Gaspare Mutolo – chi è

 

6.11.2022 A proposito di Gaspare Mutolo. Sapete quando ha raccontato del famoso episodio del Giudice Borsellino con le famose due sigarette nervoso per l’incontro con il dottor Contrada?
SOLO NEL 1995 e non già dall’ottobre del 1992 quando, dopo gli interrogatori di luglio 1992 con Borsellino, Aliquo’ Natoli e Lo Forte, ebbe modo di sviluppare la sua collaborazione.
Lo racconta al Processo Capaci uno in udienza al pm Tescaroli. Occhio alla tempistica: a Palermo si stava celebrando il processo a carico di Bruno Contrada. E quindi……. ..
Ma quello che sorprende è la spiegazione fornita da Mutolo a Tescaroli circa il ritardo della riferita circostanza su Borsellino ( le due sigarette per intenderci): ” non l’ho detto prima perché ero ancora colpito dalla morte di Falcone”. Al che giustamente Tescaroli ribatté che comunque quella circostanza riguardava Borsellino!!
Come al solito ognuno tragga le conseguenze che ritiene!!!!
Ci vorrà pazienza e magari non la vedrò con i miei occhi, ma la storia di quegli anni andrà riscritta. Glielo dobbiamo ai nostri martiri.
FABIO TRIZZINO legale di parte civile di FIAMMETTA, LUCIA E MANFREDI BORSELLINO 

 
 
 
 
 
Da qualche giorno è un uomo libero e senza più alcun tipo di tutela. Ha da poco compiuto 82 anni ed è un’altra persona, fuori e dentro. Una seconda vita, lasciandosi alle spalle una maschera bianca accartocciata
Wikipedia, l’enciclopedia digitale del tempo presente, lo presenta così: «Gaspare Mutolo, detto Asparinu (Palermo, 5 febbraio 1940), ex mafioso, collaboratore di giustizia e pittore italiano». Dietro questa sintesi, c’è una notevole biografia criminale e un volto che risale agli anni Settanta, con baffoni neri e sguardo cupo. L’Asparinu che trovate nella nostra copertina è per la prima volta a volto scoperto, senza la maschera bianca che l’ha tutelato nel lungo periodo della protezione dello Stato dopo la scelta di pentirsi e denunciare i tanti complici – foto esclusive | video esclusivo
HA 82 ANNI – Da qualche giorno è un uomo libero e senza più alcun tipo di tutela. Ha da poco compiuto 82 anni ed è un’altra persona, fuori e dentro. Lo è da tempo, adesso però in maniera esibita, e anche così segnata dal male che ha fatto da progettare un percorso di espiazione che comprende un per lui rischiosissimo viaggio a Palermo, a implorare le madri siciliane di sottrarre i loro figli dalla trappola senza scampo della mafia. E se qualcuno volesse saldare i conti con lui? «Ormai sono diventato un simbolo e a Cosa Nostra questi simboli non piacciono», dirà nella lunga intervista che troverete al centro del numero di Oggi in edicola (la seconda puntata la potrete leggere nel prossimo, ed è, se possibile, ancora più emotivamente sconvolgente).
FALCONE E BORSELLINO GLI CREDETTERO – Due giudici come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, prima di venire inghiottiti dalla furia di Totò Riina e soci, avevano avuto fiducia nell’onestà del pentimento di Mutolo, e dopo di loro il procuratore Giancarlo Caselli, che mise ad ulteriore frutto le informazioni messe a disposizione da Asparinu, mandando in carcere non soltanto centinaia di capibastone e affiliati ma anche insospettabili professionisti (avvocati, medici, funzionari di banca), la zona grigia che infiltra società e Stato per minarli dall’interno. Luogotenente e anche autista di Totò Riina, l’ultimo e sanguinario Capo dei capi il cui testimone sembra passato nelle mani dell’imprendibile Matteo Messina Denaro, Mutolo non è mai stato un boss, a differenza di Tommaso Buscetta che collaborò con i magistrati per vendetta contro la cosca vincente dei Corleonesi. Lui, Asparinu, era un operaio specializzato della violenza, cresciuto delitto dopo delitto fino ad arrivare nel cuore della Cupola, assassino e trafficante di droga, braccio armato e sicario di fiducia del despota, da lui servito con dedizione canina finché qualcosa si è rotto e comincia un’altra storia, anche per la mafia stessa. I perché di questa conversione sono spiegati nell’incontro con Luigi Garlando. E reggono ancora oggi, rafforzati dalla convinzione che c’è ancora molto da fare per la missione che si è dato e che il tempo a disposizione può non bastare.
IL TORMENTO DI UNA COLPA – «Le cose essenziali sono queste: non ci deve essere mai perdono. Se uno fa la spia, nel letto sicuramente non ci muore ma viene ammazzato, anche se ha cento anni», gli spiegò Rosario Riccobono, boss di Partanna-Mondello dopo il giuramento che lo rese mafioso. Mutolo lo sa bene, ma come scoprirete leggendo le sue memorie non sembra questo il fantasma più temuto, quanto il tormento di una colpa troppo enorme per essere espiabile. Disse una volta il Presidente Sandro Pertini: «A un uomo non chiedo da dove viene ma dove va». Gaspare detto Asparinu viene dall’inferno, si consola dipingendo, e idealmente è già in cammino verso quella Palermo dove tutto è sciaguratamente cominciato. Una seconda vita, a 82 anni, lasciandosi alle spalle una maschera bianca accartocciata.
Carlo Verdelli


AUDIZIONE IN COMMISSIONE  ANTIMAFIA 9 febbraio 1993

TESTO

 


 


Gaspare Mutolo, nato a Palermo il 5 febbraio1940, collaboratore di giustizia e pittore.  Chiamato “Asparino“, inizialmente fu meccanico, poi si dedicò alla malavita. Da giovane si occupava solo di piccoli furti, fino a quando fu arrestato nel 1965 per associazione a delinquere. In carcere conobbe Totò Riina, compagno di cella per otto mesi. Fu lui a consigliare la lettura de I Beati Paoli di William Galt, romanzo cult dei mafiosi, ma anche a suggerire l’uscita dalla microcriminalità e l’ingresso nella mafia (“più facile uccidere che rubare”, sosteneva Riina), raccomandandolo a Rosario Riccobono – boss dei quartieri Partanna e Mondello – non appena uscito dal carcere. Dopo una serie di arresti e scarcerazioni, nel 1973 incontrò Riccobono e Riina, nel frattempo in libertà, ed entrò in Cosa Nostra attraverso i riti della “pungintina” e della “Santina bruciata” (immaginetta sacra). “Le cose essenziali sono queste: se un uomo d’onore sbaglia con una donna di un uomo d’onore, con una figlia o una sorella, il padre, anche con le lacrime agli occhi, deve strangolare il figlio. Non ci deve essere mai perdono, anche se passano trenta o quarant’anni: se uno fa la spia, nel letto sicuramente non ci muore, ma viene ammazzato dalla mafia, anche se ha cento anni. È un principio e si fa di tutto per non farlo morire nel proprio letto”, spiegò Riccobono dopo il giuramento. Sposatosi su suggerimento (pratica obbligatoria dei mafiosi), divenne in breve tempo il più stretto collaboratore di entrambi (di Riina anche fidato autista). Mutolo fu figura operativa, non di dialogo: omicidi, estorsioni, intimazioni, sequestri (nel 1974 fu incaricato di rapire Berlusconi). Divenne poi un grosso trafficante di droga, in contatto con il singaporegno Koh Bak Kin. Un lavoro remunerativo, che gli permise di possedere in poco tempo un appartamento e di costruire una palazzina. Nel 1982 fu salvato da Riina dalla mattanza dei Riccobono, ma non dall’arresto e dalla reclusione nel carcere di massima sicurezza di Sollicciano. Fu proprio tra le mura del penitenziario fiorentino che Mutolo si avvicinò all’arte. E grazie all’ergastolano Mungo, detto l’Aragonese, di cui ammirava la pittura durante l’ora d’aria. Finirono in cella insieme e per il mafioso siciliano fu l’inizio di un nuovo modo di comunicare, con colori e pennelli. In carcere conobbe anche Luciano Liggioe a sua firma dipinse alcune tele. Il pentimento Nel 1986 venne coinvolto nel Maxiprocesso istruito da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e, dopo la sentenza di primo grado (dicembre ’87), fu condannato a dieci anni di reclusione. Nel ’91 Falcone gli propose di collaborare. “Gaspare, qua la dobbiamo finire, non lo vedi là fuori cosa stanno combinando!” Sia le pressioni del magistrato – che iniziò a vedere con fiducia e rispetto -, sia l’attentato al mafioso Giovanni Bontate, che coinvolse anche la moglie – precedente sconvolgente e non in linea con l’ideale mafioso -, sia l’arresto della consorte, spinsero Mutolo a parlare, ma a patto che ad ascoltarlo fosse il solo Falcone. Rivelazioni che però il magistrato non ascolterà mai, poiché trasferito dal ministro Martellialla direzione del dipartimento degli Affari penali. Mutolo si ritrovò così ad affidare le proprie rivelazioni, solo all’indomani della strage di Capaci, a Borsellino, che lo interrogò per l’ultima volta due giorni prima della strage di via D’Amelio. Durante gli interrogatori, però, si susseguirono strane telefonate, in primis quella del ministro Mancino (imputato nel 2012 per falsa testimonianza nel processo sulla Trattativa Stato-Mafia) a Borsellino, proprio durante un colloquio con Mutolo. Nel 1993, grazie agli sconti di pena previsti, Mutolo venne condannato dal Tribunale di Livorno a nove anni di reclusione. Tra le dichiarazioni rilasciate a Borsellino e poi a Vigna, i ruoli di Lima, Andreotti, Conti, Barreca, Mollica, D’Antoni, Signorino e Contrada.Oggi è un uomo libero, pur sotto il Servizio Sociale di Protezione, e vive dipingendo quadri.

 


MUTOLO pittore

Il Picasso della mafia, Mutolo (dopo 22 omicidi) è diventato un pittore: “La mia vita è arte”

La conversione di “Asparino”, 80 anni a febbraio. Lo storico pentito palermitano, killer e autista di Totò Riina, ha inaugurato in questi giorni una mostra: “I miei quadri diventeranno famosi tra 50 o 100 anni, anche se già li vendo a buon prezzo”

Gaspare Mutolo, 22 omicidi dopo, è un altro uomo. Dalla mafia all’arte. Un cambiamento drastico che in questi giorni è stato “sublimato” da una mostra. E anche lui, in un’intervista concessa all’Adnkronos, dice: “La mia vita ormai è fatta di fede e di arte”. Mutolo, lo storico pentito di mafia, killer ed autista del capo dei capi corleonese, il sanguinario Totò Riina, ha inaugurato a Giulianova, in Abruzzo, una mostra voluta con forza da Gabriellino Palestini, noto come ‘uomo Plasmon’ per un carosello degli anni Sessanta. Mutolo conobbe Palestini negli anni Ottanta quando era nel carcere a Teramo, trasferito da Sulmona e dove per un periodo restò in libertà vigilata.
“Ho conosciuto Palestini negli anni Ottanta – ha raccontato Mutolo in una intervista pubblicata sul sito dell’Adnkronos nei giorni scorsi – ed è nata una bellissima amicizia, vera e profonda. Molte amicizie vanno e vengono, si rompono, quella nostra, anche se ha avuto momenti tristi, è sempre andata avanti. Lui in galera e io al maxiprocesso ma i nostri rapporti sono sempre andati avanti. Io l’ho fatto conoscere a tanti siciliani, molti dei quali sono stati uccisi. Parlo, ad esempio, di Bontade o Riccobono. Lo rispettavano tutti perché era una persona educata” “Palestini – prosegue Mutolo, che a febbraio compirà 80 anni – era l’unica persona che quando arrivava a casa mia aveva una stanza tutta per sé. Non andava in albergo, tanta era la fiducia”.
“Dopo tanti anni di sventure ci siamo ritrovati – dice ancora Mutolo – e abbiamo deciso di organizzare la mostra a Giulianova”. Per Mutolo “la pittura è l’unico amico che non mi ha mai tradito. L’unico amico con cui trascorrere tutta la giornata. Non ho bisogno di nient’altro”. E spiega che i suoi quadri “diventeranno famosi tra 50 o 100 anni, anche se già li vendo a buon prezzo”. E rivela di avere venduto i suoi quadri “anche a 700 euro l’uno”. Buona parte dei soldi che ricava dalla vendita dei suoi quadri finiscono in beneficenza. 
Mutolo compirà 80 anni il prossimo 5 febbraio. Chiamato “Asparino”, inizialmente fu meccanico, poi si dedicò alla malavita. Negli anni Sessanta conobbe Totò Riina, suo compagno di cella per otto mesi. Poi entrò in Cosa Nostra e divenne un grosso trafficante di droga, in contatto con il singaporegno Koh Bak Kin. Dopo l’arresto, nel 1991 Giovanni Falcone gli propose di collaborare. Mutolo si convinse a parlare, ma a patto che ad ascoltarlo fosse il solo Falcone: il magistrato palermitano venne però trasferito dal ministro Martelli alla direzione del dipartimento degli Affari penali. Adesso è un uomo libero, pur sotto il Servizio Sociale di Protezione, e vive dipingendo quadri.  PALERMO TODAY

 



GASPARE MUTOLO: “Nell’ultimo interrogatorio Borsellino era molto preoccupato”


“Vidi per l’ultima volta Paolo Borsellino nella notte del 17 luglio, due giorni prima di essere ucciso nella strage di via D’Amelio. Era molto preoccupato. Me lo ricordo perfettamente. Ed era anche in pensiero per la figlia Fiammetta, in vacanza in Indonesia, che non sentiva da diverse ore. Quello fu l’ultimo interrogatorio”. A ricordare il giudice Paolo Borsellino, a 29 anni dalla sua uccisione, in una intervista esclusiva all’Adnkronos, è il pentito Gaspare Mutolo, ex trafficante di droga e braccio destro di Totò Riina. Una vita movimentata, quella di Mutolo. Nel 1965 finisce in carcere all’Ucciardone a Palermo, dove conosce Totò Riina, diventerà uno dei fedelissimi al dogma della mafia corleonese. Dall’inizio degli anni Settanta fino all’85 fu il più importante ‘broker’ di eroina del pianeta. “E’ stata mia moglie a illuminarmi il cervello, quando i corleonesi facevano le stragi – racconta dalla località segreta dove vive e dipinge – Mi disse: ‘Siete pazzi, basta’. Lei è stata una guida per me. Ora è morta…”.

Quella sera del 17 luglio – ricorda Mutolo – quello che ho potuto concepire, parlando con il giudice, era la sua grande preoccupazione. Mai come quella sera”. E racconta anche un altro aneddoto: “Era anche preoccupato per la figlia Fiammetta, che era lontana, in viaggio con amici di famiglia. E io lo rassicurai, dicendogli che anche io avevo una figlia che andava spesso a ballare e che non si faceva sentire. Mi colpì molto quell’amore infinito per i figli. Un amore viscerale. Era davvero preoccupato. Quando ne parlava aveva il sorriso molto dolce. Ma preoccupato”. E ribadisce: “Certamente era preoccupato anche per se stesso”.

E ricorda che “dopo la strage di Capaci, aveva insistito perché voleva essere ascoltato dalla Procura di Caltanissetta. Quello era il periodo di Tinebra a Caltanissetta, di Giammanco a Palermo. E poi c’era Contrada. Erano personaggi che a Borsellino non calavano, come Arnaldo La Barbera. Io volevo parlare solo con lui e Borsellino lo sapeva”.

“Dopo la morte di Borsellino, mi venne a trovare alla Dia il giudice Gioacchino Natoli. Era preoccupato e mi disse: ‘Gaspare, ora che intenzione hai? Che vuoi fare?’ E io dissi: ‘Adesso ho un motivo in più per collaborare’. Il giudice Falcone era morto e Borsellino pure. Non mi interessava più con chi parlare e ho mantenuto quella promessa. Ho continuato a parlare con i magistrati”.

Il primo luglio 1992, 18 giorni prima della strage di via D’Amelio, Mutolo fu interrogato ancora da Borsellino. Quel giorno, il giudice antimafia dovette interrompere l’interorgatorio per recarsi al Viminale, dove si insediò l’allora neo ministro dell’Interno, Nicola Mancino. “Ricordo che il giudice ricevette una telefonata dal Viminale – dice – e dovette andare via. Quel giorno abbiamo messo a verbale diverse cose, ma non tutto. Le cose più importanti non le scriveva. Io gli dicevo: ‘Signor giudice, io desidero vedere la mafia arrestata e poi parliamo dei politici e dei personaggi dello Stato”.

Alla domanda su cosa non scrisse il giudice Borsellino, Gaspare Mutolo risponde: “Qualcosa che intravedeva al di là”. “Io facevo i paragoni – dice – A Palermo, ad esempio, avevamo i Cavalieri del Santo Sepolcro, la tessera numero uno l’aveva il conte Arturo Cassina, che aveva fatto tanti lavori in città. E il suo di fiducia sa chi era? Giovanni Teresi, il sottocapo della famiglia del boss Bontade”. “Borsellino non ci è mai arrivato a mettere per iscritto cosa volesse dire…”. “Il primo luglio, è stata come una barzelletta – dice ancora Mutolo – c’era questo incontro segreto, anche se molto affaticato molto travagliato. Non so perché, qualcuno non voleva che io parlassi con Borsellino. L’ho capito dopo che avevano trovato dei file sul computer di Giovanni Falcone, con cui avevo già parlato, spiegandogli qualcosa. Io avevo iniziato a collaborare in maniera diverse da Buscetta o Contorno, io volevo tagliare questo cordone ombelicale. C’era la mafia e la politica, ma anche il mondo imprenditoriale”.

“Io dissi a Falcone: ‘non mi muovo dall’Italia, così quando i giudici mi vogliono vedere, devo essere a portata di mano’. Così abbiamo avuto il primo colloquio con il dottor Borsellino, grazie a De Gennaro (ex capo della Polizia ndr), che organizzò l’incontro alla Dia. Ma doveva essere segreto. Invece lo sapevano tutti. Al Viminale lo sapevano, Contrada lo sapeva”. E ricorda quanto già raccontato in alcuni processi: “Dopo avere parlato con Mancino e Contrada, era talmente agitato che addirittura aveva una sigaretta in bocca e ne accese un’altra. Io glielo feci notare, talmente era pensieroso. Dopo quel giorno ci siamo visti diverse altre volte”.

“Io gli dicevo ‘Dottore, la mafia ha una potenzialità che non potete neppure immaginare. E lui logicamente restava basito – racconta ancora Mutolo – Sembrava una esagerazione, io gli dicevo se dobbiamo andare d’accordo prima dobbiamo mettere in galera tutti i mafiosi. E lui mi diceva: ‘sono d’accordo con lei’, ma aveva anche premura perché sapeva che sotto sotto c’era qualcuno che stava lavorando in maniera diversa da come lavorava lui”. “Lo so, perché in quel periodo c’erano alcuni mafiosi che si incontravano – aggiunge – alcuni si erano accordati per quella che venne chiamata ‘trattativa’. C’era contrasto tra alcuni personaggi e Borsellino lo capiva. C’erano già stati dei segnali”.

E Gaspare Mutolo ribadisce che “dentro lo Stato c’erano tre correnti: alcune persone che se la facevano addosso per paura, altri che cercavano di rimediare, e altri che volevano combattere. Io, ringraziando Dio, sono tra quelle persone che avevano intenzione di combattere”. Il collaboratore di giustizia si dice convinto che “ancora oggi continuano i depistaggi sulla strage di via D’Amelio”. “Al centro per cento”, spiega. “Così come la trattativa tra Stato e mafia, prosegue ancora, altro che”. Ma chi depista? “Questa è una domanda maliziosa – dice Mutolo – quelle persone che dopo le stragi avevano interesse a farle, perché la trattativa continua ancora oggi”.

Ci tiene anche a spiegare che la scarcerazione di Giovanni Brusca, dopo 25 anni di carcere, nonostante le decine di omicidi, tra cui quello di Giovanni Falcone e il piccolo Giuseppe Di Matteo, “va accettata”. “Brusca ha fatto una cosa orribile – dice – ha ucciso quel bambino e il giudice più caro a tutti noi. Però, Brusca, ha spezzato un ingranaggio, un sistema. Quello era un periodo in cui i mafiosi erano disposti anche a uccidere i propri figli, i fratelli, la moglie”.

“Ci sono persone che sono entrate in galera a 25 anni e hanno 60 anni, almeno Brusca ha collaborato e ha fatto arrestare persone, mentre ci sono persone che hanno fatto più omicidi di Brusca e la legge li vuole mettere fuori. Questa non è una trattativa?”. Mutolo parla dell’ergastolo ostativo. “Il governo dovrebbe dire: ‘Siete pazzi, queste persone non dovrebbero uscire. Mai”. “A meno che non collaborino – dice – allora sarebbe giusto”. E approfitta per “lanciare n appello ai mafiosi”. “Pentitevi – dice – perché avrebbero tante cose da dire”. Ma chi? “Ad esempio i Madonia, Nino e Salvuccio, personaggi importanti che non hanno mai collaborato. Io li conosco da ragazzi, sanno tutto. Tutto”. E i Graviano? “Più di quello che hanno detto, cosa altro dovrebbero dire? Chi non vuole capire non capisce. Non possono dire di più perché si creerebbero delle antipatie”. Ma da parte di chi? “Non glielo posso dire perché ci sono processi in corso…”. E sulla sua vita dice: “Io ho portato aperto la strada a tutti i collaboratori. La mia vita ormai è dipingere, sono vedovo, l’unico rimpianto che ho che non ho saputo dare quello che meritava mia moglie. E’ stata lei che mi ha guidato e ha illuminato”. (di Elvira Terranova) ADNKRONOS 19 luglio 2021


GASPARE MUTOLO: “Voglio Paolo Borsellino. Mi fido solo di lui 

Mutolo annunciò per la prima volta di voler collaborare con gli inquirenti all’inizio del 1992, a una condizione: avrebbe rivelato i segreti della mafia solo a Falcone. Ma il nuovo incarico romano del giudice non gli consentiva più di farlo, e quindi il pentito si rifiutò di parlare con altri. Solo dopo la sua morte, cambiò idea. Come tanti, sia dentro che fuori dalla mafia, considerava Borsellino l’erede naturale di Falcone e annunciò:  >.  Questi aveva grandi aspettative su quanto Mutolo fosse disposto a dirgli. >, disse il procuratore a un collega.  Quando Borsellino incontrò Mutolo a Roma, il collaboratore rivelò senza indugio che la mafia aveva degli infiltrati sia in polizia che in tribunale. Fece il nome di due presunte spalle: Bruno Contrada, l’ex capo della squadra mobile di Palermo che ora lavorava per il servizio segreto SISDE di Roma, a il giudice antimafia Domenico Signorino, amico e collega di Borsellino. Una telefonata inaspettata interruppe l’interrogatorio di Borsellino. Dopo aver risposto alla chiamata, il procuratore disse a Mutolo che era stato convocato dal neonominato ministro dell’Interno Nicola Mancino, che si era insediato in carica quel giorno: sarebbe tornato entro mezz’ora. Borsellino fu di ritorno dopo un’ora, ed era infuriato e preoccupato. Mutolo gli domandò cos’era successo.Borsellino gli disse che, invece il ministro, aveva visto Vincenzo Parisi, capo della polizia, e il generale Contrada, proprio quello che il collaboratore aveva appena indicato come spalla della mafia. Borsellino era infuriato perché entrambi erano venuti a conoscenza del suo incontro con Mutolo. <<L’interrogatorio è segreto, come diavolo ha fatto Contrada a scoprirlo?>>, gridò Borsellino, ignorando Mutolo. Il procuratore era così agitato che accese due sigarette contemporaneamente e le tenne entrambe nella mano. <<Dottore, ha due sigarette!>>, gli disse Mutolo. Borsellino rise, ma era ancora nervoso. Continuò a insistere che dovesse fargli mettere per iscritto la sua dichiarazione, ma Mutolo rifiutò: non voleva perché era sicuro che sarebbe stato ucciso e preferiva mettere nero su bianco ciò che riguardava le gerarchie nella mafia. Non si sa se Mutolo disse a Borsellino di avere sentito nel 1980, dodici anni prima, che la mafia voleva eliminare il procuratore, perché aveva firmato un mandato d’arresto per il boss Francesco Madonia, accusato dell’omicidio, avvenuto quell’anno, del capitano dei carabinieri Emanuele Basile. Gli assassini spararono a Basile mentre, con la figlioletta in braccio, si dirigeva in caserma con la moglie. Entrambe rimasero illese. Nel 2007 la Cassazione condannò Contrada a dieci anni di prigione per i legami con la mafia; l’anno successivo gli concessero i domiciliari per motivi di salute. Signorino, l’altra spalla secondo Mutolo, si suicidò nel dicembre del 1992. – JOHN FOLLAIN i 57 giorni che hanno sconvolto l’Italia


Gaspare Mutolo:  “Come uccide Cosa Nostra”  Gli strangolamenti, il rapporto con Totò Riina e,  un  mese prima di Via D’Amelio,  l’addio a Cosa nostra. 


Quello che segue é lo sconvolgente racconto di Gaspare MUTOLO tratto da “La mafia non lascia tempo”. Il ritratto del pentito Mutolo di Anna Vinci per Rizzoli. Uomo d’onore, braccio destro di Totò Riina, killer e infine collaboratore di giustizia.

Una volta, in compagnia di altri ragazzi, fui mandato a Cinisi per ammazzare un certo Gallina.Dei mafiosi gli avevano ucciso un fratello e si diceva che lui volesse vendicarsi. Era mattina e viaggiavamo su due macchine. Ci appostammo in campagna perché sapevamo che portava le mucche al pascolo, a pochi metri dalla stalla. Era uno pericoloso e quel posto isolato era l’ideale per farlo fuori. La prima “scopettata” non gliela diedi io, ma un altro molto più rapido di me: in un baleno uscì dalla macchina, aprì il fuoco e ci lasciò finire il lavoro con le nostre pistole. Ricordo un altro omicidio a Borgonovo, nella zona di Totuccio Inzerillo. Ho dimenticato chi fosse il bersaglio. Eravamo stati informati al volo: “Venite, è qui”. Partimmo subito, arrivammo nel giro di pochi minuti e restammo seduti in macchina.  Quando lo vidi arrivare, decisi che quella volta toccava a me fare fuoco per primo. Scesi dall’auto, lasciando gli altri a fissarmi dai finestrini. Mi avvicinai piano all’obiettivo e cominciai a pedinarlo con molta circospezione: non potevo farmi vedere, né dovevo lasciargli capire che ero solo. Camminavo sotto i portici, seguendolo a giusta distanza. Ero abile, eravamo addestrati. Alla fine scelgo di superarlo, giusto di qualche passo, tenendo la pistola dietro la schiena. Era una calibro 38 a tamburo, la mia preferita. In situazioni simili un’automatica può incepparsi e allora da cacciatore diventi preda.  Un’arma a tamburo invece non salta un colpo. Mi accorsi che si era fermato, stava parlando con un amico, appoggiato al muro accanto a una bottega. Gli andai incontro e mi parai davanti. Tirai fuori la pistola e allungai il braccio tenendo sotto controllo ogni suo movimento. Il primo colpo arrivò dritto al petto: da vicino è come essere travolti da trecento chili di roba in caduta libera. Non cadde giù perché il muro alle sue spalle lo sorreggeva. In un attimo di lucidità si catapultò dentro la bottega. Lo seguii. Lo raggiunsi. Lo finii. Mentre si accasciava, mi allontanai indisturbato. Il più delle volte le persone non si rendono neanche conto di quello che sta accadendo. La gente non è mica come noi, abituata a convivere con le armi, gli spari, la morte violenta, il sangue. Altri hanno paura. Oppure si stupiscono. Oppure capiscono, ma non vogliono impicci. Quel giorno avevo una bella giacca verde di velluto che avevo preso nel negozio di un socio occulto di Giacomo Giuseppe Gambino. Mentre fuggivo pensai che avrei dovuto buttarla: dei vestiti così sgargianti ti rendono più riconoscibile . Avevo appena ucciso un uomo e il mio primo pensiero era per quella giacca. Niente rimorsi o sensi di colpa, l’unica preoccupazione era sparire tra la folla. Non ho mai avuto paura, neanche la prima volta, perché in quei momenti non si ha paura. Certo, un bravo killer, uno che regge, può essere emozionato, spaesato, ma non si spaventa. Eravamo sempre in gruppo, ben organizzati e pronti a intervenire al minimo intoppo. Per scongiurare dei conflitti a fuoco in mezzo ai passanti, oltre alle pistole portavamo dei fucili e chi restava in macchina a fare da palo li teneva bene in vista. Il più delle volte non era necessario usarli, era sufficiente che i nostri nemici li notassero per capire che non stavamo scherzando e che gli conveniva scappare e lasciarci fare il nostro lavoro. Sono trucchetti psicologici, ma funzionano. Spesso incrociavamo una volante della polizia, ma il più delle volte anche agli agenti bastava vedere i fucili per cambiare strada. Certo, ammazzare strangolando è diverso. In molti, dopo averlo fatto, correvano a vomitare. 

L’omicidio per strangolamento è più lungo, bisogna avere mani forti e stringere la corda senza fermarsi. Solo quando il poveraccio sanguina dalle orecchie e se la fa addosso, si può realmente decretare la morte. A quanto ne so, Nitto Santapaola, il grande boss di Catania, è stato l’unico ad aver strangolato qualcuno a mani nude. Di solito non si fa così e non si è mai soli. Due stringono le mani della vittima da dietro e uno gli mette la corda al collo. Strangolamento classico. A volte gli sguardi si incrociano, ma non ci sono momenti rivelatori e le emozioni di chi muore strangolato sono sempre le stesse: paura, terrore, a volte sgomento, stupore. Uno che sta per morire può mai essere allegro? Una sola persona è sopravvissuta alle mie mani. Era un corleonese, un omicidio commissionato da Totò Riina. Lavorava in un magazzino seminterrato e io, Riccobono, Gambino e Carmelo Pedone gli facemmo visita fingendo di voler comprare dei quadri. Appena entrati nel locale, Pedone gli dette un pugno sul naso e quel lo crollò a terra. In due gli bloccarono le mani dietro la schiena, mentre io cominciai a stringergli la corda intorno al collo. Alzai per un attimo gli occhi e mi accorsi che le finestre del magazzino davano su un cortiletto interno. Qualcuno mi stava guardando e, come se non bastasse, intravedevo anche gli uffici di alcune guardie giurate. L’idea di essere beccato prese il sopravvento e non attesi i segni rivelatori: niente sangue dalle orecchie, niente pipì. Quando sentii che cominciava a cedere, gli lasciai la corda stretta intorno al collo e scappammo. Il tizio invece era ancora vivo e se la cavò. Avevamo fatto un pessimo lavoro e per un po’ gli amici non fecero altro che sfotterci. “Quattro contro uno… e non siete riusciti ad ammazzarlo.”

MUTOLO era inserito dal 1973 nella “famiglia” di COSA NOSTRA di Partanna Mondello, all’epoca retta da RICCOBONO Rosario, che dirigeva anche il mandamento, mentre dopo la morte di quest’ultimo, avvenuta nel 1982 nel corso della c.d. seconda guerra di mafia, il mandamento era stato poi retto dalla “famiglia” di San Lorenzo, di cui era rappresentante GAMBINO Giuseppe, assai vicino al RIINA. Nell’ambito di COSA NOSTRA il MUTOLO era stato persona di fiducia del RICCOBONO, che accompagnava nei suoi incontri con altri personaggi di COSA NOSTRA anche di altre province e si era occupato prevalentemente del traffico internazionale della droga, nel quale la “famiglia” del RICCOBONO era ben inserita, al pari di quelle del BONTATE e dello INZERILLO, suscitando così le invidie della fazione dei corleonesi, che aspiravano a sottrarre tali lauti traffici alle predette “famiglie”. Il ruolo importante assunto dal MUTOLO nel traffico della droga e la sua vicinanza al RICCOBONO avevano consentito allo stesso di stringere importanti legami in questo ambiente e di venire a conoscenza delle strategie perseguite da COSA NOSTRA, nonostante i lunghi periodi di carcerazione, con brevi interruzioni, sofferti dal 1976 al febbraio del 1982, dal giugno del 1982 sino al 1988 e poi dall’agosto del 1991 sino alla sua collaborazione con l’A.G.. Tale volontà di collaborazione il MUTOLO aveva manifestato a Giovanni FALCONE nel corso del colloquio avuto con lo stesso nel dicembre del 1991, che però non aveva avuto uno sbocco immediato in quanto il MUTOLO avrebbe voluto rendere le proprie dichiarazioni direttamente a quel magistrato, di cui aveva potuto valutare la profonda conoscenza del fenomeno mafioso e l’assoluta impermeabilità a qualsiasi pressione esterna, ma ciò non era stato possibile per il ruolo che ricopriva quest’ultimo in quel momento nell’ambito del Ministero di Grazia e Giustizia, ruolo che non prevedeva alcuna funzione investigativa e giudiziaria. Solo dopo la strage di Capaci il MUTOLO aveva incontrato Paolo BORSELLINO, al quale rendeva tre interrogatori tra l’uno ed il diciassette luglio 1992, quest’ultimo due giorni prima della strage per cui è processo. Appare innegabile che la scelta collaborativa del MUTOLO sia stata determinata anche dall’affievolirsi di quel sentimento di solidarietà all’interno del sodalizio mafioso e di condivisione delle sue scelte operative che, come si è detto, può rendere più sopportabile anche il regime detentivo. E, invero, se il MUTOLO aveva potuto ritenere in qualche modo giustificabile nella logica mafiosa l’assassinio del RICCOBONO, non affidabile per il RIINA, doveva già apparirgli meno comprensibile il sistematico sterminio degli altri componenti di quella “famiglia” attuato dai corleonesi sino al 1987, ed ancor più odioso doveva essere ai suoi occhi l’intento di ucciderlo perseguito dai corleonesi e rivelatogli durante il suo soggiorno toscano da CONDORELLI Domenico, “uomo d’onore” della “famiglia” di Catania, che non volle eseguire tale incarico e che venne successivamente a sua volta eliminato. Tale intenzione dei corleonesi il MUTOLO aveva contestato al GAMBINO durante la comune detenzione presso il carcere di Spoleto dal 31.10.1991 al 22.6.1992, ricevendo una smentita che non gli apparve convincente. Nel presente processo sono state anche acquisite ex art. 238 c.p.p. le dichiarazioni rese dal MUTOLO nelle udienze del ventuno e del ventidue febbraio 1996 del giudizio di primo grado per la strage di Capaci, per quanto attiene ai numerosi imputati in comune. Il contributo fornito dallo stesso riguarda essenzialmente le indicazioni fornite sui contrasti tra le due contrapposte fazioni che si contendevano l’egemonia all’interno di COSA NOSTRA durante la c.d. guerra di mafia; sulle aspettative ed i timori che si nutrivano tra i detenuti di quella consorteria mafiosa alla vigilia della sentenza della S.C. di Cassazione del 30 gennaio 1992; sulle reazioni seguite alla pronuncia del Supremo Collegio e poi alle stragi di Capaci e di via D’Amelio. Tali indicazioni appaiono adeguate al livello dei rapporti che il MUTOLO aveva instaurato con gli esponenti di COSA NOSTRA di più antica militanza, avuto anche riguardo al fatto che le informazioni ricevute dal collaborante non presupponevano affatto la conoscenza delle strategie perseguite da quel sodalizio – conoscenza questa che era certamente preclusa al MUTOLO – bensì solo lo scambio di battute di carattere generale tra detenuti che militavano da decenni nella medesima organizzazione. Al riguardo deve, altresì, rilevarsi che sulla base della documentazione acquisita in atti è stata accertata la comune detenzione del MUTOLO e del GAMBINO presso la Casa di Reclusione di Spoleto dal 31.10.1991 al 22.6.1992, salvo un periodo di interruzione dal 17.12.1991 al 7.2.1992, nonché la comune detenzione con MONTALTO Salvatore presso la stessa Casa di Reclusione di Spoleto dal 9.5.92 al 22.6.1992. Parimenti risulta comprovata la possibilità che tali imputati avevano di incontro sia nell’ambito della stessa sezione sia nel corso dei colloqui e delle visite in infermeria, nel corso dei quali erano possibili anche contatti con detenuti ristretti in altre sezioni come AGATE Mariano, SPATARO Tommaso, VERNENGO Antonio e SAVOCA Giuseppe.MISTERI D’ITALIA

Corte assise Caltanissetta 26 settembre 1997  – MUTOLO Gaspare era inserito dal 1973 nella “famiglia” di COSA NOSTRA di Partanna Mondello, all’epoca retta da RICCOBONO Rosario, che reggeva anche il mandamento, al quale erano aggregate anche le “famiglie” di San Lorenzo e di Cardillo, mentre dopo la morte del RICCOBONO, avvenuta nel 1982 nel corso della c.d. seconda guerra di mafia, il mandamento venne poi retto dalla “famiglia” di San Lorenzo, di cui era rappresentante GAMBINO Giuseppe, assai vicino al RIINA. Nell’ambito di COSA NOSTRA il MUTOLO si era occupato prevalentemente del traffico internazionale della droga, nel quale la “famiglia” del RICCOBONO era ben inserita, al pari di quelle del BONTATE e dello INZERILLO, che erano riuscite a fare della Sicilia uno snodo cruciale del commercio delle sostanze stupefacenti provenienti dai Paesi produttori dell’Oriente e che venivano raffinate nei laboratori siciliani controllati da COSA NOSTRA, per essere poi destinate non solo al mercato nazionale ma persino a quello statunitense, come è emerso nelle indagini nordamericane sulla c.d. Pizza Connection ed in quelle istruite da Giovanni FALCONE nell’ambito del maxiprocesso di Palermo e come già si intravedeva del resto dalle indagini condotte dal Commissario della P.S. Boris GIULIANO, che avevano portato al sequestro all’aeroporto di Palermo di due valige contenenti 500.000 dollari statunitensi (destinati al pagamento delle partite di droga cedute da COSA NOSTRA siciliana negli U.S.A.), sequestro avvenuto poco prima dell’assassinio del valoroso investigatore, consumato a Palermo il 21 luglio 1979. Il ruolo importante assunto dal MUTOLO nel traffico della droga, e cioè del principale canale di arricchimento dell’associazione mafiosa, consentì allo stesso di stringere importanti legami in questo ambiente e di venire a conoscenza delle strategie perseguite da COSA NOSTRA, nonostante i lunghi periodi di carcerazione sofferti dal 1976 al 1981, dal 1982 al 1988 e poi dall’agosto del 1991 sino alla sua collaborazione con l’A.G.. Tale volontà di collaborazione il MUTOLO ebbe a manifestare a Giovanni FALCONE nel corso del colloquio avuto con lo stesso nel dicembre del 1991, che però non aveva avuto uno sbocco immediato in quanto il MUTOLO avrebbe voluto rendere le proprie dichiarazioni direttamente a quel Magistrato, di cui aveva potuto valutare la profonda conoscenza del fenomeno mafioso e l’assoluta impermeabilità a qualsiasi pressione esterna, ma ciò non era stato possibile per il ruolo che ricopriva quest’ultimo in quel momento nell’ambito del Ministero di Grazia e Giustizia, ruolo che non prevedeva alcuna funzione investigativa e giudiziaria. Solo dopo la strage di Capaci il MUTOLO ebbe ad incontrare Paolo BORSELLINO, al quale rendeva tre interrogatori tra l’uno ed il diciassette luglio 1992, due giorni prima che anche quest’ultimo Magistrato restasse vittima della strage di via D’Amelio a Palermo. Appare innegabile che la scelta collaborativa del MUTOLO sia stata determinata anche dall’affievolirsi di quel sentimento di solidarietà all’interno del sodalizio mafioso e di condivisione delle sue scelte operative che, come si è detto, può rendere più sopportabile anche il regime detentivo. E, invero, se il MUTOLO aveva potuto ritenere in qualche modo giustificabile nella logica mafiosa l’assassinio del RICCOBONO, non affidabile per il RIINA, doveva già apparirgli meno comprensibile il sistematico sterminio degli altri componenti di quella “famiglia” attuato dai corleonesi sino al 1987, ed ancor più odioso doveva essere ai suoi occhi l’intento di ucciderlo perseguito dai corleonesi e rivelatogli durante il suo soggiorno toscano da CONDORELLI Domenico, “uomo d’onore” della “famiglia” di Catania, che non volle eseguire tale incarico e che venne successivamente a sua volta eliminato. Tale intenzione dei corleonesi il MUTOLO ebbe a contestare al GAMBINO durante la comune detenzione presso il carcere di Spoleto dal 31.10.1991 al 22.6.1992, ricevendo una smentita da quest’ultimo, che addossò la responsabilità al nuovo capo della sua “famiglia” mafiosa. Il contributo fornito dal MUTOLO nell’ambito del presente processo riguarda essenzialmente le indicazioni fornite, oltre che sul funzionamento generale degli organi di vertice di COSA NOSTRA, sul “clima” che si respirava tra i detenuti di questa organizzazione alla vigilia della sentenza della S.C. di Cassazione nel primo maxiprocesso di Palermo e dopo tale sentenza, nonché dopo le stragi di Capaci e di via D’Amelio, contributo questo che appare adeguato al livello dei rapporti instaurati dal MUTOLO all’interno del sodalizio mafioso, atteso che – almeno per le parti più attuali – non presuppone la conoscenza e l’elaborazione delle strategie del medesimo sodalizio, momenti questi dai quali il collaborante era certamente tenuto al di fuori, bensì solo lo scambio di battute di carattere generale tra detenuti della stessa consorteria che si conoscevano da oltre venti anni. In proposito deve rilevarsi che è stata documentalmente accertata, sulla base delle note della Direzione di quell’istituto del 25.1.1996 nn. 586 e 589 e dei relativi allegati la comune detenzione del MUTOLO e del GAMBINO presso la Casa di Reclusione di Spoleto dal 31.10.1991 al 22.6.1992, salvo un periodo di interruzione dal 17.12.1991 al 7.2.1992, nonché la possibilità degli stessi di svolgere vita in comune non solo tra loro, che erano ristretti nella stessa sezione, ma anche con altri detenuti, quali BAGARELLA Leoluca, AGATE Mariano, SPATARO Tommaso, VERNENGO Antonino, SAVOCA Giuseppe ed altri.

La mafia di oggi secondo Mutolo: “Cosa nostra decapitata, Messina Denaro non è un vero capo” “La mafia è stata completamente decapitata, i capi storici sono stati presi tutti, molti sono morti. E Matteo Messina Denaro è un capomafia solo nel trapanese, e basta. I palermitani non gli permetterebbero mai di guidare Cosa nostra”. L’analisi sugli sviluppi della mafia negli ultimi anni arriva da un ex uomo d’onore ed ex braccio destro di Totò Riina, Gaspare Mutolo. Uno dei più spietati killer di Cosa Nostra prima di collaborare con la giustizia e confrontarsi in tribunale con quello che era il suo capo indiscusso. In una intervista all’Adnkronos l’ex boss mafioso ripercorre gli ultimi passi avanti fatti dallo Stato nella lotta a Cosa nostra. Nel 2013, nel libro ‘La mafia non lascia tempo’, scritto con Anna Vinci, Gaspare Mutolo, aveva detto: “Ho paura che ci sarà una stagione più violenta di quella del ’92-93”. Oggi ha cambiato idea. “Non lo penso più – racconta – Cosa nostra ha eseguito alla lettera quello che ha detto Bernardo Provenzano, e ha capito che la violenza non paga, ed è ciò che è accaduto. Ricordiamoci che con gli arresti degli ultimi anni, la mafia è stata completamente decapitata”. Per Gaspare Mutolo il boss latitante Matteo Messina Denaro, ricercato da oltre 30 anni, “è sì un capo, ma solo nel trapanese. Palermo non permetterebbe mai a Messina Denaro di fare il capo assoluto”. Dice poi che la mafia degli anni Ottanta, prima dell’avvento di Totò Riina e dei corleonesi, “era diversa, la mafia palermitana non si assoggetterà mai alla mafia di Agrigento o di Catania, o Trapani. Possono esserci personaggi importanti, certo, come Settimo Mineo”, arrestato nei mesi scorsi a Palermo e considerato l’erede di Riina. Ma c’è anche Nino Rotolo, altro boss arrestato più di 10 anni fa. “Rotolo ha la testa più dura di Riina“, dice. E sulla ‘vecchia’ mafia dice: “Io avevo più fiducia nei Lo Piccolo che nei Greco di Ciaculli. Greco era una persona ricca, internamente era un vigliacco. Era il più traditore di tutti”. Gaspare Mutolo, il pentito più importante insieme a Tommaso Buscetta, è stato l’autista di Riina, il suo braccio destro e il suo killer fino al 1991. Quando però la mafia inizia a uccidere anche le donne, madri, sorelle, mogli, Mutolo si sentì tradito da Riina e decise di parlare. L’incontro con Falcone e Borsellino fu fondamentale per il suo percorso di redenzione. “Avevo una grande ammirazione per Falcone, lui bersagliava i mafiosi e io lo ammiravo – dice ancora Mutolo – quando ho deciso di collaborare è perché mi fece molto male la morte delle donne, ma dopo il mio pentimento, ci fu una valanga di collaborazioni con la giustizia”. Sul giudice Borsellino aggiunge:  ‘E’ stato ucciso perchè era impedimento a trattativa’. Poi, Mutolo, tiene a precisare che “non c’è mai stata la seconda guerra di mafia, erano omicidi e basta dei corleonesi… Loro uccidevano donne e bambini. La mafia era un’altra cosa”. 20.4.2019 GRANDANGOLO


Dopo trent’anni, chiede di uscire dal programma di sua riabilitazione. A 82 anni, vorrebbe poter parlare liberamente della sua esperienza, della sua scelta di legalità, ai giovani, all’antimafia e alle donne che ancora la proteggono, a discapito dei propri figli. Per la memoria storica del nostro martoriato paese, Mutolo rappresenta un “pezzo unico” di inestimabile valore. Gaspare è stato sempre un soldato, mai un capo ma sempre, il soldato dei capi. Dal fianco di Riina, seppe passare a quello di Falcone e Borsellino. Dai vertici della mafia a quelli della giustizia, sempre col giusto passo, al momento opportuno, come solo un grande artista sa fare. Conosceva bene le collusioni tra Stato e mafia e dopo aver valutato a lungo l’opportunità di “saltare il fosso”, si dichiarò disponibile a farlo solo se a porgergli la mano, sull’altra sponda, vi fosse stato Giovanni Falcone. Solo di lui si fidava e a lui rese la prima, deflagrante testimonianza…l’inizio di una nuova era.

“Io non farò come Buscetta, che non ritenne maturi i tempi per fare i nomi, anche degli uomini di Stato. Comincerò da quelli nel suo ufficio, per arrivare alla Cassazione “. Così esordì al loro primo incontro e già tremavano i palazzi.

Falcone, a causa del suo nuovo incarico, non poteva raccogliere le sue dichiarazioni e per convincerlo a fidarsi di Borsellino, al quale voleva passarlo, gli spiego’ che loro due erano “la stessa cosa”, frase usata in mafia per definire uomini uniti dallo stesso ideale e leali tra di loro.
Poi la strage di Capaci… Gaspare cominciò a rilasciare le sue scottanti dichiarazioni a Paolo Borsellino. Proprio per onorare quegli uomini, il loro coraggio fino all’estremo sacrificio, che Gaspare decise di andare avanti nella collaborazione. Mentre Riina, aveva trascinato nel fango le sue illusioni e gli ideali comuni, quei due magistrati, seppero incarnare alla perfezione il concetto di Uomo d’Onore e Grande maestro insieme, titoli usurpati, dei quali allora comprese, il profondo significato.
Erano anni di guerra, la DIA nacque con lui, intorno a lui, che ci viveva dentro. Mutolo volle fare di testa sua, come sempre del resto e non accettò il trasferimento all’estero, riservato ai predecessori storici come Buscetta o Contorno. Voleva combattere al fronte, da uomo di valore, quale si riteneva… Lui non aveva tradito la mafia, al contrario era la mafia ad aver tradito se stessa. Per quello aveva cambiato esercito ma non avrebbe mai cambiato posto di combattimento. Voleva stare lì ad ascoltare le intercettazioni , a dare indicazioni a deporre dai magistrati, ad aiutare le indagini e a fare proselitismo. Arrivo’ ad accusarsi di crimini mai commessi, tratteggiando una pessima immagine di sé, pur di far comprendere agli altri, che lo Stato faceva sul serio quella volta, che se proteggeva la famiglia di uno come lui, avrebbe fatto lo stesso con chiunque altro, avesse deciso di collaborare, spezzando la catena di omertà della mafia. Dopo i primi pentiti storici, Buscetta, Contorno e Mannoia, che avevano svelato i misteri di cosa nostra, si era creato di nuovo il vuoto, vuoto che Gaspare seppe colmare meglio di chiunque altro, vista la sua posizione di fiducia, col capo dei capi e le sue mille conoscenze, dalla testa della piovra, fino all’ultimo tentacolo. Dopo di lui il fenomeno esplose e i giudici non riuscivano più a starci dietro. La Palermo del dopoguerra, lo vide bambino affidato a sé stesso, la mamma in manicomio, espulso da scuola e vita normale, nella terra degli uomini d’onore. Ai mafiosi, “Asparino”, riparava le auto, puliva le candele e intanto sognava di diventare un giorno come loro…distinto, rispettato, ben vestito e riverito.
Conobbe Riina in carcere e ne restò affascinato. Ci racconta di un uomo dalle grandi doti e forte carisma che negli anni, l’insaziabile brama di potere, rese un pazzo sanguinario, senza freni. Ci spiega come il male, alberghi nella sete di denaro e di potere. Ci racconta di aver scoperto l’amore vero e la gioia delle cose belle della vita, proprio quando non era più potente e possedeva solo lo stretto indispensabile, quello che non dovrebbe mai mancare a nessuno. Via via che “lavava” la sua anima, sul greto del fiume della vita, scopriva le macchie indelebili, lasciate dal male compiuto, comprendendo che il dolore del rimorso, se pur devastante, da solo, non basta. Ci vogliono azioni, uguali e contrarie. Nell’acqua dei suoi pennelli ha diluito le lacrime, sulle tele, ha dato sfogo alla sofferenza, scoprendo colori sempre più brillanti e puliti, come il suo sguardo, che si abbassa e galleggia in quel liquido dell’anima, ogni qualvolta nomina la moglie, i figli o altre vittime innocenti di quel passato ingombrante. Sul suo corpo i segni del tempo ma non nel suo spirito, non nel suo entusiasmo, che me lo mostra bambino, affacciato con gioia alla vita, un giovane puledro che stringe il morso per strappare quelle redini che gli impediscono il galoppo.

Perché hai chiesto la fuoriuscita dal programma? Sono grato allo Stato che mi ha permesso di sperimentare una vita onesta, scoprendone il vero significato ma ora, nel tempo che mi resta, voglio fare di più.
È umiliante dover chiedere il permesso per andare sulla tomba di mia moglie e mi va stretto il fatto di non poter apparire, di non poter divulgare con maggior forza, la mia esperienza, il lungo cammino interiore che mi ha reso consapevole di tante cose, doni preziosi che potrei offrire ad altri. La missione non è finita.
A che punto si trova, dopo tutti questi anni, la lotta alle mafie? Sull’orlo di un precipizio. Sento parlare di togliere l’ergastolo ostativo, alleggerire il 41bis. Sarebbe la fine, uno sputo in faccia a Falcone e Borsellino, insieme a tutti gli eroi che hanno difeso gli ideali della giustizia a costo della vita. Il perdono va dato, certo ma a chi si pente, non a chi resta fermo sulle proprie posizioni. Chi si rifiuta di collaborare, lo fa per continuare a delinquere una volta tornato a casa, più pericoloso e potente di prima. Farsi “u carcerieddu” restando zitti è una medaglia al valore mafioso. La dissociazione, solo una presa per i fondelli. Ormai lo sanno che la mafia esiste e come funziona, non deve certo spiegarcelo l’Europa, come si fa. In questa materia, abbiamo i “docenti” migliori al mondo.
Quindi, che si dovrebbe fare? Rinforzare ed aggiornare le leggi volute da Falcone e Borsellino, non certo affossarle e soprattutto, ricordarsi di farne anche per punire i collusi di Stato, i politici che comprano voti alla mafia e tutti quelli che si lasciano corrompere. La mafia si propaga grazie alla corruzione. Dopo la reazione del popolo alle stragi dei corleonesi, ha scelto di tornare nelle fogne, quelle si, che arrivano ovunque.
Silenziose e invisibili, un miasma mortale, occultato da tombini di ottima fattura.
Quanto manca al tuo sogno di liberazione?
Non so, mi sento un po’ nervoso. Non pensavo ci volesse tanto tempo. È da Luglio che ho presentato la domanda. Mi parlano di burocrazia…che ne so io. Nella mafia la burocrazia non esiste e neppure esisteva quando ho cominciato a collaborare con lo Stato. I protocolli non si rispettavano, perché eravamo in stato di emergenza. Credo che la stesura del mio contratto di collaborazione, abbia richiesto una seduta straordinaria ma io non l’ho neppure mai letto. Se ti fidi di qualcuno, ti butti quando dice che ti tiene. A me sono mancate le carezze di una madre, la guida di un padre ma da buon soldato, ho imparato a riconoscere il vero valore. Falcone e Borsellino, resteranno i fari più luminosi della mia vita. Oggi ci sono altri valorosi come Di Matteo e Gratteri ma ce ne vorrebbero mille. Vorrei mangiare ancora un gelato a Mondello ma non voglio disobbedire o farmi uccidere sotto protezione. Io sono una vittoria dello Stato, non una sconfitta.

Gaspare Mutolo da silente mafioso di un tempo, oggi è un fiume in piena di incontenibili parole e tumultuosi racconti che nessun argine potrà fermare.
Quelle mani nodose e forti di un tempo, oggi saltellano leggere fra le mie durante i saluti , per aggrapparsi infine, un attimo sulla mia spalla, come un uccellino che cerca l’equilibrio, quell’istante prima di spiccare il volo.
Lasciatelo andare e stiamo a guardare. Sarebbe comunque il primo volatile della storia, sparato a Mondello, libero e felice, con un gelato fra le zampe.

Puoi chiamarlo assassino, puoi chiamarlo soldato, puoi chiamarlo redento o magari impazzito…ma di certo, mai scontato. Buon volo Gaspare!

Francesca Capretta / VIVICENTRO.IT 9.2.2022


Riina, il pentito Mutolo: “Io non immagino una politica senza mafia. Berlusconi?

Non dimentichiamo che Dell’Utri è in galera”.“Io non immagino una politica senza mafia“. Parola di Gaspare Mutolo, ex mafioso fedelissimo di Salvatore Riina e poi tra i pentiti più importanti della storia di Cosa nostra. “Riina era un uomo carismatico, per me è stato un papà. Siamo stati in galera insieme. E lì è nata una profonda amicizia. Lui era un personaggio carismatico. Non era prepotente, lui conquistava le persone con le belle parole. Non abbiamo mai litigato, solo che a un certo punto ognuno ha preso la sua strada”, ha raccontato il collaboratore di giustizia che nel giorno della morte del capo dei capi ha partecipato ad un incontro alla Incappucciato, ha riavvolto indietro il nastro della storia, sostenendo che dietro l’arresto di Luciano Liggio ci fosse proprio Riina. “Fino al 1973/74 Riina è stato agli ordini di Luciano Liggio. Poi Liggio lo voleva estromettere e allora lui l’ha fatto arrestare a Milano nel 1974. E lì Riina ha preso il potere. Perché Riina era diverso da Bernardo Provenzano che era un bonaccione“, sono le parole usate da Mutolo. Che poi dà una sua personale visione della seconda guerra di mafia scatenata dallo stesso Riina. “Riina – ha detto il pentito – arrivò a costruire questo sistema che induceva le persone a lui affezionate a tradire i loro capi. Lui ha fatto uccidere i suoi migliori amici perché a un certo punto è diventato pazzo e aveva paura di essere tradito a sua volta”.  Quindi spazio anche ai rapporti tra mafia e politica. “In Cosa nostra – ha detto Mutolo – c’erano anche i cugini Salvo che con Salvo Lima erano il potere. Erano amici di Andreotti. La mafia era ben vista finché non si è messa contro il governo. Nei Paesi comandavano tre persone: il prete, il mafioso e il maresciallo. Il maresciallo non perseguitava il mafioso perché non era un criminale come gli altri”. E quando parla di rapporti tra mafia e politica Mutolo poi tira in ballo anche Silvio Berlusconi. “Anche Berlusconi: l’amico intimo di Berlusconi che è Dell’Utri è in galera: vogliamo fare scomparire questo? Noi a Palermo vedevamo che Mangano faceva lo stalliere ad Arcore” IL FATTO QUOTIDIANO 18.11.2017


Gaspare Mutolo: «L’omicidio di Mario Francese deciso dalla Cupola»

Il collaboratore di giustizia Gaspare Mutolo, in un interrogatorio del 15 dicembre 1993, confermò la matrice mafiosa dell’omicidio di Mario Francese e il sicuro coinvolgimento della “Commissione” di “Cosa Nostra”: «Lo definivamo “cornuto”, oltrepassò ogni limite quando osò attaccare pubblicamente padre Agostino Coppola per il suo coinvolgimento nel sequestro di Montelera»

La matrice mafiosa dell’omicidio di Mario Francese, ed il sicuro coinvolgimento della “Commissione” di “Cosa Nostra” nella deliberazione criminosa, sono stati affermati dal collaboratore di giustizia Gaspare Mutolo, il quale, nell’interrogatorio del 15 dicembre 1993, ha dichiarato quanto segue:

Come ho già riferito in precedenti interrogatori, secondo una regola fondamentale di Cosa Nostra tutti gli omicidi che per l’importanza delle vittime possono avere conseguenze negative per l’intera organizzazione in ragione delle prevedibili reazioni delle Forze dell’ordine devono essere decisi dalla Commissione, e perciò anche gli omicidi di giornalisti.

Con specifico riferimento all’omicidio del giornalista FRANCESE Mario, avvenuto in Palermo nel mese di gennaio 1979, posso dire che a quell’epoca mi trovavo ristretto presso il carcere dell’Ucciardone Sez. IV (infermeria), ove erano ristretti tutti gli altri uomini d’onore. Ricordo bene che già da molto tempo prima, e cioè da almeno due anni, tutti noi uomini d’onore commentavamo sfavorevolmente l’attività professionale svolta secondo noi con troppo zelo dal predetto giornalista, cronista del quotidiano “Giornale di Sicilia”. Ricordo in particolare che il FRANCESE non perdeva occasione per attaccare in qualunque modo la mafia ed i soggetti ad essa appartenenti. Se non erro si interessò molto delle vicende relative ai lavori di appalto e di subappalto realizzati nella Valle del Belice per la costruzione della diga Garcia ed a tal proposito pubblicò spesso articoli riguardanti anche numerosi omicidi che erano avvenuti in quel periodo nella zona del Trapanese e del Palermitano interessata proprio da tali lavori. Più volte ho commentato tali omicidi con AGRIGENTO Giuseppe, uomo d’onore della famiglia di San Cipirrello che è stato ristretto con me sia pure per breve periodo. L’AGRIGENTO c’era stato raccomandato da RIINA Salvatore perché venisse destinato all’infermeria.

Nei commenti che facevamo frequentemente il FRANCESE veniva definito “un cornuto”, ed uso proprio tale espressione perché a mio modo di vedere rende meglio il reale pensiero di chi tali parole pronunziava. In altri termini, è certo che il giornalista FRANCESE Mario non era per nulla benvoluto nell’ambiente mafioso e ricordo anzi che sembrò addirittura oltrepassare ogni limite consentito quando osò attaccare pubblicamente padre Agostino COPPOLA per il suo coinvolgimento nel sequestro di Montelera. Padre COPPOLA era notoriamente molto vicino ai corleonesi e a RIINA Salvatore in particolare, che chiamava addirittura fratello. Io stesso ho più volte visto Padre Agostino COPPOLA scrivere dei messaggi da far pervenire a RIINA Salvatore, nei quali lo stesso si rivolgeva a RIINA chiamandolo “caro fratello”. Diversamente si comportava con tutti gli altri,che chiamava semplicemente con il nome di battesimo. Ricordo tale particolare perché quasi sempre inviavo i miei saluti al RIINA scrivendo in calce alla stessa lettera scritta da Padre COPPOLA.

Quando si è avuta notizia in carcere dell’omicidio del FRANCESE quindi nessuno di noi si meravigliò, apparendo cosa assolutamente pacifica che detto omicidio fosse stato voluto e deciso dalla Commissione.

Ricordo anzi che ci fu qualche commento, sia pure generico, e che qualcuno pronunziò le parole “Così gli altri imparano”.

Già al tempo dell’omicidio del giornalista FRANCESE Mario la composizione della Commissione era tale per cui RIINA Salvatore ed i corleonesi avevano il maggior peso in termini di decisioni.

Ed invero mentre sino al 1978, quando cioè BADALAMENTI Gaetano non era stato ancora estromesso da Cosa Nostra, i corleonesi non avevano la maggioranza in seno a detto organismo di vertice, subito dopo, tenuto conto e di tale estromissione e del fatto che quasi contestualmente venne costituito il mandamento di Resuttana, il cui capo era MADONIA Francesco, RIINA Salvatore iniziò ad avere il sopravvento in Commissione.

MADONIA Francesco era infatti notoriamente uomo di fede corleonese ed il suo mandamento era stato creato a discapito di quello di RICCOBONO Rosario. Non a caso, del resto, proprio in quel periodo si sono registrati numerosi delitti cosiddetti eccellenti, peraltro avvenuti tutti nel territorio del MADONIA. Ricordo le uccisioni del giudice TERRANOVA Cesare, del giornalista FRANCESE Mario, di REINA Michele e di GIULIANO Boris. In epoca precedente invece l’unico omicidio di una certa importanza che è avvenuto è stato quello del Colonnello dei CC RUSSO Giuseppe, e non essendo ancora prevalsa in Commissione la nuova strategia introdotta essenzialmente dai corleonesi, l’omicidio stesso dovette essere commesso in territorio di Corleone, e non, ad esempio, a Palermo, ove pure sarebbe stato possibile proprio perché il Col. RUSSO viveva in questa città. Ricordo infatti che per quell’omicidio, secondo quanto ho sentito dire, non c’era stato il consenso di tutti i componenti della Commissione.

Ho ricordato prima che l’omicidio del giornalista FRANCESE Mario è avvenuto nel territorio del mandamento di Resuttana, e cioè in viale Campania. Ciò mi induce a dire che certamente l’omicidio stesso è stato commesso da MADONIA Francesco o da altro componente della sua famiglia. Quasi certamente a detto omicidio ha partecipato anche GAMBINO Giacomo Giuseppe, che tutti noi uomini d’onore sapevamo essere d’accordo con quella parte di Cosa Nostra che voleva cambiare volto all’organizzazione facendo ricorso ad una vera e propria strategia sanguinaria comprendente anche l’uccisione di uomini politici, di componenti delle forze dell’ordine e di altri personaggi delle istituzioni che con il loro lavoro cercavano di ostacolarne il nuovo corso.

Ho detto prima che FRANCESE Mario aveva pubblicato numerosi articoli riguardanti la realizzazione della diga Garcia. Al riguardo voglio precisare che ai relativi lavori di subappalto erano fortemente interessati tutti gli uomini d’onore, e soprattutto quelli operanti nella zona. Ricordo che io stesso venni invitato a quel tempo da altro uomo d’onore che era con me ristretto all’Ucciardone, tale LAMBERTI Salvatore, ad acquistare una pala meccanica che mi avrebbe consentito di realizzare facili e lauti guadagni, mettendola a disposizione per i lavori che si realizzavano nella Valle del Belice.

Ricordo anche che nel periodo in cui ero ristretto all’Ucciardone insieme a Padre COPPOLA venne tratta in arresto una persona di una certa età di cui non ricordo ovviamente il nome e che ci venne personalmente raccomandata da RIINA Salvatore. Il messaggio che abbiamo ricevuto era stato quello di fare in modo da farlo trasferire all’infermeria e di metterci a sua disposizione, soprattutto al fine di controllarlo per assicurarci che reggesse bene lo stato di detenzione. Ci fu detto infatti che tale soggetto, che probabilmente era un pubblico amministratore, si era interessato, non so a quale titolo ed in che misura, di alcuni appalti riguardanti la diga Garcia, ed il RIINA Salvatore era preoccupato che potesse riferire qualcosa. Ovvio quindi che proprio il RIINA era fortemente interessato a quei lavori per la realizzazione della diga Garcia sui quali aveva ampiamente scritto il giornalista FRANCESE Mario. Se non ricordo male quella persona anziana, che appariva distinta, lavorava presso il Consorzio di bonifica del Belice.

Null’altro posso riferire oggi in merito all’omicidio del giornalista FRANCESE Mario, anche se non escludo che sforzando un po’ i miei ricordi possano venirmi in mente fatti e circostanze di rilievo […].

LA “CANTATA” DEL PENTITO. Dall’esame delle predette deposizioni del Mutolo emerge una serie di circostanze di fondamentale importanza ai fini della ricostruzione dei fatti per cui è processo. In particolare, le dichiarazioni del collaborante evidenziano che:

  • secondo una regola fondamentale (ed in quel periodo sicuramente operante) di “Cosa Nostra”, gli omicidi di magistrati, uomini politici, soggetti appartenenti alle forze dell’ordine, avvocati e giornalisti – potendo provocare conseguenze negative per l’organizzazione, tenuto conto della rilevanza delle vittime e delle prevedibili reazioni dello Stato – dovevano essere deliberati dalla “Commissione”;
  • le sole eccezioni a questa regola furono rappresentate dagli omicidi del colonnello Giuseppe Russo e del Procuratore della Repubblica di Palermo Gaetano Costa, maturati in contesti assolutamente peculiari;
  • già al momento dell’omicidio di Mario Francese, Salvatore Riina aveva preso il sopravvento all’interno della “Commissione”, in virtù della estromissione (decretata nel 1978) di Gaetano Badalamenti dall’organizzazione mafiosa, e della quasi contestuale costituzione del “mandamento” di Resuttana, a capo del quale vi era Francesco Madonia, notoriamente legato ai “corleonesi”; non a caso, proprio in quel periodo si verificarono numerosi omicidi “eccellenti” (segnatamente, quelli di Cesare Terranova, di Michele Reina e di Boris Giuliano), tutti commessi nel territorio del predetto “mandamento”;
  • all’epoca dell’omicidio di Mario Francese, facevano parte della “Commissione” Francesco Madonia (capo del “mandamento” di Resuttana), Rosario Riccobono (capo del “mandamento” di Partanna Mondello), Giuseppe Calò (capo del “mandamento” di Porta Nuova), Bernardo Brusca (per il “mandamento” di San Giuseppe Jato), Antonino Geraci (capo del “mandamento” di Partinico), Salvatore Riina (capo del “mandamento” di Corleone, il cui sostituto era Bernardo Provenzano), Michele Greco (capo del “mandamento” di Ciaculli), Stefano Bontate (capo del “mandamento” di Santa Maria di Gesù); a questi soggetti il Mutolo nell’interrogatorio del 3 settembre 1992 ha aggiunto Giuseppe Bono, Salvatore Inzerillo, Salvatore Scaglione, Calogero Pizzuto; nell’interrogatorio del 22 aprile 2000 il Mutolo ha menzionato anche il Motisi (capo del “mandamento” di Pagliarelli), non indicato in data 3 settembre 1992;
  • per gli esponenti mafiosi detenuti presso l’istituto penitenziario dell’Ucciardone, era assolutamente pacifico che l’omicidio di Mario Francese (considerato da taluno anche come un monito rivolto agli altri giornalisti) fosse stato voluto e deciso dalla “Commissione”;
  • già da almeno due anni prima dell’omicidio, tutti gli “uomini d’onore” effettuavano commenti fortemente negativi (talvolta, con l’uso di espressioni che riflettevano una violenta avversione) sull’attività professionale svolta da Mario Francese, da essi considerata come un costante attacco a “Cosa Nostra” ed ai suoi componenti;
  • Mario Francese, tra l’altro, aveva pubblicato frequentemente articoli sulle vicende relative ai lavori di appalto e di subappalto realizzati nella Valle del Belice per la costruzione della Diga Garcia, ed a numerosi omicidi realizzati nella zona interessata dai lavori;
  • tutti i lavori di subappalto relativi alla diga Garcia erano stati affidati a mafiosi, secondo quanto il collaborante apprese da Salvatore Lamberti, esponente della “famiglia” di Borgetto, il quale gli propose di prendere parte a questa lucrosa attività impiegando una pala meccanica;
  • ai lavori relativi alla costruzione della diga erano fortemente interessati anche Bernardo Provenzano e Salvatore Riina;
  • Salvatore Riina si era persino preoccupato di “raccomandare”, perché fosse trasferito in infermeria e venisse trattato con riguardo, un pubblico amministratore piuttosto anziano, in servizio presso il Consorzio di Bonifica del Belice, il quale si era interessato di alcuni appalti riguardanti la suddetta diga ed era stato tratto in arresto; l’intento del Riina era quello di assicurarsi che il medesimo individuo sopportasse bene lo stato di detenzione e non collaborasse con l’autorità giudiziaria;
  • la suddetta raccomandazione era stata impartita da Salvatore Riina mediante un messaggio inviato a padre Agostino Coppola, avvalendosi delle agevoli possibilità di comunicazione tra i detenuti e l’esterno, in quel periodo riscontrabili nell’istituto penitenziario dell’Ucciardone;
  • ai mafiosi, era sembrato che Mario Francese oltrepassasse ogni limite consentito quando aveva attaccato pubblicamente padre Agostino Coppola (legato da rapporti fraterni con Salvatore Riina) per il suo coinvolgimento nel sequestro di Rossi di Montelera;
  • dopo l’omicidio di Mario Francese, che possedeva e manifestava una profondissima conoscenza del fenomeno mafioso, gli “uomini d’onore” detenuti esternarono la loro contentezza;
  • il luogo dove fu ucciso Mario Francese ricadeva nel territorio del “mandamento” di Resuttana;
  • ciascun “capo-mandamento” doveva avere preventivamente conoscenza degli omicidi che sarebbero stati commessi all’interno del proprio territorio.[…].

LE “CONFERME” ALLE INTUIZIONI DI FRANCESE. Si è già avuto modo di osservare come Mario Francese avesse scritto, dal 1974 in poi, numerosi articoli giornalistici su don Agostino Coppola, mettendone in luce gli stretti rapporti con Salvatore Riina, l’inserimento nell’ “anonima sequestri” capeggiata da Luciano Liggio, il coinvolgimento nel sequestro di Luigi Rossi di Montelera. L’avversione manifestata da don Coppola nei confronti di Mario Francese è stata ricordata dal suo collega Franco Nicastro nelle dichiarazioni rese in data 10 aprile 1998, precedentemente riportate.

Nel capitolo IV, è stata pure presa in esame l’approfondita serie di articoli che Mario Francese, sin dal 1977, iniziò a scrivere sui molteplici interessi mafiosi connessi alla costruzione della diga Garcia, esplicitandone le connessioni con numerosi episodi di omicidio verificatisi nella zona e con l’assassinio del colonnello Russo, ed illustrando le singolari operazioni immobiliari realizzate dalla società Zoosicula RI.SA., che veniva ricondotta a Salvatore Riina. Tra le iniziative giudiziarie su cui Mario Francese si soffermò nel descrivere le indagini espletate in relazione all’uccisione dell’ufficiale dei Carabinieri, vi era l’emissione di un mandato di cattura, per il reato di favoreggiamento, a carico di Biagio Lamberti (autotrasportatore di Borgetto), e l’invio di una comunicazione giudiziaria, per il reato di associazione a delinquere, nei confronti del padre del medesimo soggetto, Salvatore Lamberti, indicato come individuo “implicato, insieme a don Agostino Coppola, nel tentato omicidio dell’allevatore Francesco Randazzo” e detenuto, per tale motivo, presso l’istituto penitenziario dell’Ucciardone.

Lo spessore mafioso dei Lamberti era stato posto in evidenza nel rapporto giudiziario riguardante il duplice omicidio del colonnello Russo e dell’insegnante Filippo Costa, redatto il 25 ottobre 1977 dal Comandante del Nucleo Investigativo del Gruppo di Palermo dei Carabinieri, Magg. Antonio Subranni; in tale atto Salvatore Lamberti era stato definito come “pregiudicato mafioso, già latitante”, si era illustrata la “personalità mafiosa” di Biagio Lamberti, e si erano descritte le singolari modalità del suo ingresso nei lavori affidatigli dalla società Lodigiani presso la diga Garcia, precisando altresì che Biagio Lamberti svolgeva tale attività con l’impiego di diversi mezzi meccanici, tra cui una pala meccanica, e riceveva dalla società Lodigiani il doppio del compenso normale.

Nel medesimo rapporto si era compiuta una ricostruzione delle vicende relative alla costruzione della diga Garcia che risulta perfettamente coerente con le indicazioni fornite dal Mutolo, oltre che con il quadro tracciato da Mario Francese nelle sue inchieste giornalistiche.

Il rapporto giudiziario, in particolare, aveva esplicitato quanto segue: «la costruzione della diga suscitava ovviamente una disordinata corsa per accaparrarsi le forniture dei materiali occorrenti, per offrire il noleggio dei mezzi meccanici per i movimenti di terra e per aggiudicarsi i sub-appalti delle opere minori, provocando una incrinatura nei rapporti e negli equilibri dei gruppi mafiosi delle zone interessate. Ben presto, però, anche la mafia del “corleonese”, non insensibile certo rispetto ai cospicui interessi emergenti emergenti, allungava le sue rapaci ed avide mani sulla “valle del Belice”, e, stabilendo e rafforzando i suoi legami con la mafia di Roccamena e del trapanese, e ricorrendo al delitto, instaurava un nuovo stabile equilibrio, assicurandosi il monopolio delle forniture e dei sub-appalti. Così, facendo leva sul prestigio mafioso dei vari Riina, Provenzano, Bagarella e sulla forza che gli deriva dall’allargamento dei suoi quadri, questo gruppo mafioso è riuscito ad imporre elementi di sua fiducia, attraverso i quali si è garantito il totale controllo delle forniture e dei sub-appalti relativi alla costruzione della diga Garcia, che nella zona rappresenta al momento il più immediato settore di sfruttamento. In questa lotta per il predominio sugli interessi suscitati dalla costruenda diga, vanno interpretati il triplice tentato omicidio di Napoli Rosario, Napoli Fedele e Montalbano Vincenzo (19.7.1977) e l’omicidio di Artale Giuseppe (30.7.1977)». Nell’ambito di questa ricostruzione delle vicende connesse alla costruzione della diga Garcia, si era sottolineato: “in tale contesto va collocata anche l’uccisione del ten. Col. Russo Giuseppe” (pagg. 36-37 del rapporto), formulando le seguenti osservazioni:

  • l’ufficiale annoverava tra i suoi amici più intimi l’imprenditore Rosario Cascio, cui l’ing. Ero Bolzoni (dirigente della società Lodigiani, con funzioni di direttore tecnico dei lavori della diga) aveva assicurato l’assegnazione della fornitura dei materiali inerti per la realizzazione dell’intera opera;
  • nei mesi di giugno e luglio 1976 si erano però verificati alcuni attentati dinamitardi contro la società Lodigiani, «compiuti dalla mafia del “corleonese” per assicurarsi il totale controllo di ogni settore produttivo legato alla diga Garcia e, tra l’altro, per indurre i titolari della Lodigiani a sostituire Cascio Rosario con il geometra Modesto Giuseppe, uomo di paglia della mafia “corleonese”, nella fornitura esclusiva di inerti; operazione questa da realizzare – per come poi è stata realizzata – mediante la preventiva sostituzione degli ingg. Bolzoni e Gazzola, che avevano assunto l’impegno con Cascio, con altri due tecnici, che erano invece esenti da impegni con chicchessia e che quindi, al momento dell’inizio dei lavori per la costruzione della diga, avrebbero potuto conferire la fornitura a Modesto Giuseppe»;
  • con questa azione la mafia si riprometteva, tra l’altro, di assoggettare definitivamente ai propri voleri la volontà della società Lodigiani;
  • Rosario Cascio, dopo essere stato estromesso dalla fornitura degli inerti (affidata, invece, alla società IN.CO., di pertinenza del Modesto), si era rivolto al colonnello Russo, il quale aveva rivolto la sua attenzione contro la mafia del “corleonese” e si era adoperato per raccogliere gli elementi necessari per imbastire una denuncia penale, al fine di “colpire con successo la mafia ormai dominante di Leggio – Riina e Coppola” smascherandone l’ingerenza nella valle del Belice;
  • il Modesto, presidente del consiglio di amministrazione della società IN.CO., era «“l’uomo di fiducia” del gruppo di mafia facente capo a Riina Salvatore, Provenzano Bernardo e Bagarella Leoluca», e quindi “lo strumento ed il rappresentante di interessi mafiosi”;
  • i dirigenti della Lodigiani avevano cooperato ad un preciso piano criminoso del più pericoloso gruppo mafioso, capeggiato da Salvatore Riina, Bernardo Provenzano e Leoluca Bagarella, e composto da varie cosche, i cui elementi maggiormente rappresentativi erano Gioacchino Cascio (qualificato come “noto capo-mafia di Roccamena e da vari anni residente a Monreale”), Bartolomeo Cascio (indicato come “l’elemento di maggior spicco della cosca di Roccamena, dopo suo zio Cascio Gioacchino”), Giuseppe Giambalvo, Vincenzo Giambalvo, Leonardo Diesi, Salvatore Lamberti, Biagio Lamberti, Giovanni Armato;
  • il piano criminoso in questione era diretto ad eliminare ogni possibile concorrenza alla società IN.CO. di Giuseppe Modesto ed alla ditta Lamberti.[…].

UN COLLABORATORE CREDIBILE. Appaiono pienamente credibili le indicazioni del Mutolo in ordine al contenuto ed al tempo delle conversazioni intercorse tra lui ed altri “uomini d’onore” in ordine all’attività giornalistica di Mario Francese, al monopolio mafioso sui lavori di subappalto riguardanti la diga, ed alla possibilità di conseguire rilevanti guadagni mettendo a disposizione di Salvatore Lamberti una pala meccanica per gli stessi lavori. Un univoco riscontro a tali dichiarazioni è, infatti, offerto dalla codetenzione del Mutolo insieme a numerosi esponenti mafiosi (tra i quali Tommaso Buscetta e Salvatore Lamberti) presso l’infermeria della Casa Circondariale dell’Ucciardone in un periodo in cui:

  • Mario Francese aveva già pubblicato sul “Giornale di Sicilia” diversi articoli riguardanti gli interessi mafiosi relativi alla costruzione della diga Garcia, i connessi omicidi verificatisi nella zona circostante, il convolgimento di don Agostino Coppola nel sequestro di Luigi Rossi di Montelera;
  • si era già in presenza di un totale controllo esercitato dal gruppo mafioso capeggiato da Salvatore Riina sulle forniture e sui sub-appalti relativi alla costruzione della diga;
  • la società Lodigiani aveva affidato proprio al figlio di Salvatore Lamberti, a condizioni eccezionalmente favorevoli, alcuni lavori che costui svolgeva con l’impiego di diversi mezzi meccanici, tra i quali una pala meccanica.

La sentenza in questione è quella della Corte di Assise di Palermo, presidente Leonardo Guarnotta, contro Salvatore Riina +9. DOMANI 17.2.2021

 


17 LUGLIO 1992, L’ULTIMO INTERROGATORIO DEL DOTTOR BORSELLINO DUE GIORNI PRIMA DI ESSERE UCCISO DA COSA NOSTRA

Gaspare Mutolo annunciò per la prima volta di voler collaborare con gli inquirenti all’inizio del 1992, a una condizione: avrebbe rivelato i segreti della mafia solo a Falcone. Ma il nuovo incarico romano del giudice non gli consentiva più di farlo, e quindi il pentito si rifiutò di parlare con altri. Solo dopo la sua morte, cambiò idea. Come tanti, sia dentro che fuori dalla mafia, considerava Borsellino l’erede naturale di Falcone e annunciò:  <>.  Questi aveva grandi aspettative su quanto Mutolo fosse disposto a dirgli. <>, disse il procuratore a un collega.  Quando Borsellino incontrò Mutolo a Roma, il collaboratore rivelò senza indugio che la mafia aveva degli infiltrati sia in polizia che in tribunale. Fece il nome di due presunte spalle: Bruno Contrada, l’ex capo della squadra mobile di Palermo che ora lavorava per il servizio segreto SISDE di Roma, a il giudice antimafia Domenico Signorino, amico e collega di Borsellino. Una telefonata inaspettata interruppe l’interrogatorio di Borsellino. Dopo aver risposto alla chiamata, il procuratore disse a Mutolo che era stato convocato dal neonominato ministro dell’Interno Nicola Mancino, che si era insediato in carica quel giorno: sarebbe tornato entro mezz’ora. Borsellino fu di ritorno dopo un’ora, ed era infuriato e preoccupato. Mutolo gli domandò cos’era successo. Borsellino gli disse che, invece il ministro, aveva visto Vincenzo Parisi, capo della polizia, e Bruno Contrada, proprio quello che il collaboratore aveva appena indicato come spalla della mafia. Borsellino era infuriato perché entrambi erano venuti a conoscenza del suo incontro con Mutolo. <<L’interrogatorio è segreto, come diavolo ha fatto Contrada a scoprirlo?>>, gridò Borsellino, kkignorando Mutolo. Il procuratore era così agitato che accese due sigarette contemporaneamente e le tenne entrambe nella mano. <<Dottore, ha due sigarette!>>, gli disse Mutolo. Borsellino rise, ma era ancora nervoso. Continuò a insistere che dovesse fargli mettere per iscritto la sua dichiarazione, ma Mutolo rifiutò: non voleva perché era sicuro che sarebbe stato ucciso e preferiva mettere nero su bianco ciò che riguardava le gerarchie nella mafia. Non si sa se Mutolo disse a Borsellino di avere sentito nel 1980, dodici anni prima, che la mafia voleva eliminare il procuratore, perché aveva firmato un mandato d’arresto per il boss Francesco Madonia, accusato dell’omicidio, avvenuto quell’anno, del capitano dei carabinieri Emanuele Basile. Gli assassini spararono a Basile mentre, con la figlioletta in braccio, si dirigeva in caserma con la moglie. Entrambe rimasero illese. Nel 2007 la Cassazione condannò Contrada a dieci anni di prigione per i legami con la mafia; l’anno successivo gli concessero i domiciliari per motivi di salute. Signorino, l’altra spalla secondo Mutolo, si suicidò nel dicembre del 1992. -JOHN FOLLAIN i 57 giorni che hanno sconvolto l’Italia

 


PROCURA DELLA REPUBBLICA PRESSO IL TRIBUNALE DI PALERMO. VERBALE DI INTERROGATORIO DI PERSONA SOTTOPOSTA AD INDAGINI

17.7.1992 alle ore 09.00, nei locali della Direzione Investigativa Antimafia in Roma, dinanzi al Procuratore Aggiunto della Repubblica. dr. Paolo BORSELLINO ed ai Sostituti. Procuratori della Repubblica. Dr. Guido LO FORTE e Dr. Gioacchino NATOLI, assistiti dall’Ispettore. P. della Polizia di Stato AMORE Danilo, è comparso MUTOLO GASPARE, che, invitato a dichiarare le proprie generalità e quanto altro valga ad identificarlo, con l’ammonizione delle conseguenze alle quali si espone chi si rifiuta di darle o le dà false, risponde: MUTOLO Gaspare, nato a Palermo il 05.02.1940, detenuto per altro.

Invitato il MUTOLO, facendogli presente che viene interrogato nella qualità’ di indagato di reato collegato, a nominare un difensore di fiducia, dichiara:
confermo mio avvocato di fiducia l’Avv.Luigi LI GOTTI del Foro di Roma, il quale, è assente, sebbene ritualmente avvisato. “

A D.R. Quando BADALAMENTI GAETANO fu messo “fuori famiglia”, io mi trovavo detenuto, ma anche all’interno del carcere dove eravamo assieme diversi uomini d’onore ci si rendeva conto dei sommovimenti che stavano avvenendo all’esterno, attraverso le giornaliere conversazioni che si avevano tra i detenuti.

Uscii dal carcere in semilibertà tra il 23 aprile e l’11 maggio del 1981, e precisamente in data intercorrente tra l’omicidio di BONTATE STEFANO avvenuto mentre ero detenuto e quello di INZERILLO TOTUCCIO, verificatosi l’11 maggio 1981. Io, uscito dal carcere, riuscii a vedere l’INZERILLO ancora vivo, mentre si trovava con LA BARBERA ANGELO (da Passo di Rigano). Entrambi, infatti, vennero da me a Partanna Mondello per discutere del pagamento di 2 kg. di eroina che io avevo mandato negli USA ad un fratello di INZERILLO TOTUCCIO, utilizzando come corriere ABBENANTE MICHELE. Il giorno in cui uscii in semilibertà fu quello in cui, in una chiesa dell’Addaura, si sposò la figlia di RICCOBONO SARO con LAURICELLA SALVATORE. Può darsi, però, che io fossi uscito qualche giorno prima. Il trattenimento fu fatto alla Zagarella, con l’intervento di MEROLA MARIO. Parteciparono numerosissimi uomini d’onore, ma era assente GRECO MICHELE, anche se mandò un regalo. In quel momento, egli si teneva defilato. Non ricordo se prima o dopo l’uccisione di INZERILLO TOTUCCIO partecipai in casa di RICCOBONO SARO, dico meglio in un villino sopra Mondello di un suo parente ad un incontro tra lo stesso SARO, MICALIZZI MICHELE ed D’AGOSTINO EMANUELE. Costui era molto legato al RICCOBONO, che gli voleva molto bene. Egli sosteneva che più di una volta, su incarico di BONTATE STEFANO, aveva partecipato con una macchina a degli appostamenti per uccidere “una persona importante” che sosteneva, però, di non sapere chi fosse. Ciò egli raccontava con l’intento di propiziarsi la protezione di RICCOBONO SARO, sottolineando che egli non aveva mai saputo il nome della vittima designata e che si era limitato ad eseguire gli ordini del BONTATE. Andato via il D’AGOSTINO, io ed il MICALIZZI inducemmo RICCOBONO SARO a riflettere sulla posizione di D’AGOSTINO EMANUELE, il quale certamente non si era dimostrato suo amico come il SARO si mostrava, invece, nei di lui confronti. Infatti, o il D’AGOSTINO gli mentiva, sostenendo di non aver mai saputo il nome della persona importante che STEFANO BONTATE gli aveva dato l’ordine di uccidere, ovvero se diceva la verità, asserendo la sua ignoranza ugualmente si era dimostrato poco amico, poiché a quell’epoca le persone importanti nell’universo mafioso erano pochissime, e lo stesso RICCOBONO SARO era fra esse, e, quindi, il D’AGOSTINO aveva accettato un incarico col rischio di trovarsi in condizione di dovere uccidere proprio il RICCOBONO. RICCOBONO SARO, sebbene a malincuore e con le lacrime agli occhi, recepì il nostro ragionamento e dopo qualche tempo, nel corso di un mio periodo di assenza da Palermo (ero, infatti, in semilibertà a Teramo), appresi che il D’AGOSTINO era scomparso. Ritengo che sia stata posta fine ai suoi giorni, bruciandolo sulla griglia posta vicino al caseggiato di “TATUNEDDU”. Nel frattempo, a Palermo si erano verificati taluni omicidi particolarmente eclatanti, quali quelli di REINA MICHELE, di MATTARELLA PIERSANTI, del Cap. BASILE EMANUELE, del Proc. della Rep. COSTA GAETANO e, prima ancora, quello del V. Questore BORIS GIULIANO ed altri ancora. Voglio premettere che, per quanto attiene a questi delitti, mi limiterò a dichiarare quello che, in questo momento, ritengo di poter dichiarare e prego le SS.LL. di rispettare questa mia decisione. Per quanto attiene a REINA MICHELE, faccio presente che in quel periodo vi era a Palermo un costruttore, tale D’ALIA MASINO, il quale si era occupato di talune importanti edificazioni e, in particolare, della costruzione dell’hotel Politeama, del complesso edilizio commerciale di Valdesi e del complesso turistico “Ashur” di Mondello.

Si dà atto che, a questo punto, sono le ore 10.30, sopraggiunge l’avv. LI GOTTI, che viene subito reso edotto di quanto fin qui verbalizzato. Era ben noto, nell’ambiente di Cosa Nostra, ma ritengo anche in altri ambienti, che dietro D’ALIA MASINO ed alle sue attività imprenditoriali vi fosse proprio REINA MICHELE nonché un Direttore del Banco di Sicilia, del quale non so il nome, ma posso dire soltanto che era uno degli uomini più importanti d’allora. Personalmente mi consta che D’ALIA MASINO pagasse delle tangenti a gruppi mafiosi vicini a RICCOBONO SARO, in quanto ero personalmente incaricato di riscuoterle. Allo stato, posso dire soltanto che, ucciso REINA MICHELE, il D’ALIA liquidò le sue attività e da allora, quale proprietario di cavalli, fa il “gentleman” all’ippodromo di Palermo, così lasciando ampio spazio ad altri costruttori, aventi altri referenti politici ed altro tipo di collegamenti.

Occorre, inoltre, tener presente che REINA MICHELE è stato ucciso in territorio della famiglia di Resuttana.

Quanto all’omicidio di BORIS GIULIANO, per ciò che personalmente mi consta, era da tempo che i vertici mafiosi avevano deciso di ucciderlo ed anzi si parlava di tagliargli un braccio, dopo l’uccisione, a simboleggiare il fatto che egli usava scrivere rapporti di polizia senza rispettare la verità. Io personalmente ero stato incaricato da RICCOBONO ROSARIO, antecedentemente al mio arresto del 1976, di sorvegliarne le mosse, in quanto a 50 MT. dalla casa del funzionario vi era l’officina di lavori in fero battuto di un mio cugino. Accanto vi era, inoltre, un magazzino di cornici di tale LA GRECA, del quale io mi atteggiavo a cliente. Mio primo cugino era, inoltre, il SIRAGUSA gestore del bar dentro il quale fu ucciso il GIULIANO. Avevo constatato che egli usciva normalmente da casa tra le ore 8.15 e le ore 8.45 e che si recava a prenderlo un autista. Queste circostanze riferivo a RICCOBONO SARO, ma ebbi modo di parlarne pure, nel corso delle mie visite alla Favarella, a GRECO MICHELE, al di lui fratello GRECO SALVATORE ed a MAFARA FRANCO. BORIS GIULIANO fu poi ucciso mentre io mi trvava detenuto e, nell’ambiente carcerario, circolava la voce che occasione della sua uccisione era stato il fatto che, durante un’operazione di polizia, egli aveva sparato contro un ragazzo di Passo di Rigano, già “mezzo scemo”, riducendolo paralitico. Raccolsi anche la notizia che ulteriore occasione della sua uccisione era stata l’uccisione, a sua opera, durante un’operazione di polizia, di due rapinatori catanesi a Piazza Don Bosco. Preciso, a chiarimento ulteriore, che i motivi veri erano legati alla sua attività intensa di brillante investigatore che dava fastidio a Cosa Nostra, ma che si aspettò l’occasione buona per poter dire che aveva commesso qualcosa di “irregolare” per decretarne il momento della fine. Non so chi sia stato materialmente il killer del funzionario. L’uso di un’arma non tipica non deve trarre in inganno, in quanto molto spesso si usava un’arma di piccolo calibro proprio per deviare le indagini, tenuto conto che, data la distanza ravvicinata, questa scelta non pregiudicava l’esito dell’operazione.

Quanto all’omicidio MATTARELLA, allo stato posso dire soltanto che, all’interno di Cosa Nostra, le lamentele circa il suo comportamento politico, che tendeva a far ordine nella materia degli appalti e, comunque, nei “palazzi” dove si decidono queste cose, circolavano già parecchio tempo prima della sua uccisione. Veniva anche sottolineato il fatto che il padre aveva origini ben diverse.

Per quanto attiene all’omicidio del Cap. BASILE, avvenuto anch’esso mentre io ero detenuto, fu voce comune nell’ambiente di Cosa Nostra che il BASILE, senza ombra di dubbio, era stato ucciso poiché aveva iniziato indagini a largo raggio, che erano addirittura approdate ad ambienti mafiosi operanti all’esterno della Sicilia. Peraltro, che ciò avvenisse, personalmente mi consta in quanto, appena arrestato, fu messo in cella con me LEGGIO GIUSEPPE, il quale era stato arrestato a seguito di indagini condotte dal BASILE in Emilia. Ricordo anche che, in quel periodo, il BASILE conduceva indagini per l’identificazione di un personaggio (NUVOLETTA LORENZO) che appariva ritratto in una fotografia con altri mafiosi.

Nonostante fossimo stati detenuti insieme, né PUCCIO VINCENZO né MADONIA GIUSEPPE né BONANNO ARMANDO affermarono mai espressamente di essere i killers del Capitano, ma la circostanza veniva assolutamente data per scontata al 100% all’interno degli ambienti mafiosi carcerari.

Peraltro, nessuno “porta la medaglia” di avere fatto questa o quella uccisione. Contemporaneamente, inoltre, veniva dato per scontato con assoluta sicurezza, che tale SACCO, contestualmente arrestato per lo stesso omicidio, fosse sicuramente estraneo al fatto criminoso, poiché si era limitato a prestare la macchina senza sapere in che cosa dovesse essere utilizzata. Debbo aggiungere che l’omicidio del Cap. BASILE provocò in seno a Cosa Nostra i primi sospetti ed i naturali consequenti malumori circa la reale collocazione di GRECO MICHELE. Infatti, RICCOBONO SARO, BONTATE STEFANO e INZERILLO TOTUCCIO nulla ne sapevano e furono colti di sorpresa. La sorpresa nasceva non tanto per la partecipazione all’omicidio di MADONIA GIUSEPPE e BONANNO ARMANDO, componenti della famiglia di Resuttana che si sapeva già legata ai Corleonesi; non tanto perché l’omicidio era avvenuto in territorio di Monreale, ricadente nella giurisdizione di BRUSCA BERNARDO, anch’egli notoriamente legato ai Corleonesi. Nasceva invece la sorpresa per la partecipazione di PUCCIO VINCENZO, appartenente alla famiglia di Ciaculli.

Infatti, a GRECO MICHELE furono chieste anche personalmente da RICCOBONO SARO circa la partecipazione del PUCCIO. Egli rispose che nulla ne sapeva e cercò di giustificare la partecipazione di un suo uomo d’onore, assumendo che era stato coinvolto nel delitto ad iniziativa di GRECO GIUSEPPE “scarpuzzedda”, che sebbene affiliato alla famiglia di Ciaculli era persona notoriamente vicina a RIINA TOTO’.

Aggiungo che anche dell’omicidio del Cap. D’ALEO, all’interno di Cosa Nostra, si diede da parte di tutti la spiegazione che costui a Monreale aveva preteso di continuare le indagini iniziate dal Cap. BASILE.

Quanto all’omicidio COSTA, avvenuto anch’esso mentre io ero detenuto, posso riferire ciò che era convinzione assolutamente accettata all’interno degli ambienti mafiosi. La causa effettiva è da individuare nello sconcertante atteggiamento di questo Procuratore, il quale si era assunta la briga, nonostante l’opposizione dei suoi Sostituti, di confermare i provvedimenti di arresto che avevano riguardato i personaggi vicini a INZERILLO TOTUCCIO.

Vi era accanto altra motivazione immediata, di cui era portatore lo stesso INZERILLO TOTUCCIO, il quale come BONTATE STEFANO aveva mal sopportata l’iniziativa corleonese di far uccidere il Cap. BASILE volle, con l’uccisione del COSTA, dare una adeguata risposta, dimostrando la sua potenza.

Per averlo appreso direttamente da RICCOBONO SARO e MICALIZZI TOTUCCIO, il GRECO MICHELE ebbe in proposito una discussione con INZERILLO SALVATORE, accusandolo di “essersi comportato come un ragazzino”.

In particolare, questa frase del GRECO MICHELE mi fu riferita da MICALIZZI SALVATORE e non possono neppure escludere che egli fosse stato presente, allorché venne pronunciata, poiché la famiglia di Partanna Mondello si manteneva particolarmente vicina a GRECO MICHELE nonostante i sospetti ed i dissapori allora nascenti.

Ciò in quanto RICCOBONO SARO era particolarmente devoto ai GRECO, poiché era stato per l’intervento determinante di GRECO SALVATORE “cicchiteddu” che egli, nonostante l’opposizione dei Corleonesi che puntavano su GAMBINO GIACOMO GIUSEPPE, era stato nominato capo mandamento.

E fu proprio GRECO MICHELE a comunicare questa decisione a RICCOBONO ROSARIO, nella villa di BONTATE STEFANO, allorché come ho narrato precedentemente io ricevette l’incarico insieme a MICALIZZI TOTUCCIO ed allo stesso RICCOBONO SARO di recarci dal MADONIA per comunicargli che poteva ricostituire la sua famiglia.

Questi discorsi, ovviamente, risalgono al 1975 circa.

  • A questo punto, sono le ore 12.35, si allontana il Proc. Agg. della Rep. dott. BORSELLINO.

In quel torno di tempo, cioè quando la nomina a capo mandamento di RICCOBONO SARO era ancora in forse, noi della famiglia di Partanna Mondello eravamo così decisi a non sopportare l’opposizione dei Corleonesi, in quanto la ritenevamo pretestuosa ed ingiustificata, al punto da pensare che, se fosse stato necessario, saremmo addirittura usciti da Cosa Nostra, imponendo però a tutti coloro che avessero voluto gustare sia pure un semplice gelato a Mondello il pagamento del “biglietto”.

Infatti, per dimostrare la pretestuosità degli argomenti usati dai Corleonesi, devo ricordare che essi, in quel periodo, fecero addirittura ricorso ad un vecchissimo trascorso giovanile del padre di RICCOBONO SARO, che aveva militato nella c.d. milizia fascista, che svolgeva talvolta anche funzioni di ausilio alle forze di polizia, per dire che questo era un valido impedimento alla nomina di SARO RICCOBONO.

In quel periodo, in cui si stavano ricostituendo i mandamenti, fu stabilito un accordo tra RICCOBONO SARO, INZERILLO TOTUCCIO e SCAGLIONE TOTO’ per un appoggio reciproco, che potesse condurre alla nomina di tutti e tre a capo mandamento. L’accordo era naturalmente avallato da BONTATE STEFANO, BADALAMENTI GAETANO e DI MAGGIO ROSARIO, il quale ultimo, zio di INZERILLO TOTUCCIO, godeva di notevole prestigio, nonostante l’età avanzata.

Ciò avvenne in un periodo in cui noi tutti eravamo latitanti e ci rifugiavamo in una casa, subito dopo la piazza di Villagrazia di Palermo, sita nei pressi di una banca aperta poco tempo prima.

L’omicidio di LA TORRE PIO deciso ed eseguito nel perfetto accordo di tutti i componenti della Commissione poiché da tempo il parlamentare non andava assolutamente a genio a tutta Cosa Nostra, avendo proposto e sostenendo pressantemente la legge che prevedeva il sequestro e la confisca dei beni di provenienza illecita.

Sebbene da parte di qualcuno, e ricordo a questo proposito ad esempio GRECO TOTO’ “IL SENATORE” (che non faceva parte della Commissione), vi fosse un atteggiamento meno allarmato, giacche si dubitava che la legge venisse approvata ed attuata rapidamente, tuttavia l’opinione pressoché unanime di tutta Cosa Nostra era che l’azione politica pressante e continua su questo punto di PIO LA TORRE costituiva un reale e serio pericolo.

Il rischio era considerato così grave ed imminente che, ad esempio, MADONIA NINO, che allora si trova prevalentemente in Germania, esortava me e MICALIZZI TOTUCCIO a trasferire all’estero, e particolarmente per il suo tramite, i guadagni via via sempre più ingenti che ricavavamo dal traffico della droga.

Il MADONIA ci diceva che la sua famiglia, da diverso tempo, trasferiva il denaro all’estero, utilizzando vari canali.

Per quanto riguarda l’esecuzione del delitto, se ne occupò GRECO MICHELE; questo fatto era universalmente noto in Cosa Nostra ed io personalmente potei constatare che anche RICCOBONO SARO, come gli altri, era d’accordo.

Le SS.LL. mi chiedono se ci fosse un qualche motivo per l’uso di una mitraglietta THOMPSON. Come ho già spiegato prima, talvolta vengono usate delle armi non consuete per depistare le indagini e, comunque, a Palermo, Cosa Nostra è sempre stata in grado di reperire qualsiasi tipo di arma.

Ritornando al clima di allarme suscitato in Cosa Nostra dalla proposta di legge dell’on. LA TORRE, ricordo un colloquio che con me ebbe al bar “SINGAPORE TWO” di via La Marmora CAROLLO GAETANO, il quale – con tono allarmato – raccontò a me, a MICALIZZI TOTUCCIO ed al fratello di questo, MICHELE, che addirittura c’erano dei sindacalisti che facevano già dei programmi per la futura utilizzazione di beni e ville di mafiosi, da confiscare.

Le SS.LL. mi chiedono se qualcuno in Cosa Nostra non temesse effetti controproducenti di un delitto così eclatante.

A questo riguardo, debbo spiegare che ormai in Cosa Nostra era prevalsa la filosofia dei Corleonesi, i quali erano convinti di potere e dovere conseguire i loro fini attraverso l’uso della paura e confidavano nel fatto di potere condizionare anche gli organi dello Stato con delitti di tipo terroristico. In passato, invece, a questa filosofia si era contrapposta la diversa mentalità principalmente di BADALAMENTI GAETANO e BONTATE STEFANO i quali ritenevano cosa non opportuna colpire uomini delle Istituzioni e cercare invece altre vie per la soluzione di eventuali problemi; vie che essi ritenevano di potere praticare per collegamenti che avevano in “tutti i campi”. In effetti, in varie occasioni, l’uccisione di esponenti delle Istituzioni ha prodotto un effetto positivo per Cosa Nostra, nel senso che umanamente non tutti sono disposti ad affrontare particolari rischi per la loro attività o a sottoporsi a situazioni gravose di tutela. Nel complesso, però, devo dire “a posteriori” che la risposta dello Stato, sia pure con le inevitabili discontinuità e contraddizioni, è in progresso positivo. Per concludere l’argomento riguardante l’omicidio di LA TORRE PIO devo dire che l’unica causale del delitto fu la sua iniziativa politica e legislativa concernente la confisca dei beni mafiosi. Non ho mai sentito che ci fossero altre motivazioni e certamente escludo che la decisione di uccidere l’on. LA TORRE possa avere una benché minima relazione con altre sue iniziative politiche riguardanti, in quello stesso periodo, la base missilistica di Comiso. A questo proposito devo dire che Cosa Nostra è totalmente indifferente alle questioni politiche e si preoccupa soltanto dei propri interessi e delle conseguenze che l’attività politica può avere su queste. Ad esempio ed al limite, potrei dire che a Cosa Nostra andrebbe bene pure HUSSEIN SADDAM se quest’ultimo ne tutelasse gli interessi.

A questo punto, sono le ore 13.45, l’interrogatorio viene sospeso fino alle ore 15.00. Letto, confermato e sottoscritto F.TO: PAOLO BORSELLINO, GUIDO LO FORTE, AMORE DANILO, MUTOLO GASPARE, GIOACCHINO NATOLI.

Successivamente, alle ore 15.45, dinanzi all’Ufficio come sopra costituito, è nuovamente comparso MUTOLO Gaspare, assistito dall’avv. Luigi LI GOTTI.

Il MUTOLO dichiara: subito dopo l’omicidio dell’on. LA TORRE, si insediò anticipatamente a Palermo, come superprefetto, il Gen. DALLA CHIESA CARLO ALBERTO. In quel periodo, io ero in libertà a Palermo, poiché ero stato scarcerato con la liberazione condizionale il 25.2.1982 e fui nuovamente arrestato il 18 giugno 1982, subito dopo la strage in cui venne ucciso FERLITO ALFIO. Inizialmente, nell’ambiente di Cosa Nostra non si attribuì particolare importanza alla venuta di DALLA CHIESA, poiché si riteneva che questi, lontano dalla Sicilia da moltissimi anni, non avesse conoscenze adeguate della realtà attuale di Cosa Nostra e non costituisse, quindi, per essa un serio pericolo. Questa opinione, però, mutò rapidamente, addirittura nel volgere di una o due settimane, giacche il DALLA CHIESA non appena preso possesso del suo ufficio dimostrò di essere in grado di disturbare seriamente gli interessi di Cosa Nostra, mediante alcune iniziative immediate, poco appariscenti e non pubblicizzate, ma in realtà assi fastidiose per i nostri interessi. In particolare, si seppe quasi subito che egli si interessava alla situazione dei pozzi del palermitano ed aveva intenzione di requisirli, e ciò con grave ed ovvia preoccupazione dei proprietari, nella maggior parte appartenenti o comunque assai vicini a Cosa Nostra. Altra iniziativa, poco appariscente ma assai sgradita, di DALLA CHIESA fu quella di diramare subito alle numerose scuoleguida di Palermo una circolare con la quale si responsabilizzavano i gestori al fine di interrompere i precedenti, sistematici,abusi che avevano consentito il rilascio a numerosi pregiudicati di “fogli rosa”, che surrogavano sostanzialmente le patenti, con innovi di sei mesi in sei mesi. Altre lamentele provenivano da un certo ambiente politico-amministrativo, sia pure di basso livello, nel cui ambito si sosteneva che non si poteva “campare più” né si potevano più fare favori o ascoltare raccomandazioni, poiché periodicamente il prefetto DALLA CHIESA svolgeva, con numerose riunioni che riguardavano i vari responsabili degli uffici amministrativi, un’azione di controllo e di responsabilizzazione.

In una parola, si levò un coro di lamentele da tutti gli ambienti e si comprese con chiarezza che con queste iniziative DALLA CHIESA perseguiva il disegno di recidere progressivamente i contatti e gli scambi di favori tra Cosa Nostra ed i vari ambienti amministrativi ed economici.

In sostanza, si capì ben subito che la sua opera, per quanto ancora fatta di “piccole cose”, stava stringendo in una morsa Cosa Nostra, creando potenzialmente enormi difficoltà anche ai rapporti tra quest’ultima e gli ambienti imprenditoriali. Intendo dire che, ad esempio, le imprese che lavoravano co gli appalti come manutenzioni, strade etc. pagavano regolarmente a Cosa Nostra sia tangenti in denaro sia in posti di lavoro.

La continua attenzione del Prefetto anche a questa materia finiva con rendere sempre più difficile a Cosa Nostra tutte quelle attività, pur piccole ma non per questo meno importanti, in cui si concreta il controllo del territorio.

In particolare, seppi da RICCOBONO ROSARIO nel corso di una delle conversazioni dedicate a questo tema che, in Commissione, era stata valutata la opportunità di uccidere il Prefetto, sia per questa serie di iniziative di cui ho parlato sia anche perché aveva ripreso a sollecitare l’approvazione del progetto di legge dell’on. LA TORRE sulla confisca dei patrimoni mafiosi.

In sostanza, nelle valutazioni della Commissione, l’unico dubbio che si poneva non riguardava l’omicidio in sè, che era giudicato opportuno, ma soltanto la eventualità che dopo questo omicidio lo Stato potesse mandare in Sicilia, al posto di DALLA CHIESA, un uomo della sua stessa pericolosità.

A questo punto, il dubbio non sembrò serio, poiché si ritenne che in quel periodo lo Stato non disponeva di persone dello stesso calibro del Gen. DALLA CHIESA.

Con ciò intendo alludere non già ad una approfondita conoscenza di Cosa Nostra, che, secondo noi, il generale in quel periodo non aveva, ma alla personalità di DALLA CHIESA, il quale aveva una logica di tipo militare, una grande determinazione ed aveva anche individuato la strada giusta per danneggiare i nostri interessi con quel metodo di lavoro che stava seguendo.

Per quanto io, dunque, appresi dal RICCOBONO, la decisione di uccidere DALLA CHIESA fu presa dalla Commissione già in quel periodo in cui io ero ancora libero, anche se naturalmente l’attuazione sarebbe seguita al momento ritenuto più opportuno.

E’ bene ricordare, a questo riguardo, che rientra nella logica di Cosa Nostra sapere attendere per l’esecuzione di un delitto già deciso il momento più opportuno e favorevole sotto tutti gli aspetti, sicché tra la decisione e l’esecuzione possono addirittura passare molti anni, a meno che non vi sia un pericolo imminente che renda urgente l’intervento.

Per concludere, per quanto a me risulta, l’omicidio DALLA CHIESA al pari dell’omicidio LA TORRE fu deciso senza il benché minimo contrasto in seno alla Commissione.

Quando dico Commissione, intendo riferirmi naturalmente alla Commissione di Palermo, senza la partecipazione di esponenti mafiosi di altre provincie, anche se questi ultimi possono avere appreso quella decisione.

A questo riguardo, ritengo opportuno sottolineare che i problemi nascenti a Palermo sono stati e sono sempre risolti esclusivamente dai palermitani (intendendo con ciò comprendere tutta la provincia), senza bisogno di rivolgersi ad uomini d’onore di altre provincie.

Debbo, infatti, sottolineare che Cosa Nostra di Palermo ha sempre avuto un ruolo centrale e sovraordinato rispetto a tutte le altre provincie della Sicilia ed anche rispetto a Cosa Nostra americana.

Prova ne è il fatto che durante i contrasti degli anni Ottanta, ed in particolare dopo l’omicidio di BONTATE STEFANO e di INZERILLO TOTUCCIO, gli esponenti di Cosa Nostra americana si preoccuparono di chiedere a Cosa nostra di Palermo delle direttive a cui attenersi.

In proposito, ho vissuto personalmente uno specifico episodio. Dopo l’omicidio di INZERILLO, GAMBINO JOHN venne a Palermo e, accompagnato da NAIMO ROSARIO, uomo d’onore della famiglia di Cardillo che, però, viveva negli USA, si presentò a RICCOBONO ROSARIO nel villino sulla montagna di Mondello di cui ho già parlato.

Il GAMBINO riferì, appunto, di essere stato inviato da CASTELLANO PAUL, allora capo della sua famiglia, perché il CASTELLANO era preoccupato e desiderava delle direttive.

Allora il RICCOBONO, accompagnato da me personalmente, si recò alla Favarella per riferire questa richiesta a GRECO MICHELE.

Questi disse a SARO di attendere un giorno e di ritornare l’indomani. Nel frattempo, poiché GAMBINO aveva chiesto al RICCOBONO se si poteva fare qualcosa almeno per salvare la vita al vecchio padre di INZERILLO TOTUCCIO, a nome GIUSEPPE, il RICCOBONO prese l’iniziativa di telefonare negli USA allo stesso INZERILLO GIUSEPPE, utilizzando un numero datogli dal GAMBINO.

All’uopo, il RICCOBONO si servì di un telefono che era all’interno di una cabina dell’ENEL, sita sulla montagna vicina al suo villino. A INZERILLO GIUSEPPE il RICCOBONO chiese notizie su BUSCETTA TOMMASO, poiché si sapeva che costui si incontrava con l’INZERILLO. Il senso della richiesta era che, se INZERILLO GIUSEPPE avesse fornito queste informazioni, agevolando così la ricerca di MASINO, avrebbe dimostrato buona volontà ed avrebbe potuto salvare se stesso ed i suoi figli.

Nel corso di questa telefonata, INZERILLO GIUSEPPE confermò che si incontrava talvolta con MASINO, ma soggiunse che negli ultimi tempi quest’ultimo era diventato guardingo e non si faceva più vedere.

L’indomani sera, il RICCOBONO e MICALIZZI TOTUCCIO ritornarono alla Favarella e lì ebbero le direttive da trasmettere a GAMBINO JOHN. L’ordine era di uccidere tutti gli “scappati”, cioè tutti coloro che si erano rifugiati negli USA, essendo già seguaci di BONTATE e di INZERILLO.

Questa direttiva fu rispettata anche negli USA, tant’è che furono lì uccisi INZERILLO PIETRO, fratello di TOTUCCIO, ed inoltre uno zio o un cugino di quest’ultimo, che era lì capo-decina, oltre ad altre persone cola residenti.

IL GAMBINO ed il NAIMO, dopo tre giorni di permanenza a Palermo, rientrarono negli USA, dopo un pranzo che facemmo tutti quanti in un villino del NAIMO, sito in contrada Inserra, intestato ad un suo parente.

Come ho detto, io fui arrestato subito dopo l’omicidio di FERLITO ALFIO, essendo stato ritenuto sulla base di intercettazioni telefoniche coinvolto nella strage. Ovviamente non era vero, ma di questo fatto mi riservo di parlare diffusamente in seguito.

Per ritornare al tema degli omicidi di alti esponenti delle Istituzioni, posso dire quanto mi risulta personalmente in ordine all’omicidio del Cons. CHINNICI ROCCO.

Dell’esecuzione dell’omicidio in sè non conosco alcun particolare, anche perché ero già in carcere da oltre un anno. Tuttavia, so bene che è stato un omicidio che Cosa Nostra programmava da tempo; infatti, nel 1982, il dott. CHINNICI si recava saltuariamente a controllare i lavori di realizzazione di un suo villino sulla montagna, all’altezza di Cardillo, di cui io però non ho mai visto l’esatta ubicazione.

Parlando con RICCOBONO SARO, appresi che era stato deciso di fare saltare in aria il magistrato con l’esplosivo, profittando di questa sua abitudine, in prossimità del villino. A questo scopo SPATOLA BARTOLOMEO, capo famiglia di Cardillo, era stato incaricato di sorvegliare il luogo per verificare le abitudini del magistrato e le modalità della sua tutela.

Il progetto si rivelò difficile da realizzare, perché fu notato che, ogni qual volta il magistrato doveva recarsi nel villino, veniva preceduto da una vetturacivetta della polizia, i cui occupanti controllavano con grande attenzione gli spazi circostanti il villino, per verificare se non vi fosse celato qualcosa.

L’attentato, poi, fu realizzato nel luglio del 1983 e, ripeto, non ne conosco i particolari di esecuzione.

E’ chiaro, tuttavia, che la decisione dell’omicidio risaliva a prima dell’episodio che io ho ricordato ed aveva una motivazione assolutamente pacifica in Cosa Nostra.

Il dott. CHINNICI era particolarmente odiato da Cosa Nostra, perché si era dimostrato il magistrato “più duro” del Tribunale di Palermo nei confronti dei mafiosi e si era rivelato insensibile alle caute sollecitazioni fattegli pervenire attraverso canali insospettabili, com’è uso fare nei confronti di magistrati e, comunque, di persone delle Istituzioni che si sanno essere oneste e corrette.

Fra l’altro, si sapeva nell’ambiente di Cosa Nostra dell’esistenza, nell’ambito degli uffici della polizia e dei carabinieri, di due grossi rapporti se non ricordo male, uno riguardante 161 persone e l’altro concernente 80 persone in fase di elaborazione, in ordine ai quali si sapeva pure che il dott. CHINNICI aveva manifestato la propria propensione a dare loro favorevole sviluppo processuale.

Non so attraverso quali canali questa notizia si fosse diffusa nel nostro ambiente, ma fatto sta che la notizia si era appresa e, parimenti, era noto che in caso di presentazione dei rapporti il dott. CHINNICI avrebbe certamente spiccato numerosi mandati di cattura.

Questo orientamento del dott. CHINNICI era anche recepito nel nostro ambiente come il segnale di un mutamento di tendenza per noi assai pericoloso nel palazzo di Giustizia di Palermo.

Infatti, per un certo periodo abbastanza lungo, si sapeva in un certo senso che nel palazzo di Giustizia vi era la tendenza a non incoraggiare la instaurazione di processi per associazione per delinquere di stampo mafioso.

Il nuovo orientamento del dott. CHINNICI, che era invece notoriamente favorevole alla rivalutazione di questo tipo di politica giudiziaria, costitutiva pertanto per Cosa Nostra un grave pericolo.

Questa, dunque, fu la causa della decisione di sopprimerlo, attuata dopo oltre un anno. Anche in questo caso non vi fu mai il benché minimo dissenso all’interno di Cosa Nostra.

A questo punto, sono le ore 19.00, l’interrogatorio viene sospeso e differito a domani, 18 luglio 1992, ore 9.00.  Letto, confermato e sottoscritto. F.TO: PAOLO BORSELLINO, GUIDO LO FORTE, AMORE DANILO, MUTOLO GASPARE, GIOACCHINO NATOLI.

Il precedente

 

PROCURA DELLA REPUBBLICA PRESSO IL TRIBUNALE DI PALERMO  1.7.1992 – VERBALE DI INTERROGATORIO DI PERSONA SOTTOPOSTA AD INDAGINI

L’anno millenovecento92 il giorno 1 del mese di luglio alle ore 15.00, nei locali della Direzione Investigativa Antimafia in Roma, dinanzi ai Pubblici Ministeri Dr. Paolo BORSELLINO e Dr.Vittorio ALIQUO’, Procuratori Aggiunti della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Palermo, assistiti dall’Isp.P. della PolStato AMORE Danilo, è comparso MUTOLO GASPARE, che invitato a dichiarare le proprie generalità e quanto altro valga ad identificarlo, con l’ammonizione delle conseguenze alle quali si espone chi si rifiuta di darle o le da false, risponde: MUTOLO Gaspare, nato a Palermo il 05.02.1940, detenuto presso una struttura di Polizia conosciuta dalla Direzione Investigativa Antimafia in ottemperanza all’ordinanza nr.2624 del 27.06.1992 della Procura Generale della Repubblica di Perugia. 

Invitato il MUTOLO, facendogli presente che viene interrogato nella qualita’ di indagato di reato collegato, a nominare un difensore di fiducia, dichiara: nomino mio avvocato di fiducia l’Avv.Luigi LI GOTTI del Foro di Roma il quale, convocato, viene introdotto nei locali dove si svolge l’interrogatorio ed unitamente al MUTOLO dichiara di consentire che l’atto venga immediatamente iniziato.

Il MUTOLO preliminarmente dichiara: ho fatto richiesta, nel corso dell’interrogatorio reso al Dr.VIGNA, di conferire con la S.V., Dr.BORSELLINO, dopo essermi espressamente dissociato dall’organizzazione mafiosa Cosa Nostra. Per le ragioni che ho indicato al Dr.VIGNA, che ribadisco, desidero che la S.V. partecipi ai miei interrogatori e desidero altresì che il Dr.DE GENNARO continui altresi ad occuparsi dei miei problemi di sicurezza e assistenza. Nel caso le SS.LL. ritengano di dover delegare gli interrogatori alla Polizia Giudiziaria desidero non venga delegata struttura diversa da quella del Dr.DE GENNARO. Cio’ non costituisce manifestazione di sfiducia verso taluno bensi mia intima necessità di parlare con persona che possa ben comprendermi.—

Naturalmente non ho nessuna difficoltà a colloquiare alla presenza e direttamente con il qui presente Dr.Vittorio ALIQUO. Dichiaro ancora che prima di scendere nei particolari circa i fatti criminosi che sono a mia conoscenza intendo fare un quadro cronologico complessivo delle vicende che mi hanno portato ad inserirmi all’interno di Cosa Nostra e alla mia permanenza e attività all’interno dell’organizzazione, riservandomi nei successivi interrogatori di meglio precisare i punti e rispondere alle domande delle SS.VV.

Sin da giovane sono stato piuttosto sveglio e godevo di una certa considerazione nel quartiere di PALLAVICINO dove abitavo anche se nato a BORGO VECCHIO; conoscevo i personaggi più in vista del quartiere ma nulla sapevo di cose riguardanti l’organizzazione mafiosa se non quelle che potevo immagginare e che apprendevo dalla voce pubblica.

Prima del 1965 trascorsi un periodo di detenzione perchè imputato per reati minori contro il patrimonio. In carcere fui messo nella stessa cella con RIINA SALVATORE con il quale mi mostravo parecchio deferente percependo che era persona importante che gli altri detenuti facevano la fila per salutarlo. Trascorrevo del tempo con lui giocando a dama e mi sottoponevo a piccoli trucchi per consentirgli sempre di vincere con me. Fui così preso dal medesimo in benevola considerazione.

Allorche riuscii ad avere con lui la necessaria confidenza gli chiesi dei consigli circa le persona cui avrei dovuto stare vicino a Partanna-Mondello una volta uscito dal carcere ed egli mi raccomandò di non fare nulla che potesse essere di danno a RICCOBONO SARO, aggiungendo perchè tutti gli altri erano destinati ad essere eliminati. Mi autorizzò anche ad rappresentare questo sui consiglio allorchè se ne fosse presentata l’occasione allo stesso RICCOBONO SARO ed a mandargli i suoi saluti. Fui scarcerato nel 1967 e mi avvenne di avvicinare il fratello di RICCOBONO SARO per fargli modificare un fucile del quale volevo tagliate le canne. Quando mi recai a riprenderlo si fece trovare RICCOBONO SARO il quale facendomi accomodare all’interno in un giardino, intraprese con me una conversazione che in buona sostanza verteva sul mio atteggiamento. E fu proprio in quella occasione che porgendogli i saluti di RIINA gli assicurai che io sarei stato sempre dalla sua parte.

Fui nuovamente arrestato e scarcerato nel 1968, ma non posso essere preciso in queste date in quel periodo sono stato più volte arrestato e scarcerato. Mi misi alla ricerca del RIINA che rintracciai tramite MANCUSO cognato di LEGGIO PINO e COTTONE PIETRO da Corleone. RIINA TOTO ben lieto di rivedermi cominciò ad utilizzarmi quale autista. Infatti più volte mi recai a prenderlo a
Monreale presso tale CASCIO GIOACCHINO. Più volte lo accompagnai a S.Giuseppe Jato insieme a BAGARELLA CALOGERO. In particolare a S.Giuseppe Jato lo portavo alla tenuta di tale MARIOLINO che era un uomo robusto non alto con i baffi e di colorito rossiccio, Lo accompagnavo anche a Ciaculli. Lo accompagnavo talvolta anche al villaggio Ruffini, dove solo successivamente intuii che si recasse probabilmente a trovare MADONIA CICCIO. Quindi fui nuovamente arrestato e rimasi detenuto fino al 1973 allorchè fui scarcerato subito dopo la strage di viale Lazio. Messomi alla ricerca di RICCOBONO SARO appresi che lo stesso si era trasferito a Marano di Napoli dove anche Io mi diressi portando con me la madre di SARO. Ricordo che era un periodo dove vi erano pressanti controlli, poichè vi erano state le dichiarazione di VITALE LEONARDO che aveva indicato molti appartenenti all’organizzazione mafiosa.

Giunto a Marano, presi alloggio in un appartamento assieme a VACCARO NINO e DI BELLA GIOACCHINO. Nel corso della notte ci fu un’irruzione della Polizia in quanto a Roma era stato effettuato l’attentato al Quest. MANGANO e al suo autista e la giulietta utilizzata dal commando era stata ritrovata incendiata nei pressi della tenuta del NUVOLETTA.

Nell’appartamento ove alloggiavo furono trovate tre pistole e fui pertanto arrestato e dichiarai agli inquirenti che mi trovavo colà casualmente in quanto avevo chiesto un passaggio al DI BELLA perchè era cammionista, essendomi sperduto per strada. Fui accusato dell’attentato a MANGANO, ma scarcerato dopo circa un mese. All’uscita dal carcere mi venne a prendere con una mercedes NUVOLETTA ANGELO e RICCOBONO ROSARIO e mi riportarono a Marano dove dopo tre o quattro giorni ebbi modo di incontrare RIINA TOTO’ che era alloggiato in un casolare. Verso la fine del giugno o inizi luglio 1973 a Marano nel baglio del NUVOLETTA Lorenzo alla presenza di: NUVOLETTA LORENZO, SARO RICCOBONO, un napoletano soprannominato BASTIMENTO ed D’AGOSTINO EMANUELE e qualche altro che non ricordo mi fu proposto di affigliarmi a Cosa Nostra e fui effettivamente affiliato con la classica cerimonia della puntura del dito (non ricordo quale, ma non era un dito particolare) inbrattamento con il sangue di una santina religiosa, bruciatura della santina nelle mani e formula del giuramento con promessa di non tradire mai Cosa Nostra, fui aggregato al gruppo di SARO RICCOBONO poichè allora la famiglia di Pallavicino-Partanna era sciolta e poichè era ancora in vita il suo vecchio capo nonchè rappresentante NICOLETTI VINCENZO e come appresso dirò era destinato ad essere eliminato.

A questo, alle ore 17.40, per esigenze d’Ufficio il presente interrogatorio viene sospeso e rinviato alle ore 19.00, dandosi atto che hanno assistito, per esigenze investigative, il T.Col. Domenico DI PETRILLO e il V.Q.a. Francesco GRATTERI, entrambi appartenenti alla D.I.A.  F.TO: PAOLO BORSELLINO, VITTORIO ALIQUO’, MUTOLO GASPARE, AMORE DANILO.

Alle ore 19.15, si riapre l’interrogatorio del MUTOLO Gaspare, dando atto dell’assenza dell’Avv.Luigi LI GOTTI allontanatosi per proprie ragioni d’ufficio.—

Il MUTOLO a.d.r.: in quell’epoca Cosa Nostra veniva retta da un triunvirato composto da BADALAMENTI GAETANO, BONTATE STEFANO e LEGGIO LUCIANO, da parte del BADALAMENTI, il quale ovviamente si era consultato con gli altri, ci venne l’ordine di far fuori il vecchio NICOLETTI VINCENZO appunto con la prospettiva della ricostruzione del mandamento della Piana dei Colli da affidare a RICCOBONO SARO.

Tale strategia il BADALAMENTI seguiva nell’intennto di contrastare quella dei Corleonesi che aspiravano invece a fare rappresentante di questo mandamento GAMBINO GIACOMO GIUSEPPE

La Commissione dell’attentato al NICOLETTI fu assegnata a INZERILLO TOTUCCIO e tale LA BARBERA ANGELO di Passo di Rigano, poichè questa famiglia capeggiata da DI MAIO SARO era all’epoca in disgrazia perchè accusata di aver appoggiato CAVATAIO MICHELE favorendo la latitanza dei suoi amici. Nell’intento di BADALAMENTI questa famiglia si sarebbe riabilitata facendo uccidere da propria elementi il NICOLETTI e questo avrebbe rafforzato la posizione del BADALAMENTI e a un tempo quella del RICCOBONO.—-L’oppurtunità di commettere l’attentato la diede tale BUFFA CICCIO  ‘oppurtunità di commettere l’attentato la diede tale BUFFA CICCIO fratello di BUFFA SALVATORE detto NERONE entrambi di S.Lorenzo. Il BUFFA CICCIO si reco dal NICOLETTI e vi si trattenne pochi minuti:il tempo per accertarsi che il NICOLETTI era nel suo magazzino in compagnia di tale MISIA. Quindi si allontanò e irruppero INZERILLO TOTUCCIO e LA BARBERA che spararono al NICOLETTI che sopravvisse. Anche il MISIA fu ferito.

Il NICOLETTI tuttavia fu ugualmente rimosso da capo famiglia salvando al contempo la vita. Gli si fece infatti sapere che se si fosse fatto vedere ad una certa ora al bar di Pallavicino, sostanzialmente esponendosi con questo gesto, sarebbe stato risparmiato. Egli fece come gli era stato detto e fu risparmiato sebbene posato.– A questo punto potè riformarsi la famiglia Pallavicino della quale fu fatto rappresentante RICCOBONO SALVATORE; si ricostitui la famiglia di Passo di Rigano con rappresentante INZERILLO TOTUCCIO; quella di S.Lorenzo con rappresentante BUFFA TOTO’ detto NERONE. Dopo qualche mese fu ricostituita anche la famiglia di Risultana con rappresentante MADONIA CICCIO. Contestualmente RICCOBONO divenne capo mandamento come ci fu annunciato da GRECO MICHELE in casa di BONTATE STEFANO. La nomina di RICCOBONO fu coeva alla ricostruzione della famiglia di Resuttana, infatti Io MICALIZZI SALVATORE e RICCOBONO SARO ci recammo da MADONIA CICCIO a fondo Patti per annunciargli ufficialmente ricostruire la sua famiglia. Fu intorno a quel periodo che cadde in disgrazia SCAGLIONE SALVATORE soprattutto nei confronti di LEGGIO LUCIANO infatti RICCOBONO in un incontro avuto con LEGGIO in casa di BONTATE STEFANO gli aveva fatto le condoglianze per la morte di BAGARELLA CALOGERO avvenuta nel corso della strage di viale Lazio qualche anno prima. Il LEGGIO gli aveva chiesto come sapesse che il BAGARELLA era morto ed il RICCOBONO aveva risposto con sincerità che glielo aveva detto SCAGLIONE SALVATORE. Di ciò il LEGGIO si era adirato moltissimo dicendo che lui aveva fatto divieto assoluto di raccontare della morte del BAGARELLA a chi che sia e che pertanto avrebbe fatto strangolare lo SCAGLIONE appena lo avrebbe visto davanti a se sia pure in occasione delle rionioni della Commissione di cui entrambi facevano parte, in realtà il LEGGIO si comportava così anche perchè sapeva che lo SCAGLIONE era molto vicino al BADALAMENTI e nel contempo gli era noto che all’interno della famiglia della Noce di cui era rappresentante vi era una forte corrente di contrasto in particolare sostenuta da SPINA RAFFAELE, ANSELMO ROSARIO e GANGI RAFFAELE. RICCOBONO rimase malissimo della decisione del LEGGIO e ne informo BADALAMENTI GAETANO mentre BONTATE come ho detto era presente; i due decisero così di intervenire pressando sul LEGGIO e sullo SCAGLIONE. Su quest’ultimo perchè non si presentasse in Commissione e sul primo perchè non facesse eseguire quella sua decisione. Così infatti avvenne per qualche tempo.  In questo periodo Io e RICCOBONO SARO abitavamo insieme in via Ammiraglio Rizzo entrambi latitanti e sotto falzo nome.

A questo punto alle ore 20.10, mentre il MUTOLO dichiara di poter ancora, ma in altro giorno, riferire non soltanto le linee generali dei fatti come sopra iniziate a narrare ma anche ulteriori singoli episodi di cui man mano potrà ricordarsi, si rinvia l’ulteriore audizione a data da destinarsi


Le confidenze su Gaspare Mutolo, mafioso con qualche amico nei servizi

Sulla scorta degli elementi di prova acquisiti, riferiti dalla Criminalpol di Palermo con Rapporto del giugno 1982, questo procuratore della Repubblica emetteva, il 18 giugno 1982 (due giorni dopo l’uccisione di Alfio Ferlito, capo della fazione catanese avversaria al Santapaola Benedetto), ordine di cattura, per i delitti di associazione finalizzata al traffico di stupefacenti e di commercio di dette

sostanze, contro Gasparini Francesco, Mutolo Gaspare, De Caro Carlo, Iannì Anna e Condorelli Domenico. Tutti gli imputati, ad eccezione del Gasparini, detenuto in Francia, venivano arrestati e, nei loro interrogatori, si protestavano innocenti, non riuscendo, comunque, a dare alcuna seria giustificazione in ordine agli elementi di prova raccolti nei loro confronti. Il Mutolo, anzi, già fin dal primo interrogatorio, manifestava segni di squilibrio mentale.

Il Gasparini, interrogato dal G.I. di Creteil il 3 Febbraio 1983, in esecuzione di commissione rogatoria internazionale, rendeva, questa volta, ampia confessione, confermando le intuizioni e le ipotesi di lavoro degli inquirenti e fornendo importanti indicazioni sulle organizzazioni mafiose coinvolte nel traffico di stupefacenti.

Il prevenuto, probabilmente perché ritenutosi abbandonato dalla organizzazione per cui aveva lavorato ed era stato arrestato, rivelava che era stato uomo di fiducia di Mutolo Gaspare nel traffico di stupefacenti e che quest’ultimo era elemento di spicco della cosca mafiosa di Riccobono Rosario.

Premetteva che la mafia siciliana era stata duramente colpita dalla individuazione, nel Palermitano, di diversi laboratori di eroina e che era stato ritenuto più opportuno, per continuare ad alimentare il traffico verso gli Usa, acquistare direttamente in Estremo Oriente grosse partite di eroina purissima.

Riconosceva, quindi, nella fotografia dell’odierno imputato Koh Bak Kin (un cinese di Singapore già arrestato all’Aeroporto di Roma nel 1976 perchè trovato in possesso di 20 chilogrammi di eroina), il personaggio col quale aveva preso contatti per conto di Mutolo Gaspare al fine di importare grosse partite di eroina dall’Estremo Oriente.

Precisava, al riguardo, che dopo i primi contatti col Kin a Roma, lo aveva fatto incontrare con Mutolo Gaspare a Giulianova e, quindi, era partito per Bangkok per discutere con Kin circa la fornitura di eroina e di morfina base.

In questo primo viaggio, non aveva portato con sè droga ma, al suo ritorno, Kin, a Roma, gli aveva consegnato una partita di Kg. 3,750 di morfina base trasportata in Italia da corriere del Kin attraverso Copenaghen o Stoccolma; egli, in aereo, aveva trasportato la droga a Palermo, dove, secondo quanto aveva appreso, era stata portata in un laboratorio nei pressi di Bagheria.

All’Aeroporto era stato rilevato, a bordo di una BMW, dai fratelli Micalizzi Salvatore e Micalizzi Michele, i quali l’avevano accompagnato in una villa sita in una borgata di Palermo appartenente a Riccobono Rosario (“Saro”) e posta alle pendici di una collina, in una località denominata “Tommaso Natale”. Ivi gli avevano dato la somma di lire 200 milioni che aveva portato a Roma e consegnata a Kin dopo averla cambiata in dollari, avvalendosi di un cambiavalute clandestino a nome Michele, di cui forniva il numero di telefono. Successivamente, egli e Kin erano andati in aereo a Palermo e si erano recati in via Ammiraglio Cagni, 5 e, cioè, nell’abitazione del Mutolo, dove avevano fatto la conoscenza di Riccobono, di Santapaola ed altri elementi di spicco della mafia ed avevano discusso circa l’acquisto di una partita di 500 chilogrammi di eroina, che sarebbe stata trasportata dalla Thailandia a Palermo per mezzo di una nave procurata dal Santapaola; il pagamento della partita di eroina sarebbe stato effettuato con danaro proveniente dagli Usa

Per organizzare l’operazione, egli si era recato nuovamente a Bangkok ed ivi il Kin gli aveva comunicato che si sarebbe recato direttamente negli Usa, a Los Angeles, per incontrarsi con gli esponenti della mafia siculo-americana, destinatari finali dell’ingente partita di eroina, con cui avrebbe concordato le modalità di pagamento del prezzo.

Dal canto suo, il Gasparini non aveva potuto incontrare il fornitore della droga, poichè quest’ultimo aveva avuto paura nell’apprendere che l’eroina era destinata alla mafia siciliana.

Tuttavia, su istruzione del Mutolo datagli per telefono, aveva acquistato quattro chili d’eroina che avrebbe dovuto portare con sè fino a Palermo; a Parigi, però, era stato arrestato essendo stata trovata la droga nel suo bagaglio. Infine, il Gasparini forniva il numero di telefono (2864295) usato da Kin a Bangkok, riconosceva fotograficamente Riccobono Rosario e Gerlando Alberti, definito dal Gasparini grandissimo amico del Riccobono, indicava, altresì, il numero di telefono di un bar di Palermo (259421), che sosteneva essere gestito da un certo “Enzo” appartenente alla “famiglia” di Riccobono, ma di proprietà effettiva di Micalizzi Michele.

Il Gasparini, infine, precisava che il Mutolo era in contatto con funzionari del Sisde.

La dichiarazione del Gasparini appare pienamente attendibile perchè obiettivamente riscontrata dalle successive indagini in punti di decisiva importanza.

Il Gasperini aveva parlato dei fratelli Micalizzi, il cui nome non avrebbe potuto conoscere se in qualche modo non fosse stato in contatto con essi e, soprattutto, aveva indicato il numero di telefono di un bar di Palermo (259421) e di un certo “Enzo”, legato ai Micalizzi. Ebbene, l’utenza in questione, intestata a Lo Piccolo Giuseppa, moglie di tale Puccio Ciro, è risultata installata nella portineria di uno stabile sito in questa via La Marmora 82, e, cioè, a pochi metri del bar Singapore TWO, nel quale, come accertato da appostamenti eseguiti dalla Polizia, era stata notata la continua presenza di Micalizzi Giuseppe e dei figli Michele e Salvatore.

In questo bar, formalmente intestato a Cannella Vincenzo, erano stati assassinati, il pomeriggio del 30 Novembre 1982, il fratello Cannella Domenico e Di Giovanni Filippo, indiziati di appartenenza alla “famiglia” di Riccobono Rosario; inoltre, quello stesso pomeriggio, era scomparso proprio Cannella Vincenzo. Ma anche su altri punti di non secondaria importanza veniva riscontrata l’attendibilità del Gasparini. Veniva accertato, infatti, che il cambiavalute a nome “Michele”, indicato dal Gasparini, si identificava, appunto, per Minesi Michele, il cui numero telefonico corrispondeva esattamente a quello indicato dal prevenuto.

Anche sul punto dei rapporti del Mutolo con funzionari del Sisde, la dichiarazione del Gasperini trovava testuale conferma.

Dall’esame testimoniale del dotto Fabbri Mario, funzionario del Sisde, emergeva, infatti, che era stato proprio Gasparini a porlo in contatto col Mutolo, presentatogli come grosso esponente della mafia siciliana, che egli avrebbe voluto utilizzare per contattare estremisti. Anzi, in proposito, va ricordata una circostanza significativa, riferita dal Fabbri: Mutolo, nel confidargli che un estremista di destra gli aveva chiesto un mitra, aveva proposto al Fabbri di farlo arrestare con un Kalashnikov, che avrebbe procurato lo stesso Mutolo (“Iu ciu dugnu e poi nu sucamu” e, cioè, io glielo consegno e, poi, lo arrestiamo).

Il disegno, poi, non era stato attuato e non è detto nè che il Mutolo realmente avesse avuto contatti col terrorista nè che fosse realmente intenzionato a fornirgli l’arma; ma è importante che proprio il Mutolo abbia fatto il nome del tipo di arma e, cioè, del Kalashnikov; infatti, come si vedrà in seguito, le armi usate per uccidere Ferlito Alfio, in territorio controllato dalla “famiglia” di Riccobono Rosario, sono state, anche, dei Kalashnikov.

Essendo opportuno un ulteriore approfondimento della dichiarazione del Gasparini, il medesimo veniva nuovamente interrogato a Creteil, alla presenza dei Magistrati italiani e in esecuzione di commissione rogatoria internazionale, il 14 ed il 15 aprile 1983. Anche stavolta l’interrogatorio del Gasperini si rivelava proficuo.

L’imputato, in sintesi, dichiarava che: aveva conosciuto Buscetta Tommaso in carcere, a Palermo, nel 1979 ed aveva notato che lo stesso godeva di posizione di supremazia rispetto agli altri detenuti; lo stesso Buscetta gli aveva detto che era buon amico di Leggio ed era nolurio che in seno alla mafia i due avessero la stessa importanza; Mutolo Gaspare era buon amico di Buscetta Tommaso, tanto che la moglie ed i figli di quest’ultimo erano stati ospitati a casa del Mutolo durante la detenzione del primo a Palermo: successivamente, peraltro, rapporti si erano guastati per motivi a lui ignoti e Mutolo gli aveva detto di lasciar perdere Buscetta, mentre in un primo momento aveva intenzione di farli incontrare per motivi inerenti al traffico di stupefacenti; il 30 aprile 1981, cioè dopo pochi giorni dall’omicidio di Bontate, aveva partecipato, a Palermo, nella villa di Riccobono Rosario, con Mutolo e con altri mafiosi, ad un banchetto, nel corso del quale aveva potuto afferrare brani di frasi pronunziate dagli altri invitati, i quali parlavano molto riservatamente fra di loro, del seguente tenore: “…il falco, uno è fatto, pensiamo all’altro”; ed egli si era reso confusamente conto che si stava per organizzare qualcosa contro qualcuno “per prendere in mano la situazione”; la moglie di Mutolo, al ritorno da Sulmona, dove era andata a visitare il marito detenuto, aveva subito un furto di gioielli a Napoli; ed egli, su incarico del Mutolo ricevuto per lettera, era andato a trovare, a Roma, tale Brusca Giovanbattista (che, poi, sarebbe stato ucciso, nell’ottobre 1981, ad opera di ignoti) per cercare di recuperare i gioielli; il Brusca lo aveva condotto in un negozio sito nei pressi del Provveditorato agli Studi, gestito da un siciliano che aveva tre o quattro fratelli, il quale, a sua volta, lo aveva accompagnato in un altro negozio, denominato “OrientaI Shop” e gestito da un napoletano a nome Nunzio, il quale si era assunto l’incarico di avvertire Gerlando Alberti, che in quel momento si trovava a Napoli; conosceva Bellavia Giovanni e sapeva che lo stesso era coinvolto nel traffico degli stupefacenti; […] insieme con Brusca grande amico di Puccio e Bonanno, due degli assassini del capitano Basile avrebbe dovuto incontrarsi con un certo Cino di Ladispoli per organizzare un traffico di cocaina, al quale avrebbero dovuto partecipare pure i catanesi fratelli Ferrera e Cannizzaro Umberto (parenti di Santapaola Benedetto); Zannini Mirella faceva parte di un’organizzazione di ladri e aveva procurato a dei falsi passaporti con il visto di ingresso negli Usa a Koh Bak Kin, che usava per la sua corrispondenza, a Bangkok, la casella postale P.O. Box 2081; […].

Infine, esibitegli numerose fotografie, il Gasparini riconosceva quelle di: Cannella Vincenzo, il gestore del bar dei Micalizzi; Riccobono Rosario, Micalizzi Michele e Micalizzi Salvatore; Cancelliere Domenico, come una delle persone che avevano partecipato al banchetto nella villa di Riccobono Rosario, e che era stato coi Micalizzi e con esso Gasparini, in un ristorante palermitano stile Liberty, ad una cena, nel corso della quale si era parlato liberamente di traffico di stupefacenti; Cusimano Giovanni, come l’autista ed uomo di fiducia di Riccobono Rosario, che aveva il compito di controllare la zona durante l’incontro di Kin con Santapaola, Riccobono ed un’altra persona a lui sconosciuta; Di Giacomo Giovanni e Romano Giovanbattista come persone che aveva notato nel bar Singapore Two.

[…] Anche le dichiarazioni rese in questo secondo interrogatorio dal Gasperini sono attendibili per una serie di considerazioni logiche per le risultanze dei successivi accertamenti. F.te DOMANI


Voglio Paolo Borsellino. Mi fido solo di lui

(Gaspare Mutolo)
Gaspare Mutolo annunciò per la prima volta di voler collaborare con gli inquirenti all’inizio del 1992, a una condizione: avrebbe rivelato i segreti della mafia solo a Falcone. Ma il nuovo incarico romano del giudice non gli consentiva più di farlo, e quindi il pentito si rifiutò di parlare con altri. Solo dopo la sua morte, cambiò idea. Come tanti, sia dentro che fuori dalla mafia, considerava Borsellino l’erede naturale di Falcone e annunciò:
<>.
Questi aveva grandi aspettative su quanto Mutolo fosse disposto a dirgli. <>, disse il procuratore a un collega.
Quando Borsellino incontrò Mutolo a Roma, il collaboratore rivelò senza indugio che la mafia aveva degli infiltrati sia in polizia che in tribunale. Fece il nome di due presunte spalle: Bruno Contrada, l’ex capo della squadra mobile di Palermo che ora lavorava per il servizio segreto SISDE di Roma, a il giudice antimafia Domenico signorino, amico e collega di Borsellino.
Una telefonata inaspettata interruppe l’interrogatorio di Borsellino. Dopo aver risposto alla chiamata, il procuratore disse a Mutolo che era stato convocato dal neonominato ministro dell’Interno Nicola Mancino, che si era insediato in carica quel giorno: sarebbe tornato entro mezz’ora. Borsellino fu di ritorno dopo un’ora, ed era infuriato e preoccupato.
Mutolo gli domandò cos’era successo.
Borsellino gli disse che, invece il ministro, aveva visto Vincenzo Parisi, capo della polizia, e il generale Contrada, proprio quello che il collaboratore aveva appena indicato come spalla della mafia. Borsellino era infuriato perché entrambi erano venuti a conoscenza del suo incontro con Mutolo.
<<L’interrogatorio è segreto, come diavolo ha fatto Contrada a scoprirlo?>>, gridò Borsellino, ignorando Mutolo.
Il procuratore era così agitato che accese due sigarette contemporaneamente e le tenne entrambe nella mano.
<<Dottore, ha due sigarette!>>, gli disse Mutolo.
Borsellino rise, ma era ancora nervoso. Continuò a insistere che dovesse fargli mettere per iscritto la sua dichiarazione, ma Mutolo rifiutò: non voleva perché era sicuro che sarebbe stato ucciso e preferiva mettere nero su bianco ciò che riguardava le gerarchie nella mafia.
Non si sa se Mutolo disse a Borsellino di avere sentito nel 1980, dodici anni prima, che la mafia voleva eliminare il procuratore, perché aveva firmato un mandato d’arresto per il boss Francesco Madonia, accusato dell’omicidio, avvenuto quell’anno, del capitano dei carabinieri Emanuele Basile. Gli assassini spararono a Basile mentre, con la figlioletta in braccio, si dirigeva in caserma con la moglie. Entrambe rimasero illese.
Nel 2007 la Cassazione condannò Contrada a dieci anni di prigione per i legami con la mafia; l’anno successivo gli concessero i domiciliari per motivi di salute. Signorino, l’altra spalla secondo Mutolo, si suicidò nel dicembre del 1992.
(JOHN FOLLAIN i 57 giorni che hanno sconvolto l’Italia)

Le confidenze su Gaspare Mutolo, mafioso con qualche amico nei servizi


Sulla scorta degli elementi di prova acquisiti, riferiti dalla Criminalpol di Palermo con Rapporto del giugno 1982, questo procuratore della Repubblica emetteva, il 18 giugno 1982 (due giorni dopo l’uccisione di Alfio Ferlito, capo della fazione catanese avversaria al Santapaola Benedetto), ordine di cattura, per i delitti di associazione finalizzata al traffico di stupefacenti e di commercio di dette

sostanze, contro Gasparini Francesco, Mutolo Gaspare, De Caro Carlo, Iannì Anna e Condorelli Domenico. Tutti gli imputati, ad eccezione del Gasparini, detenuto in Francia, venivano arrestati e, nei loro interrogatori, si protestavano innocenti, non riuscendo, comunque, a dare alcuna seria giustificazione in ordine agli elementi di prova raccolti nei loro confronti. Il Mutolo, anzi, già fin dal primo interrogatorio, manifestava segni di squilibrio mentale.

Il Gasparini, interrogato dal G.I. di Creteil il 3 Febbraio 1983, in esecuzione di commissione rogatoria internazionale, rendeva, questa volta, ampia confessione, confermando le intuizioni e le ipotesi di lavoro degli inquirenti e fornendo importanti indicazioni sulle organizzazioni mafiose coinvolte nel traffico di stupefacenti.

Il prevenuto, probabilmente perché ritenutosi abbandonato dalla organizzazione per cui aveva lavorato ed era stato arrestato, rivelava che era stato uomo di fiducia di Mutolo Gaspare nel traffico di stupefacenti e che quest’ultimo era elemento di spicco della cosca mafiosa di Riccobono Rosario.

Premetteva che la mafia siciliana era stata duramente colpita dalla individuazione, nel Palermitano, di diversi laboratori di eroina e che era stato ritenuto più opportuno, per continuare ad alimentare il traffico verso gli Usa, acquistare direttamente in Estremo Oriente grosse partite di eroina purissima.

Riconosceva, quindi, nella fotografia dell’odierno imputato Koh Bak Kin (un cinese di Singapore già arrestato all’Aeroporto di Roma nel 1976 perchè trovato in possesso di 20 chilogrammi di eroina), il personaggio col quale aveva preso contatti per conto di Mutolo Gaspare al fine di importare grosse partite di eroina dall’Estremo Oriente.

Precisava, al riguardo, che dopo i primi contatti col Kin a Roma, lo aveva fatto incontrare con Mutolo Gaspare a Giulianova e, quindi, era partito per Bangkok per discutere con Kin circa la fornitura di eroina e di morfina base.

In questo primo viaggio, non aveva portato con sè droga ma, al suo ritorno, Kin, a Roma, gli aveva consegnato una partita di Kg. 3,750 di morfina base trasportata in Italia da corriere del Kin attraverso Copenaghen o Stoccolma; egli, in aereo, aveva trasportato la droga a Palermo, dove, secondo quanto aveva appreso, era stata portata in un laboratorio nei pressi di Bagheria.

All’Aeroporto era stato rilevato, a bordo di una BMW, dai fratelli Micalizzi Salvatore e Micalizzi Michele, i quali l’avevano accompagnato in una villa sita in una borgata di Palermo appartenente a Riccobono Rosario (“Saro”) e posta alle pendici di una collina, in una località denominata “Tommaso Natale”. Ivi gli avevano dato la somma di lire 200 milioni che aveva portato a Roma e consegnata a Kin dopo averla cambiata in dollari, avvalendosi di un cambiavalute clandestino a nome Michele, di cui forniva il numero di telefono. Successivamente, egli e Kin erano andati in aereo a Palermo e si erano recati in via Ammiraglio Cagni, 5 e, cioè, nell’abitazione del Mutolo, dove avevano fatto la conoscenza di Riccobono, di Santapaola ed altri elementi di spicco della mafia ed avevano discusso circa l’acquisto di una partita di 500 chilogrammi di eroina, che sarebbe stata trasportata dalla Thailandia a Palermo per mezzo di una nave procurata dal Santapaola; il pagamento della partita di eroina sarebbe stato effettuato con danaro proveniente dagli Usa

Per organizzare l’operazione, egli si era recato nuovamente a Bangkok ed ivi il Kin gli aveva comunicato che si sarebbe recato direttamente negli Usa, a Los Angeles, per incontrarsi con gli esponenti della mafia siculo-americana, destinatari finali dell’ingente partita di eroina, con cui avrebbe concordato le modalità di pagamento del prezzo.

Dal canto suo, il Gasparini non aveva potuto incontrare il fornitore della droga, poichè quest’ultimo aveva avuto paura nell’apprendere che l’eroina era destinata alla mafia siciliana.

Tuttavia, su istruzione del Mutolo datagli per telefono, aveva acquistato quattro chili d’eroina che avrebbe dovuto portare con sè fino a Palermo; a Parigi, però, era stato arrestato essendo stata trovata la droga nel suo bagaglio. Infine, il Gasparini forniva il numero di telefono (2864295) usato da Kin a Bangkok, riconosceva fotograficamente Riccobono Rosario e Gerlando Alberti, definito dal Gasparini grandissimo amico del Riccobono, indicava, altresì, il numero di telefono di un bar di Palermo (259421), che sosteneva essere gestito da un certo “Enzo” appartenente alla “famiglia” di Riccobono, ma di proprietà effettiva di Micalizzi Michele.

Il Gasparini, infine, precisava che il Mutolo era in contatto con funzionari del Sisde.

La dichiarazione del Gasparini appare pienamente attendibile perchè obiettivamente riscontrata dalle successive indagini in punti di decisiva importanza.

Il Gasperini aveva parlato dei fratelli Micalizzi, il cui nome non avrebbe potuto conoscere se in qualche modo non fosse stato in contatto con essi e, soprattutto, aveva indicato il numero di telefono di un bar di Palermo (259421) e di un certo “Enzo”, legato ai Micalizzi. Ebbene, l’utenza in questione, intestata a Lo Piccolo Giuseppa, moglie di tale Puccio Ciro, è risultata installata nella portineria di uno stabile sito in questa via La Marmora 82, e, cioè, a pochi metri del bar Singapore TWO, nel quale, come accertato da appostamenti eseguiti dalla Polizia, era stata notata la continua presenza di Micalizzi Giuseppe e dei figli Michele e Salvatore.

In questo bar, formalmente intestato a Cannella Vincenzo, erano stati assassinati, il pomeriggio del 30 Novembre 1982, il fratello Cannella Domenico e Di Giovanni Filippo, indiziati di appartenenza alla “famiglia” di Riccobono Rosario; inoltre, quello stesso pomeriggio, era scomparso proprio Cannella Vincenzo. Ma anche su altri punti di non secondaria importanza veniva riscontrata l’attendibilità del Gasparini. Veniva accertato, infatti, che il cambiavalute a nome “Michele”, indicato dal Gasparini, si identificava, appunto, per Minesi Michele, il cui numero telefonico corrispondeva esattamente a quello indicato dal prevenuto.

Anche sul punto dei rapporti del Mutolo con funzionari del Sisde, la dichiarazione del Gasperini trovava testuale conferma.

Dall’esame testimoniale del dotto Fabbri Mario, funzionario del Sisde, emergeva, infatti, che era stato proprio Gasparini a porlo in contatto col Mutolo, presentatogli come grosso esponente della mafia siciliana, che egli avrebbe voluto utilizzare per contattare estremisti. Anzi, in proposito, va ricordata una circostanza significativa, riferita dal Fabbri: Mutolo, nel confidargli che un estremista di destra gli aveva chiesto un mitra, aveva proposto al Fabbri di farlo arrestare con un Kalashnikov, che avrebbe procurato lo stesso Mutolo (“Iu ciu dugnu e poi nu sucamu” e, cioè, io glielo consegno e, poi, lo arrestiamo).

Il disegno, poi, non era stato attuato e non è detto nè che il Mutolo realmente avesse avuto contatti col terrorista nè che fosse realmente intenzionato a fornirgli l’arma; ma è importante che proprio il Mutolo abbia fatto il nome del tipo di arma e, cioè, del Kalashnikov; infatti, come si vedrà in seguito, le armi usate per uccidere Ferlito Alfio, in territorio controllato dalla “famiglia” di Riccobono Rosario, sono state, anche, dei Kalashnikov.

Essendo opportuno un ulteriore approfondimento della dichiarazione del Gasparini, il medesimo veniva nuovamente interrogato a Creteil, alla presenza dei Magistrati italiani e in esecuzione di commissione rogatoria internazionale, il 14 ed il 15 aprile 1983. Anche stavolta l’interrogatorio del Gasperini si rivelava proficuo.

L’imputato, in sintesi, dichiarava che: aveva conosciuto Buscetta Tommaso in carcere, a Palermo, nel 1979 ed aveva notato che lo stesso godeva di posizione di supremazia rispetto agli altri detenuti; lo stesso Buscetta gli aveva detto che era buon amico di Leggio ed era nolurio che in seno alla mafia i due avessero la stessa importanza; Mutolo Gaspare era buon amico di Buscetta Tommaso, tanto che la moglie ed i figli di quest’ultimo erano stati ospitati a casa del Mutolo durante la detenzione del primo a Palermo: successivamente, peraltro, rapporti si erano guastati per motivi a lui ignoti e Mutolo gli aveva detto di lasciar perdere Buscetta, mentre in un primo momento aveva intenzione di farli incontrare per motivi inerenti al traffico di stupefacenti; il 30 aprile 1981, cioè dopo pochi giorni dall’omicidio di Bontate, aveva partecipato, a Palermo, nella villa di Riccobono Rosario, con Mutolo e con altri mafiosi, ad un banchetto, nel corso del quale aveva potuto afferrare brani di frasi pronunziate dagli altri invitati, i quali parlavano molto riservatamente fra di loro, del seguente tenore: “…il falco, uno è fatto, pensiamo all’altro”; ed egli si era reso confusamente conto che si stava per organizzare qualcosa contro qualcuno “per prendere in mano la situazione”; la moglie di Mutolo, al ritorno da Sulmona, dove era andata a visitare il marito detenuto, aveva subito un furto di gioielli a Napoli; ed egli, su incarico del Mutolo ricevuto per lettera, era andato a trovare, a Roma, tale Brusca Giovanbattista (che, poi, sarebbe stato ucciso, nell’ottobre 1981, ad opera di ignoti) per cercare di recuperare i gioielli; il Brusca lo aveva condotto in un negozio sito nei pressi del Provveditorato agli Studi, gestito da un siciliano che aveva tre o quattro fratelli, il quale, a sua volta, lo aveva accompagnato in un altro negozio, denominato “OrientaI Shop” e gestito da un napoletano a nome Nunzio, il quale si era assunto l’incarico di avvertire Gerlando Alberti, che in quel momento si trovava a Napoli; conosceva Bellavia Giovanni e sapeva che lo stesso era coinvolto nel traffico degli stupefacenti; […] insieme con Brusca grande amico di Puccio e Bonanno, due degli assassini del capitano Basile avrebbe dovuto incontrarsi con un certo Cino di Ladispoli per organizzare un traffico di cocaina, al quale avrebbero dovuto partecipare pure i catanesi fratelli Ferrera e Cannizzaro Umberto (parenti di Santapaola Benedetto); Zannini Mirella faceva parte di un’organizzazione di ladri e aveva procurato a dei falsi passaporti con il visto di ingresso negli Usa a Koh Bak Kin, che usava per la sua corrispondenza, a Bangkok, la casella postale P.O. Box 2081; […].

Infine, esibitegli numerose fotografie, il Gasparini riconosceva quelle di: Cannella Vincenzo, il gestore del bar dei Micalizzi; Riccobono Rosario, Micalizzi Michele e Micalizzi Salvatore; Cancelliere Domenico, come una delle persone che avevano partecipato al banchetto nella villa di Riccobono Rosario, e che era stato coi Micalizzi e con esso Gasparini, in un ristorante palermitano stile Liberty, ad una cena, nel corso della quale si era parlato liberamente di traffico di stupefacenti; Cusimano Giovanni, come l’autista ed uomo di fiducia di Riccobono Rosario, che aveva il compito di controllare la zona durante l’incontro di Kin con Santapaola, Riccobono ed un’altra persona a lui sconosciuta; Di Giacomo Giovanni e Romano Giovanbattista come persone che aveva notato nel bar Singapore Two.

[…] Anche le dichiarazioni rese in questo secondo interrogatorio dal Gasperini sono attendibili per una serie di considerazioni logiche per le risultanze dei successivi accertamenti. DOMANI.IT