia. “Abbiamo avuto solo il tempo di allertare il Gis – ha detto De Lucia – e, non appena si è avuta conferma dell’accettazione, è partito il blitz”.”
     
     

     

     

    Messina Denaro, in paese il boss non usava l’alias Bonafede

    In clinica, in ospedale, negli studi medici si presentava con il nome di Andrea Bonafede, ma a Campobello di Mazara, il paese in cui ha trascorso l’ultimo periodo della latitanza, il boss Matteo Messina Denaro utilizzava un nome diverso. Un’accortezza, confermata dagli investigatori, che l’avrebbe aiutato a condurre una vita praticamente normale.

    L’identità Bonafede era usata per le cure. Messina Denaro, vescovo Mazara: chi sa parli, non si può avere pietà

    Presentarsi in un centro di piccole dimensioni con l’identità di uno degli abitanti di Campobello, il geometra Andrea Bonafede, che gli ha prestato identità e documenti per potersi sottoporre alle cure mediche, non era prudente. E avrebbe potuto esporlo a rischi. Gli investigatori stanno cercando di ricostruire l’ultimo periodo della latitanza – Messina Denaro sarebbe stato a Campobello almeno fin dal 2020 – comprese le generalità con le quali il boss si presentava alle persone e nei luoghi che frequentava in paese.


    Dall’eolico al boss: chi era l’autista di Matteo Messina Denaro  

    C’erano andati molto vicino, gli inquirenti siciliani, a individuare la rete di protezione del superltitante Matteo Messina Denaro. L’arresto insieme al boss dell’uomo che lo proteggeva e gli faceva da autista conferma che garantire la latitanza del boss erano gli uomini storici della consorteria mafiosa del Trapanese, quella dove Messina Denaro aveva compiuto tutta la sua carriera criminale.
    L’arrestato è infatti Giovanni Luppino, di Campobello di Mazara, nel cuore del Trapanese. E i Luppino sono considerati da sempre il braccio operativo del boss latitante. Otto anni fa, nel 2014, un maxisequestro colpì le attvità economiche dei Luppino nel ramo della energia eolica, il settore considerato da sempre cruciale nelle attività imprenditoriali di Messina Denaro, quello che gli forniva flussi costanti di denaro necessari per la sua latitanza.
    Insieme a imprese edilizie e aziende produttrici di olio, l’eolico – con i suoi ricchi finanziamenti italiani e europei – è da anni un business per la mafia 2.0. Il sequestro del 2014 colpì un cugino del superboss, Mario Messina Denaro, e il capocosca di Mazara, Francesco Luppino: è uno stretto familiare di Giovanni, l’uomo che questa mattina aveva accompagnato nella clinica il boss. E la cui individuazione potrebbe essere stata decisiva per arrivare al bliz. Gli stessi uomini che curavano gli affari imprenditoriali di Messina Denaro si occupavano dunque della sua “security”: una violazione delle regole di comportamento del latitante, forse resa inevitabile dalla progressiva riduzione della rete di appoggio.

     

     


     

     

     

    Matteo Messina Denaro vaccinato tre volte con il nome di Andrea Bonafede

    Il super boss catturato a Palermo risulta vaccinato come soggetto fragile. La prima somministrazione a marzo 2021Tre dosi di vaccino antiCovid, tutte eseguite tra marzo e dicembre del 2021 a Castelvetrano, paese d’origine del superboss Matteo Messina Denaro. Tre accessi nel centro vaccinale del piccolo borgo trapanese, registrati sotto il nome di Andrea Bonafede, classe 1963, nato a Campobello di Mazara. Gli stessi dati utilizzati dal capomafia trapanese per farsi curare nella clinica palermitana La Maddalena.

     

    Messina Denaro ricoverato con il falso nome di “Andrea Bonafede”

    Matteo Messina Denaro aveva il nome di Andrea Bonafede, nato il 23 ottobre 1963 e stamattina aveva l’appuntamento per il ciclo di chemioterapia. Lo si è appreso in ambienti sanitari della clinica Maddalena di Palermo dove era in cura per un tumore. Nella scheda di accettazione della clinica è scritto “Prestazioni multiple – infusione di sostanze chemioterapiche per tumore”. Che ci fosse qualcosa di anomalo oggi in clinica i pazienti in fila per entrare l’hanno capito vedendo decine di carabinieri del Ros a volto coperto che presidiavano la struttura. Nessuno, per ore, è potuto entrare. Solo in mattinata si è scoperto che era in corso un blitz per la cattura del boss mafioso.

    Cappello, occhiali scuri e ingrassato, così Denaro all’arresto

    Cappellino, cappotto di montone da uomo e occhiali da vista scuri. È così che si presentava Matteo Messina Denaro al momento dell’arresto. L’uomo, visibilmente ingrassato rispetto alle ultime foto conosciute su di lui che risalgono a diversi anni fa, tenuto sotto braccio dai carabinieri ha attraversato a piedi in manette per alcune centinaia di metri il viale della clinica dopo l’arresto arrivando in strada, prima di essere portato via su un mezzo dei carabinieri del Ros.

    Il medico della clinica: era in cura da almeno un anno

    Matteo Messina Denaro era in cura alla Maddalena da un paio d’anni “o almeno uno”, dice un medico della clinica Maddalena  per un tumore al colon. Nella struttura sanitaria era andato per fare un tampone anti Covid, dovendo essere ricoverato in day hospital.

    Per il boss già proposto il 41 bis

    “Al momento le condizioni sono compatibili con la detenzione in carcere. Ancora, in questo momento, non possiamo rispondere su quale sara’ la struttura penitenziaria a cui sarà destinato Matteo Messina Denaro”. Lo ha detto il procuratore aggiunto Paolo Guido rispondendo alle domande dei cronisti nel corso della conferenza stampa per l’arresto del boss Matteo Messina Denaro. È stato già proposto il 41 bis per il detenuto. 

    De Lucia: “Latitanza in tante parti d’Italia”

    La latitanza di Matteo Messina Denaro si è svolta in tante parti del territorio nazionale, nell’ultima parte nelle province di Palermo e Trapani”. Lo ha detto il procuratore di Palermo, Maurizio De Lucia nel corso della conferenza stampa sulla cattura di Messina Denaro. “Non lo abbiamo ancora interrogato, sono state raccolte solo due battute con la polizia giudiziaria”, ha aggiunto.

    Inquirenti sulle tracce del covo di Messina Denaro

    Sarebbero vicinissimi a individuare il covo di Messina Denaro gli investigatori che oggi l’hanno arrestato. La zona di Campobello di Mazara e Castelvetrano è battuta da questa mattina palmo a palmo dai carabinieri che starebbero usando anche delle ruspe nelle ricerche.

    Al polso aveva un orologio da 35 mila euro

    Al momento dell’arresto, il boss Matteo Messina Denaro “indossava un prestigioso orologio di marca molto particolare. Da quello che abbiamo accertato, il valore dovrebbe aggirarsi intorno ai 30-35 mila euro”.  Lo ha detto il Giuseppe Arcidiacono, comandante provincia dei carabinieri di Palermo, durante la conferenza stampa sull’arresto di Matteo Messina Denaro, presso la sede della Legione carabinieri Sicilia, a Palermo.

    La testimonianza di una donna: “‘Ha fatto la chemio con me”

    “Faceva la chemio con me ogni lunedì. Stavamo anche nella stessa stanza, era una persona gentile, molto gentile”. Così una donna, in un video di Tv2000 anticipato stasera dal Tg2000, racconta di aver condiviso le sedute di chemioterapia con Matteo Messina Denaro all’interno della clinica privata La Maddalena di Palermo in cui stamane il boss mafioso è stato catturato dai Carabinieri del Ros. Nel video la paziente spiega: “Ci sono anche mie amiche che hanno il suo numero di telefono. Lui mandava messaggi a tutti. Ha scambiato messaggi con una mia amica fino a questa mattina. Lei è ora sotto choc a casa”. “Lui veniva chiamato Andrea”, prosegue la donna. “Ho fatto la chemio con un boss, incredibile”, ripete la signora nel video di Tv2000, “ho fatto terapia da maggio a novembre. Abbiamo fatto la terapia insieme per tutta l’estate e lui veniva anche con la camicia a maniche lunghe”.

    Procuratore Antimafia: “Ora indagini su rete protezione Messina Denaro”

    “Faremo il punto sulle indagini e sulle cose che vanno ancora fatte riguardo alla rete di protezione, della logistica e della latitanza di Matteo Messina Denaro”. Lo ha detto il procuratore nazionale Antimafia, Pasquale Melillo, che ha spiegato: “Domani andrò a Palermo per una riunione con i colleghi della Dda di Palermo, che hanno lavorato splendidamente in costante coordinamento informativo con la procura nazionale e ai quali va tutta la mia ammirazione per il modo riservato e paziente con cui hanno lavorato”.

    Pm Guido: “Messina Denaro non era armato”

    “Messina Denaro non era armato né indossava alcuna protezione. Era in linea con il profilo del paziente medio che frequenta la clinica”. Lo ha detto l’aggiunto Paolo Guido rispondendo a un giornalista che chiedeva se al boss fosse stata trovata un’arma.

    Pm Guido: “Salute Messina Denaro compatibile con carcere”

    “Ci è apparso in buona salute e di buon aspetto non ci pare che le sue condizioni siano incompatibili con il carcere”. Lo ha detto l’aggiunto di Palermo Paolo Guido alla conferenza stampa sulla cattura del boss Messina Denaro. “Era di buon aspetto, ben vestito, indossava capi di lusso ciò ci induce a dire che le sue condizioni economiche erano buone”, ha aggiunto. “Ovviamente sarà curato come ogni cittadino ha diritto essere curato”, ha concluso.

    Angelosanto: “Certezza che fosse Messina Denaro solo stamattina”

    La “certezza” che dietro il nome di Andrea Bonafede si nascondesse il boss Matteo Messina Denaro gli investigatori la hanno avuta “solo questa mattina”. Lo ha spiegato il comandante del Ros, il generale Pasquale Angelosanto, ricostruendo gli ultimi passaggi dell’indagine che ha portato alla sua cattura. “Già in passato avevamo indicazioni che avesse problemi di salute e su queste indicazioni” – ha detto – “abbiamo lavorato in modo da individuare le persone” che avevano accesso alla struttura sanitaria e che avevano una particolare patologia. “Nell’ultimo periodo” – ha aggiunto Angelosanto – “c’è stata un’accelerazione perché via via che si scremava la lista e si scremavano le persone, ci siamo concentrati su pochi soggetti fino ad individuare quel nome e cognome. Da qui l’ipotesi che potesse essere il latitante”. A quel punto è scattata l’organizzazione del blitz. E “fatte le ultime verifiche” – ha concluso Angelosanto – “la certezza che fosse lui è arrivata solo questa mattina”.

    De Lucia: “Fetta borghesia mafiosa ha aiutato il latitante”

    “C’è una fetta di borghesia mafiosa che ha aiutato questa latitanza, su questo abbiamo contezza e ci sono in corso delle indagini”. Così il procuratore capo di Palermo Maurizio de Lucia.

    Generale Angelosanto: “Solo questa mattina effettivo riscontro su identità”

    ”Dagli elementi acquisiti avevamo indicazioni che una persona doveva sottoporsi ad accertamenti” clinici. ”L’accostamento della persona al latitante nei giorni passati era un’ipotesi, ma il riscontro sulla sua identità c’è stato solo oggi”. Lo ha detto il comandante dei carabinieri del Ros, Pasquale Angelosanto, nella conferenza stampa sull’arresto di Matteo Messina Denaro.

    De Lucia: “Forte accelerazione negli ultimi giorni”

    “C’è stata una forte accelerazione sulle indagini negli ultimi giorni. L’esito delle indagini del Ros ci portava sempre più a selezione soggetti malati con le caratteristiche dell’ex latitante e da qualche giorno avevamo saputo che il soggetto si dovesse recare in struttura questa mattina. Era ragionevole che fosse lui, ce lo aspettavamo. Ma la certezza l’abbiamo avuta solo stamattina”. Lo ha detto il procuratore capo di Palermo Maurizio de Lucia.

    De Lucia: “Ovviamente mafia non sconfitta, un errore pensarlo”

     “Ovviamente la mafia non è sconfitta, sarebbe un grave errore pensarlo”. Lo ha detto il procuratore capo Maurizio de Lucia in conferenza stampa a Palermo.

    Pm Guido: “Su nuovi vertici presto per rispondere”

    “Fino a ieri era certamente il capo della provincia di Trapani, da domani vedremo”. Così il procuratore aggiunto Paolo Guido sugli assetti dei vertici di Cosa nostra dopo l’arresto di Messina Denaro.

    Messina Denaro preso in strada, non ha tentato fuga

    Matteo Messina Denaro è stato bloccato in strada, nei pressi di un ingresso secondario della clinica La Maddalena. Lo hanno spiegato i carabinieri del Ros nel corso della conferenza stampa sull’arresto del boss di Cosa Nostra, spiegando che il blitz è scattato quando “abbiamo avuto la certezza che fosse all’interno della struttura sanitaria”. Quando è stato bloccato, hanno aggiunto, Messina Denaro “non ha opposto alcuna resistenza” e “si è subito dichiarato, senza neanche fingere di essere la persona di cui aveva utilizzato l’identità”. Alla domanda se Messina Denaro abbia tentato la fuga, gli investigatori hanno affermato di “non aver visto tentativi di fuga” anche se, hanno aggiunto, “sicuramente ha cercato di adottare delle tutele una volta visto il dispositivo che stava entrando nella struttura”.

    Generale Angelosanto: “Negli anni fiaccata struttura clan”

    “Negli ultimi anni solo l’Arma ha eseguito 100 arresti di uomini vicini a Messina Denaro e sequestrato e confiscato 150 milioni. A questi numeri bisogna aggiungere i dati di Polizia e Finanza. Questo lavoro ha compromesso il funzionamento della struttura mafiosa”. Lo ha detto il capo del Ros, generale Angelosanto alla conferenza stampa sulla cattura di Messina Denaro.

    De Lucia: “Senza intercettazioni nessuna indagine su mafia”

    “Senza intercettazioni non si possono fare le indagini di mafia”: lo ha sottolineato il capo dei pm di Palermo Maurizio de Lucia alla conferenza stampa sulla cattura di Messina Denaro.


    Dietrologie e panzane: inizia il solito show sulla cattura di Matteo Messina Denaro


Lucio Arcidiacono, il carabiniere siciliano che ha fermato Messina Denaro

Era un ragazzino il colonnello Lucio Arcidiacono quando nelle campagne del catanese, dove è cresciuto tra basket, amici e parrocchia, si consumavano delitti pressoché ogni settimana. L’investigatore del momento è un carabiniere siciliano forgiato negli anni delle guerre di mafia e delle battaglie antimafia.
Lo cercano tutti, dai network americani ai notiziari su TikTok.
Famiglia solida, impegnata nel sociale. Lui al liceo, e la divisa come sogno e missione. Perciò l’arresto di Messina Denaro tra le mani del militare con il fisico da pivot e lo sguardo da pilone hanno il sapore della rivincita di un’intera generazione. Entrava nell’Arma nell’ottobre del ‘93, quando la mafia faceva stragi e Totò Riina, il diabolico capo corleonese, era da poco rinchiuso in una cella di tre metri per due. Stare dalla parte dello Stato era molto di più che pensare a una carriera. Ci sono cose che t’insegnano all’accademia, altre che apprendi per strada. Nella Sicilia di trent’anni fa come in quella di oggi una frase smozzicata, un giro di parole o un certo modo di guardare, sono il bandolo di una matassa che solo chi maneggia certi codici di comportamento non ha bisogno di decifrare. Leonardo Sciascia scrivendo l’insuperabile “Il giorno della civetta”, fece arrivare in terra di mafia un capitano da Parma. Era Bellodi: «E tutte quelle volpi, vecchie e nuove, che stanno a sprecare il loro fiuto dietro le idee politiche o le tendenze o gli incontri dei membri più inquieti di quella grande famiglia che è il regime, e dietro i vicini di casa della famiglia – diceva il capitano -, sarebbe meglio si mettessero ad annusare intorno alle ville, le automobili fuori serie, le mogli, le amanti di certi funzionari: e confrontare quei segni di ricchezza agli stipendi, e tirarne il giusto senso». Una lezione messa frutto dal Primo reparto investigazioni del Ros che anche così ha seguito le tracce del padrino di Castelvetrano. «Quando me lo sono trovato davanti l’ho subito riconosciuto. Era lui, l’uomo tante volte visto nelle ricostruzioni fotografiche», dice Arcidiacono misurando le parole che gli escono con quel timbro baritonale per cui non serve neanche vedere le mostrine per capire chi è che comanda. Da otto anni gli dava la caccia, giorno e notte. «Mi rendo conto che una persona comune difficilmente avrebbe associato quel volto a quel nome», ma non i carabinieri che molte volte gli sono arrivati a un passo. Intercettazioni e parole a mezz’aria, ascoltate in anni di lavoro nell’ombra, di passi avanti e altri indietro, hanno permesso di accertare che il capobastone non godesse di buona salute. «Nessun pentito ha collaborato alla cattura», assicurano gli investigatori che con più di 100 fiancheggiatori arrestati negli ultimi anni, di notizie ne hanno raccolte e ricomposte in un puzzle a cui mancava l’ultima tessera. Quattro giorni fa è arrivata la svolta e la decisione di autorizzare l’operazione.
«Nella banca dati del Servizio Sanitario nazionale abbiamo trovato il nome di un paziente che aveva fissato una visita specialistica per lunedì 16 gennaio», raccontano. Era il profilo del malato oncologico che cercavano, «con una tipologia di tumore corrispondente a quella che avevamo individuato per il latitante, secondo i tempi del trattamento e le cure eseguite, faceva stringere il cerchio». Soprattutto quell’uomo presentava la falsa identità di un residente a Campobello di Mazara, feudo di Messina Denaro. Più di un indizio, per chi sa che un vero capomafia non tradisce mai le radici della malapianta. Il faccia a faccia tra il cacciatore e la preda andrebbe raccontato al rallentatore. «Lei lo sa chi sono io», ha detto Diabolik al carabiniere. Che l’ha lasciato parlare perché i boss, quando li prendi dopo anni di caccia nel buio, magari non apriranno mai più bocca: «Mi chiamo Matteo Messina Denaro»
Niente divisa con le stellette, indosso ancora il dolcevita e il blazer scuro con cui ha fermato il mammasantissima, ora il carabiniere siciliano non nasconde l’emozione di quei lunghi istanti, che definisce «grande». Del resto «mi sono arruolato nei carabinieri un anno dopo le stragi Falcone e Borsellino».
La strada è ancora lunga, ma quella generazione, i ragazzi dei caroselli antimafia, dell’antiracket, di Libera e della riappropriazione dei beni dei boss, dei poster di Falcone e Borsellino nelle camerette accanto a quelli delle rockstar, per ora ha vinto. La cupola che conoscevamo non c’è più. E l’ultima mandata al portone blindato dentro a cui è finito l’erede della stagione corleonese, il destino ha voluto che venisse data a Palermo, la città martire e carnefice, per mano di carabinieri siciliani che trent’anni fa non hanno avuto paura di prendere la strada di chi per mano di mafia non c’era più. 
«Le indagini di tutti questi anni – ha raccontato il colonnello – ci avevano consegnato l’immagine di un capoclan diverso dagli altri: prima stragista, poi dedito prevalentemente agli affari. Ebbene, oggi abbiamo avuto la conferma: è all’opposto dello stereotipo del classico mafioso di un tempo».
Come in ogni storia che si chiude, aprendo a capitoli nuovi e imprevedibili, c’è sempre un gesto prima dei titoli di coda. Un gesto che in Sicilia e tra siciliani doveva avvenire senza nessuna parola.
Racconta il colonnello Arcidiacono di aver chiesto a Messina Denaro, comunque un uomo malato e ormai in trappola, se se avesse voluto mangiare qualcosa, magari prima di prendere le medicine. Nulla. «Ci ha fatto i complimenti per come lo avevamo trattato durante l’arresto e ci ha dato atto del lavoro svolto per arrivare alla cattura».
Poi il silenzio, mentre l’ex latitante con un cenno di gratitudine allunga la mano e prende un bicchiere d’acqua dalle mani del suo cacciatore.

AVVENIRE 17.1.2023


Messina Denaro, anche l’ex magistrato Ingroia sospetta un accordo: «Perché penso che si sia fatto arrestare»


6.2.2023 Cronaca di una cattura annunciata. Matteo Messina Denaro tra Stato e mafia

I mafiosi non vogliono morire in prigione”. La considerazione, che potrebbe apparire scontata e banale, circola da qualche giorno con insistenza negli ambienti giudiziari dell’anti-mafia. In realtà, essa sottende una verità profonda.

Al di là dell’intrigante previsione dell’’intraneo’ Salvatore Baiardo sull’arresto, nonché delle puntuali e immancabili tesi complottiste, l’epilogo della trentennale latitanza dell’uomo delle stragi interroga la coscienza civile, ancor prima che politica, di tutti e di ciascuno.

Il gusto del ragionamento suggerisce qualche domanda.

Se è vero, com’è vero, che per molte posizioni ‘definitive’ la prospettiva del ‘fine pena mai’ appare più che certa, quale senso si può mai annettere alla predetta asserzione? In altri e più precisi termini, quale speranza costoro possono mai coltivare di “non morire in prigione”?

Una risposta plausibile presuppone l’attenta disamina del contesto presente, come oggettivamente modificato dalla cattura del latitante più pericoloso e meglio informato, dopo Totò Riina, in merito ai tragici eventi che hanno devastato la vita pubblica nazionale per alcuni decenni.

È del tutto evidente che, una volta di più, dopo le alterne vicende della nota “trattativa”, la speranza dei reclusi non può che rivolgersi allo Stato. Solo lo Stato, infatti, ha il potere di con-cedere. Ecco, allora, emergere il ‘proprio’ dell’osservazione, secondo la quale i detenuti per mafia “non vogliono morire in prigione”. Al riguardo, sovvengono le parole dell’ex procuratore generale della Repubblica di Palermo, il sen. Roberto Scarpinato, a giudizio del quale “Messina Denaro si è lasciato arrestare”.

Sarebbe, dunque, il solo disposto a morire in carcere? E perché mai? Forse in forza di un nuovo scambio pattizio, peraltro risolutamente escluso dagli inquirenti, con l’astratta ‘speranza’ di qualche beneficio per sé stesso e i compagni di merenda, i quali non vogliono morire in prigione? Davvero un mirabile esempio di abnegazione e magnanimità, all’esito di tre decenni di tranquilla latitanza e relativa libertà, da parte di un cultore dell’acido, in specie nitrico.

E quale sarebbe la contropartita per lo Stato? Un trofeo di caccia fine a sé stesso, la formale chiusura di un’ingombrante pratica giudiziaria, mediante la tardiva esecuzione di un giudicato multiplo e il controllo ‘fisico’ di un ex latitante di rilevante statura criminale?

La questione è inaggirabile. Senza minimamente sminuire il merito indubbio dell’azione di magistratura e forze dell’ordine, MMD, data l’indisponibilità dell’opzione stragista, palesemente ‘inattuale’, in costanza, aumento e cogenza delle ‘esigenze’ dei detenuti di mafia, si sarebbe, se non costituito, verosimilmente ‘consegnato’. Non già perché stremato e gravemente malato, men che mai perché ravveduto, ipotesi in apparenza verosimili, in realtà allotrie e fuorvianti, bensì allo scopo di portare la ‘minaccia’, la prospettazione, ossia, quand’anche implicita, e pur sempre a carattere intimidatorio, della possibilità/pericolo di collaborare e parlare, in carne ed ossa, all’interno di una prigione di Stato. Dunque, di fatto, dentro lo Stato. Lettura tanto più (essa sì) verosimile, in ragione dell’impervietà di una tale ‘manovra’ dall’esterno e ragionevolmente escluso che egli ignorasse il prosieguo di rito, ovvero che sarebbe stato sottoposto a un’intensa gragnuola di domande vagamente… incandescenti.

Potrebbe essere questa la vera posta in gioco della “partita”, secondo l’icastica definizione di Nino Di Matteo, tra mafia e Stato. Una partita da ‘saldare’, naturalmente, e, auspicabilmente, non una ‘partita doppia’, in quanto confliggente con la Civiltà giuridica ed etica e la Costituzione dello Stato democratico.

Se ne dovrebbe desumere, pur senza velleità predittive, che lo spirito della trattativa, forse, ri-vive e lotta insieme a noi. Con la non trascurabile differenza rispetto alla precedente, ancorché controversa e tuttora sub iudice, che, stavolta, il primo tempo, per dir così, si sarebbe consumato negli ‘interna corporis’ delle cosche. Il secondo tempo, da giocare direttamente con lo Stato, dovrebbe ancora iniziare, ad opera, per l’appunto, di MMD, in funzione di ‘cavallo di Troia’, uno dei soggetti più idonei e potenti sotto il profilo della ‘conoscenza’, oggettivamente assistito da un (irresistibile?) potere negoziale.

E, se la conoscenza è dolore, la tragedia classica istruisce, nella presente contingenza la summa di sapere accumulata da MMD, se esternata – anche parzialmente, nell’improbabilità di una completa discovery – causerebbe, sì, dolore, ma ad… altri. Anche allo Stato?

Eppure, ciò nonostante, una nuova alba può sorgere sul Paese, in cui ciascuno è chiamato ad assumere le proprie responsabilità. Finalmente. Anche se alle strutture e agli uomini preposti al contrasto anti-mafia, Costituzione alla mano, incombe l’obbligo tassativo di “rispettare il silenzio eventuale” di MMD, come non ha mancato di sottolineare, nel corso di un’intervista, il procuratore della Repubblica di Palermo, Maurizio De Lucia, il quale, in ottima compagnia, presidia il… tema.

In breve, se il capomandamento appena catturato, invertendo la rotta segnata e percorsa dai suoi predecessori, si determinasse a “dichiarare”, prosegue il pm De Lucia, egli riceverebbe il massimo “ascolto”, com’è pacifico, in modo speciale, si può aggiungere, intorno alle inquietanti ambiguità che tuttora avvolgono l’indimenticata stagione delle stragi. Il Paese potrebbe così, infine, affrancarsi dal mistery, ancora irrisolto, della terza agenda di Paolo Borsellino, quella rossa, un autentico buco nero della nostra storia recente.

Ebbene, MMD potrebbe rendere, addirittura, superflua la conoscenza del suo contenuto, contribuendo, dall’interno, a squarciare l’oscurità intorno a quello “Stato parallelo e occulto”. orgogliosamente impunito e gonfio di commossa riconoscenza, dentro e contro lo Stato, un’entità spesso e soffertamente evocata, tra gli altri, dal compianto Stefano Rodotà, che ci piace ricordare. Una realtà, tuttavia, non astratta e inafferrabile, come si suole (o conviene) immaginare, bensì concreta e distinta, sul piano dell’empiria, da nomi, cognomi e… indirizzi, già noti o di non proibitiva identificazione.

Perché, ridotta all’osso, la domanda in trepidante attesa di risposta si può formulare nel modo seguente. Quando uomini non marginali della congrega mafiosa gioiosamente affermano di avere “il Paese nelle mani”, esattamente, che cosa intendono significare? Esattamente.

In caso contrario, si arguisce, è giocoforza aspettare, scrutando le dinamiche e i comportamenti delle istituzioni democratiche dello Stato costituzionale di diritto e, segnatamente – vero punctum dolens – del livello politico. Donde soltanto possono giungere gli auspicati chiarimenti, sotto un cielo denso di nubi, dopo la fine di una lunga latitanza, non genericamente protetta, come si ripete, bensì, e pour cause, letteralmente blindata.

Lo Stato “non tratta” con l’anti-Stato, è il refrain che risuona, monotono, a ogni piè sospinto.  Se non che, dopo più di mezzo secolo, ritornano in mente le parole di Salvatore Francesco Romano: “La mafia è l’infrastruttura di sviluppo e di ricambio dei gruppi dirigenti della società e dello Stato”. Di quanti, ossia, ai vari livelli della piramide, “borghesia mafiosa” inclusa, e non solo borghesia, vivono con timore e tremore, non per vocazione filosofica esistenziale, bensì perché hanno troppo, se non tutto, da perdere dagli eventuali ‘svelamenti’ di MMD. E chissà quanti devoti credenti, genuflessi, ora recitano preghiere e fanno voti, invocando la grazia del suo silenzio. Perché di tale specie, si sa, è la religiosità prediletta da siffatta genia, coscienziosamente altra da ogni fede autentica, come quella, vedi caso, di don Pino Puglisi!

Inevitabilmente, come “tutti i fenomeni umani”, anche la mafia sconterà il destino della fine, presto o tardi. L’acuto e dolente sguardo di “lunga durata” di Giovanni Falcone, palesemente riconducibile agli storici della scuola francese delle “Annales”, esaltando una visione del presente come storia di strutture, al di là degli eventi contingenti, metteva a fuoco e in tensione complesse problematiche entro una prospettiva più ampia della stessa, pur essenziale, giurisdizione penale.

Epperò, “c’è molto cammino da compiere, recita il poeta, promesse da mantenere”, se è vero che alla domanda di Giovanni Falcone su chi fossero i mafiosi a Palermo Tommaso Buscetta rispose: “Dott., mi chieda chi non è mafioso…”. Con ogni evidenza, il ‘convertito’ Buscetta, più che all’organizzazione criminale con l’etichetta, si riferiva alla (propriamente detta) ‘comunità di consenso’, la ‘mafiosità’, quel formidabile e mefitico terreno di coltura, vera e propria fonte energetica, fuori dalla quale agli uomini della mafia mancherebbe finanche il respiro, a differenza persino di alcune varietà di pesci senz’acqua, e senza la quale la storia della mafia sarebbe alquanto diversa, forse meno letale, di certo meno… vincente.

In realtà, al netto dell’arresto di MMD, oggi la mafia è “tutt’altro che sconfitta”, ché, anzi, ‘cerca’ un nuovo capo, come non si stancano di ribadire gli organi dell’antimafia. Il silenzio di MMD potrebbe assicurarle un’ulteriore e vitale stabilità, sia nel suo complesso gioco economico-sociale, sia nella cruciale ‘partita istituzionale’ con lo Stato.

Se la concreta declinazione degli eventi volgesse in questa sciagurata direzione, la coscienza morale e civile, ancor prima che politica, sarebbe inesorabilmente indotta a domandarsi se il principio profondo di G. W. F. Hegel, secondo cui “lo Stato sa ciò che vuole”, non spetti piuttosto alla mafia. Certo, infatti, è che le mafie, tra cadute rovinose e astute riconversioni, talora anche drammatiche, del proprio mestiere seguitano a prendersi cura con determinazione.

E lo Stato, indefesso celebrante della gloriosa memoria dei suoi martiri, “sa ciò che vuole”? E “persegue i suoi fini”, ancora Hegel, whatever it takes, ovvero in modo e con l’intento di porre fine a questa lunga e non più tollerabile… emorragia di Civiltà? MICROMEGA