Via D’Amelio, la VERITÀ della MENZOGNA – Il racconto di Lucia Borsellino e Fabio Trizzino in Commissione Antimfia

 

 

COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA – 27 settembre, 2, 6 e 24 ottobre 2023

 

 

 

Pubblichiamo il resoconto stenografico delle audizioni della dottoressa Lucia Borsellino e dell’avvocato Fabio Trizzino, legale della famiglia Borsellino.
Attraverso la loro ampia  e sofferta testimonianza  si offre la rappresentazione di un pezzo di STORIA  di questo Paese da leggere/rileggere e conservare.

Per completezza i loro racconti vengono integrati con gli interventi della Presidente Colosimo (prima esponente istituzionale in trentun anni a chiedere perdono alla Famiglia Borsellino) e dei Commissari. Non escluso quello del Senatore Roberto Maria Ferdinando Scarpinato la cui vantata ma limitata “eleganza istituzionale” non gli ha consentito di astenersi dal partecipare ai lavori di di una sessione della Commissione che lo vede parte in causa.
Circa la sua partecipazione ai lavori della Commissione, non essendoci precedenti analoghi, la Presidente Colosimo si è rimessa alla sensibilità del Senatore (già magistrato) che, come si è visto, ha tuttavia decisamente optato per esserci, chiedere per primo la parola e orientare il proprio intervento nei modi e nei termini  ben stigmatizzati dalla Presidente.


LUCIA BORSELLINO Un dato è certo, quello che ci è stato consegnato in tutti questi anni in cui abbiamo assistito allo svolgersi di svariate vicende processuali con sentenze passate in giudicato attraverso i tre gradi di giudizio, è, per dirla con le parole di mia sorella Fiammetta, la verità della menzogna, perché non abbiamo trovato altre frasi per appellare il depistaggio che è stato consumato sulla strage di via D’Amelio.
Nonostante tutto, e questo ci tengo a sottolinearlo, il nostro rispetto e la nostra fiducia nei confronti della magistratura e degli apparati investigativi e delle istituzioni nel loro complesso è stata assolutamente massima e non è mai venuta meno..

 

 

 

 

27.9.2023  LUCIA BORSELLINO.

Saluto tutti i presenti e saluto e ringrazio il presidente Colosimo per questa opportunità. Io sono qui anche in rappresentanza di mio fratello Manfredi e di Fiammetta Borsellino, che attraverso me la ringraziano, presidente, non soltanto per avere invitato la mia persona ma anche per aver consentito l’audizione di mio marito, l’avvocato Fabio Trizzino, che è anche legale e che rappresenta me e i miei fratelli, insieme con l’avvocato Vincenzo Greco del foro di Palermo, nei processi che riguardano la strage di via D’Amelio, come parti civili, presso il competente tribunale di Caltanissetta.
Essere qui per me oggi è un onore ma anche un onere non indifferente, per l’impegno che circostanze come questa richiedono sotto il profilo emotivo.
Parlare di fatti strettamente riguardanti la mia famiglia, e quindi la mia vita, ci costringe in occasioni come questa a mettere a dura prova la nostra sensibilità di fronte a fatti che devono riemergere chiaramente dalla nostra memoria, per cui sono sempre delle incursioni che a volte destrutturano la faticosa ricerca anche di un equilibrio interiore che abbiamo perseguito in tutti questi trentun anni che ci separano dalla morte di mio padre.
Detto questo, dico che in quanto figlia di Paolo Emanuele Borsellino, avendo convissuto con lui insieme con mia madre Agnese Piraino e ai miei fratelli Manfredi e Fiammetta fino all’ultimo giorno della sua vita, che è stata stroncata a Palermo, in via D’Amelio, il 19 luglio del 1992, noi siamo testimoni diretti di vita vissuta con mio padre.

Nel senso che abbiamo condiviso e supportato le sue scelte e lo abbiamo accompagnato in ogni dove e abbiamo assunto su di noi anche i rischi che queste scelte comportavano in maniera assai consapevole. Rischi che si sono estesi anche post mortem, in quanto tutto questo non è bastato per metterci al riparo, seppure sui figli, anche da tentativi di delegittimazione.
In quanto testimoni siamo stati ascoltati di fronte all’autorità giudiziaria in diverse occasioni.
Per quanto riguarda la mia persona, sono stata convocata per la prima volta solo a partire dal 19 ottobre 2015 nell’ambito del processo cosiddetto «Borsellino quater», cui è seguita poi un’altra audizione il 14 luglio 2016, sempre nell’ambito dello stesso processo, per poi il 3 dicembre 2018 ritornare in aula insieme con mio fratello Manfredi nell’ambito del processo cosiddetto «Depistaggio» contro gli ex poliziotti Mario Bo ed altri afferenti al nucleo investigativo denominato «Falcone e Borsellino».
Prima di allora soltanto mia madre è stata sentita nel marzo del 1995, eravamo ancora al processo «Borsellino 1», e successivamente nell’agosto 2009 e, se non vado errata, nel gennaio del 2010.
In tutte queste circostanze le nostre testimonianze hanno messo a fuoco momenti di vita vissuta con mio padre, soprattutto negli ultimi 57 giorni che sono intercorsi tra le stragi di Capaci in cui persero la vita Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e i tre agenti della loro scorta e la strage di via D’Amelio, in cui persero la vita anche cinque agenti di scorta insieme a mio padre.
In particolare mia madre ha testimoniato in ordine anche a confidenze direttamente ricevute dal marito, ancorché egli avesse ritenuto proprio di trasferirle nei modi come era consueto fare.
Dico ciò perché, finché è stato in vita, mio padre ha sempre cercato di tutelare gli altri componenti del suo nucleo familiare, in quanto il suo rischio era verosimilmente potenziato dall’avere un nucleo familiare composto da altre quattro persone che molto spesso camminavano con lui.
Dico ciò in quanto le nostre testimonianze non potevano chiaramente scaturire da conoscenza diretta di atti o documenti inerenti al lavoro di mio papà, in quanto sia mia madre, per l’enorme rispetto che poneva nei riguardi del lavoro di mio padre e il dovuto riserbo che papà teneva sul suo lavoro, che noi figli, poco più o poco meno che ventenni all’epoca dei fatti, non potevamo certo conoscere il contenuto di atti e documenti.
Oggi col senno di poi me ne rammarico, perché avrei voluto offrire un contributo molto più significativo come figlia ma ancor più come cittadina, ma evidentemente avrei fatto anche più fatica a ottenere l’equilibrio che siamo faticosamente riusciti a raggiungere, perché chiaramente per dei figli poco più che adolescenti venire a conoscenza diretta anche di documenti o atti inerenti la vita lavorativa di papà, e quindi anche elementi di dettaglio molto più approfonditi, ci avrebbero turbato non poco, vieppiù anche nelle fasi successive dopo la sua morte.
Dico questo anche con riferimento ai contenuti dell’agenda rossa, di cui mia madre peraltro è stata la prima testimone nei giorni immediatamente successivi al compiersi della strage.
La mamma ha testimoniato sull’esistenza di questa agenda; pur non conoscendone chiaramente i contenuti, capiva perfettamente quanto questo strumento fosse prezioso dal momento che mio padre non se ne separava mai e lo vedeva spesso annotare su di esso appunti e impegni di lavoro.
Il ritrovamento dell’agenda grigianella mia abitazione è stata frutto, infatti, della pervicacia mia e di mio fratello, che soltanto dopo la morte di papà abbiamo cercato, in un’ottica estremamente collaborativa con l’autorità giudiziaria, di perlustrare ogni angolo della nostra abitazione pur di reperire atti e documenti che potessero essere utili ai fini investigativi.
Oggi siamo qui per offrire ancora una volta, non me ne vogliate, un tributo di riconoscenza ai miei genitori per averci donato la vita, ma soprattutto ai familiari delle vittime, con le quali ci accomuna questo dolore.
E poi anche per i nuclei familiari che faticosamente abbiamo costruito successivamente, per i nostri figli.
Perché, vedete, si può accettare sicuramente una morte per cause naturali perché si ha l’opportunità di accompagnare un proprio caro fino alla fine, nel caso di mio padre, sì, un accompagnamento c’è stato ma sicuramente non quello che avremmo voluto.
Ed è proprio la strage del 19 luglio che ha segnato profondamente la nostra vita, non solo del mio nucleo familiare originario ma anche dei nuclei familiari che abbiamo costituito successivamente, estendendo i propri effetti in maniera indelebile e irreversibile anche sulle nuove generazioni, a partire dai nostri figli.
Quindi sono qui oggi perché a parte le date che vi ho ricordato, nelle quali abbiamo reso testimonianza, noi abbiamo agito in tutti questi anni, avendo fiducia piena nelle istituzioni, in quanto la nostra vita è stata permeata al senso del più alto rispetto delle istituzioni, così come ci ha insegnato nostro padre, avendole assunte sempre come presidio principale di garanzia di legalità e giustizia.
Tuttavia, l’esserci resi conto che il corso delle indagini sulla strage nella quale mio padre perse la vita stesse per rivelare il determinarsi di gravissimi depistaggi, così come poi si è accertato si siano determinati già il giorno stesso, a partire dal giorno stesso del compimento della strage, ci ha portato a impegnarci più direttamente non solo con la partecipazionediretta alle udienze dei processi che si sono svolti al tribunale di Caltanissetta, insieme con i nostri legali, ma anche con la formulazione di precise e circostanziate istanze volte alla ricerca della verità, che abbiamo rappresentato sia in sedi pubbliche per voce anche in un certo periodo di mia sorella Fiammetta, ma anche in tutte le possibili sedi istituzionali, anche le più autorevoli.
Oggi siamo qui per riproporre anche queste istanze volte alla conoscenza piena della verità sulla strage di via D’Amelio.
Chiediamo che le componenti statuali, competenti a vario titolo e livello, possano far piena luce senza pregiudizi e senza condizionamenti su quelli che sono stati i particolari dettagli della vita di mio padre, documentati in atti e testimonianze dirette, che hanno caratterizzato gli ultimi momenti della sua vita, soprattutto nei 57 giorni tra le due stragi.
Chiediamo questo perché siamo convinti, dopo aver assistito in tutti questi anni al percorrere anche di piste investigative, alcune delle quali sono giunte alla loro definizione giudiziaria, ci siamo convinti che le altre piste che sono state solcate non hanno del tutto, o addirittura in alcuni casi assolutamente, considerato atti, documenti e prove testimoniali che potessero fornire degli elementi a nostro avviso indispensabili per comprendere il contesto nel quale mio padre operava e il profondo stato di prostrazione e di isolamento nel quale ha vissuto fino agli ultimi giorni della sua vita. E di cui, ripeto, siamo testimoni.
Le nostre richieste sono nel massimo rispetto dell’operato delle istituzioni, senza alcuna pretesa di volere sostenere una tesi piuttosto che un’altra perché noi non siamo tecnici, lo sono i nostri avvocati, tecnici del diritto, lo sono i magistrati ma certamente non noi figli, non ci compete.
Pur non volendo sostenere alcuna tesi e non avere la pretesa di conoscere la verità, quella che vogliamo offrire oggi è una ricostruzione operata su una mole di atti, documenti e testimonianze che grazie al lavoro di mio marito, e ringrazio per questo il presidente per avere consentito l’audizione del nostro legale, vorremmo rassegnare degli elementi a questa Commissione che possono essere suscettibili di ulteriore approfondimento con il rigore logico che questi documenti meritano, per lo scopo che ci siamo prefissati e che credo trovi in voi un obiettivo comune.
Lo vogliamo perché si faccia chiarezza, perché il diritto alla verità non sia un’ossessione della famiglia Borsellino o degli altri familiari delle vittime.
Il diritto alla verità è un diritto che appartiene all’intera collettività e noi pensiamo che sia doveroso consegnare alle nuove generazioni la narrazione fedele di ciò che realmente è accaduto in quella fase drammatica della storia del nostro Paese oltre che della nostra famiglia.



FABIO TRIZZINO

Grazie. Io volevo salutare il presidente Colosimo, la ringrazio per avermi invitato. Ringrazio voi tutti per la pazienza, ma data la delicatezza dei temi che dovrò trattare questa pazienza si impone.
Perché, vedete, nella ricostruzione che mi accingo a fare ho seguito un metodo rigoroso di indagine, proprio perché questa ricostruzione dei fatti per certi versi potrà in qualche modo sollevare più che un interrogativo.
Perché, vedete, Paolo Borsellino io me lo immagino in questo momento dietro di me con una foto, con quella foto gigantesca, in cui si trova da solo nei corridoi del palazzo di giustizia.
Un palazzo di giustizia che era diventato per lui, e ve lo dimostrerò, un luogo in cui probabilmente non si trovava più a proprio agio.
Tant’è vero che a distanza di anni poi abbiamo saputo che, appunto come diceva Lucia al culmine della sua prostrazione psicofisica di quei giorni, lo ebbe a definire un «nido di vipere».
È un modo di esprimersi del dottor Borsellino assolutamente inconsueto.
Chi ha conosciuto Borsellino sa che viveva il proprio ruolo di magistrato, ma soprattutto viveva l’istituzione magistratuale con il massimo del rispetto possibile.
Quindi dovremmo cercare di capire perché quell’uomo a un certo punto definì il suo ufficio un nido di vipere.
D’altra parte vi devo dire che l’interesse per la ricostruzione che io vi farò nasce anche da un dato puramente di strategia comunicativa.
Vedrete che questa indagine si fonderà in gran parte rigorosamente su dichiarazioni provenienti da testi qualificati, perché colleghi.
Ma non soltanto per questo, perché l’attendibilità intrinseca del dichiarante verrà sostanzialmente riscontrata estrinsecamente dall’incrocio di altre dichiarazioni nel frattempo raccolte e che quindi convergono tutte logicamente verso l’accertamento della circostanza da dimostrare.
C’è un problema di strategia comunicativa, perché in tutti questi anni è stata riportata la testimonianza resa dalla signora Agnese, dalla vedova Piraino, in cui Paolo Borsellino, al culmine del senso di morte incombente che ormai era per così dire inevitabile (poi vedremo se era veramente inevitabile questa Morte, se questo sacrificio era evitabile), a un certo punto (se voi cliccate su Google «frasi famose di Paolo Borsellino» vi sono anche delle copertine di libri che riportano questa frase) lui dice alla moglie, e la moglie ne fa testimonianza alla procura della Repubblica di Caltanissetta: «Mi uccideranno, ma non sarà una vendetta della mafia, la mafia non si vendica. Forse saranno mafiosi quelli che materialmente mi uccideranno, ma quelli che avranno voluto la mia morte saranno altri».
Ebbene, è stato costantemente espunto, censurato in questa definizione il riferimento «ma quelli che avranno voluto la mia morte saranno i miei colleghi e altri». «I miei colleghi».
Se noi incrociamo, quindi, questa confidenza del dottor Borsellino con la testimonianza del 2009 riconfermata nel 2011 dalla dottoressa Alessandra Camassa e dal dottor Massimo Russo, in cui ci dicono che il dottor Borsellino definisce il suo ufficio un nido di vipere, noi allora dobbiamo andare a cercare dentro l’ufficio della procura di Palermo per vedere se allora si posero in atto condotte che in qualche modo favorirono quel processo di isolamento, delegittimazione e indicazione come target e obiettivo di Paolo Borsellino, che sono quelle condizioni essenziali che hanno sempre preceduto gli omicidi eccellenti a Palermo.
Quindi, giocoforza, andare a vedere rigorosamente, epistemologicamente attraverso un metodo rigoroso, se già nel 1992 vi erano elementi sulla cui base ricostruire le dinamiche comportamentali che avevano potuto giustificare quell’affermazione incredibile per chi ha conosciuto il giudice Borsellino, che lo ha portato a definire il suo ufficio un nido di vipere.
Ebbene, da questo punto di vista è stato per noi un dolore immenso e incommensurabile avere scoperto che già dal luglio del 1992 esistevano dei verbali dell’audizione dei magistrati della procura di Palermo, in cui vuoi per la vicinanza rispetto al fatto eclatante, cioè la strage, vuoi perché in quella procura vi era un malessere che covava da tempo, i magistrati di allora furono sinceri e privi di qualunque freno inibitorio nel racconto delle dinamiche messe in atto dal procuratore Giammanco, che resero di fatto impossibile la vita di un magistrato valoroso e valente come il giudice Paolo Emanuele Borsellino.
La cosa gravissima che io denuncio in questa sede è che il dottor Pietro Giammanco non è mai stato sentito nell’ambito dei procedimenti per strage.
Giammanco è stato sentito dalla procura di Caltanissetta nell’ambito di altri procedimenti, di cui parleremo più avanti, relativi alla cosiddetta illecita divulgazione di quello che giornalisticamente viene chiamato il rapporto mafia appalti, ma che io tecnicamente definisco comunicazione notizie di reato così definita: annotazione relativa alle attività di polizia giudiziaria esperita in merito a un’associazione per delinquere di tipo mafioso, strutturalmente inserita nell’organizzazione denominata cosa nostra, tendente ad acquisire la gestione o comunque il controllo delle attività economiche di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici nel territorio della regione Sicilia.
Volgarmente e giornalisticamente detto «dossier mafia appalti».
Cercheremo quindi attraverso questa ricostruzione di ancorare su dati certi e inoppugnabili, così come deve fare lo storico e non solo il giurista.

Qui siamo in sede di ricostruzione storica, e questo è (non me ne voglia la presidente) il significato che in ambito processuale in qualche modo non si è riusciti ad avere la verità, quindi ci è toccato spostare il piano della ricostruzione sul versante storico.
Ma proprio per rendere questa ricostruzione la più stringente precisa possibile, i canoni applicativi e il metodo epistemologicamente seguito da me nella ricostruzione è come se fossi in un ambito strettamente processuale, quindi con i limiti derivanti, per esempio, dall’attendibilità delle.
dichiarazioni di chi le fa. E vi posso fin da subito dire che è stato mio dovere, nella ricostruzione che vi proporrò, innanzitutto proporvi dichiarazioni che hanno superato il vaglio delle corti d’assise finanche in Cassazione.
Ho evitato anche l’estrapolazione frammentaria di una dichiarazione da un verbale, piuttosto che un’altra, perché questo a volte costituisce elemento che può ingenerare confusione se non si porta il carattere completo della dichiarazione.
Perché magari, nel corso di una sentenza, una dichiarazione viene riportata ma appena sopra o appena sotto quella dichiarazione viene smontata.
Quindi vi proporrò delle dichiarazioni che dovrò leggere qualche volta, perché vi rendiate conto che dietro questa mia attività c’è un lavoro massacrante, la lettura di 19 sentenze sulla strage di via D’Amelio, la lettura del rapporto dei ROS, 900 pagine, dell’informativa Sirap, altre 600, dell’informativa Caronte altrettanto, verbali della commissione.
Non so neanch’io quante cose ho letto.
Allora, proprio per rendere la mia ricostruzione onestamente attendibile, vi dico che laddove ci saranno contrasti, laddove le dichiarazioni presentano elementi di contrasto io li farò presenti.
E sulla base, poi, di altri elementi che andremo a incrociare da questa incredibile messe di atti proporrò una conclusione logicamente accettabile, ma credetemi solo sulla base di un criterio invalso nella giurisprudenza in relazione all’interpretazione dell’art. 192 del codice di procedura penale.
Sono contento di essere qui.
Vorrei ricordare una citazione di Sciascia.
Sciascia, commentando una dichiarazione alla Camera del 26 febbraio 1980, commentando la Relazione di minoranza dell’onorevole Niccolai, ebbe a dire: «Io sono stato intervistato a Palermo dalla televisione francese e la televisione francese mi ha chiesto perché io avessi dubbi sui lavori di una Commissione parlamentare antimafia».
Sciascia dice: «Se fosse venuta la televisione italiana avrei risposto ugualmente come ora vi dico». Sciascia dice: «Assolutamente, io non ho mai messo in dubbio…»
È un dibattito mai sopito quello, ancora oggi attuale, circa il fatto che la nostra presenza qui abbia un significato importante.
Io ritengo che sia per noi un momento di passaggio istituzionalmente fondamentale. Sciascia dice: «No, io non ho mai voluto dire che i lavori della Commissione non sono importanti.
Anzi, le dirò di più.
Ci sono cose utili, si evince per esempio chiaramente che i marescialli dei carabinieri e i marescialli di pubblica sicurezza quasi sempre hanno fatto il loro dovere, ma è più in alto che non si è fatto quello che si doveva fare».
Fatta questa citazione e date queste premesse, l’oggetto della nostra ricostruzione (che, ripeto, è una ricostruzione che vuole offrire a voi spunti per un approfondimento) vuole dimostrare sostanzialmente una cosa, che è stata un po’ negletta e trascurata, benché le sentenze passate in giudicato (Borsellino ter, Borsellino quater in particolare) hanno sempre posto l’accento sull’interesse di Paolo Borsellino sulla scorta del pregresso interesse di Giovanni Falcone sull’indagine denominata «Mafia appalti».
Per capire l’importanza e le potenzialità investigative di questo dossier vorrei sostanzialmente darvi qualche piccola coordinata di contestualizzazione storica, cioè nel momento in cui si calano le stragi di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino e le indagini dei ROS.
Il 1992 si apre con la conferma in Cassazione della sentenza del maxiprocesso.
Nel febbraio 1992 accadono due episodi importanti, totalmente divaricati, totalmente non assimilabili, perché avvengono una a nord e l’altra al sud.
Il 17 febbraio 1992 (se sbaglio qualche data è documentale, capite bene quante date devo tenere a mente) viene arrestato Mario Chiesa, il presidente del Pio Albergo Trivulzio.
Vengono trovate nel suo ufficio due mazzette, 50 milioni nel cassetto e poi 10 milioni in una busta che gli era stata consegnata dall’imprenditore delle imprese di pulizia, che messosi d’accordo con la polizia giudiziaria guidata dal dottor Antonio Di Pietro organizzano il blitz e lo arrestano in flagrante.
Egli tenta in maniera abbastanza ridicola di lanciare nel water quella busta e di accampare delle scuse, per evitare l’arresto in flagranza, che quei soldi erano roba sua e che non c’entravano niente con le mazzette.
Ebbene, dalla mazzetta di dieci milioni nel novembre siamo arrivati alla megatangente Enimont. Questo rapporto a mio giudizio, nella sua imperfezione, so che non era perfetto, ma adeguatamente sviluppato il rapporto era molto di più che una mazzetta.
Esso, adeguatamente sviluppato, avrebbe mirato al cuore del sistema.
Vi è un’altra data importante, il 24 febbraio Riina subisce l’ulteriore batosta, quella definitiva, cioè la condanna per il processo di Emanuele Basile.
Lì c’è un tentativo di avvicinamento da parte del notaio Ferraro con il giudice Scaduti per cercare di ammorbidire la sentenza, devo dire che il giudice Scaduti per fortuna parla con il dottor Borsellino, il quale gli consiglia di fare una relazione di questo tentativo di corruzione.
Grazie a quella relazione, Scaduti in qualche modo ha evitato secondo me guai grossissimi. Però Paolo Borsellino, ritornando a casa, disse alla moglie: «Me la faranno pagare, perché la vicenda di Basile mi perseguita».
Voi dovete sapere che l’odio di Salvatore Riina nei confronti di Paolo Borsellino è antecedente a quello nei confronti di Giovanni Falcone.
Borsellino era odiato, era considerato da Riina (scusate l’espressione) «un grandissimo cornuto inavvicinabile».
L’altro evento importante avviene il 12 marzo 1992, l’assassinio dell’eurodeputato Salvo Lima.
La storia si è incaricata di definire il ruolo di Riina nello scacchiere siciliano.
Il 5 aprile 1992 il corpo elettorale, democraticamente, dà il primo colpo serio al sistema partitocratico, di fatto dando appunto la possibilità alla Lega di raggiungere il 25 per cento in Lombardia e il 9 per cento su base nazionale.
Vi prego di non considerare il 9 per cento di allora con riferimento ai tempi di oggi, perché il 9 per cento di allora, in cui ancora il sistema morente ma pronto a giocarsele tutte prima di crollare, pronto a giocarsele tutte le carte prima di crollare, il 9 per cento era un grimaldello devastante, che nel coagulare il malcontento degli italiani stava dando l’ulteriore colpo a un sistema partitocratico già in crisi per effetto dell’onda lunga derivante dal crollo del Muro di Berlino e quindi degli equilibri politici che avevano dal 1948 retto l’Europa e quindi l’Italia in particolare.
Il 28 aprile 1992 Cossiga si dimette. L’ultimo anno di Presidenza della Repubblica di Cossiga si connotò quale effetto dell’onda lunga della caduta del Muro di Berlino, però serie di picconate al sistema.
Egli si dimette perché sa che sta arrivando lo tsunami delle indagini di Mani Pulite, sa che non può nel semestre bianco avere alcun potere di formalizzare una crisi di governo, sa che c’è un popolo italiano inviperito da quello che man mano emerge dalle inchieste milanesi, quindi ha la necessità di fare il passaggio di consegne onde consentire a un Presidente della Repubblica nei pieni poteri eventualmente di sciogliere e formalizzare una crisi qualora Presidenti di consiglio incaricati o in carica potessero essere raggiunti da avvisi di garanzia.
Prima di arrivare al 28 aprile c’è qualcosa che devo ricordare, c’è l’omicidio il 4 aprile 1992 del maresciallo Guazzelli ad Agrigento. Lo devo ricordare perché a questo farò riferimento nel corso della mia relazione.
Il 23 maggio 1992 muore Falcone e si sblocca l’impasse parlamentare per l’elezione del Presidente della Repubblica. Il 28 giugno 1992 giura il Governo Amato.
Il 10 luglio 1992, di notte, il Governo Amato, per impedire che l’Italia fuoriesca dal sistema monetario europeo, con un decreto legge dispone il prelievo forzoso dai conti correnti degli italiani (di una somma irrisoria, per carità lo 0,06 per cento).
Ma quegli italiani a cui viene fatto il prelievo forzoso se avessero scoperto che i politici erano invece lì non a rubare, sostanzialmente a utilizzare la spesa pubblica, gli enti pubblici economici, come una gallina dalle uova d’oro da cui sostanzialmente ricavare gli elementi per il sostentamento di un sistema degenerato e arricchimenti personali.
Voi vi rendete conto che ci sono ragioni serie di allarme per reagire nei confronti di magistrati che volevano appunto scoprire quel malaffare.
Questi sono dati che vanno considerati prima ancora di entrare, perché dal punto di vista storico il crollo del Muro di Berlino ha degli effetti che non si rivelano immediatamente, ma si diffondono in un arco di tempo più o meno lungo.
In Italia l’ondata è arrivata intanto nel 1990 con le inchieste su Gladio, la rivelazione dell’esistenza di un sistema di controspionaggio quali stay behind e poi tutto il resto. Cioè il sistema è costretto a tirar fuori tutti gli elementi che, se giustificabili in un’ottica di contrapposizione tra NATO e Paesi dell’Est, ora non sono più giustificabili.
Allora resta un sistema che gli manca solo che i cittadini italiani scoprono, attraverso delle indagini fatte seriamente, che il punto d’incontro tra mafia, politica ad alti livelli, imprenditoria soprattutto di rilevanza nazionale, e quello dell’erosione della spesa pubblica, questi sono elementi che a mio giudizio fanno diventare recessiva l’applicazione di paradigmi interpretativi volti, per esempio, a rinfocolare l’eversione di Destra o di Sinistra.
Perché l’eversione di Destra o di Sinistra aveva una sua giustificazione in una logica sostanzialmente di contrapposizione fondata sul vecchio equilibrio.
Il vecchio equilibrio è finito e qui si sta rivelando in tutta la sua oscena rappresentazione la degenerazione del sistema partitico, della partitocrazia.
Paolo Borsellino era solito dire che la mafia e la politica hanno in comune una cosa: il controllo del territorio.
La lettura del rapporto Mafia-Appalti è la materializzazione, a nostro sommesso avviso, di questa tregua, di questa pace, di questo accordo. È chiaro che essendoci dall’altra parte l’associazione mafiosa ogni tanto essa fa valere il suo peso di associazione.
Quando vi dicevo che il rapporto per certi versi è imperfetto, lo dico nel momento in cui dà una visione panmafiosa della illecita gestione.
Perché in realtà l’esistenza dei comitati d’affari sono un prius rispetto all’associazione mafiosa.
Tant’è vero che gli stessi magistrati, giustamente, nella richiesta di arresto del 25 giugno 1991 riconoscono che l’avvicinarsi della mafia alla gestione illecita degli appalti è un climax, cioè si passa da fasi di parassitismo – faccio pagare il pizzo per il territorio in cui insiste l’opera pubblica da realizzare – a un sistema di infiltrazione sempre più preponderante.
Ma l’acqua piovana per infiltrarsi deve avere un tetto da cui infiltrarsi e in cui infiltrarsi, gli accordi tra politici e grandi imprese precedono, il sistema delle combine precede il co-protagonismo di cosa nostra. Perché è un disegno egemonico specifico di Salvatore Riina quello di pretendere, visto che il sistema dei partiti sta crollando, attraverso l’istanza economica, agganciando i grandi imprenditori nazionali, di raggiungere le sedi del potere.
L’aleatorietà dei punti di riferimento, conseguente al processo irreversibile di disgregazione del sistema partitocratico, impone alla mafia di ridisegnare i collegamenti e i meccanismi di controllo, perché la politica non può essere più il campo della mediazione.
Questo è andato bene nel vecchio sistema, quando tutti, chi da una parte e chi dall’altra, per fini diversi, avevano l’interesse a ottenere il controllo del territorio.
La politica in termini di assistenzialismo clientelare e di controllo dell’elettorato, la mafia in termini di controllo del territorio tout-court, in una interazione costante reciproca di totale tentativo di plasmare in tal modo una società civile capace di andare oltre le dinamiche e i contrasti all’interno di una stessa organizzazione politica.
In altri termini, quel sistema di potere che si era in qualche modo consolidato da circa trent’anni in Sicilia, dagli anni Sessanta fino alle stragi del 1992, andava bene a tutti.
Io vi leggerò, se volete, un’intercettazione tra Domenico La Cavera, consigliere di amministrazione della Sirap, ed Emanuele Macaluso, in cui si parla dello studio di via Sciuti di Ciancimino in cui tutti si recavano a prendere la loro parte di tangente, e ridono nell’ambito di quella trascrizione.
Io trovo tutto questo sommamente immorale, lo trovo sommamente immorale.
La conventio ad excludendum riguardava il Partito Comunista ed era una conventio ad excludendum nel senso che la mafia non aveva un’ideologia, non ha mai avuto un’ideologia, ma sicuramente non ha mai detto votate per il Partito Comunista.
Il Partito Comunista, attraverso il sistema delle cooperative, aveva un modo indiretto di partecipare alla gestione della torta.La conventio ad excludendum era per il Movimento Sociale, Destra nazionale, in quanto se c’è una cosa che ha sostanzialmente sempre unito, in Sicilia in particolarmente, mafia, clero, politica, l’antifascismo da un lato e l’anticomunismo dall’altro.
C’è da dire che tutto questo, come vedete, ci fa comprendere che cosa?
Ci fa comprendere innanzitutto l’importanza del dossier.
Ripeto, è un atto imperfetto, non possiamo considerarlo un rapporto perfetto. Così come non era perfetta la mazzetta di Chiesa, però alla fine si è arrivati alla megatangente Enimont. Bisognava starci sopra.
D’altra parte Falcone, che ne sollecitò la consegna nel febbraio del 1991, disse in un dibattito che bisognava in qualche modo riaffinare le metodologie di indagine, anche perché ormai, disse, esiste una centrale unica.
Non centrale mafiosa. No, parla di centrale unica degli appalti.
Ho risentito la registrazione, perché ho letto da qualche parte che si parlava di centrale mafiosa. No, Falcone dice «centrale unica degli appalti» in cui sono coinvolti tutti. E lo dice a Castello Utveggio nel marzo del 1991.
Mi interessava fare questa premessa perché è importante calare l’interesse prima di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino per il rapporto del ROS, perché altrimenti non si capisce l’importanza dell’interesse stesso e dell’indagine e perché è possibile, in un’ottica preventiva, che siano stati entrambi assassinati.
Nel caso di Borsellino l’elemento è ancora più importante laddove si consideri che l’accelerazione dell’esecuzione della strage non ha senso guardando agli interessi puri e semplici dell’organizzazione di Salvatore Riina.
Voi sapete meglio di me che era in discussione la conversione in legge del decreto legge dell’8 giugno del 1992, con cui, come secondo pacchetto di norme voluto da Giovanni Falcone, finalmente si dota la magistratura, le forze dell’ordine e chi deve sul territorio combattere la mafia, di un sistema di norme che forte dell’esperienza di Giovanni Falcone finalmente poteva contrapporre una certa efficacia nell’azione di contrasto.
Venne introdotto il doppio binario procedurale. Venne introdotto il 41 bis!
E, come sempre era successo in ragione di quella contiguità, di quella commistione di cui parlavo prima tra forze di governo e mafia, perché la mafia è sempre stata un antistato, sì, ma ha svolto più una funzione di complementarietà nell’azione di controllo del territorio, controllo della società civile.
Io mi sono sempre chiesto da bambino perché Palermo diventa sempre lo sfondo per atti che non potevano accadere in nessun’altra parte d’Italia?
Palermo è stato il luogo in cui si sono consumate delle tragedie che probabilmente, nel momento stesso in cui venivano compiute, si sapeva che l’opinione pubblica, la società civile avrebbe assorbito il colpo; e dall’altro le forze di governo, in qualche modo contigue a questo sistema malato, avrebbero garantito quella sorta di camera di compensazione per un frazionamento della risposta legata a una logica emergenziale. E poi tutto ricominciava daccapo.
La fine del sistema dei partiti introduce un elemento di aleatorietà per cui questo non è più possibile.
Riina lo capisce subito, lo capisce nel 1991, quando Falcone e Violante riescono, tramite Brancaccio, a sottrarre il maxiprocesso affidandolo al collegio di Arnaldo Valente.
Sa che il sistema ha i suoi problemi, c’è il malessere, ampi settori della società civile non accettano più perché stanno male economicamente, c’è uno scollamento, c’è una crescita (finalmente, dico io) della società civile rispetto a un fenomeno che ha distrutto le magnifiche sorti progressive di questo Paese. Finalmente la società civile comincia a reagire,il corpo elettorale ha reagito.
Così come il Movimento 5 Stelle nel 2017 hanno ottenuto il 30 per cento e oltre, giustamente. Perché il corpo elettorale in una democrazia matura, quando le cose vanno male, decide.
Non necessariamente bisogna passare da chissà quali strategie eversive, politicamente eversive, solo politicamente eversive. Questo è un punto chiave.
Questo è un punto fondamentale: non si può ammazzare Borsellino e sperare che lo Stato non reagisca.
Quindi ci deve essere stato qualcosa di talmente importante per cui Riina va sopra gli interessi dell’organizzazione e deve fermare i magistrati su indicazione, su suggerimento di terzi, deve fermare quei magistrati che possono mettere in pericolo il già morente sistema dei partiti, che pensava in tal modo di poter evitare l’inevitabile.
Doveva morire anche Di Pietro, non dimenticatelo. Doveva morire anche Di Pietro.
Quindi devono morire quei magistrati che hanno a che fare con inchieste che possono portare a disvelare il sistema marcio dei partiti, che aveva sostanzialmente distrutto l’economia italiana. Questo Borsellino lo capisce.
C’è un’importantissima testimonianza resa da Di Pietro nell’aprile del 1999 nell’ambito del processo Borsellino ter, in cui parlando con Borsellino dicono «dobbiamo trovare il sistema per fare parlare gli imprenditori».
Questo è molto importante. Di Pietro dice: «Io attraverso gli imprenditori arrivo ai politici».
Borsellino dice: «No, in Sicilia c’è cosa nostra, gli imprenditori non è così facile farli parlare.
Però dobbiamo trovare il sistema per farli parlare». È molto importante che sia Di Pietro che Borsellino mirano ai politici indirettamente.
Sanno che facendo parlare gli imprenditori sarebbero arrivati al sistema politico.

Questo mi servirà nel corso dell’audizione, quando dovrò sostanzialmente ritenere debole l’argomentazione secondo cui il rapporto del ROS non conteneva il nome di tutti i politici.
A parte che questo poi lo potremo verificare punto per punto, ma il punto non è il politico, il politico ha avuto un ruolo fondamentale, ma devi trovare il grimaldello per arrivare al politico.
Ed erano talmente convinti sia Di Pietro che Borsellino che il grimaldello sarebbe stato l’imprenditore, solo che Borsellino non ha avuto il tempo di arrivarci.
Questa lunghissima premessa era doverosa perché secondo me l’analisi di contesto va sempre fatta, altrimenti non riesco a spiegare bene l’importanza della mancata valorizzazione di quel dossier già nel febbraio del 1991.
Borsellino perché ritorna a Palermo?
Intanto Borsellino ritorna a Palermo, e prende possesso il primo marzo del 1992 del suo ufficio, perché è in qualche modo costretto da due necessità altrettanto valide.
Soprattutto ricongiungersi con la famiglia, dopo che dall’agosto del 1986 svolgeva le proprie funzioni presso la procura come procuratore della Repubblica a Marsala, dove ha svolto un lavoro estremamente importante sul fronte sia del contrasto alla mafia criminale, quella militare, che sul fonte del contrasto degli interessi connessi all’illecita gestione degli appalti.
Questo è un punto fondamentale, tenetelo a mente: Borsellino conosce perfettamente il rapporto ROS perché, rispetto alla fase marsalese, vi sono degli elementi che, come raccontano rispetto alla riunione del 14 luglio che abbiamo scoperto esserci stata di recente, fanno pensare che Borsellino, avendo una profonda conoscenza del rapporto, avendo egli fatto delle investigazioni trasferite per competenza poi a Marsala con riferimento al 416 bis, Borsellino poté sollevare, come ci dicono alcuni sostituti procuratori, delle richieste rivolte al dottor Guido Lo Forte rispetto agli esiti della richiesta di rinvio a giudizio nei confronti di Siino, Li Pera, Falletta, Morici, Cascio e Buscemi Vito.
Ma lui ritorna, arriva lì sapendo che ha a che fare con Giammanco. Dice: «Non ho alternative», perché la legge istitutiva del novembre del 1991, convertita poi nella legge 20 gennaio 1992, istitutiva della Direzione nazionale mafia e della direzione distrettuale antimafia, lo costringe ad andare a Palermo perché le indagini di mafia ora vengono accorpate presso la procura del capoluogo del distretto di corte d’appello.
Cioè Borsellino a Marsala non avrebbe potuto condurre più indagini per mafia, se voleva suo continuare il suo impegno avrebbe dovuto necessariamente operare da Palermo.
Arriva a Palermo e il dottor Giammanco gli affida il coordinamento delle indagini sulla provincia di Trapani e Agrigento, mentre il coordinamento delle indagini per la provincia di Palermo viene gestita dal dottor Vittorio Aliquò.
È interessante, perché dal verbale di queste audizioni che noi abbiamo scoperto, che sono state tenute nel cassetto per quasi trent’anni, non sono state riversate in nessun processo sulla strage di via D’Amelio, benché ci siamo attardati in trent’anni a ricostruire minuziosamente anche i respiri del dottor Borsellino in quei 57 giorni, in questi verbali in cui finalmente abbiamo anche le sue confidenze a magistrati, il suo dolore, i suoi sfoghi, questi verbali non ci sono stati messi a disposizione.
Ecco come li ho scoperti, ne ho trovato traccia nella richiesta di archiviazione della dottoressa Gilda Loforti, con riferimento a una dichiarazione frutto di un cattivo ricordo del dottor Pignatone, con riferimento alla riunione dell’8-10 luglio in cui Borsellino sarebbe stato informato dell’archiviazione.
Ebbene, a pagina 79 di quel verbale che finalmente siamo riusciti a trovare, il dottor Pignatone dichiara che in quella riunione, svoltasi tra l’8 e il 10 luglio, si parlò delle archiviazionie il dottor Borsellino quindi ne era al corrente.
Piccolo particolare, il dottor Borsellino dal 6 al 9 si trovava a Francoforte a Mannheim e poi risiede a Roma fino al 12 luglio. Questo emerge dalla sua agenda grigia ed emerge come inconfutabilmente e oggettivamente accertato nell’ambito dei processi sulla strage di via D’Amelio.
Quindi il dottor Pignatone ricorda male, Borsellino alla riunione o dell’8 o del 10 luglio non ci poteva essere perché era in Germania e il 10 era a Roma.
Noi scopriamo questi verbali, li otteniamo e troviamo uno scrigno segreto attraverso cui decifrare finalmente tutta una serie di dati che ci erano stati consegnati come dati acquisiti, cioè si era detto che il procuratore Giammanco ha osteggiato Borsellino con riferimento alla delega per la gestione di Gaspare Mutolo. Bene, tutti hanno detto questo.
All’interno di quei verbali trovate la specificazione di ogni singolo passaggio, del dispiacere, dell’amarezza, dell’umiliazione del dottor Borsellino che deve chiedere, lui che aveva fatto il maxiprocesso, una sorta di aiuto a due giovani, cioè Guido Lo Forte e Gioacchino Natoli, di intercedere presso il capo perché lui ottenga finalmente la titolarità di un fascicolo, atteso che Gaspare Mutolo aveva chiesto di parlare con lui.
Vi renderete conto che per noi è stato un colpo.
Cioè, nelle sentenze si dice: «Va be’, l’ha osteggiato, di qua e di là», poi vado a leggere i verbali e c’è tutta la descrizione.
C’è la descrizione, eh beh, ha telefonato Guido Lo Forte, ha telefonato Gioacchino Natoli, «Paolo, stai tranquillo, la delega l’avrai!».
Ma stiamo parlando di Paolo Borsellino, uno che aveva fatto il maxiprocesso e che in un Paese diverso avrebbero dovuto… No, arriva lì e gli si dice: «No, tu hai bisogno dell’intercessione di Lo Forte o di Gioacchino Natoli per ottenere la delega»! Su questo io poi mi attarderò un poco perché è molto importante per capire l’umiliazione e l’amarezza di quell’uomo.
E qui, mi dispiace, io non voglio apparire animato da chissà quale livore.
Non è così, credetemi, è doloroso.
E non c’è sovrastruttura esplicativa che tiene rispetto a delle dinamiche che avvengono all’interno di un ufficio di procura, che è il presidio della legalità.
Noi possiamo tutti quanti guardare alle cointeressenze, guardare tutte le ricostruzioni possibile, ognuna legittima, basta solcarla.
Ma la realtà dei fatti è che Borsellino l’inferno lo ha vissuto nel suo ufficio! E questo va detto agli italiani. Gli italiani devono sapere.
E, ripeto, la cosa più grave è che al dottor Giammanco è stato dato il commodus discessus. Il dottor Giammanco è l’unico magistrato che è stato costretto alle dimissioni per una lettera, firmata anche dal qui presente senatore Scarpinato, con cui in poche parole lo si costringeva alle dimissioni per la sua totale impossibilità di restare in quell’ufficio.
Ebbene, il dottor Giammanco non è mai stato audito da un sostituto procuratore della Repubblica della procura di Tinebra per dire: «Scusami, cosa è successo?
Perché i tuoi sostituti ti hanno mandato via? E soprattutto ci spieghi la telefonata del 19 luglio del 1992 alle sette e un quarto?»
Atteso che dimostrerò che quella telefonata non riguardava la delega a Mutolo, che viene finalmente concessa il 18, sabato, al dottor Borsellino, ma riguardava finalmente la delega su tutte le indagini del comparto palermitano, donde finalmente potere dare sfogo al piano investigativo volto a vivificare le inchieste di Mafia-Appalti di cui all’incontro, da vero e proprio carbonaro, alla caserma Carini del 25 giugno del 1992 con il colonnello Mori e con il capitano De Donno.
La signora Agnese Borsellino, il 25 marzo del 1993, dichiara dinanzi a una corte d’assise: «Mio marito riceve questa telefonata, i rapporti col dottor Giammanco erano pessimi. La telefonata ha il seguente tenore: non ho dormito tutta la notte,da domani puoi avere le indagini su Palermo così la partita è chiusa». Paolo Borsellino chiude il telefono e dice alla moglie: «La partita è aperta e comincia a passeggiare nervosamente per il corridoio di casa».
Tenete a mente questa circostanza, perché io plausibilmente riuscirò, attraverso il contenuto delle audizioni del CSM del 1992, a dimostrarvi che il dottor Borsellino (per carità, non è una verità, io non porto verità, porto elementi su cui poi ognuno farà le sue valutazioni, io vi porto elementi, dopodiché ognuno farà le sue valutazioni) ha dunque la delega su Palermo la mattina dello stesso giorno in cui viene ucciso.
Come ho dichiarato in un’unica trasmissione giornalistica, perché io tendo a fuggire le dichiarazioni giornalistiche per un motivo molto semplice: quando le vicende sono complesse come queste ci vuole una consequenzialità giusta o sbagliata tra antecedente, tra presupposti, svolgimento e conclusioni, un’intervista giornalistica non potrà mai consentire di spiegare così compiutamente questa vicenda.
Il dottor Borsellino molto probabilmente ha appreso sul conto del procuratore Giammanco delle notizie così terribiliche lo portano a interrompere il flusso delle comunicazioni, quindi a venir meno un pochino a quel principio importantissimo in una procura, per cui il procuratore aggiunto deve parlare con il suo procuratore capo, e di questo devo dire che il dottor Borsellino ne ha parlato col senatore Scarpinato, ne ha parlato con Vittorio Teresi e ne ha parlato con Antonio Ingroia.
Quindi tre magistrati di quella procura sapevano che con riferimento a un’indagine specifica, che collegava l’omicidio Lima alla strage Falcone, Borsellino aveva riferito ad alcuni suoi colleghi che avrebbe gradito in qualche modo, partendo dall’omicidio Guazzelli, che alcune informazioni non arrivassero al procuratore capo.
Ed effettivamente il senatore Scarpinato, nel corso della sua audizione del luglio del 1992, dice una cosa che è giusta, perché si trattava di Paolo Borsellino.
Ma una cosa del genere non sta in piedi, io non posso stare in una procura – dice – in cui sostanzialmente esistono due procure, sono l’uno contro l’altro armato però bisogna vedere chi ha attaccato e chi ha dovuto difendersi in questa contesa, e chi si è difeso se si è difeso per salvare se stesso da un pericolo imminente e grave che comunque non è riuscito a evitare e quindi in pieno stato di necessità.
Quello che rimane da questa descrizione cos’è?
Possiamo utilizzare tutte le sovrastrutture descrittive del contesto che ha prodotto. Ma, come diceva Manzoni nel capitolo decimo: «La conversa non dovevate cercarla in Olanda, a Meda, ma dentro le mura del monastero».
Con questo voglio dire che dentro le mura del monastero vanno cercate le condizioni per la delegittimazione, capiamoci, per creare quelle condizioni che poi possano consentire ad altri di eseguire la strage.
Paolo Borsellino è un uomo solo, un uomo avversato, un uomo che è costretto a comunicare come un carbonaro. E, vi assicuro, questo non faceva parte del suo bagaglio di conoscenze.
Tant’è vero che quando arriva alla procura dice a Ingroia: «Io so che Giammanco mi osteggerà, ma non ho alternative e poi io mi guadagnerò il mio spazio a poco a poco.
Non metterò in atto la strategia di Giovanni Falcone che ha impattato il Giammanco». Anche se Giovanni Falcone lo vedremo analizzando le singole annotazioni del suo diario.
Giovanni Falcone aveva motivi, è stato umiliato grandemente da Giammanco davanti a giovani sostituti pure dell’ordinaria.
Allora qui possiamo utilizzare tutte le sovrastrutture ideologiche di grandi sistemi, ma la sofferenza più grande è arrivata anche lì dentro.
Allora andiamolo a cercare se Giammanco agiva in nome e per conto di qualcuno. Ma non è più possibile perché Giammanco è morto.
Giammanco ha avuto il commodus discessus sotto ogni profilo.
È stato sentito per la prima volta nel 2017 ma, poverino, non era più in grado perché non stava bene.
Io ho ancora davanti a me la dolorosa immagine del procuratore Tinebra, sentito al «Borsellino quater», che non stava bene, stava malissimo.
Potevamo acquisire le dichiarazioni rese nel corso delle indagini ed evitare quella drammatica istruzione dibattimentale con la presenza di un uomo che tutti ricordavamo nel pieno dell’esercizio delle sue funzioni, su cui poi magari ne parliamo perché il depistaggio nasce anche lì.
Allora di questo dobbiamo parlare anche agli italiani, del nido di vipere. Io ci tengo particolarmente, perché queste cose non accadano mai più.
Io dico che anche l’istituzione magistratuale deve essere pronta, oltre a tutti gli altri ambiti dello Stato, a guardare dentro di sé e a quello che ha combinato in quel frangente della storia repubblicana.
Tutti dicono che Borsellino, morto Falcone, sarebbe andato a fare il Procuratore nazionale antimafia, ma nessuno sa che il plenum del CSM, tra il 15 e il 20 giugno del 1992, bloccò qualunque richiesta di riaprire i termini del concorso, disse che Borsellino non aveva titoli e che non avrebbe sopportato l’ingerenza del potere esecutivo rispetto a un concorso che era già sotto delibazione o quasi definito.
Il CSM, quando ci sono di mezzo Falcone e Borsellino, è stato velocissimo, pronto, sempre. Sempre pronto.
Io non ho visto in questi anni la magistratura ragionare su come ha in qualche modo cannibalizzato i suoi figli migliori. Non ho mai sentito un mea culpa. «Abbiamo sbagliato, cosa abbiamo combinato, non abbiamo capito niente».
Niente di tutto questo.
Quindi Borsellino, dicevo, ha Trapani e Agrigento, non si lamenta e dice: «Va be’, mi conquisterò i miei spazi».
Succede che muore Lima, come ho detto lui arriva il primo è Lima viene ammazzato il 12.
Allora anche lui viene coinvolto con tutti i procuratori aggiunti in quelle che sono le indagini immediate che conseguono a un omicidio di quel tipo.
Borsellino però fa delle proposte e il paventato clima di ostilità, che lui aveva confidenzialmente detto a Antonio Ingroia, si esprime in un’assoluta non considerazione della sua richiesta di una rogatoria negli Stati Uniti per interrogare don Masino Buscetta, per capire quali erano le evoluzioni legate a questo omicidio.
Ricordo come se fosse ieri l’immagine preoccupata di Giovanni Falcone (intervistato non mi ricordo da chi, ma su YouTube si trova) che dice preoccupatissimo: «Da questo momento può succedere di tutto».
Falcone e Borsellino erano talmente in grado di decifrare la realtà, che in quell’intervista Falcone è veramente rabbuiato, sa che sta arrivando lo tsunami.
Si lamenta anche Borsellino della inadeguatezza delle indagini patrimoniali, in particolare sul patrimonio mobiliare di Lima, dicendo che non poteva essere quello il patrimonio in termini di depositi dell’onorevole Lima.
L’intuizione di Paolo Borsellino relativamente all’inadeguatezza delle indagini illo tempore fatte su Lima riecheggerà nella famosa testimonianza di Antonio Di Pietro nel processo Borsellino ter, che poi è stata ribadita anche nel processo Trattativa, in cui dice che lui riuscì a trovare nel novembre 1993, in BOT e CCT, 500 milioni che arrivavano da Cirino Pomicino a Lima.
Vedremo, parlando di Mafia-Appalti, la centralità che aveva Lima nel sistema.
Le cose cambiano per Borsellino con la strage di Capaci, a quel punto quelle competenze cominciano a stargli strette. Perché è colpito sul piano professionale, è colpito sul piano umano e soprattutto – ecco il punto – egli è convinto che Falcone muore, e ce lo dirà il 25 di giugno a Casa Professa, perché non si voleva che ritornasse a fare il magistrato a fare le indagini che voleva fare. 

Vi assicuro che il chiodo fisso di Falcone, e questo risulta, era Mafia-Appalti. E su questa linea di continuità si pone anche Paolo Borsellino.
Tanto ciò è vero che indagando su un fatto di sua competenza, che è l’omicidio del maresciallo Guazzelli (fatto avvenuto ad Agrigento, quindi non c’era il problema di dovere in qualche modo chiedere la titolarità del fascicolo, era lui che aveva quella provincia e quindi poteva indagare), man mano che indaga e man mano che acquisisce alcune informazioni (ve lo spiegherò nel corso di questa relazione) da Catania da una parte, dall’altra certe informazioni che gli vengono rassegnate dai ROS, apprende di una circostanza che rivelerà soltanto ai dottori Scarpinato, Ingroia e Teresi.
Cioè che Siino Angelo e Cascio Rosario si erano recati dal maresciallo Guazzelli per ottenere in qualche modo un trattamento di favore rispetto alle indagini di Mafia-Appalti.

La cosa incredibile è che l’episodio viene collocato ovviamente in un’epoca precedente l’arresto del Siino, che avviene il 9 luglio del 1991.
Il rapporto viene depositato il 20, quindi questo episodio si inserisce tra il 20 febbraio e il 9 luglio del 1991.
E come faceva Siino a conoscere che vi era la necessità che la sua posizione all’interno del rapporto venisse in qualche modo ammorbidita? Il rapporto doveva essere segreto.
È un’annotazione, è una comunicazione notizia di reato.
Perché lui prende l’iniziativa di andare dal maresciallo Guazzelli insieme a un altro soggetto di un certo spessore, come Cascio Rosario, per cercare di corrompere il sottufficiale di polizia giudiziaria?
Ci dice Borsellino, probabilmente appreso dai compagni di caserma del Guazzelli, che la reazione di Guazzelli fu talmente furiosa rispetto a questo tentativo di corruzione che, uscito da quell’incontro, il Siino si sentì male, molto male, gli venne da vomitare eccetera, e che quindi si rivolse all’onorevole Lima per cercare di ottenere lì la protezione che gli era stata negata da Guazzelli.
Ma la cosa assurda è che tutto questo Borsellino lo racconta senza sapere quello che succederà dopo, quando lui è morto.
O forse lo sapeva, suppongo che lo sapesse questo punto.
Perché Li Pera, quando comincia a parlare a Catania con Felice Lima, la prima cosa che racconta è: «Guardate che noi sapevamo più o meno tutto il contenuto del rapporto Mafia-Appalti», quindi il rapporto fu oggetto di una illecita divulgazione.
Su questo c’è stato un procedimento che poi si è definito con un’archiviazione, però resta la circostanza di fatto che gli indagati del rapporto Mafia-Appalti fossero a conoscenza delle risultanze compendiate nel relativo rapporto.
Allora, dicono Teresi e Ingroia nei verbali della commissione del 1992: «Dato che noi non avevamo mai avuto prima di un anno fa, noi non sapevamo niente di tutto questo. Niente!»
Borsellino ci dice: «Fatemi una cortesia, per me questa cosa va a Lima, Lima viene ammazzato perché non riesce a garantire attraverso D’Acquisto su Giammanco la copertura su Mafia-Appalti».
Tant’è che il dottor Vittorio Teresi, onestamente, nel dicembre del 1992, nel raccontare questo episodio a Cardella… che poi è finito nel dimenticatoio, forse è sfuggito a me, però anche lì il dottor Teresi non è stato chiaro e preciso come invece nei verbali. Dice: «No, Paolo Borsellino pensava che Lima fosse stato ammazzato perché in realtà non era in grado di garantire l’associazione rispetto allo sviluppo delle indagini su Mafia-Appalti».
Quindi accanto al mancato aggiustamento del processo, accanto al mancato aggiustamento dell’inchiesta Mafia-Appalti,vi era un motivo più che evidente agli occhi dell’organizzazione per far fuori un amico che non era più in grado di svolgere il proprio ruolo. Ma queste sono intuizioni del dottor Borsellino, io non voglio dire che è questa la verità.
Io voglio dire che Paolo Borsellino aveva delle ipotesi.
Queste ipotesi poi effettivamente rimandano sempre là, sempre a questo benedetto rapporto del ROS. Incompleto, imperfetto, quello che volete, ma Paolo Borsellino è convinto che lì vi sia una delle chiavi, se non la chiave, di spiegazione della strategia criminale in corso. Questo va detto.
Non si può dire, come ho letto in una sentenza, che è logico ritenere che Paolo Borsellino non conoscesse il rapporto Mafia-Appalti. È un falso storico. È un falso.
Lo trovate in tutti i verbali della commissione del CSM come atti più recenti, ma lo trovate anche nelle sentenze che vi ho citato, lo trovate in «Mandanti Occulti bis», la richiesta di archiviazione del 2003.
Nel frattempo succede che nel ’97-98 si pentono Angelo Siino e Giovanni Brusca, nel 1996 si pente Brusca ma comincia a essere creduto dal 1998 in poi.
Quello che descrivono Siino e Brusca è: «Noi temevamo che Borsellino si ponesse sullo stesso livello di Falcone e potesse in qualche modo scoprire il nostro disegno egemonico, che era quello di arrivare al potere sedendoci a tavolino e soprattutto contando finalmente qualcosa in seno ai gruppi politici imprenditoriali di rilevanza nazionale e ai grandi politici. Vogliamo arrivare a Roma».
Se ci pensate questo è molto in linea con la descrizione del contesto che io vi ho fatto.
Perché nel momento in cui il sistema partitocratico crolla avviene qualcosa che si può chiamare la delocalizzazione, cioè il controllo del territorio diventa sì importante, ma visto che la società civile continua ad avanzare nel progresso culturale di contrasto, io so che a livello locale controllerò sempre meno società civile e quindi quello che conta è entrare nel sistema della combine dei grandi affaristi e da lì muovere le vere leve del potere, che sono quelle finanziarie che poi raggiungono anche quello politico. In nuce, tutto questo è perfettamente delineato nel rapporto del ROS del 1991.
Si vedono imprenditori che con un’azione di lobbismo spregiudicato raggiungono Roma, ottengono i finanziamenti rispetto all’ente appaltante, l’ente appaltante appalta opere che non hanno alcun riferimento all’interesse della collettività e, attraverso il meccanismo della perizia di variante, si creano le provviste per tangenti, corruzione e tutto quello che volete.
C’è un’intercettazione nell’informativa Sirap, che viene consegnata nell’informativa Sirap ma le cui trascrizioni erano già nel rapporto del 1991, in cui Mimì La Cavera (che era il consigliere di amministrazione della Sirap, uno degli enti appaltanti) parlando con il Ciaravino (che era forse l’amministratore delegato, poi vi spiego cos’è la Sirap, sto andando a braccio perché vorrei cercare di rendere meno noiosa la mia esposizione), c’è un’intercettazione in cui La Cavera dice a Ciaravino (fidatevi della mia memoria) parolacce a non finire, dicendo: «Io ho bisogno di 100 mila lire al giorno perché ho i miei lussi e i miei vizi, e n’anticchia a Lima, n’anticchia a Lombardo, n’anticchia a chistu, n’anticchia a quello, cioè viene fondamentalmente delineato un sistema per cui la stazione appaltante è totalmente in associazione a delinquere con i politici e con gli imprenditori.
E poi c’è la mafia, ma la mafia si inserisce dopo rispetto a un sistema che è già bello che oleato da anni.
E’ il progetto egemonico di Riina che cambia le carte in tavola, perché la vecchia mafia si accontentava di quella dimensione parassitaria o lavori per conto terzi.
Riina, nella sua volontà egemonica, ambisce a sedersi al tavolino, che è cosa molto diversa. È cosa molto diversa.
Da qui allora le famose cointeressenzecon le imprese della Serafino Ferruzzi, il ruolo dei fratelli Buscemi, Salvatore, capomandamento del Passo di Rigano, Nino Buscemi, Lipari Giuseppe, che nell’archiviazione del 13 luglio del 1992 vengono liquidati con tre parole tre parole..
Io non potrò mai credere (questa è una mia deduzione, siamo in ambito storico e lo posso fare) che Paolo Borsellino, che aveva fatto il maxi processo, aveva quindi in qualche modo conosciuto le dinamiche sottostanti la guerra di mafia e il ruolo di Salvatore Buscemi nel favorire la scalata rispetto al mandamento di Passo di Rigano ai danni degli Inzerillo, avesse potuto mai e poi mai, sulla scorta delle risultanze contenute nel rapporto del febbraio del 1991, accettare un’archiviazione rispetto – attenzione – alla partecipazione all’associazione mafiosa del Lino Buscemi e del Lipari Giuseppe.
Siino si incontrava costantemente in viale Croce Rossa, laddove esistevano le società di Provenzano.
I carabinieri danno conto di un’attività di osservazione e di pedinamento costante di un Angelo Siino che è costretto a interloquire con Lipari Giuseppe, con Gariffo che era il nipote di Provenzano Bernardo.
Quindi vedere sostanzialmente liquidata in due parole la posizione di Buscemi Antonino e di Lipari, e su Buscemi dovrò sostanzialmente dare conto di un’altra importante archiviazione, accompagnata però da un’anomalia: io faccio l’avvocato da trent’anni e non ho mai visto che vengano smagnetizzati e soprattutto distrutti dei brogliacci.
Guardate, noi siamo riusciti finalmente a venire a capo del depistaggio di via D’Amelio perché grazie ai brogliacci delle intercettazioni in quel di San Bartolomeo a Mare del dicembre 1994-95, recuperate nel 2019, siamo riusciti in qualche modo a meglio configurare le condotte di uno degli imputati.
Distruggere i brogliacci di intercettazioni nell’ambito di un procedimento proveniente da Massa Carrara, in cui un sostitutoprocuratore della Repubblica di nome Augusto Lama era riuscito a dimostrare le cointeressenze dirette tra società del gruppo Ferruzzi e della famiglia Buscemi, soprattutto di Salvatore e Nino Buscemi, Bonura, tutti soggetti appartenenti al mandamento di Passo di Rigano.
E soprattutto, ricordiamolo, quando Borsellino avrebbe assentito, secondo alcune versioni, all’archiviazione, Salvatore Buscemi è definitivo da poco come condannato nel maxiprocesso. Salvatore Buscemi sarà poi nel Borsellino ter condannato all’ergastolo come mandante della strage di via D’Amelio.
Perché distruggere e smagnetizzare le intercettazioni del fascicolo di Massa Carrara?
La richiesta di archiviazione è dell’1 giugno 1992, il 19 giugno il dottor Grillo accoglie la richiesta e il 25 giugno il dottor Grillo accoglie la richiesta di distruzione dei brogliacci.
Scritto a penna.
Cioè, si ordina visto il potere del pubblico ministero.
Chiedete a qualunque sostituto procuratore della Repubblica di questo paese per indagini di mafia quando e come, a distanza di un anno, si dispone la distruzione di brogliacci.
Tanto ciò è vero che Paolo Borsellino di questa distruzione avrebbe chiesto conto se non fosse stato trucidato, giacché il 30 giugno o il primo luglio del 1992 Leonardo Messina gli riferisce che la Calcestruzzi S.p.A. è in mano a Salvatore Riina.
Quindi Paolo Borsellino immagino che avrebbe chiesto il fascicolo per collegamento 371 c.p.p. proveniente da Massa Carrara (il 35/91, poi vi do i numeri esatti). Dice: «Abbiamo distrutto i brogliacci e abbiamo smagnetizzato le intercettazioni», quando Leonardo Messina gli dice: «La Calcestruzzi è di Salvatore Riina».
Questa è dal nostro punto di vista una gravissima anomalia.
Quando, nel corso del processo di Avezzano per la querela a carico di Sansonetti e Aliprandi, abbiamo chiesto ai magistrati querelanti in un processo e nell’altro come testimoni, siccome sostenevo che c’era una circolarità in seno alla procura di tutte le informazioni riguardanti questi fascicoli, alla fine entrambi gli interrogati hanno detto di non avere alcuna notizia del fatto che c’era un procedimento che era stato trasmesso il 26 agosto dal dottor Augusto Lama. (Poi se volete vi spiego fondamentalmente l’importanza di questo procedimento.) E hanno detto che non sapevano niente.
Allora qual è la circolarità, dov’è la circolarità?
Come vedete, dunque, vi sono troppi elementi che fanno pensare che in qualche modo il dottor Borsellino su quelle carte non ci doveva mettere le mani.
Troppi elementi.
Perché il dottor Borsellino è costretto a incontrare il capitano De Donno e il colonnello Mori, che conosce un po’ meglio per la prima volta proprio in quell’occasione, lo conosceva di vista, era molto più amico del generale Subranni. Subranni che il 19 giugno del 1992, visto quanto è risultato, grazie al maresciallo Lombardo tra l’altro, riesce ad attingere a delle notizie importanti, circa il fatto che era arrivato il tritolo per Paolo Borsellino.  
All’interno di questa informativa il generale Subranni individua dei soggetti a rischio, vi sono due carabinieri, uno credo fosse il maresciallo Canale se non ricordo male, poi c’era l’onorevole ministro Salvo Andò, allora ministro della difesa, e poi Paolo Borsellino.
L’informativa è interessante perché il generale Subranni dice: «Trasmetto a lei, procuratore della Repubblica dottor Giammanco, tale informativa attinta da fonti carcerarie, secondo cui è arrivato il tritolo per Paolo Borsellino, perché lei, quale responsabile, attivi quello che deve attivare per un rafforzamento della tutela, quello che volete insomma».
Giammanco non dice nulla a Borsellino. È pazzesco. Se ci pensate un attimo, è pazzesco. E nessuno ha mai chiamato il dottor Giammanco per dire: «Perché non hai avvisato Paolo Borsellino?»
Borsellino come lo sa? Lo sapete tutti, il famoso incontro del 28 giugno del 1992 a Fiumicino, in cui incontra la dottoressa Ferraro, un incontro con la dottoressa Ferraro in qualche modo concertato, perché lui veniva da Giovinazzo dove aveva partecipato insieme alla consorte a un convegno di Magistratura indipendente. Incontra l’onorevole Andò.
Poi non mi fate dimenticare il contenuto del colloquio con la dottoressa Ferraro, perché è estremamente importante. 
L’onorevole Andò incontra Borsellino e gli fa: «Dottore, mi scusi, cosa pensa, c’è da preoccuparsi?» «Ma di cosa?» «Come di cosa? Guardi, dall’ufficio del Ministero hanno avuto l’informativa di Subranni che indicava me come possibile obiettivo di un attentato e io ho avuto rafforzata la scorta, il livello delle misure di sicurezza nei miei confronti si è notevolmente innalzato».
Paolo Borsellino trasalì.
Ma la cosa assurda – come mi disse mia figlia oggi prima venire: «Papà, non mollare perché la nonna è morta di dolore» – è che questa cosa Andò gliela dice di fronte alla consorte Agnese Borsellino, la quale ovviamente comincia a temere per loro, comincia a temere per tutti, perché fino al giorno prima imprudentemente erano saliti in macchina anche loro.
Borsellino: «Perfetto, vedi che bel procuratore che ho. Amico di D’Acquisto, amico di Lima».
Tant’è che il dottor Scarpinato, il senatore Scarpinato oggi, nel verbale racconta che fece di tutto (giustamente dico io) per impedire che il procuratore capo della Repubblica di Palermo andasse ai funerali di Lima, quando a Palermo anche le pietre sapevano chi fosse Lima, chi fosse Ciancimino.
E giustamente il dottor Scarpinato convinse, ma non doveva neanche sorgere il problema dico io, il procuratore Giammanco a non presentarsi ai funerali di Lima, perché questo avrebbe significato disdoro totale nei confronti della credibilità di un intero ufficio.
Cosa fa Borsellino ovviamente?
Apprende questa informazione e l’indomani, sappiamo dai processi, chiede conto e ragione di questa gestione burocratica assurda, imperdonabile, umanamente non definibile, secondo me, del dottor Giammanco. Cosa fa? Dice: «Io ho il diritto di sapere se io o la mia famiglia siamo in pericolo».
«Ma mi sono limitato a trasmettere ex articolo 11 c.p.p. all’autorità competente».
Dio santo, c’era stata la strage di Capaci insomma, tutti additavano Borsellino come possibile vittima, come il continuatore dell’opera di Giovanni Falcone. E tu lo gestisci così?
Nessuno ha chiesto conto e ragione di questo a Giammanco.
Nessuno in magistratura, i sostituti procuratori di allora hanno ritenuto di interrogarlo su questo.
Non c’è un verbale in ben 19 sentenze, in 19 dibattimenti durati anni – anni! – in cui un magistrato della procura chieda conto e ragione di questo a Giammanco.
Non è normale. Non è normale. Lo capiamo tutti qua dentro.
Attraverso i verbali del CSM abbiamo scoperto una cosa che non era mai apparsa nell’ambito delle 19 istruzioni dibattimentali fino adesso celebrate per la strage di via D’Amelio.
Cioè che il 29 giugno del 1992 Paolo Borsellino andò da Giammanco anche per chiarire una cosa altrettanto importante, che rappresenta anch’essa la materializzazione di quello ostracismo irrazionale, illogico, funzionale alla sua umiliazione e delegittimazione professionale.
Cos’era successo? Mentre Paolo Borsellino si trovava a Giovinazzo arriva un fax dalla procura della Repubblica di Firenze del dottor Vigna, con cui si dice: «Gaspare Mutolo ha parlato con me per fatti legati a un traffico di stupefacenti avvenuto nel mio territorio, ora ha deciso di saltare il fosso e di cominciare a parlare».  
Unica condizione che ha posto è quella che, visto che inizialmente voleva essere interrotto da Falcone, ma Falcone in vita era al Ministero e non poteva più svolgere le funzioni di pubblico ministero, muore Falcone, ovviamente salta il fosso e con chi vuole parlare secondo voi?
Con Paolo Borsellino. E ce lo dice Teresa Principato
Teresa Principato, nel suo verbale della commissione del 1992, dice: «Certo che voleva parlare con Paolo Borsellino. Con chi doveva parlare? Con Giammanco?» 

Paolo era credibile. I pentiti non ci sono stati in questi anni perché questa procura è gestita da un capo che non è credibile. Paolo è credibile, è ovvio che quello si sceglie il pentito.
Non dico io da avvocato che è una prassi sostanzialmente giusta, ha ragione in termini astratti il procuratore Giammanco a dire: «Non deve essere il collaboratore a scegliersi il magistrato».
Ma in condizioni normali, perché in condizioni diverse dove tu hai fatto di tutto per rendere la vita impossibile a Paolo Borsellino e in cui hai umiliato precedentemente Giovanni Falcone, la tua non è un’obiezione astrattamente e intellettualmente onesta.
È un modo per impedire all’ex autista di Saro Riccobono, come ci dice Leonardo Guarnotta nel dicembre del 1998 nel processo Borsellino ter, di disvelare i legami con il sistema politico della vecchia mafia perdente.
Tu vuoi impedire a Paolo Borsellino di gestire i frutti di una collaborazione di un grosso collaboratore di giustizia. In astratto, in astratto.
La verità è che tu vuoi impedire a Paolo Borsellino di gestire quel collaboratore e ti inventi una formula per cui (questo è un passaggio fondamentale in cui spero di essere io in grado di dare la giusta interpretazione dei fatti così come si sono svolti) l’ostacolo per l’attribuzione della titolarità del fascicolo a Paolo Borsellino della gestione di Gaspare Mutolo viene individuata pretestuosamente senza tema di essere smentito.
Viene individuata pretestuosamente da Giammanco nel fatto che il collaboratore parlerà di fatti di competenza del comparto palermitano E lui è invece coordinatore delle indagini su Trapani ed Agrigento.
In una dinamica normale ci può anche stare, ma hanno appena ammazzato Lima, Guazzelli, hanno sventrato un’autostrada per uccidere la prima delle Torri gemelle di questo Paese, e cavillare richiamando questioni amministrative di organizzazione interna all’ufficio ritengo sia un fatto veramente altamente pretestuoso.
Cosa succede? Succede che il dottor Gioacchino Natoli, quando il dottor Borsellino si presenta la mattina del 29 in ufficio molto arrabbiato per l’informazione avuta dal Ministro andò con riferimento alla mancata informazione dell’informativa di Subranni sull’arrivo del tritolo, Gioacchino Natoli dice: «Senti Paolo, io ti devo dire una cosa, in deroga al meccanismo delle competenze io sono a Trapani con te, però Giammanco mi ha affidato la titolarità del fascicolo su Mutolo.
Gioacchino Natoli lo fa per dire: «Attenzione Paolo, io non c’entro niente, mi trovo a subire le bizze di una scelta del capo che individua in me, ma io Paolo non c’entro niente, non ti venga in testa di pensare che sono stato io».

E Paolo dice: «Ma ci mancherebbe».
Va nella porta accanto, che è quella del procuratore Aliquò, effettivamente il fascicolo porta l’assegnazione di Vittorio Aliquò, dottor Guido Lo Forte e dottor Gioacchino Natoli.
Il dottor Borsellino prende questo fascicolo e va da Giammanco.
Quindi scopriamo per la prima volta, attraverso la lettura dei verbali del 1992, che le questioni affrontate quella volta non erano, come abbiamo sempre creduto, una, ma due.
Non c’è solo l’informativa omessa, ma anche l’attribuzione, venendo meno al criterio pretestuoso che egli stesso si era dato per impedire a Borsellino di prendere quel fascicolo, l’attribuzione a un magistrato competente su Trapani dello stesso fascicolo che reclamava Borsellino, non fosse altro perché lo chiedeva anche lo stesso collaboratore e quindi lo si sarebbe messo nelle condizioni forse di essere più tranquillo nell’esposizione dei fatti.
Dell’incontro tra Giammanco e Borsellino fino adesso sapevamo una cosa. Poi facciamo una pausa, vi leggo questa piccola parte perché è importante.
Allora dico solo questo particolare perché è molto importante.
Noi sappiamo da Agnese Borsellino che il dottor Borsellino fu talmente duro nel confronto con il dottor Giammanco che sbattè il pugno sulla scrivania e si fece male.
Questo era l’unico resoconto che noi avevamo della giornata del 29.
Senonché, grazie alla dottoressa Enza Sabatino, riusciamo finalmente ad avere il racconto di come Paolo Borsellino visse quell’incontro.
È un racconto che veramente…
Poi si dice perché i figli a volte devono stare lontano dalle carte. È facile, è facile quando si tratta di altri.
Qui c’è un padre, c’è un giudice che ha dimostrato di non tenere famiglia.  
Un puro, un uomo attorno al quale tutti dovremo trovare la forza di ricreare uno spirito di identità nazionale. Paolo Borsellino ha condotto una via crucis e non ha pensato al «tengo famiglia». No, no.
È andato fino in fondo al suo sacrificio, nonostante tutto. 
E se l’Italia a mio giudizio non decide di affrontare essa stessa questo dolore immenso, tutte le componenti istituzionali devono avere il coraggio di guardare a questa tragedia con l’onestà, il senso del perdono da invocare da noi e dagli italiani onesti, che sono la maggior parte.
È andato incontro al suo sacrificio senza avere il pensiero «tengo famiglia».
Ha messo il Paese al di sopra di tutto.
Quanti oggi hanno questo approccio?
Noi ce l’abbiamo lo sapete perché? Abbiamo perso tutto.
Abbiamo la felicità, diceva un cantautore che sono sicuro pochi conoscono, Franco Fanigliulo.
Noi abbiamo la felicità di avere perso tutto, non solo il congiunto ma anche la verità.
Chi più di noi ha attraversato questo dolore e nonostante tutto abbiamo sempre avuto e avremo fino alla fine dei nostri giorni il rispetto per tutte le istituzioni?
È giunto il momento che attorno a Paolo Borsellino non ci siano divisioni.
Quello che ci ha offeso più di tutto in questi anni, la cosa che ci ha devastati è pensare che la sua famiglia nucleare non sia stata lì a implorare la verità. Non è così.
Quindi cosa succede? La Sabatino ci parla della telefonata che fanno con Borsellino il 29, di sera, di giugno.
Perché si fanno questa telefonata?
Perché la Sabatino era passata in ufficio perché doveva parlare con Borsellino, ma Borsellino quel giorno era iperoccupato e quindi si sentono poi la sera.
È lo stesso dottor Borsellino che chiama la Sabatino.
Le giudici Sabatino erano due, la dottoressa Vincenza Sabatino e poi c’era anche la sorella.
Sentite cosa dice, me la dovete consentire questa lettura, la trovate ovviamente tra le audizioni della dottoressa Sabatino rese al CSM il 30 luglio del 1992.«Un’altra cosa vorrei ricordare» – è la Sabatino che parla – «perché mi impressionò pure.
Era un giorno della fine di giugno e la mattina, nel corso della mattinata, io ero andata nella sua stanza per parlargli non ricordo più di cosa, ma niente diimportante.
Non lo trovai nella stanza e ritornai dopo un po’.
Non c’era ancora e chiesi dove fosse, un commesso mi rispose che era dal procuratore.
E poi lo trovai nella stanza nella tarda mattinata, era già oltre l’una, saranno state l’una, l’una e un quarto, l’una e venti. E siccome era impegnato perché c’erano delle persone, io gli feci soltanto un cenno e gli dissi ci sentiamo dopo.
Poi lui mi telefonò. 
Gli ho parlato e mi ha impressionato il tono, il tono di voce, perché era proprio molto molto abbattuto…»
Altra voce, è un membro della commissione del CSM: «Si ricorda approssimativamente il giorno?»
La Sabatino: «Sì, era sicuramente fine giugno, era fine giugno». «Se 29 giugno, lunedì, o 28, o 27?» «No, no, in questo momento davvero non mi ricordo».
Sabatino: «Non me lo ricordo perché non c’era un motivo particolare.
Io proprio mi ricordo che quella sera rimasi impressionata dal tono di voce che non era usuale, quindi lui mi ha chiesto quasi scusa, ha detto: “Non ti ho potuto telefonare oggi”. “Ma figurati”, gli ho detto, “Non era niente di importante, poi ci vediamo”.
Mi disse però che il giorno dopo doveva partire forse per Roma».
Effettivamente Paolo Borsellino il 30 e l’1 luglio risulta essere a Roma a interrogare Gaspare Mutolo e il Leonardo Messina assieme al dottor Vittorio Aliquò.
Quindi si stabilisce nel corso delle domande che il giorno era il 29 e allora qui abbiamo la parte in cui dice: «Poi io per fargli una battuta gli dissi: «Piuttosto, Paolo, so che oggi sei stato in buona compagnia, con il capo’. E lui anziché rispondermi in tono scherzoso ha continuato sullo stesso tono e mi ha detto una cosa che mi aveva impressionato un po’ perché mi ha detto: «Ah, oggi è stata una cosa brutta e ci sono stati momenti in cui mi sembrava di essere tornato ai vecchi tempi, di quelli peggiori». E ha poi troncato il discorso dicendo: «Va be’, poi ti conto», cioè: va be’ poi ti racconto».
Quindi Paolo Borsellino in quella giornata del 29, oltre a risolvere il problema, deve contrattare col suo procuratore quale formula organizzativa adottare per ottenere in qualche modo la gestione del fascicolo relativo a Mutolo.
Arrivano a una conclusione alquanto bizzarra, cioè la titolarità resta in capo a Vittorio Aliquò, al dottor Guido Lo Forte e al dottor Gioacchino Natoli, i quali – a penna scrive Giammanco – «si coordineranno con il dottor Borsellino».  
Il dottor Borsellino, che conosceva anche lui le formule organizzative, dice: «Ma che significa, sono titolare o no? Devo andare a raccogliere l’interrogatorio.
Posso io dare deleghe di indagine, non le posso dare, devono riferire a me?» Insomma, era una formula assolutamente nuova e che comunque non aveva alcun significato.  
Infatti il dottor Borsellino si reca a interrogare Mutolo il primo giorno, va lì, quello lo vede arrivare e dice: «No, io non parlo con Aliquò». «No, lei deve parlare».
Infatti verbalizzano, in modo tale da non offendere giustamente il dottor Aliquò. E dice: «Io sono disposto a parlare anche in presenza del dottor Aliquò». Ma chiaramente tu stai mettendo il collaboratore nelle condizioni di non parlare, se vuoi proprio francamente saperlo, se ti comporti così.  
Gli ultimi due interrogatori sono del 16 e del 17, e lì succede una cosa secondo me incredibile.
Succede che vanno lì il 16 e il 17 in compagnia del dottor Guido Lo Forte e del dottor Natoli e il dottor Borsellino, ci dice il dottor Lo Forte e ce lo conferma anche il dottor Natoli, dice: «Con loro è come se lei parlasse con me, parli anche di fronte a loro, stia tranquillo, non c’è problema».
Quindi fanno l’interrogatorio, però c’è sempre questa benedetta formula organizzativa per cui il dottor Borsellino in realtà è quasi un intruso da dentro.
Tant’è che a un certo punto Borsellino il 17 mattina si incavola e dice: «Interrompo l’interrogatorio» e questo emerge dai verbali, questo noi non l’abbiamo mai saputo da nessuna parte.
Dice: «Io non voglio fare lo specchio per le allodole per nessuno, qua o entro come titolare del fascicolo o non entro».
Ecco allora che intervengono il dottor Lo Forte e il dottor Natoli: «Ci pensiamo noi, parliamo noi con Giammanco». Fanno la telefonata, questo il 17, e dicono: «Paolo, non c’è problema, avrai la delega».
Con tutto il rispetto per l’amicizia con cui magari il dottor Lo Forte e il dottor Natoli l’hanno fatto, io considero estremamente umiliante che due magistrati più giovani debbano chiedere al capo di intercedere per un procuratore aggiunto dello spessore di Paolo Borsellino.
Questa è una mia considerazione che vi rassegno e prendetela per quella che è. 
Allora succede che Paolo Borsellino deve tornare a Palermo nel primo pomeriggio e Natoli e Lo Forte continuano l’interrogatorio. La mattina del 18, cioè un giorno prima della strage, Paolo Borsellino ha finalmente la delega formale, e questo ce lo dicono due testimoni qualificati che sono il dottor Vittorio Teresi e la dottoressa Principato, e poi ce lo dice un elemento oggettivamente importante fattuale. Nella borsa di Paolo Borsellino il 19 luglio, ce lo dice il dottor Vittorio Aliquò nel verbale della commissione, vi era il fascicolo di Mutolo.
Quindi Paolo Borsellino andò la mattina a prendersi il fascicolo una volta ottenuta l’assegnazione e lo trovano nella borsa di Paolo Borsellino, così come da verbale di sequestro cui fa riferimento Vittorio Aliquò nella sua audizione in commissione.
Soprattutto, ripeto, valgono le dichiarazioni di Vittorio Teresi rese in commissione e rese davanti alla procura della Repubblica di Caltanissetta e valgono le dichiarazioni della dottoressa Teresa Principato.
«Paolo ci disse che finalmente aveva avuto la delega sul fascicolo Mutolo».
Questo, e concludo, depotenzia tutte quelle ricostruzioni volte ad attribuire alla telefonata del 19 luglio del 1992 la composizione della querelle legata all’assegnazione formale del fascicolo di Gaspare Mutolo.

PRESIDENTE. Io vorrei dire una sola cosa perché non credo che ci sia molto da aggiungere, prima di riprendere questa audizione in una data concordata, il prima possibile perché si possa concludere e perché i commissari possano fare le loro domande.
Credo che noi dovremmo chiedere perdono se non siamo riusciti in tutti questi anni a dare una risposta alle tante domande che fin qui avete posto, e lo avete fatto con sofferenza e amore che ci avete trasmesso.
Abbiamo sentito il cuore batterci nei timpani. Quindi, riprendendo quello che diceva all’inizio, vorrei che di questa Commissione non si avesse mai a dire che non si è fatto quello che si doveva fare. Grazie a tutti.


2.10.2023FABIO TRIZZINO,

Riprendiamo il discorso da dove l’avevamo interrotto e cioè dall’assegnazione, il 18 luglio 1992 di mattina, della titolarità del fascicolo di Gaspare Mutolo al dottor Borsellino.
Per noi questa era una circostanza assolutamente pacifica perché consacrata definitivamente, con sentenza anche della Cassazione, nell’ambito dei processi Borsellino-bis, ter e anche quater abbreviato.
Senonché, abbiamo dovuto tornarci perché all’udienza del 18 ottobre 2021 presso il tribunale di Avezzano – il dottor Scarpinato devo dire in maniera molto meno decisa rispetto al dottor Lo Forte, il quale rese questa dichiarazione ad Avezzano il 15 novembre del 2021 – in quella sede, dicevo, entrambi hanno sostenuto che in realtà il contenuto della telefonata del dottor Giammanco a Paolo Borsellino la mattina del 19 aveva per contenuto la definizione della assegnazione in termini formali del fascicolo relativo alla collaborazione di Gaspare Mutolo. Entrambi poi sono stati sentiti a distanza di qualche settimana, precisamente il 26 novembre del 2021 a Caltanissetta. Su questa circostanza ovviamente si è ritornati.
Mentre ad Avezzano la collega Giannetti ha cercato in tutti i modi di rappresentare al tribunale quanto cristallizzato nelle sentenze definitive, a Caltanissetta – che è la sede naturale dell’accertamento circa l’assegnazione del fascicolo Mutolo il 18 mattina – i due dichiaranti, che sicuramente non ricordavano bene, hanno finito per ammettere che non erano a conoscenza delle dichiarazioni della signora Agnese Borsellino, soprattutto nell’ambito del procedimento Borsellino uno, dove all’udienza del 23 marzo 1995 venne fatto il racconto circa il contenuto preciso della telefonata che il dottor Borsellino ricevette e del suo grande turbamento, e che si riferiva alla assegnazione tanto reclamata dal dottor Borsellino in relazione a quel famoso segreto di cui il dottor Teresi, il dottor Ingroia e lo stesso dottor Scarpinato erano stati destinatari.
Borsellino vedeva una connessione evidente, per il tramite dell’omicidio Guazzelli e quanto saputo e quanto saprà da Catania – questo è un altro punto fondamentale con riferimento alla collaborazione di Lipera – il dottor Borsellino sa delle cose sul dottor Giammanco, per cui da un lato decide di rompere il flusso della comunicazione completa delle informazioni, come vi ho ricordato l’altra volta, e dall’altro ha interesse a entrare nel comparto, nella direzione, nel coordinamento delle indagini su Palermo.
Incalzati dai pubblici ministeri e dalle parti civili, soprattutto il dottor Lo Forte, che era colui che sosteneva con più convinzione che la ricostruzione secondo cui la telefonata del 19 non riguardava Palermo ma Mutolo, è costretto ad ammettere che la sua era una semplice ipotesi – questo voi lo leggerete dai verbali che io non vi leggo qui perché altrimenti ci vorrebbero dieci sedute e non voglio francamente tediarvi.
Dalla lettura dei verbali delle deposizioni, che provvederò a depositare e a cui facevo riferimento, al processo di Avezzano e al processo-depistaggio di Caltanissetta, vi renderete conto che alla fine il dottor Lo Forte è costretto ad ammettere che la sua è un’illazione. Tra l’altro essa sembra priva anche di una sua logicità intrinseca, perché a un certo punto il dottor Lo Forte dice che probabilmente era accaduto il 18, però poi ha telefonato per confermare.
Borsellino si porta il fascicolo di Mutolo e glielo trovano nella borsa subito dopo l’attentato, come ha dichiarato Vittorio Aliquò in commissione, dicendo che il fascicolo di Mutolo era nella borsa del giudice Borsellino subito dopo l’attentato e che faceva parte delle cose sequestrate, così come da verbale di sequestro.
D’altra parte, va ricordato – su questa questione vado rapidamente – che troverete, nei verbali del CSM, sia il dottor Lo Forte, sia il dottor Gioacchino Natoli, sia lo stesso dottor Scarpinato ricordare l’episodio della telefonata.
Sul dottor Scarpinato ho qualche dubbio, ma sicuramente Lo Forte e Gioacchino Natoli – che erano i soggetti che interrogarono Mutolo nel pomeriggio del 17 luglio del 1992 – parlano della famosa telefonata di intercessione a Giammanco per ottenere la delega che finalmente poi avrà il 18 di mattina.
Il 18 di mattina la delega Mutolo, sto parlando della delega Mutolo.
Fatta questa precisazione che mi consente di riprendere il discorso là dove lo avevo interrotto la volta scorsa, andiamo a vedere un evento fondamentale che precede il famoso incontro del dottor Borsellino alla caserma Carini del 25 giugno del 1992, un incontro segreto.
Qui sostanzialmente si conferma l’importanza della lettura dei verbali della commissione del CSM perché nei processi sulla strage di via D’Amelio si è sempre parlato di questo incontro in quanto connesso ai contrasti genericamente intesi – l’assegnazione del fascicolo Mutolo era un evento sentinella di questi contrasti – per cui abbiamo sempre pensato che il dottor Borsellino avesse preferito incontrare il colonnello Mori e il capitano De Donno per questo motivo, perché i rapporti con il dottor Giammanco erano pessimi.
In un’ottica però di, attenzione, ulteriore rafforzamento di quanto cristallizzato in sentenze definitive – e vi ripeto, vi sto portando dati consacrati in sentenze definitive – le circostanze si stanno arricchendo, stanno trovando ulteriore riscontro oggettivo esterno a quanto già contenuto nelle sentenze.
Da questo punto di vista vi dimostrerò essere di importanza capitale l’audizione della dottoressa Maria Falcone, che non è mai entrata nei processi, perché finalmente riusciamo ad arricchire e a rafforzare le motivazioni che portarono Paolo Borsellino all’incontro segreto.
Vi rimando totalmente al verbale del 30 luglio del 1992 – se c’è qualche imprecisione sulle date, essendo fatti documentali vi renderete conto che ho da Pag. 6tenere a mente migliaia di dati.
Cosa dice Maria Falcone?
Maria Falcone dice una cosa fondamentale. Dice, in occasione del trigesimo, quindi il 23 giugno 1992, che, di fronte alla necessità di lei e di Alfredo Morvillo, che aveva perso la sorella, di dichiarare davanti al mondo le ragioni che avevano costretto suo fratello ad abbandonare Palermo, Paolo dice loro: «State calmi perché sto scoprendo delle cose tremende, inimmaginabili».
Alla fine della sua audizione, incalzata giustamente dai commissari del CSM, lei aggiunge che Paolo intanto non riferisce ovviamente i particolari perché è un magistrato all’antica e con gli estranei parla solo quando ha prove e in secondo luogo le dice: «Io metto in relazione la scoperta di queste cose tremende con Giammanco» e le chiede di non uscire con una campagna giornalistica d’attacco nei confronti del dottor Giammanco.
Questo poi lo dovremo recuperare, perché ci sono testimonianze, per esempio di Carmelo Canale, secondo cui Borsellino gli aveva detto che voleva arrestare Giammanco o far arrestare Giammanco.
Questo deve essere un elemento estremamente importante.
Quindi Borsellino incontra Mori e De Donno fuori dall’ufficio della Procura, perché avrà scoperto delle cose tremende sul conto del suo capo.
Ciò, vi rendete conto, arricchisce e rafforza la rappresentazione contenuta nelle sentenze definitive.
Si parla di contrasti, ma si parla di circostanze talmente gravi, di cui è a conoscenza il dottor Borsellino, che lo hanno vieppiù rafforzato nel convincimento che quel capo era un infedele.
Immaginate quindi la sorpresa quando abbiamo avuto modo di leggere queste cose, perché ci mancava questo anello che soprattutto ci ha consentito di valorizzare le dichiarazioni rese in diverse sedi sia dal capitano De Donno sia soprattutto dal sostituto procuratore di Catania, Felice Lima, con l’avvio della collaborazione di Lipera che stava fondamentalmente raccontando fatti non solo relativi alla sua posizione rispetto alle indagini del rapporto mafia-appalti – su questo cercherò di essere telegrafico in questo momento.
Egli viene arrestato il 9 luglio del 1991, all’esito della prima tranche degli sviluppi portati avanti dalla Procura di Palermo una volta inserita nel cosiddetto fascicolo Calderone 2789 del 1990 l’annotazione del ROS a cui facevo riferimento prima.
Ho dimenticato di leggere la parte più importante.
Ho detto «annotazione», ma dovevo dire «fatti accertati fin dal 1988 nel territorio della regione Sicilia e dell’intero territorio nazionale».
Scusate, questo è un elemento fondamentale che giustifica l’importanza delle premesse di contesto che ho fatto all’inizio.
Dovrò dunque dimostrare la possibilità di una ricostruzione che va a confermare le dichiarazioni del capitano De Donno e soprattutto le dichiarazioni di Felice Lima sul fatto che il dottor Borsellino conoscesse in parte le dichiarazioni di Libera, il quale è vero che comincerà a parlare di accuse verso alcuni magistrati della Procura in relazione all’illecita divulgazione del dossier e su cui per verità c’è stato un procedimento a Caltanissetta, che si è chiuso con un’archiviazione da parte della dottoressa Gilda Lo Forte, che però va letta tutta.
Va letta tutta perché in quella ricostruzione emergono i dubbi su chi abbia divulgato il dossier – e vi ho dimostrato che Siino può andare da Guazzelli a chiedere che la sua posizione venga in qualche modo ammorbidita perché Siino tra il 20 febbraio e il 9 luglio 1991 ha conoscenza di un atto che doveva rimanere segreto.
Questo è un discorso che affronterò allorché dovremo occuparci della gestione che la Procura di Palermo fece del rapporto del ROS e delle discovery realizzate, una per certi versi legittima, un po’ troppo larga probabilmente, un’altra assolutamente illegittima, che è quella dell’agosto del 1991, quando il procuratore Giammanco deposita l’informativa al ministero.
Questa è una cosa su cui dobbiamo tornare perché è di una rilevanza fondamentale, anche perché devo dare atto di una querelle.
Devo dire che qui il dottor Scarpinato ha reiteratamente negato una circostanza e cioè che il capitano De Donno lo avesse informato subito dopo la collaborazione di Lipera del fatto che Lipera stesse parlando.
Il dottor Scarpinato in ogni sede ha reiteratamente negato che ci sia stato questo incontro prima della morte di Borsellino.
Ha confermato che ci fu un incontro, se non erro nel settembre 1992, a Roma, in cui avrebbe consegnato a De Donno, o meglio, in cui il De Donno gli avrebbe chiesto una copia dell’archiviazione del 13 luglio-14 agosto 1992, su cui dovrò tornare ovviamente, anche e soprattutto in ragione di ciò che abbiamo acquisito, sempre leggendo i verbali della Commissione.
Finalmente potete leggere le parole della dottoressa Falcone alle pagine 38-41 del relativo verbale alla commissione.
Arriviamo quindi all’incontro alla caserma Carini.
Ora abbiamo più particolari: contrasti con Giammanco, si trattava di una fase in cui Borsellino apprende cose tremende, sa verosimilmente quello che ha cominciato a dire Lipera a Catania e quindi queste sono ragioni più che sufficienti per giustificare l’incontro «carbonaro».
Vi dicevo l’altra volta che bisogna capire chi ha attaccato chi, chi si è dovuto difendere e chi, in stato di necessità, doveva in qualche modo cercare di salvare sé stesso da un evento mortale e non c’è riuscito, come sappiamo.
La condotta di Borsellino, laddove sia contestabile sotto il profilo disciplinare, con riferimento all’interruzione della circolarità e con riferimento all’incontro «carbonaro» a mio giudizio è totalmente scriminata dall’esistenza di questo stato di necessità.
L’incontro alla caserma Carini viene organizzato grazie a una intermediazione. Borsellino chiede al maresciallo Canale di attivarsi per poter incontrare appunto Mori e De Donno.
Non deve sfuggire a questa Commissione che il dottor Borsellino non conosceva minimamente il capitano De Donno e viceversa.
Il dottor Borsellino conosceva solo di vista il colonnello Mori e aveva un buon rapporto di stima reciproca con il generale Subranni. Quella è la sede in cui per la prima volta il dottor Borsellino conosce personalmente De Donno, sapendolo comunque uno dei più fidati collaboratori del dottor Giovanni Falcone.
Tanto ciò è vero che nel 1998 c’è una dichiarazione al processo Borsellino-ter del capitano De Donno che dice che Giovanni Falcone gli aveva chiesto la disponibilità, qualora fosse diventato il capo della Procura nazionale antimafia, di andare a lavorare con lui nell’ottica di una costituzione di una squadra investigativa che lavorasse proprio sul dossier mafia-appalti.
Sul punto c’è da dire sostanzialmente questo.
La data, grazie all’agenda del colonnello Mori, si riesce a stabilire molto semplicemente, ed è il 25 giugno, quindi siamo a due giorni dopo il trigesimo.
Sul luogo anche qui fu il colonnello Mori, sentito nei vari processi, a ricordarlo meglio di De Donno, cioè la caserma Carini.
La cosa interessante è il racconto che fanno dell’incontro sia il capitano De Donno sia il colonnello Mori.
L’incontro fu estremamente rapido, anche perché immaginate il rischio del procedimento disciplinare: sono cose che sono state fatte in un momento di grave pericolo e di grande necessità. Borsellino andò dritto al punto.
Disse che voleva approfondire le indagini di mafia-appalti di cui conosceva i primi esiti.
Il 9 marzo 1992 abbiamo la richiesta di rinvio a giudizio del primo troncone nei confronti di Farinella Cataldo, latitante – sembra che si sia dato latitante perché sapeva che c’erano delle indagini – Lipera Giuseppe, Morici Serafino, Falletta, Cascio Rosario, Buscemi Vito, poi c’è un altro nome che in questo momento non ricordo, ma è tutto documentato.
Borsellino è come se non sia contento di questi esiti e poi lo scopriremo fondamentalmente il 14, nella riunione in cui ha delle precise istanze, perché il dottor Borsellino conosceva perfettamente il dossier, aveva fatto delle indagini di competenza a Marsala.
A differenza di tutti coloro che erano presenti a quella riunione, Borsellino era l’unico che conosceva le carte del rapporto e ve lo dimostrerò. Andò subito dritto al punto. Mori pose come condizione però che se ne occupasse lui.
Borsellino infatti disse che dovevano riferire solo a lui: vi rendete conto che, in un momento in cui il dottor Borsellino non ha neanche la delega su Palermo, arriva a dire a Mori che dovevano riprendere il rapporto mafia-appalti e dovevano riferire solo a lui?
Con De Donno invece la situazione è ancora più specifica, perché ora vi racconterò un particolare, dal mio punto di vista estremamente significativo.
Borsellino appena vede De Donno gli dice: «Sa, mi hanno parlato malissimo di lei in Procura, io ho preso le mie informazioni e ho riveduto totalmente la mia opinione su di lei».
Questo è molto importante perché nel processo Borsellino-bis, Carmelo Canale, il 24 marzo 1988, quando gli viene chiesto come e perché Borsellino organizzi quella riunione – non era tenuto a sapere che Borsellino avesse scoperto delle cose tremende – lui afferma che Borsellino gli disse che siccome in Procura si parlava male di De Donno e siccome era arrivato un anonimo che in Procura attribuiscono a De Donno – questo è un punto fondamentale – che riguarda Catania – altro punto fondamentale – lui voleva andare a incontrare De Donno.
Questo spiega anzitutto che Borsellino sapeva di Catania e che Canale lo confermava, dicendo che Borsellino voleva andare a parlare con De Donno dell’anonimo di Catania.
Ora vi leggerò cosa c’è nell’anonimo di Catania.
Quindi appena incontrato De Donno gli dice che aveva cambiato opinione, che voleva rivitalizzare il rapporto, perché lì c’è la morte di Giovanni Falcone, gli chiese di quali uomini e mezzi avesse bisogno, di presentargli una sua squadra, fondamentalmente il sunto del verbale è questo.
 Quando sarebbe tornato da una rogatoria in Germania ne avrebbero parlato. Considerate che il 26, il 27 e il 28 Borsellino è a Giovinazzo, il 29 abbiamo il famoso incontro con Giammanco, il 30 giugno e il primo luglio si trova a Roma a interrogare Leonardo Messina e Gaspare Mutolo, poi il 4 è a Marsala.
Poi Borsellino il 6, il 7, l’8 e il 9 è in Germania
per la famosa rogatoria che doveva andare a fare, quindi «ne parliamo dopo».
De Donno dice che Borsellino non l’aveva più incontrato: il 25 è stata la prima e l’unica volta in cui ha incontrato Borsellino, perché di fatto, dopo l’arrivo dalla Germania, Borsellino non ha il tempo perché campa per altri sei giorni, campa altri sei giorni.
Credetemi, per questo è lunga questa ricostruzione e non posso saltare i passaggi, perché ogni particolare e ogni dettaglio ci consentono storicamente di fare chiarezza una volta per tutte, secondo noi, secondo una plausibile ricostruzione – non portiamo dogmi o verità – su quello che è successo fra le due stragi.
Sul punto è interessante quello che ci dice il dottor Scarpinato sempre nelle famose recenti dichiarazioni ad Avezzano, soprattutto, e a Caltanissetta.
Sono dati documentali, io mi limito soltanto a riferire, sono dati oggettivi. Il dottor Scarpinato parla una prima volta dell’interlocuzione con il dottor Borsellino nell’aprile del 1999, interrogato dalla Procura di Caltanissetta, nell’ambito del procedimento inerente alle reciproche accuse tra Siino, De Donno e Lo Forte.
Il dottor Scarpinato in quella sede dichiara semplicemente che in un’epoca successiva all’insediamento di Paolo Borsellino ebbe a parlare un attimo di mafia e appalti, in piedi, davanti all’ufficio del dottor Borsellino, con una persona presente, la quale gli chiese qualcosa appunto su Pantelleria, ma l’incontro durò pochi minuti e basta.
Questa è la prima affermazione del dottor Scarpinato, tanto è vero che se andate a leggervi il verbale dell’esame del dottor Scarpinato al processo-depistaggio, il pubblico ministero d’udienza lo incalza in qualche modo parlando di mafia-appalti – in poche parole il senso è questo – e il dottor Scarpinato dice: «Siccome ho fatto una querela nei confronti di giornalisti, oggi sono in grado di ricostruire meglio la vicenda».
Allora ci racconta che l’incontro avvenne sicuramente dopo il 17 maggio, perché c’era stato il rinvio a giudizio di Lipera, Cataldo Farinella, Siino – ecco avevo dimenticato tra i nomi di quelli di prima il «ministro dei lavori pubblici», considerato come tale, Angelo Siino.
Quindi dice che era in grado di riferirlo meglio, cioè che avvenne sicuramente dopo la richiesta di rinvio a giudizio, quindi sarà stato il 16 o il 17 maggio.
L’incontro, emerge dalle carte, in realtà fu chiesto da Borsellino a Ingroia, cioè ci fu la mediazione di Ingroia per parlare con il dottor Scarpinato, perché il dottor Scarpinato era uno dei titolari del fascicolo relativo alle indagini su mafia-appalti e il dottor Borsellino individuò nel dottor Scarpinato, tra quei titolari – avrà avuto le sue ragioni – la persona con cui conferire, tant’è vero che gli rivela il segreto legato alla necessità del collegamento, per il tramite di Guazzelli, Lima Falcone, e gli dice per favore di non riferire al dottor Giammanco.
Il dottor Scarpinato aggiunge dunque questo ulteriore particolare legato fondamentalmente alla mediazione, cosa che comunque conferma Ingroia, che dice: «Paolo mi chiese a chi potevo rivolgermi.
Siccome io ero di Magistratura democratica come il dottor Scarpinato, eravamo della stessa corrente e in più era il titolare del fascicolo».
La cosa veramente importante di quell’esame, che ricavate dall’incrocio delle dichiarazioni rese ad Avezzano e a Caltanissetta, è che il dottor Scarpinato ci dice per la prima volta che il dottor Borsellino gli aveva detto che aveva avuto o doveva avere un incontro segreto per capire il discorso dell’anonimo di Catania.
Questa è una cosa che francamente miha fatto saltare in aria perché dell’incontro alla caserma Carini lo sapevano Canale, Mori, De Donno e, per sua stessa ammissione, anche il dottor Scarpinato.
Questo lo dico perché il dottor Scarpinato in quelle dichiarazioni collega, se volete la leggo – forse questo è un punto che andrebbe letto proprio perché è un punto chiave.
A questo punto vorrei leggerla la dichiarazione proprio perché è necessaria. Il dottor Scarpinato a un certo punto dice: «Io mi riferivo al corvo-bis che era arrivato il 23 o il 24 giugno».
Ma, come ci dice Canale, la necessità dell’incontro non è per il corvo-bis ma è per Catania.
A Catania si dice fondamentalmente questo, ora lo andiamo a prendere se volete.
È come se nel suo ricordo – senatore Scarpinato io mi rendo conto, sono passati trent’anni, si può fare una sovrapposizione di ricordi – però a un certo punto in una prima dichiarazione lei si riferisce a al problema…
Il dottor Scarpinato sovrappone, nel senso che mette insieme l’anonimo del maggio del 1992 con quello del 23 e 24 giugno del 1992.
In termini logici, considerato tutto quello che è l’altro materiale acquisito, cioè in primis la dichiarazione di Canale – che è colui a cui viene chiesto dal dottor Borsellino di organizzare l’incontro – quand’anche fosse il corvo-bis questo non cambia nulla, perché, essendo arrivato quell’anonimo il 23 o il 24 giugno, il dottor Borsellino dice al dottor Scarpinato: «Io domani andrò a incontrare i ROS». L’importante cioè è che tutto ciò che riguarda gli anonimi sia prima del 24 e soprattutto – e questa è una circostanza che non c’era stata mai detta – che anche il dottor Scarpinato era stato destinatario di una confidenza, malo dichiara lui, non lo dico io, attenzione lo dichiara lui al processo di Avezzano e di Caltanissetta, noi non lo sapevamo, noi avevamo la dichiarazione del dottor Scarpinato dell’aprile del 1999, punto. È un altro elemento che si aggiunge.
Comunque sia, il dottor Borsellino dice al dottor Scarpinato che avrebbe, o aveva, o avrebbe fatto un incontro segreto con i ROS, questa è l’altra circostanza assolutamente nuova.
A questo punto, vi leggo proprio quanto riferito il 18 ottobre del 2021 ad Avezzano: «Lo sto dicendo perché c’è un accenno a mafia-appalti, mi chiese cosa ne pensavo, mi disse che era molto rilevante» parlando dell’anonimo, attenzione «o era molto rilevante o era qualcuno che voleva depistare ed era rilevante lo stesso.  
Mi disse che gli avevano detto che forse quell’anonimo poteva venire dall’ambiente del ROS», perché alla fine dell’anonimo si diceva «rivedetevi l’inchiesta mafia-appalti».  
«Mi disse che avrebbe avuto degli incontri segreti di cui non dovevo parlare con Giammanco per capire chi era l’autore di quell’anonimo, quello fu l’unico accenno che mi fece».
Queste sono le parole. Se noi consideriamo che questa circostanza non c’è mai stata detta prima, quindi il numero delle persone che conoscono dell’incontro segreto con Borsellino aumenta.
Non mi risulta dalla lettura delle sentenze che anche il corvo-bis venisse attribuito al ROS.
Era l’appunto su Lipera che viene attribuito al ROS e quello arriva il 30 aprile del 1992 al ROS, il 3 viene spedito a Catania in cui arriva il 6 e da qui iniziano le indagini di Lima, il 12, con ricevuta dal dottor Lo Forte, quell’anonimo è nelle mani della Procura di Palermo. In quell’anonimo c’è scritto sostanzialmente questo: «Spremete Lipera a Catania perché guardate che la Rizzani de Eccher di Udine ha fatto tante anomalie con riferimento a Mascali e altro, quindi fate parlare Lipera che sa tante altre cose perché ci sono stati pochi arresti», se volete ve lo leggo letteralmente.
Rimane dunque inquesto contrasto ma alla fine la sostanza poco cambia dal mio punto di vista.
Borsellino vuole sapere perché è in atto una campagna di delegittimazione nei confronti del ROS, questo è il punto chiave.
Borsellino quando incontra De Donno gli dice: «Di lei parlano tutti male, lo considerano un esaltato, io invece ho avuto modo di prendere le mie informazioni e so che lei è una persona veramente in gamba», questo gli dice Borsellino, secondo la testimonianza di De Donno, ovviamente, però il fatto stesso che voglia organizzare un incontro segreto, voglia rivitalizzare – certo Borsellino i suoi errori li ha fatti anche lui, probabilmente, non era perfetto – diciamo che però tutto conduce verso un’attestazione di fiducia verso il ROS e il lavoro che stava svolgendo, giusto o sbagliato, non tocca a noi dirlo, io mi sto limitando a riportare fatti e circostanze.
Quindi si lasciano con questo intento e poi sappiamo che è finita e Borsellino non ha potuto procedere oltre.

Ritornando un attimo indietro, perché procedere a braccio porta sostanzialmente a questa difficoltà, volevo dire che tornare al malessere e al tentativo di Borsellino di raccogliere elementi contro il Procuratore per iniziative giudiziarie, attenzione, non per fare una semplice contestazione, cioè per trasmettere all’autorità competente – Caltanissetta.
È la stessa dottoressa Consiglio che ce lo dice nella sua audizione dinanzi al Consiglio superiore della magistratura nella quale afferma che Antonio Ingroia le disse che Paolo stava cercando di raccogliere tutto il materiale per poi mandarlo all’autorità competente e poi, dice Antonella, è finita. Certo, è finita.
Non sto qui a tediarvi sulle modalità dell’incontro e su chi si mise in mezzo e chi no. 

Ecco cosa dice esattamente l’anonimo arrivato il 30 aprile del 1992, trasmesso anche a Palermo: «Se volete scoprire gli imbrogli degli appalti a Catania interrogate Lipera che è arrestato a Palermo. Come mai la ditta di Udine Pag. 16ha preso lavori e ha fatto costruzioni in tutta la provincia? Controllate Mascali e Villafranca.
Chiedete informazioni al giudice Lima – Felice Lima di cui dovremmo parlare – che ha fatto arrestati, ma è ancora troppo poco». Su questo voglio dire che il dottor Felice Lima ha dichiarato nel 1996, davanti al Consiglio superiore della magistratura, nell’ambito di un procedimento disciplinare, che il suo capo Alicata era d’accordo con lui nel considerare che questo anonimo provenisse dall’imputato Susinni, in quanto si era sempre rifiutato di parlare e aveva rinfacciato a Felice Lima, nell’ambito dei procedimenti per cui era sotto processo addirittura, che avevano preso il pesce piccolo e che stavano trascurando altre importanti piste d’indagine.
Per cui, Felice Lima di fronte all’arrivo di questo anonimo parla con il dottor Alicata e convergono entrambi nel considerare un possibile autore dell’anonimo lo stesso Susinni.
Teniamo presente questa campagna di delegittimazione quale sembrerebbe emergere dalla lettura degli atti nei confronti di De Donno, perché in quel momento i ROS sono probabilmente il nemico e quindi c’è un problema legato ai ROS in Procura. I ROS si sono lamentati del fatto che al rapporto non è stata data la giusta valorizzazione.
Lo pensava anche Giovanni Falcone e ve lo dimostrerò, lo pensava anche Paolo Borsellino e ve lo dimostrerò.
Quindi tra la Procura di Palermo e i vertici del ROS i rapporti diventano sempre più tesi e la questione diventa ancora più potente quando da uno scambio di lettere tra il generale Subranni e il dottor Giammanco, al di là del burocratese e al di là delle formule, in realtà emerge il dispiacere del generale Subranni che lamenta l’eccessiva discovery del deposito degli atti al tribunale del riesame – e io vi dimostrerò un esempio di discovery eccessiva.
Per me è una possibile ricostruzione che è nulla di fronte all’iniziativa di Giammanco di inviare il plico al Ministero e forse, qui non sono sicuro, lo dichiara forse il dottor Pignatone, addirittura alla Presidenza della Repubblica e alla Presidenza del Consiglio, quasi a delegare all’autorità politica la risoluzione delle potenzialità investigative connesse a un atto di rilevanza penale, a una notizia di reato.
Non si è mai sentito dire che un rapporto che costituisce notizia di reato venga spedito alle autorità politiche. Questo per dire a chi oggi, giornalisti autorevoli, mi dicono che il rapporto era una pista di nulla.
Allora, se era una indagine come le altre, non vedo perché il dottor Giammanco, violando la legge, manda il rapporto a Falcone e al ministro Martelli.
In realtà, anche lì, c’è una lettera con cui Martelli duramente rispedisce al mittente l’iniziativa di Giammanco, e Falcone, con la Ferraro che materialmente redige l’altra lettera istituzionale, chiede al CSM di procedere nei confronti di Giammanco per la grave irregolarità che aveva compiuto, ma ovviamente, siccome non c’erano i giudici Falcone e Borsellino di mezzo, che sono stati costretti, anche per delle interviste fondamentalmente a un giornale, a doversi giustificare, lì il discorso cambia.
Su questo poi mi attarderò un poco perché sono i passaggi fondamentali, perché altrimenti non si capisce perché il dottor Borsellino si lamenta.
È importante riuscire a dimostrare l’enorme divaricazione, a nostro giudizio, tra le potenzialità investigative del dossier e i risultati concreti in termini procedurali.
Vi basti solo un dato, per il momento. Borsellino sulla base di un appalto relativo al porto turistico di Pantelleria nel maggio del 1991, arresta 17 persone – un appalto! – tra cui il sindaco di Pantelleria Petrillo, che troveremo anche nel rapporto, con riferimento a tre gare importanti di Pantelleria. Da quel rapporto gigantesco di quasi mille pagine alla fine ci sono stati sette arrestati e nient’altro.
Lì c’è disegnato il mondo, non è solo la SIRAP, perché c’è il Consorzio Cempes, 400 pagine sui lavori legati al collettore emissario est, i lavori per la circonvallazione,Pag. 18i lavori dello stadio di Palermo e di via Lanza di Scalea, una roba indescrivibile.
Non è solo la SIRAP, che è una delle stazioni appaltanti, una, ma lì le stazioni appaltanti sono tante.
Questo poi lo vedrete perché di tutte queste cose io vi lascerò documentazione, voi avrete alla fine della mia relazione una sessantina di allegati e facendo riferimento a questa ipotesi ricostruttiva in cui cerco di fornirvi degli assist interpretativi – che come tali vanno presi, non sono verità – potete in qualche modo orientarvi.
Non l’ho detto l’altra volta, presidente, ma io ho cominciato a dedicarmi a questo lavoro nel 2015, questo è un punto fondamentale, perché fino al 2015, per motivi anche intuibili, la famiglia si è tenuta lontana da queste carte per un motivo molto semplice. Noi non viviamo più, l’elaborazione del lutto è impossibile, a questo punto noi siamo costretti.
Oggi è la festa dei nonni, quel nonno che Paolo Borsellino non poté mai essere, quindi è una questione proprio di dignità e di impegno.
Le nuove generazioni della famiglia, anziché in qualche modo cercare di vivere la propria vita, sono costrette a impegnarsi in questa ricerca della verità, che non è semplice.
Non è semplice, perché anch’io faccio fatica a esprimere emotivamente il tutto, ma nello stesso tempo mi sono imposto un certo rigore metodologico perché è sugli atti che voglio essere contrastato, sul campo degli atti, sul campo delle dichiarazioni, sul campo delle interpretazioni e, soprattutto, dando per scontato che siamo in una democrazia costituzionale che ci dice che le sentenze definitive in questo Paese hanno un valore, salvo l’istituto della revisione, e noi ne sappiamo qualcosa, perché il processo uno e il processo bis sono stati totalmente abbattuti sulla scorta delle emergenze e del grandissimo lavoro fatto dalla procura del dottor Lari e di tutti i magistrati che vi si sono avvicendati, un lavoro sfiancante e terribile per cui sono dovuti ripartire dalle fondamenta.
Il 25 giugno per Paolo Borsellino è una giornata altrettanto importante perché, dopo l’incontro alla caserma Carini di cui vi ho parlato, abbiamo il suo testamento spirituale a Casa Professa.
Casa Professa è il testamento spirituale di un uomo. Lì sostanzialmente firma la sua condanna a morte.
Nel momento in cui dice: «Io sono testimone, io so cose che devo riferire all’autorità giudiziaria», da quel momento convergono numerose dichiarazioni di collaboratori di giustizia che dicono Paolo Borsellino in quel modo si sovraespose.
Molto importante è una dichiarazione che farà poi Siino nel 1997 quando racconterà che si trovava a Termini Imerese per un processo e stava con Montalto Salvatore.
Tenete a mente questo boss, Montalto Salvatore, il quale riferisce a Siino: «Cu ciu purtava a Borsellino di parrari di queste cose?».
Sapete perché la figura di Salvatore Montalto, secondo la nostra opinione, è fondamentale? Perché Salvatore Montalto è direttamente ricollegabile alla famiglia di Passo di Rigano di Salvatore Buscemi.
Noi siamo arrivati alla conclusione che i soggetti esterni, magari ce ne sono altri, io non lo voglio escludere, che chiesero a Riina l’esecuzione accelerata della morte di Borsellino fanno parte di quel mondo della famiglia dell’Uditore-Passo di Rigano da cui provengono Salvatore Buscemi, Nino Buscemi, poi c’è Lipari Giuseppe, tutti quei soggetti che nell’archiviazione del 13 luglio come vi ricordavo vengono sostanzialmente liquidati con tre parole tre, quando nel rapporto vi è una descrizione compiuta, finanche genealogica, di tutte le interconnessioni della famiglia Buscemi.
I carabinieri del ROS arrivano alla conclusione che Vito Buscemi, quello che verrà arrestato il 17 febbraio 1992 in seconda battuta, è il «Buscemino» perché in realtà il «Buscemone» erano Nino Buscemi e Salvatore Buscemi.
Facendo riferimento a telefonate nel rapporto con Salvatore Buscemi di cui si parla con estremo rispetto, vedremo che Salvatore Buscemi nel momento in  cui muore Borsellino è stato condannato definitivamente per associazione a delinquere di stampo mafioso e traffico di sostanze stupefacenti, quindi non era uno stinco di santo, e nel rapporto viene inserito che Vito Buscemi di fatto è un prestanome di tutta la famiglia Buscemi di Passo di Rigano e che con Montalto Salvatore avevano ordito il tradimento a carico di Inzerillo Salvatore.
Abbiamo Montalto che era il traditore di Inzerillo che si allea con Riina per far fuori Inzerillo e in cambio Salvatore Buscemi e Bonura ricevono per questo tradimento la titolarità del mandamento di Passo di Rigano, Buscemi Salvatore, e la titolarità del mandamento dell’Uditore, il Bonura, e ci viene a dire: «Cu ciu purtava a Borsellino di parrari di queste cose?». È come se si venisse a creare, secondo la mia e la nostra ipotesi, una liaison tra il mondo del Buscemi e la necessità di un’accelerazione.
Questo per dirvi come è complicato.
Mi dovete scusare se mi attardo un poco, ma vorrei facilitare in questo modo il lavoro della Commissione, perché altrimenti credo che ci vorrebbero almeno due legislature solo per leggere la messe di atti che ho letto, considerati i vostri numerosi impegni come legislatore.
Voi non vi occupate solo di questo, voi siete il legislatore, quindi vi dovete occupare di cose di maggiore attualità, la crisi economica, la manovra finanziaria.
Io vi voglio sostanzialmente agevolare in questa ricostruzione non portando, ripeto, nient’altro che elementi di fatto.
A Casa Professa il giudice insiste sul fatto che Giovanni Falcone viene ucciso fondamentalmente in un’ottica preventiva perché molti hanno paura che possa tornare a fare nuovamente il magistrato, lo dice a chiare lettere, questa testimonianza la potete sentire su YouTube.
Dice una cosa importantissima, tende a dire che le annotazioni del diario di Falcone sono autentiche e qui ora dobbiamo aprire un capitolo fondamentale,su cui, secondo me, in questi 31 anni, non si è insistito abbastanza e, nei limiti in cui è possibile impetrare una richiesta in questa sede, io domando alla Commissione e al suo presidente di chiedere all’autorità giudiziaria competente, con tutte le formule di segretezza del caso, le annotazioni, che probabilmente sono a Caltanissetta.
Io vi dimostrerò che anziché essere 14, come ha sostenuto la Milella e come è emerso in seno alla commissione del CSM, le annotazioni di Falcone sono 39, questo è un punto fondamentale.

Sto andando velocemente perché mi rendo conto che non posso attardarmi molto.
La storia delle annotazioni sul diario di Falcone è molto importante perché intanto è una voce che viene dall’interno della Procura e dobbiamo riflettere tutti quanti qua dentro sul fatto che le nostre torri gemelle, come disse con quella bellissima espressione Camilleri, hanno avuto lo stesso destino, cioè problemi con il dottor Giammanco e con altri colleghi della Procura perché dalle annotazioni di Giovanni Falcone emerge chiaramente.  
Non è che Giovanni Falcone e Paolo Borsellino fossero la verità o la voce della verità, però c’è qualcosa che dà loro una certa dignità e una certa autorevolezza, visto che sono stati macellati da Cosa nostra.
Un motivo c’era. Forse si erano guadagnati sul campo una certa credibilità. La questione dei diari di Falcone è questa

Il 20 giugno del 1992, il dottor Ayala rilascia un’intervista in cui dice: «Guardate che i diari di Falcone esistono e io li ho visti in vita», e la stessa cosa dice Paolo Borsellino. Dice: «Anch’io li ho visti parzialmente, in vita» e su questo dobbiamo tornare perché è pure importante, «parzialmente».
Questa ricostruzione secondo cui dei colleghi, cioè Ayala e Borsellino, avessero potuto vedere in vita le annotazioni di Falcone ce lo conferma autorevolissimamente il 2 dicembre del 1998, nel Borsellino-ter, il presidente Leonardo Guarnotta.
Guarnotta ci dice: «Con Paolo un sabato mattina andammo in ufficio – era il marzo del 1991 – per chiedere conto e ragione a Giovanni della scelta di andare a lavorare al ministero con Martelli come direttore degli affari penali».
Entrano Guarnotta e Paolo Borsellino, che lavorava a Marsala, però di solito il sabato andava a fare un giro a incontrare i vecchi amici dell’epoca del pool, quelli che c’erano, con cui si era creato veramente un rapporto bellissimo.
Così ce lo descrive Guarnotta: «In stanza c’era già Ayala, e il dottor Falcone, di fronte alle nostre rimostranze secondo cui avremmo dovuto sapere dal giornale che lui andasse a lavorare a Roma, non disse una parola, schiacciò un bottone e vennero stampate una serie di annotazioni», che erano le annotazioni che ora se volete vi leggo.
Questo conferma anche la testimonianza di sua eccellenza Siclari, nell’ambito della commissione del CSM, il quale dichiara che Paolo Borsellino gli disse che in parte le annotazioni di Giovanni Falcone le aveva viste in vita e lui si faceva il problema morale, guardate un poco, che non avesse raccontato questa cosa a Giammanco.
Allora Siclari gli ha detto: «Ma che te ne frega?» «Ora viene fuori la notizia». Siclari lo consiglia: «Non ti preoccupare, perché ti fai questo problema?».
Quindi Borsellino, Ayala e Guarnotta conoscono le annotazioni in parte di Giovanni Falcone.
Andiamo all’intervista di Ayala del 20 giugno che dice: «Attenzione ci sono le annotazioni di Giovanni Falcone, lì dobbiamo cercare anche un possibile movente della strage».
Qui entra in gioco una dichiarazione di Ingroia resa alla commissione regionale siciliana davanti a Fava – non ricordo se lo conferma anche al processo-depistaggio, ricordo che si trova nell’audizione presso la commissione regionale presieduta dall’onorevole Claudio Fava. Lui dice: «Paolo si lamentò del fatto che, siccome Giovanni Falcone aveva criticato Chinnici, che teneva il diario, come mai Giovanni cominciò a tenere il diario?»
Allora giustamente il presidente Fava risponde perché ci sono situazioni motivate. Ingroia in quella sede afferma: «La cosa assurda è che anche Paolo Borsellino poi lo fa, con la famosa agenda rossa».
Perché quando ci sono situazioni di quel tipo, diceva Rocco Chinnici – fu questa la giustificazione che Rocco Chinnici diede a Giovanni Falcone – io scriverò nel diario in modo da poter dare a chi deve indagare la possibilità di risalire anche ai miei assassini.
Quindi abbiamo Rocco Chinnici, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, il quale comincia a utilizzare un’agenda rossa, di cui non sappiamo nulla perché sparisce, non dico alle 16 e 58 del 19 luglio, ma quasi.
Il 20 Ayala fa questa intervista, il 21 giugno – questo mi è stato detto, quindi verificatelo, perché sinceramente non l’ho verificato io, ve lo riporto e farete fare le necessarie verifiche su questo dato – il 21 giugno la «Falange armata» rivendica la non veridicità delle affermazioni di Ayala.
Quindi la «Falange armata» interviene immediatamente a dire che Ayala sta dicendo cavolate, Ayala sta mentendo. Questo è un punto secondo me estremamente significativo.
A proposito della Falange armata, come etichetta su cui bisogna fare tante considerazioni perché sul fatto che sul campo abbiano agito gli uomini di Cosa nostra non ci sono dubbi che tengono, ed è molto raro che Cosa nostra appalti a qualcuno l’esecuzione di delitti di quel tipo, molto raro!
Resta questo dato, dovete verificarlo, che la Falange armata il 21 giugno vuole smentire Ayala.
Cosa era scritto in questi diari? La questione si pone sul numero di 14 o 39. 

La giornalista Liliana Milella il 25 giugno del 1992 si presenta spontaneamente a Tinebra per spiegare il motivo della pubblicazione di queste annotazioni sul quotidiano «Il Sole-24 ore» del giorno precedente e spiega l’origine di come le abbia avute. Racconta che le aveva avute da Giovanni Falcone nel luglio dell’anno precedente.
Falcone gliele consegnò perché di lei si fidava particolarmente in quanto sapeva di appartenere a una testata giornalistica che tutto cercava tranne che gli scoop e poi «Il Sole 24 Ore» aveva avuto modo di organizzare dei dibattiti in cui Giovanni Falcone aveva detto la sua su tutte quelle questioni legate all’organizzazione della lotta alla mafia.
Lei spiega di averle dovute pubblicare perché in poche parole lo scoop era già finito, perché, da una parte, abbiamo Ayala che dichiara che ci sono i diari di Falcone, dall’altra, il 22 giugno Peppino D’Avanzo sul settimanale «l’Espresso» e il Francesco la Licata 23 giugno sul quotidiano «la Repubblica», pubblicano degli articoli in cui si dice che le annotazioni sono 39, quindi c’è questa difformità che andava in qualche modo risolta.
In effetti, pensandoci bene, le annotazioni che sono in possesso della Milella si fermano al 6 febbraio 1991.
Siamo quindi in un’epoca antecedente al deposito dell’annotazione del ROS, che avviene il 20 febbraio del 1991, ma dagli articoli di D’Avanzo su «la Repubblica» e su «l’Espresso» vengono citate due annotazioni in cui letteralmente Giovanni Falcone si lamenta dell’assegnazione del fascicolo relativo all’omicidio del colonnello Russo e del professor Costa, avvenuto a Ficuzza nell’agosto del 1977, di cui parlerò, e soprattutto del fatto che, in riferimento al rapporto di mafia-appalti, i fedelissimi del procuratore Giammanco definiscono quel rapporto carta straccia da cui non c’è nulla da prendere.
Questo dice D’Avanzo su «l’Espresso» del 22 giugno 1992 e su «la Repubblica» del 23 giugno 1992. È chiaro che dunque, oltre a quelle del 6 febbraio del 1991, ci sono annotazioni che riguardano la gestione del rapporto mafia-appalti.
Di queste noi, voi, il popolo italiano, non ne hanno assolutamente avuto mai disponibilità.
Che cos’era successo? Era successo che queste annotazioni per errore non erano state mandate alla Procura della Repubblica competente, cioè Caltanissetta.
Se vogliamo, con riferimento alla strage di Capaci, un problema di competenza poteva anche porsi, se ci pensiamo un attimo.
Non so come lo risolsero perché poi alla fine mi sono sempre occupato solo di Paolo Borsellino.
Se ci pensiamo un attimo Giovanni Falcone era un magistrato fuori ruolo.
Anche la dottoressa Morvillo era un magistrato fuori ruolo, perché da una settimana era stata nominata nella commissione per gli esami in magistratura.
Non ricordo in questo momento la formulazione precisa dell’articolo 11 del codice di procedura penale, se faccia riferimento a magistrati che prestano o hanno prestato, forse più «prestano le funzioni» con riferimento a eventuale autore di reato o persona offesa dal reato, per incardinare la competenza funzionale.
Però lì un problema di competenza poteva anche porsi, attenzione, perché non erano magistrati che stavano indagando a Palermo, non era quella la loro sede, ma è stata risolta così la questione, su Borsellino non ci sono dubbi.
Questi dischetti arrivano a Palermo e per tre giorni prima che il dottor Vaccara, cioè il magistrato di collegamento che la Procura di Caltanissetta aveva affiancato a Borsellino…anche lì bisogna un pochino smitizzare il discorso, e noi per primi lo facciamo, melius re perpensa, che Paolo Borsellino non abbia potuto parlare con Caltanissetta è dipeso da ragioni di due tipi, una obiettiva legata al fatto che il dottor Tinebra si insedia il 15 luglio e c’era una reggenza del procuratore Celesti, se non sbaglio, quindi il dottor Borsellino era pieno di impegni, come vi ho dimostrato, e poi il dottor Borsellino doveva cumulare le notizie da portare a Caltanissetta se doveva denunciare qualcosa in particolare nei confronti di Giammanco, per riconnettere il movente della strage di Falcone, anche a quello che aveva fatto e che avrebbe voluto fare sul dossier mafia-appalti.
Anche lì cerchiamo di essere obiettivi perché, ripeto, uno studio più attento delle carte depotenzia, e noi siamo i primi a dirlo, il fatto che il dottorBorsellino non poté parlare con Caltanissetta, perché c’era un reggente e il dottor Tinebra doveva ancora insediarsi. La seconda ragione è che c’era questo magistrato di collegamento, il dottor Vaccara, a cui il dottor Borsellino, questo ce lo dice Ingroia, doveva spiegare cos’era la mafia perché la buonanima del dottor Vaccara, che non c’è più, non era ferrato in questioni di mafia.
È stata una formula organizzativa di attenzione verso il dottor Borsellino per potere in qualche modo stabilire un canale di collegamento con Caltanissetta. Dicevo quindi che questi floppy disk rimangono lì.
L’annotazione riportata dal giornalista D’Avanzo è troppo precisa ed è come se l’avesse letta.
Poi ci sono sempre le fughe di notizie, insomma questi floppy disk transitano a Palermo e stanno tre giorni, poi Vaccara li porta a Caltanissetta.
Da lì poi non si capisce più niente, tant’è vero che la dottoressa Falcone dice al CSM nel 1992 che volevano fare chiarezza sulla questione e sapere quante erano effettivamente queste annotazioni.
Ripeto, lei viene sentita il 30 luglio, quindi dopo che la questione è stata sviscerata dagli articoli di D’Avanzo su «l’Espresso» e «la Repubblica».
Dice che avevano nominato un loro consulente perché volevano capire quante erano queste annotazioni.
Allora molto velocemente leggiamole questa annotazioni.
Vi rimando, per la spiegazione della risoluzione delle questioni, al verbale della commissione del Consiglio superiore della magistratura con cui appunto, ripeto, sua eccellenza dottor Siclari, procuratore generale, cerca di spiegare l’attività investigativa lato sensusvolta per poter stabilire se, con riferimento ai cahiers de doléances che costituivano queste annotazioni, ci potessero essere profili di rilevanza disciplinare.  
Sono appunti che si fermano, come vi dicevo, al 6 febbraio 1991.
Il soggetto sottinteso è il dottor Giammanco. «Si è lamentato con il maggiore Insolia di non essere stato avvertito del contrasto fra pubblica sicurezza e carabinieri a Corleone su Riina, primo dicembre 1990».
Seconda annotazione: «Ha preteso che Rosario Priore gli telefonasse per incontrarsi con me e gli ha chiesto di venire a Palermo anziché andare io a Roma, 7 dicembre 1990». Sempre il 7 dicembre 1990, terza annotazione: «Si è rifiutato – Giammanco – di telefonare a Giudiceandrea, giudice di Roma, per la Gladio, prendendo a pretesto il fatto che il procedimento ancora non era stato assegnato ad alcun sostituto».
Quindi Falcone è molto interessato a Gladio, farà le indagini su Gladio e arriverà a delle conclusioni su Gladio.
Quarta annotazione: Giammanco – questo è un punto importante – «ha sollecitato la definizione di indagine riguardante la regione al capitano De Donno, procedimento affidato a Enza Sabatino, assumendo che altrimenti la regione avrebbe perso finanziamenti». «Ovviamente – dice Falcone – qualche uomo politico gli ha fatto questa sollecitazione ed è altrettanto ovvio che egli prevede un’archiviazione che solleciti l’ufficiale dei carabinieri.
In tale previsione questo intorno al 10 dicembre 1990».
Questo appunto lo dobbiamo sviluppare perché su di esso Enza Sabatino dà una spiegazione completa a riscontro delle annotazioni di Falcone, perché queste annotazioni hanno anche un certo riscontro, anzi quasi tutte.
Altra annotazione: «Nella riunione di pool per requisitoria Mattarella mi invita in maniera inurbana a non interrompere i colleghi, infastidito per il fatto che Lo Forte e io ci eravamo alzati per andare a fumare una sigaretta.
Rimprovera aspramente il Lo Forte, 13 dicembre 1990». Altra annotazione del 18 dicembre 1990: «Dopo che ieri pomeriggio si è deciso di riunire i processi Reina, Mattarella e La Torre, stamattina gli ho ricordato che vi è l’istanza della parte civile nel processo La Torre (PCI) di svolgere indagini su Gladio».
Falcone è su Gladio. «Ho suggerito quindi al giudice istruttore di compiere noi le indagini in questione, incompatibili col vecchio rito, acquisendo copia delle istanze in questione».
Qui ci sono passaggi procedurali che soltanto i consulenti magistrati della Commissione potranno delineare. «Invece sia egli sia Pignatone insistono per richiedere soltanto la riunione, riservandosi di adottare una decisione soltanto in sede di requisitoria finale, un modo come un altro per prendere tempo».
Il 19 dicembre 1990 vi è un’altra riunione con lui, Sciacchitano e Pignatone: «Insistono nella tesi di rinviare tutto alla requisitoria finale e firmare la richiesta io di riunione dei processi nei termini di cui sopra». 19 dicembre 1990: «Non ha più telefonato a Giudiceandrea e così viene meno la possibilità di incontrare i colleghi romani che si occupano della Gladio».
19 dicembre 1990: «Ho appreso per caso che qualche giorno addietro ha assegnato un anonimo su Partinico, riguardante, fra gli altri, l’onorevole Avellone a Pignatone, Teresi e Lo Voi, a mia insaputa.
Gli ultimi due – cioè Vittorio Teresi e Francesco Lo Voi – non fanno parte del pool».
10 gennaio 1991: «I quotidiani riportano la notizia del proscioglimento da parte del giudice istruttore Grillo dei giornalisti Bolzoni e Lodato, arrestati per ordine di Curti Giardina tre anni addietro con imputazione di peculato.
Il giudice istruttore ha rilevato che poteva trattarsi soltanto di rivelazione di segreto d’ufficio e che l’imputazione di peculato era cervellotica. Il PM Pignatone aveva sostenuto invece che l’accusa in origine era fondata ma che le modificazioni del codice penale rendevano il reato di peculato non più configurabile.
Trattasi di altra manifestazione della furbizia di certuni che, senza aver informato il pool, hanno creduto con una ardita ricostruzione giuridica di sottrarsi a censura per una iniziativa (arresto di giornalisti) assurda e faziosa di cui non può essere ritenuto responsabile certamente il solo Curti Giardina, Procuratore capo dell’epoca».
16 gennaio 1991: «Apprendo oggi che, durante la mia assenza, ha telefonato il collega Moscati, sostituto procuratore della Repubblica a Spoleto, che avrebbe voluto parlare con me per una vicenda di traffico di sostanze stupefacenti nella quale era necessario procedere a indagini collegate.
Non trovandomi, il collega ha parlato con il capo che naturalmente ha disposto tutto e ha proceduto all’assegnazione della pratica alla collega Principato, naturalmente senza dirmi nulla.
Ho appreso quanto sopra solo casualmente, avendo telefonato a Moscati». 17 gennaio 1991: «Solo casualmente, avendo assegnato a Scarpinato il fascicolo relativo a Ciccarelli Sabatino, ho appreso che Sciacchitano aveva provveduto alla sua archiviazione senza dirmi nulla.
Ho riferito quanto sopra al capo che naturalmente è caduto dalle nuvole.
Sul Ciccarelli, uomo d’onore della famiglia di Napoli, il capo mi ha esternato preoccupazioni derivanti dal fatto che teme di contraddirsi con le precedenti note prese di posizione della Procura di Palermo in tema di competenza per i processi riguardanti Cosa nostra».
26 gennaio 1991: «Apprendo oggi, arrivato in ufficio, da Pignatone, alla presenza del capo, che egli e Lo Forte quella stessa mattina si erano recati dal cardinale Pappalardo per sentirlo in ordine a quanto riferito nel processo Mattarella da Lazzarini Nara.
Protesto per non essere stato previamente informato sia con Pignatone sia con il capo al quale faccio presente che sono prontissimo a qualsiasi diverso mio impiego, ma che, se si vuole mantenermi al coordinamento delle indagini antimafia, questo coordinamento deve essere effettivo. Grandi promesse di collaborazione e di lealtà per risposta».
6 febbraio 1991: «Oggi apprendo che Giammanco segue personalmente un’indagine affidata da lui stesso a Vittoria Randazzo e riguardante dei carabinieri di Partinico coinvolti in attività illecite.
Uno dei carabinieri è stato arrestato a Trapani e l’indagine sembra abbastanza complessa».
Vi ho letto questi appunti perché troverete le spiegazioni che dà il dottor Siclari e farete le vostre valutazioni.
Il vero motivo invece è il contenuto di quella annotazione a cui mi riferivo prima, e cioè il fatto che a un certo punto sembra che ci siano delle annotazioni – dico sembra perché noi non le abbiamo viste, allora dobbiamo inferire e dedurre.
Ecco l’importanza dei verbali del CSM, anche questa volta ci vengono in aiuto: la testimonianza della dottoressa Enza Sabatino.
Con riferimento alle annotazioni che vi ho appena letto il dottor Siclari a un certo punto si sbilancia e dice: «Guardate sono fatti che in qualche modo accadono fisiologicamente in una Procura, quindi personalmente ho dovuto muovermi celermente.
La mia discrezione e la rapidità, dice sua eccellenza Siclari, nasce dal fatto che non potevo contribuire – l’onestà di Siclari è enorme – e probabilmente può essere andata anche a discapito di un approfondimento che poteva essere necessario, ma, dato il contesto, cioè che c’era una campagna forte di delegittimazione nei confronti del procuratore Giammanco in quel momento in cui si sa dei diari, perché è dopo la strage di Falcone, io mi sono mosso, ho chiesto delle giustificazioni e alla fine mi sono fatto un’idea che tutto sia abbastanza chiarito» e dà delle spiegazioni.
Poi fa una valutazione: «Ma in fondo queste sono le annotazioni, perché Falcone, se avesse avuto motivi di rancore veri nei confronti del dottor Giammanco, in qualche modo da Roma, avendo raggiunto il livello ministeriale, il fatto stesso che il dottor Falcone non abbia preso iniziative successivamente vuol dire che anche lui alla fine si è sfogato.
Prendiamole per annotazioni in cui il suo malessere ha trovato in qualche modo sfogo».
Le cose non stanno così quando un anno fa invece leggo l’audizione della Sabatino, perché l’audizione della Sabatino dà conferma della veridicità di quanto sostenuto da Bolzoni sia nell’articolo dell’Espresso sia nell’articolo di Repubblica e cioè che il vero momento di assoluta umiliazione del dottor Falcone da parte di Giammanco davanti a tutta la Procura, ha riguardato la titolarità dell’assegnazione del fascicolo sulle riaperte indagini per il duplice omicidio del colonnello Russo e del professore Costa.
Falcone decide che è arrivato il punto di chiudere l’esperienza palermitana e dirà a Teresa Principato che lo riporta – altro riscontro in seno ai verbali della commissione: lui ci dice «chi rimane qua?
Io me ne vado, andatevene anche voi», e lo vedrete nel verbale della dottoressa Teresa Principato della commissione, «chi rimane qua? Anzi vi consiglio di andarvene, altrimenti sarete complici di questo sistema».
Cosa succede in quella riunione? Ce lo dice la dottoressa Sabatino.
Leggendo quei verbali vi renderete conto che i commissari sono convinti che le annotazioni sono quelle 14 di cui parla la Milella e vedrete che è la Sabatino che dice: «Guardate che ci sono altre annotazioni e io leggendo l’articolo di D’Avanzo sono saltata in aria perché io ho vissuto l’annotazione di Giovanni Falcone, io l’ho vissuta perché sono la protagonista.
Quindi io sto qui a dirvi che, siccome l’annotazione che mi riguarda non c’è nell’articolo della Milella, ma è sull’Espresso, io sto qui a dirvi che, avendo vissuto l’esperienza di quell’annotazione, è vero quanto sostiene D’Avanzo, che gli scalini famosi sono 39, le annotazioni sono 39 e non 14».
Cos’era successo di fatto? Dice che uno dei momenti caratterizzanti l’attività di coordinamento di un procuratore aggiunto è quello di potere stabilire lui l’assegnazione dei fascicoli ai sostituti cui affidarli.
Tenete conto che era entrato da poco in vigore il codice di procedura penale per cui per potere gestire i vari procedimenti, secondo la nuova organizzazione che il codice aveva dato agli uffici, fu necessario reclutare anche sostituti procuratori che non erano a rigore all’interno del pool antimafia, e cioè che si occupavano di ordinaria, ed EnzaSabatino era una di questi.
Arriva il momento in cui Falcone deve assegnare, l’unico residuo esercizio di potere che era rimasto a quell’uomo all’interno di quella Procura.
Falcone dà il primo processo al dottor Vittorio Teresi, a carico di un certo La Licata, ricorda la Sabatino, a un certo punto, mentre sta per passare alla seconda assegnazione e fa il nome del colonnello Russo, Giammanco interrompe la seduta e dice: «No, qui tu non assegni niente, andiamo per ordine di tavolo, anzi questo me lo fa Enza», quindi Falcone viene umiliato dal suo Procuratore davanti a tutti, gli viene tolto il potere di assegnare i fascicoli, Falcone tace, in cuor suo, e il suo tacere ve lo spiegherà la sorella nel verbale della Commissione del CSM del 1992.
Lui era distrutto, ma non era più disposto a iniziare un altro caso Palermo come nel 1988 perché non poteva competere con gli appoggi politici di Giammanco.
Questo lo trovate nell’audizione della dottoressa Maria Falcone del 30 luglio del 1992, elementi che non sono entrati, neanche a mia conoscenza, nei processi di Capaci.
Questo è il vulnus che io denuncio in questa sede.
Vedete come ogni dettaglio è importante ai fini della definizione del contesto di quello che accadde in quelle situazioni.
La Sabatino dice che non poteva dire di no perché aveva letto il «maxi uno» in cui si parla di questo omicidio, omicidio che nel rapporto viene collegato, come quello di Basile, come quello dei poveri capitani Bommarito e Morici, uccisi nel giugno del 1983, alle indagini che Russo, Basile, Taleo, Bommarito e Maurici fanno su mafia-appalti e in particolare sulla Litomix Costruzioni S.r.l. dei Brusca di San Giuseppe Jato, e tutto viene ricostruito nel rapporto del ROS del 1991.
Enza Sabatino prende questo fascicolo e appena legge quella che è l’annotazione di Falcone che dice: «Mi ha umiliato davanti a tutti, io me ne vado» lei dice: «Guardate che è vero, io non voglio andare contro Giammanco, sono qui solo ad attestare l’autenticità dell’annotazione riferita da D’Avanzo perché io questo episodio l’ho vissuto personalmente, ho visto la faccia di Falcone, ho visto come è stato umiliato davanti a tutti».
Poi abbiamo Teresa Principato che ci racconta nel verbale che, dopo quella riunione, fu lì che Falcone pronunciò quelle frasi.
Dimenticavo che nel rapporto viene indicato anche l’altro omicidio importante, quello del giornalista Mario Francese.
Mario Francese muore nel gennaio 1979 perché riconnette la scalata dei corleonesi al potere mafioso anche attraverso l’infiltrazione nel sistema degli appalti.
Mario Francese farà un’indagine straordinaria per cui, poverino, anche lui ha sacrificato la sua magnifica vita per noi, perché anche lui aveva toccato il punto centrale per cui la mafia spara e ammazza: gli interessi economici.
Cosa dice D’Avanzo in questo articolo? D’Avanzo, un grande giornalista che purtroppo non c’è più, aveva evidenziato in un virgolettato – quindi ritengo che aveva visto, come succede sempre nelle procure, ed è un problema che andrebbe introducendo qualche forma di responsabilità colposa rispetto alla gestione dei fascicoli e alle fughe di notizie, ma questo non c’entra – dicevo mette tra virgolette questa annotazione: «controversia che Falcone ingaggiò con Giammanco dopo che il Nucleo speciale dei carabinieri consegnò in Procura il rapporto su mafia-appalti, un lavoro certosino, durato anni, che raccontava come tutti gli appalti di Palermo passano attraverso la mediazione di Angelo Siino, titolare di una concessionaria d’auto, un uomo fidato dei corleonesi.
Falcone valutò il rapporto con grande attenzione, Giammanco e i suoi sostituti più fidati con scetticismo, anzi con scherno, “tanta carta per nulla, in questo rapporto non c’è scritto niente che meriti di diventare un’inchiesta giudiziaria, disse uno dei fedelissimi di Giammanco”».
Francamente uno degli onera probandi che incombono su di me, sia pure in termini molto veloci, perché qui non siamo in un’aula di giustizia, sarà quello di dimostrare che – come vi ho detto l’altra volta, se dalla mazzetta dell’ingegner Chiesa siamo arrivati alla mega-tangente Enimont – da questo rapporto vi è altro che carta straccia dove non c’è nulla che possa diventare inchiesta giudiziaria!
Vi rendete conto che abbiamo delle annotazioni sicuramente successive al deposito dell’informativa, ma di queste però noi non abbiamo alcuna evidenza sotto il profilo di una riscontrabilità, come invece hanno quelle che vi ho letto e sono state depositate e allegate al verbale del 25 giugno 1992 della giornalista Milella davanti alla Procura della Repubblica di Caltanissetta.
La cosa interessante dell’audizione della dottoressa Sabatino è che il dottor Borsellino le chiese di ricordargli nuovamente questo episodio di cui all’annotazione – questo lo dichiara la Sabatino – perché dice che Paolo poi la chiamò per sapere delle due annotazioni che lo riguardavano e volle sapere di questa, cioè dell’umiliazione di Falcone davanti a tutti, e quella a cui ho fatto riferimento prima e cioè della sollecitazione che il procuratore Giammanco aveva ricevuto dalla presidenza della Regione, sollecitazione che poi è stata fatta anche al capitano De Donno, con riferimento a un’indagine relativa ai piani integrati del Mediterraneo che doveva chiudersi perché c’era il rischio che la Regione perdesse i fondi europei di circa 50 miliardi, legati appunto a questi piani integrati del Mediterraneo.
Qui si cerca sostanzialmente di giustificare il comportamento del dottor Giammanco, e lo fa il dottor Siclari, dicendo che non c’era niente di male se l’autorità politica potesse sollecitare.
Leggendo la Sabatino, non devo dirvelo io, ma io ne sono convinto, la Sabatino dice che doveva fare l’indagine e che a lei non interessava se interveniva il presidente della Regione Sicilia.
«Io devo fare l’indagine», perché l’autonomia della magistratura è questa, in questo si declina l’autonomia della  magistratura. Giammanco arriva a dire addirittura: «Che cosa c’è di male se eventualmente io mi faccio latore delle esigenze del governo regionale?». No c’è di male secondo me, secondo me c’è di male, è così e questo poi rimanderà a un capitolo fondamentale che è quella dell’amicizia fortissima del dottor Giammanco con D’Acquisto e quindi con Salvo Lima.
Ingroia ci dirà fondamentalmente che già Borsellino a Marsala gli disse: «Guarda che Giammanco è un uomo di Lima». Giammanco è un uomo di Lima.
Dopo l’assassinio di Salvo Lima un magistrato, credo Ingroia o Sabatino o Principato, però lo troverete nei verbali, dice, un’ora dopo l’assassinio, che dietro la porta del procuratore a bussare ed entrare c’era D’Acquisto.
Questo era l’andazzo nella Procura della Repubblica retta da Giammanco, cioè Giammanco era questo, è inutile che stiamo qui a girarci attorno, e quello che noi, come ho detto prima, denunciamo è che non si sia mai ritenuto di chiedere conto e ragione in nessuna sede e questo, a mio giudizio, lo dico sempre perché lo penso, introduce una forma di diritto penale del privilegio che è inaccettabile. Inaccettabile.
Una precisazione velocissima sulla testimonianza del dottor Russo e della dottoressa Camassa con riferimento alla famosa espressione: «Un amico mi ha tradito, qui è un nido di vipere», riferendosi all’ufficio della Procura.
Tra le due dichiarazioni vi è contrasto non sul contenuto delle confidenze del dottor Borsellino – questo mi sembra importante – ma sulla data in cui questo incontro sarebbe avvenuto.
Il giudice del processo Borsellino-quater abbreviato, sentenza definitiva in Cassazione, come sempre si fa, mette a confronto le due versioni e, sulla base di una serie di deduzioni di ordine logico, propende per la tesi della dottoressa Camassa che parla di ultima settimana del mese di giugno, in cui sarebbe avvenuto questo incontro, mentre il dottor Russo lo collocava nella prima quindicina del mese di giugno.
Troverete nella sentenza del Borsellino-quater abbreviato lo svolgimento del ragionamento fatto dal giudice.
Oggi, in questa lunga opera di ricognizione e rivisitazione del materiale in atti, mi sono soffermato su un altro dettaglio e cioè su una dichiarazione proprio della dottoressa Camassa che non avevo valorizzato a sufficienza io stesso, come riportata nella sentenza a cui facevo riferimento, dalle pagine 343 e seguenti.
Si tratta di uno dei motivi per cui la dottoressa Camassa riconnetteva l’incontro all’ultima settimana di giugno e che finalmente era riuscita a ottenere un colloquio con il dottor Borsellino per organizzare la festa di addio alla procura di Marsala, che è avvenuta il 4 luglio del 1992.
«Ricordo in particolare che in occasione della festa del 4 luglio, incontrai il maresciallo Canale il quale, come del resto aveva fatto in precedenza, ebbe a confidarmi che a suo avviso il dottor Borsellino si fidava troppo dei vertici del ROS, facendo il nome dell’allora colonnello Mori e del generale Subranni, sostenendo che si trattava di personaggi pericolosi, senza precisare altro.
La cosa mi colpì perché parlando con Paolo in precedenti occasioni, avevo maturato la convinzione che egli avesse ottimi rapporti con il generale Subranni.
Intendo dire rapporti che esulavano le semplici relazioni d’ufficio».
Qual è l’inferenza e la deduzione che io faccio? Atteso che il dottor Borsellino conosceva solo di vista Mori e non aveva rapporti con.
Mori
, ma aveva con Subranni rapporti di lavoro e una stima reciproca, atteso che con Mori e De Donno il Canale non ebbe mai a collaborare, atteso che egli fu incaricato di organizzare l’incontro e atteso che Borsellino lo tenne fuori dalla porta, non partecipando cioè all’incontro, questa confidenza è avvenuta dopo il 25 giugno del 1992.
Il 26, il 27 e il 28 siamo a Giovinazzo, quindi sicuramente l’incontro è avvenuto nell’ultima settimana, cioè prima della festa del 4 luglio. Resta il dato obiettivamente sancito in una sentenza definitiva che l’incontro è avvenuto il 29 giugno del 1992, quella famosa giornata in cui ci mancava solo la crocifissione per Paolo Borsellino, giornata pesantissima di cui ho dato conto nel corso della precedente audizione.
Dal 29 arriviamo al 30 di giugno del 1992.
Qui abbiamo secondo me la collaborazione incipiente, ma tra le più importanti in assoluto, perché attraverso l’interrogatorio di Leonardo Messina, boss di San Cataldo, uomo di fiducia del capo mafia nisseno Piddu Madonia, Borsellino apprende due cose fondamentali contenute nei verbali del 30 giugno e del primo luglio.
Apprende due cose, che rispetto al tempo in cui viene interrogato, Messina dice che tre mesi e mezzo prima c’era stata la riunione della Commissione regionale.
Borsellino in quel caso capisce che è morto perché la Commissione regionale è nel territorio di Enna, perché Enna era un territorio trascurato e negletto sotto il profilo del controllo del territorio da parte delle forze di polizia.
All’interno dell’interrogatorio troverete fondamentalmente tutti i passaggi di cui parla Leonardo Messina, ma il significato di quella riunione regionale Borsellino lo capisce.
C’è una strategia criminale in corso, decisa ai più alti livelli.
Vedremo che le risultanze processuali successive, finanche nel processo Messina Denaro, che sarebbe il Borsellino-quinquies, si è dimostrato che l’ossequio alle regole era semplicemente formale, ma chi decise la strategia di attacco fu Salvatore Riina e i suoi fedelissimi, che costituirono la cosiddetta super-Cosa.
Questo è un punto chiave, perché i collaboratori ci dicono che dell’accelerazione dell’esecuzione della strage di via D’Amelio Riina si assunse in proprio la responsabilità.
Egli si limitò, così come richiedevano le «regole» dell’organizzazione, a contemplare la Commissione provinciale e la Commissione regionale, in vista della inevitabile reazione statuale, il fatto che bisognava togliere di mezzo amici e nemici, ma mai contemplò veramente le ragioni o meglio all’associazione contemplò unicamente l’istanza vendicativa, però era importante, ce lo dice Giuffrè: «Io da quella riunione del dicembre 1991 mi si è alzato il gelo, però in cuor mio ero felice perché finalmente dopo anni in cui subivamo colpi dallo Stato, grazie a Falcone e Borsellino, finalmente si era deciso che a questi bisognava fargliela pagare». Quindi c’è la spendita dell’istanza vendicativa a tutta l’associazione.
Questo atteggiamento del Riina va messo in connessione con le dichiarazioni di Brusca.
Quando Brusca nel 1998 comincia a disvelare qual è il disegno economico egemonico nel mondo degli appalti di Salvatore Riina ci dice una cosa che, dal mio punto di vista, è estremamente significativa.
Cioè il gruppo della super-Cosa che vedeva Messina Denaro, Giuseppe e Filippo Graviano, Biondino, uomini che poi sono quelli che hanno realizzato sul campo le stragi – poi vi spiegherò perché abortisce la missione romana e vi spiegherò, secondo il mio giudizio, secondo le idee che mi sono fatto leggendo gli atti, perché Rina ha necessità di ucciderli a Palermo, soprattutto Falcone.
Questo è un punto su cui vi prego se dovessi dimenticarlo di aiutarmi a ricordarlo, perché per me è fondamentale.
Brusca ci dice che, nel disegno egemonico che doveva portare la sostituzione di Siino e Salamone con Bini, uomo della Ferruzzi, nel tavolino, si era deciso di fare una tangente sulla tangente, lo 0,8 della tangente che spettava ai politici doveva andare alla cassa dell’organizzazione, però cosa dice Brusca? «Noi questo non lo abbiamo detto ai membri della Commissione».
Come vedete il Riina che decide la strategia stragista è il Riina che si comporta da vero dittatore e fa passare le informazioni che dice lui.
Quando vi dicevo nella scorsa audizione che l’accelerazione dell’esecuzione della strage non ha alcun interesse nell’ottica per esempio del «partito dei carcerati» e dell’organizzazione, vi voglio rappresentare che Salvatore Riina è un uomo ormai in pieno delirio di onnipotenza, ma è un uomo che è costretto a stringere le fila attorno a sé, portandosi i fedelissimi perché non è riuscito a mantenere una promessa che una rispetto a quello che è il «partito delle carceri» e che tutta l’organizzazione si aspettava.
Il maxiprocesso con le famose parole di Riina di accontentare tutti nell’associazione, poi gli ergastoli li facciamo cadere, quindi il teorema Buscetta, niente, non ce la fa e chi si mette di mezzo?
Falcone si mette di mezzo, il presidente Brancaccio, si mette di mezzo credo Violante, facendo il sistema di rotazione secondo cui il processo non andasse alla solita prima Sezione in composizione con certi magistrati che cercavano i cavilli dei cavilli dei cavilli, e vi assicuro che quando si fanno i mega processi di quel tipo un cavillo lo trovi se vuoi.
Quindi Riina ha un problema interno di leadership minata.
La missione romana la Corte di appello di Catania del 2006 la considera una sorta di missione iocandi causa, la definisce una sorta di missione fatta più per gioco.
Quando oggi abbiamo celebrato il processo Messina Denaro, siamo riusciti a dimostrare la quantità di esplosivo trasportato, la quantità di armi esportate, l’organizzazione logistica degli Scarano, con i Nuvoletta di Napoli a Roma, per ammazzare Falcone, ma quale iocandi causa?
Siccome fuori dal proprio territorio Messina Denaro, Sinacori, Brusca e Graviano erano come pesci fuor d’acqua – figuratevi che sbagliarono la trattoria dove si doveva trovare Falcone per ammazzarlo con un’azione di killeraggio! – a un certo punto nel marzo del 1992 Riina dice: «No, la dobbiamo fare qua!», deve dare un segnale anche alla sua organizzazione.
Guai a chi si permette di scalarmi perché sono in difficoltà, io vi dimostro cosa so fare ancora e quanto è forte quella parte di organizzazione di fedelissimi che mi sta accanto.
Non solo, ma Palermo, secondo il vecchio paradigma del luogo capace di assorbire tutti i colpi più tremendi delle tragedie di mafia, Palermo stavolta non poteva assorbire due stragi di quel tipo.
Era impossibile, era visionario, era un folle! Solo un folle poteva pensare che non reagisse la società civile! Vorrei ricordare che l’autostrada di Capaci venne sventrata e avrebbe dovuto rimanere lì a futura memoria.
Ci fu chi dalla società civile sollevò il problema che non avrebbe dovuto essere ricostruita.
Senonché doveva venire la regina Elisabetta a Palermo e questo ha avuto delle incidenze sulla conservazione dei reperti, e si dovette repertare in fretta perché doveva venire qualche giorno dopo la regina Elisabetta e bisognava ricostruire il tratto di autostrada che era stato sventrato in quel modo. Quindi Riina ha un problema all’interno.
Guai a chi si permette di pensare che la mia leadership è in crisi e io ve lo dimostro.
Ora ci rendiamo conto delle frasi di Raffaele Ganci, fedelissimo di Riina, cosca della Noce, che dice a Salvatore Cangemi: «Questo ci consuma a tutti», perché la strage di Borsellino non ha senso nell’ottica dell’organizzazione pura e semplice di Cosa nostra, tanto è vero che ci dice Brusca che doveva uccidere Mannino e comincia già ad organizzarsi, poi, proprio facendo i calcoli in relazione alla collaborazione – questa è una mia tesi, un mio incrocio di dati, quindi prendetela per quella che è la deviazione arriva quando comincia a parlare Lipera, siamo lì – Brusca dice che era pronto a metà giugno, «mi dicono di lasciare perdere e cambiano obiettivo».
In più, Borsellino si dà da fare, magari questo incontro ha suscitato molta attenzione e molta paura, nel frattempo i ROS, o, meglio, De Donno parla con Ciancimino, il che può essere stato visto anche come un’ulteriore dimostrazione che sono su una certa pista perché De Donno è l’estensore del rapporto.
Ciancimino non sappiamo se ha riferito a qualcuno che De Donno lo aveva cercato.
De Donno parla con la dottoressa Ferraro della necessità di questa azione info-investigativa volta a far pentire Ciancimino che era ben inserito nel sistema degli appalti, questa è la mia opinione, e anche avere probabilmente notizie – io vi parlo di De DonnoMori sembrerebbe che lo abbia incontrato il 5 agosto, ma sinceramente per me il processo-trattativa, nel momento in cui è stato scritto che Borsellino non conosceva «mafia-appalti», è nato sulla base di un presupposto errato.
Abbiamo quindi una serie di allarmi.
Totò Riina in quel momento, ci descrive Brusca, è nel pieno della sua scalata al tavolino perché noi abbiamo il rapporto.

Il rapporto è già passato e, rispetto a alle circostanze che poi ci riferiranno lo stesso Siino e Brusca nel 1997, è già quasi passato prossimo, perché le cose stavano andando molto più velocemente in un’altra direzione e cioè nel protagonismo di Buscemi, di Bini e delle società del gruppo Ferruzzi che erano in cointeressenza con Salvatore Riina.
Chi glielo dice a Borsellino? Glielo dice Leonardo Messina. Leonardo Messina dice: «La Calcestruzzi S.p.A. è di Riina». Qui arriviamo alla famosa archiviazione del giugno del 1992.
Questa, dal mio punto di vista, è una pagina difficile da definire, ne ho accennato l’altra volta.
Si ha la smagnetizzazione e la distruzione di brogliacci di un’indagine proveniente da Massa Carrara in cui un sostituto procuratore, di nome Augusto Lama, era riuscito, con un’attività di indagine molto seria durata più di un anno, a dimostrare le attività di con cambio, di cointeressenze, di incorporazione e fusione tra società del gruppo Ferruzzi e società direttamente riconducibili a Nino Buscemi.
È uno dei campi di Salvatore Buscemi, quindi è quella stessa mafia di Passo di Rigano che era nel rapporto e che viene liquidata con tre parole tre.
Brusca ci verrà a dire che il Buscemi godeva all’interno della Procura della Repubblica di un certo appoggio da parte di un certo magistrato.
Oggettivamente.
Le conclusioni raggiunte il 13 luglio del 1992 sulla figura del Buscemi francamente sono difficili da interpretare, vista l’enorme massa di documentazione e di informazioni sui Buscemi.
Ricordate Montalto Salvatore?
Uomo di Salvatore Buscemi e quindi di Nino Buscemi.
Addirittura i collaboratori di giustizia ci verranno a dire che chi diede la battuta per assassinare Inzerillo Salvatore che era andato dall’amante, fu proprio Nino Buscemi, tanto è vero, e lo dice Guarnotta il 2 dicembre 1998, che neanche con Calderone, l’ultimo grande collaboratore di giustizia, erano riusciti a ricostruire le vicende, che non hanno portato a identificare neanche il movente, perché sull’omicidio di Salvatore Inzerillo chi veramente fa capire tante cose è lo stesso Gaspare Mutolo l’11 novembre del 1992. Il dottor Guarnotta ci dice: «Guardate che noi abbiamo fatto il maxi uno, il maxi due e il maxi ter grazie a Mutolo».
Ecco perché Borsellino non doveva parlare con Mutolo o gli doveva parlare secondo certe formule. Mutolo è quello che finalmente spiega innanzitutto il tradimento avvenuto all’interno della famiglia di Inzerillo da parte appunto di Salvatore Buscemi, Bonura, Carollo e Montalto Salvatore ed esprime invece qualche dubbio sul figlio Montalto Giuseppe.
Sul fatto che Nino Buscemi addirittura avesse portato la battuta, c’è un contrasto tra diversi collaboratori nel 1997, ma quel che conta è che noi già nel 1992 abbiamo delle indagini che statuiscono l’esistenza di una grande cointeressenza di interessi tra famiglie chiaro passato e presente mafioso e gruppi di imprese nazionali.
La Serafino Ferruzzi che era una delle più importanti imprese di rilevanza nazionale, per non parlare di quelle altre contenute dentro il rapporto, la Tor di Valle, la Gambogi costruzioni S.p.A., la CISA, la Lodigiani, la Torno.
Vorrei dire oggi a tutti i siciliani che mi stanno ascoltando e che si sono sempre chiesti perché ci misero trent’anni a fare la Palermo-Messina, ecco leggetevi il rapporto mafia-appalti e lo capirete perché ci hanno messo trent’anni a fare la Palermo-Messina.
Scusate se ogni tanto veramente mi lascio prendere dalla emozione, però penso che quella morte poteva essere evitata.
Questo è il mio conflitto di interesse, quello emotivo, ecco io ho un conflitto di interesse di tipo emotivo, solo quello, ma cerco di essere freddo e razionale e soprattutto attento lettore degli atti, atti connotantisi per attendibilità e soprattutto consacrati in sentenze definitive in cui quella attendibilità è stata sancita.
Rinvio alla lettera di trasmissione che io vi allegherò, con la precisa e puntuale descrizione con cui il dottor Augusto Lama riesce a dimostrare, con il nucleo della Guardia di finanza e dei Carabinieri, il livello delle cointeressenze fra le aziende della famiglia di Passo di Rigano e Riina e la Ferruzzi, ma sarà ancora più importante Mutolo nel 1994 quando racconterà di Pizzo Sella – chi è palermitano sa cos’è il Pizzo Sella – e il fatto che la CISA del gruppo Ferruzzi controllava la CISA di Cataldo Farinella, citata nel rapporto mafia-appalti, e queste trasformazioni, incorporazioni e holding di controllo sono tutte indicate nel rapporto.
La CISA di Cataldo Farinella, ma soprattutto la CISA nazionale è quella che porta avanti i lavori di Pizzo Sella, perché l’ingegner Bondì non è più in grado di gestirli. Pizzo Sella è un territorio che proveniva da Rosa Greco, che era la sorella di Michele Greco, e il cognato Notaro era l’intestatario della società Solaris che gestiva Pizzo Sella.
La stessa Procurai Palermo riuscirà a dimostrare nel 1997, allorché proporrà delle misure di prevenzione nei confronti del Buscemi, che un notaio lo stesso giorno in cui Ferruzzi interviene, stipula due passaggi da Solaris a Bondì e da Bondì alla Generali Impianti controllata da Ferruzzi e dai Buscemi.
Per evitare che l’acquisto derivasse immediatamente dalla Solaris di Michele Greco fanno nello stesso giorno un atto notarile di passaggio delle quote da Solaris a Bondì e da Bondì alla Generali Impianti, controllata da Buscemi e dal management della Ferruzzi, cioè Sironi, Visentin, Panzavolta e Bini.
Trovate tutto nel provvedimento relativo al procedimento n. 113/97, misure di prevenzione, con cui la Procura di Palermo chiese giustamente la assoggettabilità alle previsioni di cui alla legge sulle misure di prevenzione di una serie di beni della famiglia di Nino Buscemi, in particolare. E lì è spiegato tutto quello che vi ho detto per sommi capi.
Il dato che conta è che già al momento in cui il rapporto è stato depositato, si capiva che, grazie anche alle carte provenienti da Massa Carrara, che vengono trasmesse nell’agosto del 1991, si crea il procedimento all’interno del quale abbiamo la richiesta di archiviazione del primo giugno 1992, accolta il 19 giugno del 1992 dal giudice Grillo, e poi il 25 giugno si ha il provvedimento di distruzione dei brogliacci.
Ma cosa c’era in quei brogliacci? Perché vengono distrutti? Ve lo dissi già l’altra volta: noi nel processo-depistaggio, grazie ai brogliacci trovati nel 1994 per l’attività di intercettazione dal 22 dicembre 1994 al 9 luglio 1995, siamo riusciti a capire che il gruppo Falcone-Borsellino bloccava le chiamate quando Scarantino parlava con i magistrati.
Questo per farvi capire che attraverso quelle trascrizioni – poi grazie a Dio le bobine, non essendo state smagnetizzate funzionavano pure, per cui siamo riusciti anche a trascrivere – ma se il gruppo Falcone-Borsellino avesse smagnetizzato le bobine, avremmo cercato di ricostruire attraverso i brogliacci.  
Qua no, sulle carte di Massa Carrara non c’era dove andare a cercare. Quando io dico che chi ha disposto la distruzione avrebbe dovuto giustificarsi di fronte a Borsellino, è perché Borsellino apprende da Leonardo Messina che la Calcestruzzi era in mano a Riina, e cosa aveva dimostrato Augusto Lama? Questo aveva dimostrato Augusto Lama! Il quale, per una intervista in cui rivelava queste cointeressenze, su input di Raul Gardini, amico di Martelli, subisce un procedimento disciplinare. Questo lo dichiara Augusto Lama ed è vero, è andata così.
Andiamo a vedere storicamente chi era Raul Gardini negli anni Ottanta.
Vi rimando alla lettura del provvedimento sulla mandanti occulti-bis del 2003 in cui la Procura di Caltanissetta dice che a quel punto anche il suicidio di Gardini andava visto in un certo modo. Panzavolta era il vero ras della Calcestruzzi e l’unico, ex partigiano nella Resistenza, che dava del tu a Ferruzzi, l’unico che poteva considerarsi un primus inter pares nel rapporto con Ferruzzi.
Panzavolta era spregiudicato, Bini ancora di più e quando il dottor Lama nel 1994 interrogherà il tesoriere in Svizzera della Serafino Ferruzzi S.p.A., questi gli dice che attraverso la liquidazione, che viene spiegata da Lama, di alcune società della Ferruzzi che si occupavano dello sfruttamento delle cave delle Alpi Apuane, «attraverso i soldi che abbiamo ricevuto dai mafiosi, fondamentalmente questo, siamo riusciti a liquidare i debiti del gruppo e una parte di quella provvista è finita al conto Gabbietta di Primo Greganti».  
Sono atti pubblici, sono testimonianze.
Come vedete, io faccio nomi e cognomi.
Colui che si è reso protagonista di questa archiviazione e della distruzione dei brogliacci – proprio perché io faccio nomi e cognomi – è il dottor Gioacchino Natoli, che è da considerarsi un amico del giudice Borsellino. Però questo a noi non torna, a me non torna, come avvocato, prima ancora che come cittadino.
Non mi torna

Non si distruggono, non si smagnetizzano bobine, quando si ha a che fare con indagini di mafia, perché la lettera di trasmissione di Lama riguardava un collegamento per mafia.
Io sto inviando gli atti a Palermo perché, così come mi è stato dichiarato da Buscetta, da Mannoia e da Calderone, qui ci sono profili di partecipazione ad associazione mafiosa di soggetti che stanno qui a Massa Carrara a incunearsi nelle imprese della Ferruzzi.  
Voi mi chiederete perché la mafia a un certo punto individua le imprese della Ferruzzi. C’è uno scambio.
Salvatore Buscemi ha paura che il suo enorme patrimonio derivante dal traffico delle sostanze stupefacenti venga sequestrato e sottoposto a misure di prevenzione, e quindi ha bisogno della faccia pulita.  
Questo lo dichiarerà Bini, lo dichiarerà Panzavolta, tutti. Era la necessità, appunto in quella logica di potere, di sedersi al «tavolino», visto che il sistema sta crollando, non c’è più bisogno del «politichetto» che controlla l’opinione pubblica, perché ormai l’opinione pubblica si sta sganciando, per fortuna, per diversi motivi, l’ho spiegato l’altra volta.  
Bisogna arrivare al «tavolino» dove si fanno le scelte, nel rapporto evidente che gli imprenditori vanno a Roma a chiedere finanziamenti, ti do questo, ti do quello, facciamo questo, facciamo quello, tutto il «magna magna» a scapito di chi?
Nostro, del nostro futuro, del nostro futuro che è il nostro presente.
E per questo si ammazza, eccome se si ammazza, se c’è qualcuno che ti vuole fermare! Eccome se si ammazza, quando hai poi qualcuno sul campo che ha un esercito, e che ha le esigenze che aveva Riina in quel momento, sia di fronte alla sua organizzazione sia di fronte al suo potere egemonico di arrivare in alto.  
Questa è l’idea che ci siamo fatti noi. Follow the money, quello è il vero problema della mafia.
E vedi caso è il momento in cui si creano le condizioni perché quella parte degenerata dello Stato – nessuno lo nega che la strage di Paolo Borsellino e di Falcone non sia una strage di Stato – ma cambiano i paradigmi interpretativi.
È un sistema che teme l’azione dei magistrati e li ammazza.
Non siamo più negli anni Settanta, quando c’erano i ragazzi che morivano in nome del comunismo, in nome del fascismo.
L’Italia degli anni Novanta è un’Italia diversa, che ha deciso di mettersi sul mercato.
La sostenibilità del debito pubblico italiano non derivava più da una gestione domestica, noi negli anni Novanta, prima delle stragi di Falcone e Borsellino, abbiamo deciso di mettere il nostro debito pubblico a disposizione dei grandi fondi mondiali.
Il nostro giudizio ormai non dipendeva dalla politica domestica di questo o di quell’altro.
La Banca d’Italia non acquistava più il debito pubblico. 
Le banche di interesse nazionale, le grandi banche, finché hanno potuto, hanno acquistato il debito pubblico, ma a un certo punto, visto che non ce la si faceva più, bisognava – e abbiamo fatto questo – misurare la nostra sostenibilità, come potenza economica, come fanno tutti i Paesi normali, cioè mettendo sul mercato il nostro debito pubblico e investire sul nostro Paese, se siamo credibili.
Questa era l’Italia in cui si stavano svolgendo le stragi.
Non c’erano ragazzi che si uccidevano come negli anni Settanta perché c’era l’assalto alla sede del Partito comunista o del Movimento sociale.
Chiudo questo capitolo perché intanto trovate tutto nelle fonti che vi ho citato, queste sono le fotocopie del documento in cui si ordina la distruzione.
Vedrete scritto a penna «distruzione dei brogliacci», cioè una cosa personalmente mai vista. Mai vista.
Mi dispiace ma non l’ho mai vista. Cosa dice Lama? E con questo chiudo, perché dovremmo iniziare a parlare di mafia-appalti e io sinceramente non sarei in grado in termini di lucidità, visto che avrei bisogno ancora di un paio d’ore.
Qual era il contenuto che si coglieva dalle intercettazioni smagnetizzate e distrutte?È il dottor Lama che parla: «Si comprendeva piuttosto bene come all’interno delle suddette aziende – cioè le aziende del gruppo Ferruzzi, innervate del capitale mafioso, secondo quel sistema di scambio, cioè la FINSAVI, la La. Ser. s.r.l., la Generali Impianti, tutte aziende che trovate nel rapporto – si comprendeva piuttosto bene come all’interno delle suddette aziende fosse noto, non si è riusciti a stabilire per quali canali informativi, che vi era un’autorità giudiziaria che stava indagando sui collegamenti mafiosi all’interno del gruppo Sam e Imeg – che sono le due aziende – e che, dopo le ricordate pubblicazioni, sarebbe risultato chiaro che dietro tutta l’operazione vi era Buscemi Antonino.
È da ricordare che, probabilmente a seguito di queste voci e delle ricordate pubblicazioni, veniva comunque evidenziata sia dalle operazioni di intercettazione sia da informazioni acquisite nell’ambito della città di Carrara, la volontà di Calcestruzzi Ravenna S.p.A. di cedere le partecipazioni azionarie alla Imeg e alla Sam e di rinunciare quindi alla concessione degli Agri Marmiferi», cioè Gardini si preoccupa di chiudere gli affari con questi mafiosi perché è il Gardini che sta cercando di arrivare lì dove tentò di arrivare, il Gardini della «Milano da bere» per intenderci.
La cosa strana che non si è capita è che questi sanno da qualcuno che c’è un’indagine giudiziaria in corso.
Siccome le illecite divulgazioni su questa vicenda sono state tantissime, io vi sottopongo questo interrogativo.


PRESIDENTE. Avvocato, io la ringrazio. Credo che il conflitto d’interessi emotivo non riguardi solo lei e soprattutto i figli di Paolo Borsellino, ma la comunità nazionale che in questi anni ha eretto Giovanni Falcone e Paolo Borsellino a eroi. Però le considerazioni le faremo ovviamente in altra sede.
Tengo soltanto a ringraziare tutti, innanzitutto gli auditi per la difficoltà di riaffrontare questo viaggio terribile insieme a noi e i commissari per il tempo e l’attenzione che stanno dedicando a questa Commissione e a questa audizione, sottolineando ancora una volta, come ho fatto all’inizio, che nulla sarà tolto alle domande nel prosieguo di questa audizione e che quindi ci sarà tutto il tempo per approfondire quanto fin qui abbiamo ascoltato. Grazie a tutti e arrivederci.


 

6.10.2023   FABIO TRIZZINO

Grazie presidente e buongiorno a tutti voi. Mi avvio alla conclusione cercando rapidamente di fare prima un riepilogo delle cose che ho detto fin qui, per poi concludere la ricostruzione dei 57 giorni del giudice Borsellino, alla luce (come tengo a dire) dei verbali della commissione del 1992 che ci hanno reso possibile (ripeto, ed è questo l’oggetto fondamentale della mia relazione) spiegare a noi stessi quella frase terribile del giudice Borsellino che definì il proprio ufficio un «nido di vipere».
Vi ho detto che il giudice Borsellino rientra a Palermo il 12 luglio.
Il giudice Borsellino va in Germania dal 6 al 9, tra Francoforte e Mannheim.
Poi il 10 e l’11 sta a Roma, dove incontra il generale Subranni e lì ha un incontro molto fugace anche con il colonnello Mori.
Poi il dottor Borsellino, che deve recarsi a Salerno in quanto era stato designato padrino del primo figliolo di un sostituto procuratore a lui molto vicino, il dottor Diego Cavaliero, chiede al generale Subranni di farsi accompagnare con l’elicottero e sorvolano la Costa Amalfitana.
Canale, che era con loro, dirà che quello fu uno degli ultimi momenti felici della vita del dottor Borsellino.
Quindi arriviamo a quello che è il dato fondamentale, cioè noi abbiamo sempre letto nei processi sulla strage di via D’Amelio che c’era stata l’archiviazione del 13 (è documentale, la richiesta viene fatta dai dottori Scarpinato e Lo Forte) delle posizioni residue del procedimento legato all’annotazione del ROS e che era confluita appunto nel fascicolo Calderone.  
C’era una tempistica che ci aveva lasciato un po’ così, nel senso che tutto avviene, la richiesta viene accolta il 14 di agosto da parte del GIP La Commare. Va be’, per noi era un dato neutro.  
Sennonché, attraverso la lettura dei verbali della commissione, veniamo a sapere che il giorno 14 luglio il dottor Borsellino partecipa a una riunione della direzione distrettuale, riunione voluta dal dottor Giammanco e allargata a tutti i magistrati, anche i magistrati della procura ordinaria, perché con riferimento alla gestione del rapporto «mafia-appalti» – già in una fase strettamente antecedente al primo sbocco procedimentale successivo al deposito del 20 febbraio, cioè la richiesta di arresto del 25 giugno del 1992 a carico di Siino, Li Pera, Falletta, Morici e Cataldo Farinella – attorno alla gestione del dossier «mafia-appalti» c’era mediaticamente una certa pressione e tutta la questione viene risolta dalla dottoressa Gilda Loforti.
Vi rimando sostanzialmente a quel provvedimento per gli approfondimenti, però devo dire che già dal primo sbocco procedimentale c’erano delle polemiche.  
Abbiamo un secondo sbocco procedimentale che è l’arresto il 17 febbraio del 1992 se non ricordo male di Vito Buscemi e di Cascio Rosario, dopodiché l’indagine in qualche modo va avanti ma venne lamentata (e questo lo trovate anche nel provvedimento di archiviazione di Gilda Loforti, archiviazione che nasce su un’indagine connessa a delle denunce reciproche tra Siino, De Donno e Lo Forte) già in quella sede si parlò di illecita divulgazione, cioè il rapporto del ROS di fatto non rimase granché segreto.
Vi ho raccontato della discovery illegittima compiuta dal dottor Giammanco con l’invio del plico ad autorità politiche, poi la dottoressa Gilda Loforti lamenta un’eccessiva discovery proprio sotto il profilo delle notizie contenute nella richiesta di arresto depositata al tribunale del riesame, perché secondo la dottoressa Gilda Loforti potevano omissarsi altre parti.  
Da questo punto di vista se lo riterrete potrei fare un esempio con riferimento alla famosa telefonata tra Giorgio Zito e Catti De Gasperi con riferimento alla mediazione che avrebbe fatto il Li Pera per conto di Siino e altri per spingere Catti De Gasperi (poi se volete vi spiego chi è Catti De Gasperi) a ritirare la propria offerta (l’offerta della Tor di Valle, una delle più grandi imprese nazionali indicate nel rapporto).
La dottoressa Loforti lo dice in maniera larvale, a mio giudizio facendo un’analisi e una lettura attenta dell’intercettazione completa, è evidente che qualche parte (ma questa è una mia valutazione, prendetela per quello che è) poteva al limite essere omissata.  
Cosa succede nella riunione del 14 luglio a cui partecipano come titolare delle indagini il dottor Lo Forte, il principale, e per una sorta di conoscenza del fascicolo anche il dottor Pignatone, il quale lascia l’inchiesta nel novembre del 1991, dopo aver fatto il 26 luglio del 1991 la cosiddetta delega Sirap e una serie di invii alle procure territoriali competenti in relazione a fatti compresi anche nell’associazione, perché il 26 luglio del 1991 non è ancora entrata in vigore la normativa del 1991, che attrae le indagini per mafia alla procura del capoluogo del distretto (quindi le procure circondariali il 26 luglio del 1992 potevano anche compiere indagini per mafia).  
Questo è importante, perché nella riunione del 14 (ce lo dicono Patronaggio, ce lo dice il dottor Nico Gozzo, ce lo dice la dottoressa Consiglio, ce lo dice il dottor Matassa che era da qualche giorno lì) il dottor Borsellino chiede conto di carte mandate dalla procura di Marsala, carte che vengono sollecitate dalla procura di Palermo ex articolo 117 c.p.p. con riferimento al verbale di una segretaria di Nino Spezia che aveva cominciato a parlare.  
La lettera viene trasmessa il 18 febbraio del 1992.
Io tra gli allegati ho proprio la richiesta e la risposta del dottor Antonio Ingroia.
Il dottor Ingroia dice: «Attenzione, la segretaria di Spezia sta parlando, siccome noi procediamo per 416 normale con riferimento a reati finalizzati alla turbativa dell’incanto di alcune gare per cui è competente il circondario di Marsala» – dà la raccomandazione – «tenete segrete queste carte il più possibile, rendetele ostensibili nei limiti del possibile per non pregiudicare le indagini per associazione semplice finalizzata alla turbativa degli incanti che noi stiamo conducendo a Marsala»..  
Il dottor Scarpinato non è presente a quella riunione per motivi familiari, aveva i genitori che non stavano bene.
Il dottor Borsellino chiede innanzitutto al dottor Lo Forte… Queste sono testimonianze del dottor Patronaggio, del dottor Gozzo, della dottoressa Antonella Consiglio, ognuno ovviamente in gradazione diversa, i particolari scemano in relazione alle dichiarazioni. Molto più precisi sono il dottor Patronaggio e il dottor Gozzo.  
Il dottor Matassa è importante perché ci dice che si parla del processo a carico di Siino.  
È importante questo perché la tempistica va tenuta presente: il 18 febbraio arrivano le carte da Marsala, il 9 marzo c’è la richiesta di rinvio a giudizio, il 17 maggio 1992 abbiamo il decreto che dispone il giudizio e la prima udienza avrebbe dovuto compiersi il 19 ottobre del 1992.  
Quindi Borsellino che aveva trasmesso le carte, perché Borsellino prende possesso definitivamente dell’ufficio della procura della Repubblica il primo marzo.
Borsellino fino al 28 febbraio fa un po’ e un po’, è un piede qua e un piede là, conosce tutto quello che avviene a Marsala e tutto quello che… Per questo chiede conto e ragione di quelle carte.
Non solo, il dottor Borsellino dice: «devo andare in Germania, questa cosa poi la continuiamo, anche perché c’è un nuovo collaboratore che sta parlando».
E dall’altra parte il dottor Lo Forte gli dice: «vedremo se possiamo acquisirlo».  
Qui ci sono i commenti dei magistrati auditi in commissione che dicono: «ma il dottor Borsellino era chiaro, preciso, faceva degli appunti precisi, e dall’altra parte si rispose evasivamente».  
Questo è un commento che fanno i magistrati nell’audizione al CSM di cui alla riunione del 14, di cui noi fino a quando non l’abbiamo trovata non sapevamo nulla.
Perché è plausibile sostanzialmente ritenere che il dottor Borsellino non fosse stato informato di quella archiviazione? ,
Primo, in quella riunione nessuno, ed era una riunione di magistrati, non era una riunione di un quisque de populo, nessuno cita un istituto fondamentale regolato dal codice di procedura penale, dell’archiviazione nessuno ne parla.  
Ma poi arriva Ingroia al processo Depistaggio e ci dice una cosa che dal mio punto di vista è tranciante.
Perché dice: «alla fine di quella riunione Paolo si rivolge ai due e dice con un tono scherzoso, con cui lui era solito dire le cose sferzanti, voi due non me la raccontate giusta».
Questa è la testimonianza dell’avvocato Antonio Ingroia al processo Depistaggio nel 2021.  
Attenzione, questo è un punto fondamentale perché io non ci sto a fare passare in questa sede il dottor Borsellino come uno che usa le parole tanto per.
Perché il dottor Borsellino se gli avessero detto che c’era un’archiviazione non penso che avrebbe detto a dei colleghi che comunque rispettava «voi non me la raccontate giusta».
Perché se uno dice io faccio la richiesta di archiviazione, il dottor Borsellino poteva dire «è un’archiviazione allo stato degli atti, vediamo».
Dire «voi non me la raccontate giusta» vuol dire che dall’altra parte non viene contemplato un istituto previsto dal codice di procedura penale.
Poi andiamo alla sostanza delle posizioni archiviate.
Le posizioni archiviate, l’ho detto nel corso della mia audizione, sono quelle di Buscemi Antonino, quella di Lipari Giuseppe. Ma Lipari Giuseppe chi è? Ce lo dirà Siino.
Attenzione, io non voglio utilizzare le conoscenze successive, però questa testimonianza di Siino ci serve per dire quanto fosse importante la figura di Lipari.
Lipari che nel rapporto è oggetto di una costante attività di osservazione e pedinamento da parte del ROS, che vedono che egli si continua a incontrare con Lipari Giuseppe in viale Croce Rossa 23, dove vi erano le sedi di Bernardo Provenzano e dove risiedeva Gariffo, nipote di Bernardo Provenzano.
Nel rapporto i ROS mettono in evidenza questo continuo interloquire, con la differenza che non è Lipari che va a trovare Siino ma è Siino che va a trovare Lipari, stabilendo gerarchicamente quindi un rapporto ben preciso.
Sto per concludere perché voglio lasciare spazio alle vostre domande.
Chi è Lipari Giuseppe?  Lipari Giuseppe, ci dice Siino, è colui che dice la seguente frase: «Con l’arrivo di Borsellino alla procura di Palermo è finita la pace per quel santo cristiano di Giammanco».
Questo è Lipari Giuseppe, la cui archiviazione è fatta con tre righe il 13 luglio del 1992.
Tre righe tre. Noi abbiamo sempre avuto la sensazione che questa archiviazione fosse stata in qualche modo velocizzata.
Del resto sappiamo che il dottor Giammanco era uno che quando doveva chiudere pressava.
Ve l’ho dimostrato con riferimento all’indagine della dottoressa Enza Sabatino relativa ai piani integrati del Mediterraneo.
Sollecitava quando le indagini avevano delle refluenze politiche, anche.
Un’altra cosa fondamentale nel merito, Borsellino per come conosceva perfettamente lo sviluppo delle indagini relative a Pantelleria (gara della circonvallazione, gara sulla contrada Scauri e gara sulla contrada Renella) mai e dico mai a mio giudizio avrebbe acconsentito, avrebbe voluto un approfondimento su altri tre importanti archiviati: Puccio Bulgarella, Antonino Spezia e Rosario Equizi.
Quindi sono questi indici fattuali che ci fanno ritenere plausibile il fatto che di quell’archiviazione il dottor Borsellino non fosse informato.
Questo per noi è un dato fondamentale, questo è l’ulteriore elemento di novità assoluta che si introduce nella narrazione di quei 57 giorni.
Ricordatevi la frase di Ingroia: «quei due non me la raccontano giusta».
D’altra parte Ingroia aveva detto che già a Marsala il dottor Borsellino aveva espresso il suo giudizio circa il fatto che a Palermo stessero insabbiando quell’indagine.

D’altra parte la dottoressa Liliana Ferraro ci racconta che Falcone commentò l’invio del plico dicendo anche lui che quell’indagine la stavano insabbiando.
Il 15 è un giorno molto importante, tenete conto che il 15 è come se a Roma è la festa di San Pietro e Paolo, è tutto chiuso.
Il dottor Borsellino si reca in ufficio dopo quella riunione.
Ma noi non lo sapevamo, noi sapevamo che il dottor Borsellino si reca in ufficio il 15, ci mancava la riunione del 14 quale elemento di conoscenza.
Il 15 si reca in ufficio e lì ci va il dottor Ingroia a dire «Paolo, io ho bisogno di 10 giorni».
E Borsellino dice secondo la testimonianza di Ingroia una cosa incredibile: «Proprio ora che se ne vanno in ferie e noi dobbiamo lavorare tu mi vieni a dire che te ne vai in ferie? Vattene in ferie, vattene in ferie». Cioè lo tratta male. Di questo Ingroia dà un ampio resoconto.
Poi il 15 si pone la famosa confidenza sul generale Subranni. Sulla scorta di tutto quello che ho detto, vi invito a leggere la dichiarazione resa da Agnese Borsellino il 18 agosto del 2009.
Ve ne sono due di dichiarazioni di Agnese Borsellino, questa è la prima e poi vi è la seconda.
Secondo il mio criterio epistemologico, con cui vi ho detto che vi metto davanti tutte le versioni, vi devo dire che la versione del 2010 è molto più stringata, mancano i particolari che sono contenuti nel verbale, per due secondi ve lo devo leggere.
È la procura distrettuale di Caltanissetta che sta interrogando la signora Agnese Piraino in relazione al fatto che Caltanissetta deve capire se l’accelerazione è in qualche modo connessa alla cosiddetta trattativa Stato-mafia, quindi è giusto che la procura di Caltanissetta abbia solcato quest’altra possibilità.
A domanda risponde: «Circa i rapporti tra mio marito e il generale Subranni di cui mi chiedono le Signorie Loro, posso dire che Paolo ebbe modo di conoscerlo quando lo stesso era comandante della Legione Sicilia ed ebbe occasione di frequentarlo sporadicamente. I rapporti tra i due erano quindi solo di tipo professionale».
«Prendo atto che le Signorie Loro mi rappresentano che la dottoressa Alessandra Camassa e il dottor Massimo Russo hanno riferito di essere stati testimoni di uno sfogo di Paolo, il quale piangendo disse di essere stato tradito da un amico. Ignoro a chi si riferisse mio marito e pertanto non posso affermare che si trattasse del generale Subranni, tuttavia ricordo un episodio che all’epoca mi colpì moltissimo e del quale finora non ho mai parlato nel timore di recare pregiudizio all’immagine dell’Arma dei Carabinieri, alla quale mi legano rapporti di stima e ammirazione. Mi riferisco a una vicenda…» Tutto questo nel verbale del 2010 non c’è. Non c’è, è tutto molto stringato.
«Mi riferisco a una vicenda che ebbe luogo mercoledì 15 luglio 1992, – questo nel verbale 2010 non c’è, la contestualizzazione temporale non c’è nel 2010 – ricordo la data perché come si evince dalla copia fotostatica dell’agenda grigia che le Signorie Loro mostrano il giorno 16 luglio mio marito si recò a Roma per motivi di lavoro» – è andato a sentire come sapete Mutolo – «e ho memoria del fatto che la vicenda in questione si colloca proprio il giorno prima di tale partenza.»
«Mi trovavo a casa con mio marito verso sera, alle ore 19, e conversando con lo stesso nel balcone della nostra abitazione notai Paolo sconvolto.
Nell’occasione mi disse testualmente: ho visto la mafia in diretta, perché mi hanno detto che il generale Subranni è “punciutu”. Non chiesi tuttavia a Paolo da chi avesse ricevuto tale confidenza, anche se non potei fare a meno di rammentare che in quei giorni egli stava sentendo i collaboratori Mutolo, Leonardo Messina e Gioacchino Schembri».
Quindi come vedete questa è la dichiarazione netta e semplice della signora Agnese Borsellino.
Sta a voi fare la ricostruzione sintattica della frase «ho visto la mafia in diretta perché» quel perché è fondamentale a nostro giudizio. Ora spazio alle vostre domande perché non voglio togliere altro spazio.

SAVERIO CONGEDO. Volevamo sapere il significato del termine «punciutu».


FABIO TRIZZINO

Ah, scusate! Non semplicemente affiliato, perché esistevano anche gli affiliati riservati. Qui si va oltre, contravvenendo alle regole elementari di cosa nostra, per cui uno sbirro o chi è comunque vicino alle forze di polizia o di qualunque tipo non potrebbe mai essere «punciutu».


LUCIA BORSELLINO

Soltanto qualche piccola considerazione che voglio consegnare a questa Commissione anche da parte dei miei fratelli Manfredi e Fiammetta, in aggiunta a quanto è stato ampiamente riferito dall’avvocato Fabio Trizzino per nostro conto.
Non volendo rievocare dalla memoria in questa sede anche altri momenti che affondano nella nostra sfera più intima e quindi anche più dolorosi, non manchiamo però tuttavia di sottolineare ancora una volta come qualunque ricostruzione dei fatti non possa prescindere da riscontri documentali, testimonianze qualificate raccolte con assoluto rigore metodologico.
È passato troppo tempo dalla strage del 1992, ben trentuno anni, per cui non siamo più disposti, commissari e presidente, ad accettare verità che non rispondono a questo rigore.
Tutto ciò tenendo conto che una ricostruzione anche solo sul piano storico delle vicende che hanno caratterizzato prima e dopo la strage di via D’Amelio sconta degli ostacoli che a nostro avviso per il tempo trascorso sono divenuti ormai insormontabili, spero di essere smentita in questo.
Il primo ostacolo è il buio istituzionale che avvolge la vicenda della sottrazione dell’agenda rossa dalla borsa di mio padre che aveva con sé il giorno in cui la strage è stata compiuta, sottrazione della quale naturalmente risentono le indagini perché sarebbe stata una fonte inoppugnabile di informazioni che ci avrebbe consentito di colmare (penso di ritenere) tutti i tasselli mancanti di questa storia.
Peraltro non ci è dato sapere come mai non fu fatto nell’immediato del dopo strage l’esame del DNA sulla borsa di nostro padre, tenuto conto che l’esplosione comunque non l’aveva distrutta e l’aveva mantenuta integra, sebbene un po’ ammaccata da qualche parte e bruciacchiata.
Tra l’altro mi risulta che per la strage di Capaci questo esame venne fatto.
Devo constatare purtroppo che solo dopo vent’anni sono stati fatti prelievi salivari a me, ai miei fratelli e a mia madre per eseguire questo esame, ma voi sapete bene (io non sono un tecnico) che dopo vent’anni questo esame è assolutamente inattendibile. Tra l’altro non abbiamo avuto neanche un esito, per quanto questo non fosse attendibile.
Un altro aspetto che abbiamo constatato in tutti questi anni sono il silenzio e i non ricordo, ahimè, di molti uomini delle istituzioni, che non ci hanno consentito di risalire ai veri responsabili del depistaggio.
Perché voglio ricordare che la sottrazione dell’agenda rossa, si è detto più volte, è il primo tassello di quel gravissimo depistaggio che ne ha coinvolto le indagini già il giorno stesso della strage.
Questi silenzi chiaramente non hanno aiutato gli apparati investigativi, quindi coloro che lavoravano sulla strage di via D’Amelio, a risalire alla verità ma ancor più ai responsabili del depistaggio stesso, nonché ai mandanti ancora occulti e ai corresponsabili morali della strage di via D’Amelio.
L’enorme tempo trascorso inoltre è stato reso ancora più infruttuoso da un altro aspetto che è sotto gli occhi di tutti: c’è stato un assoluto mancato coordinamento tra le procure di Palermo e Caltanissetta.
Penso per esempio alla gestione del falso pentito Vincenzo Scarantino, con esiti giudiziari che in taluni casi sono stati antitetici se non addirittura contrastanti tra le due procure.
La mancata citazione come persona informata sui fatti del procuratore Giammanco della procura di Palermo, oggi deceduto.
Lo abbiamo detto più volte, non si poteva prescindere da una testimonianza così importante da parte del capo dell’ufficio.
Questa è una scoperta più recente, abbiamo subìto un’altra sottrazione, quella delle chiamate in entrata del traffico telefonico del cellulare dell’utenza mobile in uso a mio padre (altra fonte informativa preziosissima della quale se volete approfondiremo dopo), che ci avrebbe consentito di risalire alla rete di contatti che mio padre aveva tenuto fino all’ultimo giorno della sua vita.
Ma ancor più avrebbe potuto forse consentire di decifrare, o meglio comprendere, le confidenze che lui aveva reso oltre che a mia madre a pochi altri in quel periodo. E, non ultimo per importanza, ci avrebbe consentito di arrivare a quei livelli istituzionali presso cui va ricercata la responsabilità di azioni e omissioni in questa vicenda.

Un dato è certo, quello che ci è stato consegnato in tutti questi anni in cui abbiamo assistito allo svolgersi di svariate vicende processuali con sentenze passate in giudicato attraverso i tre gradi di giudizio, è, per dirla con le parole di mia sorella Fiammetta, la verità della menzogna, perché non abbiamo trovato altre frasi per appellare il depistaggio che è stato consumato sulla strage di via D’Amelio.
Nonostante tutto, e questo ci tengo a sottolinearlo, il nostro rispetto e la nostra fiducia nei confronti della magistratura e degli apparati investigativi e delle istituzioni nel loro complesso è stata assolutamente massima e non è mai venuta meno.
Noi siamo cresciuti a pane e istituzioni, noi siamo figli di un magistrato, siamo nipoti di un magistrato, la magistratura è stata la nostra casa.
Non potevamo venir meno a quello che è stato il principio guida che ha formato la nostra vita.
Però, guardate, dopo tanto tempo – e questa fiducia spiega anche perché abbiamo atteso tanto tempo – non possiamo vederci negato come figli di un magistrato che è morto nell’adempimento del proprio dovere il diritto di porci e di porre domande, nonché di vederci chiaro dopo trentun anni di composto riserbo in cui c’è stata consegnata appunto la verità della menzogna o meglio una mancata verità.
In questo momento non posso che rivolgere il mio pensiero e la totale riconoscenza mia e della mia famiglia, nei confronti di tutti quegli uomini dello Stato (magistrati, forze dell’ordine, apparati investigativi) che invece hanno continuato a lavorare silenziosamente sulla ricerca della verità, quella autentica.
Ma non posso non pensare a tutti quegli uomini e donne dello Stato e della società civile, che proprio in nome della lotta alla mafia hanno sacrificato la loro vita, come soldati di un esercito silenzioso che ha lavorato combattendo una guerra a mani nude. Perché la differenza, rispetto a quanto è accaduto in passato, è che quei soldati combattevano a mani nude.
I fatti che abbiamo rassegnato in queste audizioni sono fatti già noti agli addetti ai lavori, non vorrei svilire quanto abbiamo fatto in queste audizioni ma vi assicuro che non vi è un elemento, tra quelli che sono stati rassegnati, che non fosse già noto agli addetti ai lavori.
Lo stupore di questi giorni che le nostre dichiarazioni hanno suscitato ritengo debba verosimilmente attribuirsi al fatto che non vi sia stata probabilmente una rappresentazione organica di questi fatti anche in relazione al contesto in cui sono maturati.
Ma, poiché si tratta di fatti documentati, noi ci augureremmo di essere clamorosamente smentiti, solo per il dolore che alcuni di questi fatti ci procurano.
Noi ci augureremmo di essere smentiti. Ma non ci possono essere fatti documentati che possano essere neutralizzati se non da altri fatti che abbiano un medesimo o addirittura superiore sostegno documentale.
A questo noi teniamo particolarmente, perché non siamo più nelle condizioni, non c’è più tempo, per potere accogliere ricostruzioni o accertamenti di verità che non siano adeguatamente supportate, perché non possiamo più tollerare oltre a furti di verità anche furti di memoria.
È unicamente con questo spirito che noi vorremmo che il nostro intervento in questa sede venisse inteso. Grazie.


PRESIDENTE. Grazie dottoressa Borsellino anche per queste conclusioni che ci lascia, penso che le domande che seguiranno serviranno anche a poter dare quelle risposte che chiedete.
  Io ho già diversi iscritti a parlare. Come è stato detto in tutte le audizioni, darò ai commissari tutto il tempo possibile alle domande. Come esattamente farò io adesso, chiedo ai commissari di fare solo domande e in un’altra sede eventuali riflessioni perché questa è la sede dell’approfondimento.
Io volevo chiedere all’avvocato Trizzino, che ha più volte fatto riferimento a un tentativo di corruzione del giudice Scaduti, volto probabilmente a influire sulla decisione del processo a carico dei responsabili dell’esecuzione del capitano Basile, se è stato individuato il movente per quella uccisione. Su questo riguardo alla dottoressa Borsellino se suo padre, oltre al dispiacere per la morte del capitano Basile, ha mai mostrato particolare preoccupazione, se le ha rivolto in questo caso qualche confidenza.
Sempre alla dottoressa Borsellino, lei più volte nel corso dei suoi due momenti di audizione ha fatto riferimento a una delegittimazione che è stata posta in essere in danno suo e dei suoi familiari.
Ci può spiegare meglio in che senso e di che cosa si è trattato Soprattutto, può riferire alla Commissione se prima della strage pervennero minacce alla vostra abitazione e se dopo il 19 luglio quelle minacce sono cessate o se invece sono proseguite?
In ultimo per entrambi, anche viste le ultime affermazioni, per caso potete riferire nel dettaglio (se lo sapete ovviamente) se il telefono del giudice Borsellino fu analizzato e se furono acquisiti i tabulati, quindi se sono state esaminate le telefonate in uscita e in entrata del telefono che era in uso al giudice Borsellino? Grazie.


FABIO TRIZZINO

legale di Lucia, Manfredi e Fiammetta Borsellino. Per quanto riguarda la vicenda relativa al tentativo di corruzione, io per i particolari rimando alla testimonianza della dottoressa Camassa e del dottor Massimo Russo, entrambi (Russo in particolare) in maniera esemplare ricostruiscono la vicenda della telefonata che il notaio Ferraro fa al presidente Scaduti, presidente della corte d’assise d’appello, prima di ritirarsi in camera di consiglio. Lì troverete tutta la descrizione dei fatti.
Il numero al notaio Ferraro lo diede il giudice Signorino.
Anche questo è un episodio incredibile della opacità che in qualche modo governava all’interno della procura della Repubblica.
Siamo nel febbraio del 1992, vi rimando a quella ricostruzione perché il dottor Massimo Russo si fa mille domande in quanto Marsala aveva delle indagini a carico di Gunnella e poi a carico di Culicchia. A Gunnella viene sequestrata in una cassetta di sicurezza un’agenda in cui c’è il numero di Signorino, tra le altre cose, lì vi è anche contenuta la raccomandazione che il giudice Signorino chiede al Gunnella con riferimento all’esame di maturità di Misia Caterina, che era la figlia dell’imprenditore vicino a Saro Riccobono, il costruttore della casa di Pallavicino. Secondo le successive dichiarazioni di Gaspare Mutolo questa casa sarebbe stata oggetto di donazione al Signorino.
Ma qual è la cosa incredibile di tutto questo?
Che il 12 arriva la telefonata, il 12 il dottor Massimo Russo e la dottoressa Tosi assistono alla telefonata del dottor Scaduti al dottor Borsellino presso l’ufficio della procura di Marsala e il dottor Borsellino consiglia al dottor Scaduti di fare la relazione. Chiude la telefonata e davanti a Russo e alla dottoressa Tosi dice: «Totò Riina gli ha mandato la minaccia, io gli ho detto di fare una relazione così si fa un’assicurazione sulla vita».
Il 13 Scaduti fa la relazione e il 21 viene sentito.
La cosa incredibile che dirà Russo, quando le carte per competenza arriveranno a Marsala nell’aprile, è che nella telefonata si dice: «Chi ti manda?» – «Mi manda Enzo, un deputato trombato alle elezioni di area manniniana».
Perché Ferraro dice a Scaduti: «Lo so che sei severo», come una minaccia, cerca di moderare… prima di entrare in camera di consiglio.
Vorrei ricordare che il presidente della corte d’assise che aveva condannato Riina e Greco per il processo Basile era Saetta, ammazzato col povero figliolo.
Quindi quel processo era un processo a cui Salvatore Riina teneva particolarmente.
Vi ricordate che ho detto nel corso dell’audizione che Riina riceve la seconda botta con la condanna da parte di Scaduti in relazione all’omicidio del capitano Basile?
La cosa incredibile è che da Palermo succede una cosa pazzesca.
Mandano l’indagine a Marsala dicendo che questo Enzo, che poi viene identificato in Culicchia, il quale poverino non c’entrava niente, benché non risultasse dalla telefonata, dalle relazioni, da niente, dalle SIT dello stesso Scaduti, viene indicato come il deputato che risiede nello stesso distretto notarile ed è paesano del notaio Ferraro.
Quindi è Palermo a indirizzare Marsala verso Culicchia, a protezione di Vincenzo Inzerillo
Vincenzo Inzerillo è l’uomo dei Graviano a Montecitorio nel corso della legislatura dal 1987 al 1992. Poi, proprio perché questi legami vengono accertati, sarà un impresentabile, non ricandidato. Ma Vincenzo Inzerillo è un amico di un avvocato romano originario di Mazara che ha contatti con Giovanni Bastone, di una loggia di Mazara del Vallo in cui vi è anche Mariano Agate, che è quello che fornisce l’esplosivo per Boboli, preannunciando fondamentalmente la stagione delle stragi. E soprattutto è colui, lo dice Sinacori e altri, che si incontra con i Graviano in un albergo e gli dice «ora con le bombe andate a finire».
Quindi vedete che in questa strategia cominciamo a dare nomi, cognomi, perché le formule servizi deviati non… Io vi sto dicendo nomi e cognomi.
La cosa incredibile – e finisco, rimandando totalmente alla lettura della relazione dell’audizione del 12 luglio 2017 del Russo e della Camassa in Commissione parlamentare antimafia della XVII Legislatura presieduta dal presidente Bindi – è che viene detto che il dottor Giammanco viene a sapere di questo fatto gravissimo il 19 febbraio 1992 presso il comitato d’ordine e sicurezza.
È incredibile, subito dopo scrive una nota in cui dice che il Ferraro avrebbe detto al presidente Scaduti prima di iniziare il discorso: «Lei è della P2?»  
Quindi siccome sei della P2 possiamo parlare. Russo dice: «Non c’è in nessun atto, nella relazione o nelle indagini, nessun riferimento alla P2. Perché il procuratore Giammanco tira in mezzo la P2 che non risulta da nessuna parte, da nessuna delle informazioni contenute nel fascicolo raccolto a Palermo sulla 416-bis a carico del notaio Ferraro?»  La cosa grave è che questo la procura di Marsala lo scopre dopo, non perché gliele manda Palermo le carte ma gliele manda Caltanissetta, a cui nel frattempo era stato fatto lo stralcio per minaccia aggravata dal metodo mafioso o per agevolare l’associazione nostra in quanto il dottor Scaduti è persona offesa.
Poi c’è la questione Signorino. Signorino addirittura viene mandato a fare il reggente perché Paolo Borsellino si trova a Palermo, i giovani sostituti di Marsala hanno bisogno di una guida e chi mandano? Signorino, che doveva essere interrogato da quegli stessi magistrati in relazione al procedimento Gunnella per il nome trovato nell’agenda.
E cosa fa Signorino? La prima cosa che fa chiede conto e ragione dei processi Gunnella, Culicchia, Petrillo, che era il sindaco su cui aveva indagato Paolo Borsellino in relazione alla gestione illecita degli appalti di Pantelleria.
Quei ragazzi, cioè la Camassa e Russo, ebbero la forza, niente dicendo a Borsellino che venne in qualche modo poi criticato perché pensavano che ci fosse lui dietro la lettera scritta da loro a Signorino dicendo «noi non veniamo alla riunione del 5 maggio», perché il 4 maggio loro scrivono «noi ti dobbiamo sentire come testimone, perché tu sei venuto qua a fare l’esecutore di una volontà che è quella volta a insabbiare i procedimenti».
Da qui si ha poi l’interrogatorio del 12 giugno. 
Devo andare di corsa, mi rendo conto che non sono in un processo, l’arringa sarebbe stata molto più precisa nei passaggi.
La cosa che voglio dire è che Basile muore perché si pone sulla stessa linea del colonnello Russo e sulla stessa linea si porranno poi il capitano D’Aleo, che muore con i suoi fidati collaboratori Bommarito e Morici perché indagano sulla Litomix Costruzione e altre imprese, appalti, oltre che sulla mafia militare, infatti Totò Riina, Michele Greco e compagnia subito mandano la squadra per ammazzare questo valente capitano cui le deleghe di indagine erano state date proprio da Paolo Borsellino.


LUCIA BORSELLINO

Presidente, mi collego direttamente a questo per dire che il compianto capitano Emanuele Basile è stato ucciso il 3 maggio, se non vado errata, nella notte tra il 2 e il 3 maggio del 1980.
Io avevo solo dieci anni.
Noi sapevamo quanto papà stimasse il capitano Emanuele Basile e quanto ne tenesse conto per le attività investigative.
Nonostante avessi solo dieci anni ricordo però un episodio particolare che purtroppo mi vide per la prima volta di fronte a un padre con le lacrime, fu la prima volta che io vidi mio padre piangere.
Mi stava accompagnando alla stazione di Palermo dove avevamo un appuntamento con i miei nonni, io sarei dovuta partire per Lourdes insieme a loro, ero la nipote più grande.
Ricordo che proprio all’indomani dell’uccisione del capitano Emanuele Basile lui mi accompagnò e durante il tragitto si mise a piangere, lui non l’ha mai più fatto se non dopo tanti anni, quando è morto Giovanni Falcone, in cui mi sono ritrovata in un episodio simile.
Gli chiesi perché piangesse, ritenevo che fosse perché era stato ucciso il capitano Basile.
Peraltro la nostra vita è stata costellata di morti di persone, che oltre a essere validissimi collaboratori di mio padre erano anche colleghi e amici.
Quindi da allora è iniziata una sequela di episodi che ha segnato profondamente la nostra vita.
Quello che ricordo in particolare è che papà ritenne che quell’uccisione fu un avvertimento alla sua persona, perché vorrei ricordare che i progetti omicidiari in danno a mio padre risalgono proprio a quell’anno.
Ne sono accaduti altri prima ancora della strage, ma poi per varie dinamiche, che se poi vorrete potremo approfondire, sono stati progetti che poi la mafia ritenne di non mettere in atto in quel particolare momento.
Questo a significare che papà non ha cominciato a rischiare la vita soltanto nei 57 giorni che lo separarono dalla morte rispetto a quella di Giovanni Falcone, ma è evidente che in quei 57 giorni il suo destino era ancor più segnato e non dava spazio a censure anche mentali rispetto alla possibilità che questo potesse non accadere.
Riguardo alle minacce, la nostra famiglia non è stata mai risparmiata da minacce, perché come dicevo nel mio intervento introduttivo il rischio che papà correva per la sua incolumità era potenziato anche dalla presenza nel suo nucleo familiare di altri componenti.
Quindi quando la mafia vuole intimorire chiaramente allude anche alla possibilità che ci possano essere rischi per gli affetti più intimi.
È vero che papà ci teneva spesso all’oscuro dalla lettura di queste minacce, perché alcune purtroppo sono arrivate anche a casa. Ma sicuramente in modo scherzoso, come lui sapeva fare, ce ne rendeva edotti.
Non foss’altro perché noi avevamo rifiutato di vedere la nostra vita blindata con la scorta, per cui la scorta di fatto proteggeva papà, la maggior parte delle volte noi camminavamo da soli, però lui riteneva in via preventiva che era giusto che noi fossimo pienamente consapevoli, a fronte della nostra giovane età, che i rischi che noi potevamo correre come adolescenti sicuramente non erano quelli di ragazzi normali. Per cui questo serviva anche a giustificare ai nostri occhi la sua ansia nel non vederci arrivare a casa dopo qualche minuto rispetto all’orario prestabilito.
Devo dire che un altro episodio è accaduto dopo la strage del 19 luglio, è stato un episodio fortunatamente isolato, almeno per quanto ne sia venuta a conoscenza, è accaduto proprio nell’immediato periodo successivo alla strage.
Arrivavano varie lettere a casa nostra di solidarietà da parte di tutto il mondo, posso dirlo ed è questo affetto che ci ha sostenuto in tutti questi anni, ma è arrivata anche qualche lettera con delle croci segnate con il carbone, in particolare una che abbiamo consegnato in procura a Palermo ma trattandosi di anonimi chiaramente… potevano anche essere dei mitomani, noi abbiamo sempre voluto credere questo visto che ormai la cosa più preziosa che avevamo ci era stata sottratta.
Per quanto riguarda il telefono, vi accennavo poc’anzi che un’altra sottrazione è stata quella di aver saputo che non sono stati acquisiti nel corso delle indagini i tabulati delle chiamate in ingresso dell’utenza mobile in uso a mio padre.
La scoperta più recente che abbiamo fatto è stata proprio in occasione del processo Depistaggio su deposizione dell’avvocato Gioacchino Genchi, allora l’esperto informatico cui allora furono affidate le analisi dei tabulati, il quale ci disse che aveva reiterato più e più volte la richiesta alle autorità competenti per poter acquisire anche i tabulati delle chiamate in entrata sostenendo, lo stesso Genchi, che non era possibile che fossero state sviluppate le chiamate in uscita senza quelle in entrata, che tecnicamente rappresentano circa il 50 per cento del traffico complessivo.
La cosa ancora più grave è che gli è stato riferito, in via assolutamente subdola, che questi file si sarebbero dispersi o sarebbero stati danneggiati dall’umidità. Fatto, anche questo, ci è stato detto dal tecnico assolutamente impossibile.
La cosa ancora più incredibile è stata quella di aver appreso che ad avere negato l’acquisizione delle chiamate in ingresso è stata una nota del capo dello SCO, del reparto operativo speciale della Polizia di Stato a firma del dottor Pansa, ritualmente autorizzata dal dottor Petralia, nella quale senza alcuna motivazione veniva data autorizzazione solo per l’acquisizione delle chiamate in entrata.
Questo è un fatto per noi sconcertante perché non abbiamo mai avuto alcuna motivazione. È una nota di un alto rappresentante dello Stato che pone questo diniego. Questo è quanto siamo venuti a sapere.

FABIO TRIZZINO

legale di Lucia, Manfredi e Fiammetta Borsellino. È vero che la verità e i fatti complessi è come una fattispecie a formazione progressiva, però noi possiamo capire che le acquisizioni vengano man mano che magari un mafioso decide di saltare il fosso.
Il problema è che questo atto è entrato nel processo Depistaggio nell’ultima udienza prima della chiusura dell’istruzione dibattimentale dalla Difesa di Bo, del funzionario.
Noi non lo conoscevamo, perché poi si dice acquisite questa lettera, se uno non me la manda prima io non la posso vedere, me la fai vedere in udienza, quindi è sfuggita a tutti, al PM, a noi, parte civile e tutti.
Poi il giudice nella motivazione sviluppa questo aspetto.
Io vi invito a considerare la dichiarazione di Santino Di Matteo, questo è un collaboratore che andrebbe spremuto come un limone per quanto mi riguarda.
Perché lui nel corso di un’intercettazione ambientale con la moglie Ida Castellesi, che, per carità, capisco il momento ma sono passati trent’anni per tutti, dice: «Nella strage di via D’Amelio ci sono infiltrati della polizia».
Noi, come vedete, stiamo dando nomi e cognomi.
Il dottor Pansa, direttore della Criminalpol, chiede e ottiene da Carmelo Petralia (che grande ruolo ha avuto, sotto il profilo di un’efficienza deterministica, nel confezionamento di uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria, in quanto è stato come minimo superficiale nella valutazione delle dichiarazioni di Scarantino) il 20 luglio. Il 20 di luglio!
Noi stiamo facendo veramente nomi e cognomi, perché è il momento di fare nomi e cognomi.
Il 24 luglio la famiglia affida a Caponnetto un comunicato sull’agenda rossa, dice: «Guardate, stiamo a denunciare il fatto che il nostro congiunto aveva con sé sempre un’agenda rossa».
È dal mio punto di vista uno spunto investigativo che è un aiuto che la famiglia vuol dare agli investigatori.
Dall’altra parte il 25 si risponde con un’ANSA, il dottor Arnaldo la Barbera, capo della squadra mobile: «L’agenda non c’è, se c’è è andata distrutta».
Ma che motivo hai di dare una risposta immediata a un’informazione che ti viene dalla famiglia? 

Allora mettiamo insieme tutti questi dati, infiltrati della polizia della strage di via D’Amelio.
Perché poi la cosa è che al di là dell’accertamento delle responsabilità penali, perché io sinceramente, per carità, la potestà punitiva lo Stato la deve esercitare, ma che me la devo prendere con Mattei piuttosto che con Ribaudo in uno scenario devastante come questo, vi rendete conto, che è come dire l’alambicco del tempo ci consegna un distillato per cui il pesce piccolo ci entra nell’alambicco ma il pesce grande non c’è mai entrato.
Mi riconnetto alla figura del prefetto Rossi, che è ancora vivente tra l’altro.
Voi avete chiesto prima del discorso di chi individua che Enzo è Inzerillo e non Culicchia.
Il 19 maggio su delega del PM di Caltanissetta Russo e Camassa è Rino Germanà. Rino Germanà posa la relazione, il 19 viene convocato dal prefetto Rossi e mandato a Mazara, dove tenteranno di ammazzarlo nel settembre.
Non degli «scassapagliari», ci vanno gli esponenti della super cosa: Matteo Messina Denaro, Bagarella e Graviano ad attentare alla vita di Germanà.
Ma perché il prefetto Rossi, di fronte all’individuazione dell’Inzerillo perfetta, nel giugno finalmente incastra Matteo Messina Denaro con riferimento a due omicidi (Sciacca e Piazza), perché il prefetto Rossi si chiama il Germanà, lo retrocede lo manda nel luogo dove sarà oggetto di un attentato da cui esce vivo per miracolo.
Questo noi denunciamo.
Denuncio che tra la strage di via D’Amelio, l’esecuzione della strage, la sottrazione dell’agenda rossa e il depistaggio è un corpo dello Stato che agisce.
C’è una connessione evidente.
Questo si riconnette all’introduzione di contesto che vi ho fatto.
È la partitocrazia con i suoi uomini che si mette in moto, in un’ottica preventiva, con l’alleanza che c’è sempre stata con cosa nostra.
Una cosa nostra egemonica, una cosa nostra diversa, quella di Salvatore Riina, che non è la cosa nostra di Badalamenti, Bontate, Inzerillo, Greco, cioè della vecchia commissione.
Perché i paradigmi interpretativi di tipo ideologico potrebbero reggere rispetto alla mafia dei perdenti, ma rispetto a Salvatore Riina no. Riina è un dittatore spregiudicato e che, come dirà Di Carlo, con questo suo modo di fare ha distrutto l’organizzazione.
Perché pensava di saltare qualunque tavolo di mediazione. Comando io.
Ma lo Stato decide di reagire, anche perché lo Stato, deve essere chiaro una volta per tutte, per tre quarti è fatto di persone onestissime, che credono in ciò che fanno.
Io l’unica cosa che vi dico, io rispetto la magistratura, rispetto il legislatore, rispettiamo tutti, i poteri dello Stato vanno rispettati sempre, ci possono essere singoli uomini ma mai confondere la responsabilità di un singolo con l’istituzione che è fondamentale.

LUCIA BORSELLINO

Volevo fare ancora qualche precisazione con riferimento alle questioni legate al rischio di vita di nostro padre.
Ho omesso un passaggio fondamentale che è stato quello che ci ha visto coinvolti insieme alla famiglia di Giovanni Falcone nel soggiorno all’Asinara.
Quello fu un momento in cui abbiamo sentito lo Stato particolarmente vicino, poi al netto della mia malattia o comunque delle altre vicende umane che si sono disvelate in quella circostanza, però quello è stato uno dei pochi momenti in cui veramente abbiamo sentito lo Stato accanto a noi. E, come ha potuto dire mia madre nel corso della sua audizione il 23 marzo 1995 di fronte ai magistrati di Caltanissetta: «Lo Stato in quel momento mi ha consentito di poter avere mio marito per altri otto anni».
Chiaramente anche quell’esperienza, per quanto fosse stata traumatica, in quanto per la prima volta venivamo prelevati da casa e portati in una località segreta, devo dire col senno di poi che quando si è cominciato ad avvertire fortemente il rischio per la vita di papà noi provocatoriamente gli abbiamo chiesto, anzi non provocatoriamente ma con grande consapevolezza, gli abbiamo chiesto che era arrivato forse il momento che fossimo noi a chiedere, visto che non ce lo proponevano, di andar via da Palermo, anche per un certo periodo, purché lui potesse essere salvato.
E lui ci disse questa volta seriamente che lo avrebbe accettato, purché gli avessero consentito di portare con sé oltre noi anche sua mamma, la mia nonna.
Da questa frase ho capito che papà veramente aveva paura.
Non è vero che mio padre non aveva paura, mio padre era un uomo come tutti gli altri. Mio padre accanto alla paura aveva il coraggio, ma aveva paura.
Perché era un uomo e come per tutti gli uomini la paura della morte, anche di un cristiano, è legata al distacco dai propri familiari (è questa la vera paura) nonché all’ignoto, chiaramente, che accoglie qualunque uomo nel momento in cui comincia ad avvertire un rischio per la propria vita.

Il presidente mi chiedeva quali fossero i momenti di delegittimazione che abbiamo avvertito nei riguardi delle nostre persone, parlo chiaramente di noi figli.
Io non avrei voluto in questa sede fare questo cenno, ma lo faccio perché ritengo che la credibilità passa attraverso la necessaria legittimazione delle persone che vengono a parlare in questa sede.
E poiché non basta essere figli di Paolo Borsellino per essere legittimati, noi abbiamo studiato, non ci siamo limitati a nasconderci dietro il nostro pesante oltre che onorato cognome, perché riteniamo che non si possa parlare di fatti come quelli che abbiamo raccontato se non ci addentrassimo proprio dentro lo studio e la lettura delle carte, dentro il lavoro che è stato svolto da chi è competente a farlo e che ne sa più di noi.
Però tengo a sottolineare che in molti momenti il nostro ruolo, soprattutto dopo la morte di nostra madre, ha visto proprio questo rischio di delegittimazione e non è un’esagerazione.
Io vi leggo un’intervista fatta dal dottor Ayala, riportata dalla redazione del quotidiano on line, La Sicilia del 4 luglio 2019, in cui egli, replicando a mia sorella Fiammetta Borsellino che aveva evidenziato – come era giusto perché lei era una parte civile al processo – la contraddittorietà delle numerose versioni rilasciate dal dottor Ayala a proposito dell’agenda rossa, con questo non volendo affermare nulla che non fosse il fatto che la borsa nella quale era contenuta l’agenda rossa fosse passata di mano in mano e che nessuno ricordasse chi l’aveva presa per primo e chi dopo.
Questo tra l’altro avrebbe giustificato quell’esame del DNA che vi dicevo, proprio in ragione delle numerose manipolazioni che quella borsa ha subìto.
Dovete sapere che in via D’Amelio, nel luogo della strage, per usare un’espressione sempre di mia sorella, è passata una mandria di bufali e io ne sono stata testimone.
Recito testualmente la dichiarazione del dottor Ayala: «La figlia di Borsellino, invece di andare al carcere a sentire gli assassini del padre, può venire da me se ha bisogno di chiarimenti».

Non voglio commentare queste parole, ma voglio riconoscere da sorella il gesto memorabile che mia sorella ha compiuto in termini di forza interiore, anche perché non è stato un gesto isolato ma rientra all’interno di un percorso personale di riparazione del danno durato anni e che è cosa ben più complessa del disvalore che invece lasciano presumere le parole del dottor Ayala.
Tra l’altro, da persone civili quali noi siamo e da non addetti ai lavori, è molto più facile parlare con un pentito che ha saltato il fosso piuttosto che trovarsi faccia a faccia con persone che il fosso non lo salteranno mai probabilmente.
Trattandosi dei fratelli Graviano, in regime carcerario del 41-bis, proprio perché stanno in carcere in quel regime, è possibile sentire le conversazioni che si sono svolte tra mia sorella e loro.
Noi non le abbiamo mai sentite, le abbiamo acquisite de relato da mia sorella direttamente, ma vi assicuro che è un esempio di cristianità della quale mia sorella è il principale specchio della cristianità e dell’insegnamento cristiano di mio padre.
Un’altra circostanza risale a una intervista anche questa rilasciata a La Sicilia il 14 giugno 2019 dal dottor Carmelo Petralia, che, rispondendo a un’affermazione di mia sorella Fiammetta in commento all’esito dell’accertamento giudiziario del depistaggio con cui faceva generici riferimenti alla contaminazione di certi ambienti istituzionali politici e della magistratura nelle indagini, fatti che sono sotto gli occhi di tutti, ebbe a dire: «A lei che domanda dov’era lo Stato e dove erano i magistrati durante le indagini, dico dov’era lei nei giorni drammatici precedenti l’assassinio di suo padre e degli altri servitori dello Stato, in quei giorni tremendi che separarono Capaci da via D’Amelio. So bene che fu addirittura difficile rintracciarla per comunicarle quel che era accaduto il 19 luglio».
Ebbene, mia sorella era l’unica assente giustificata in quel contesto, perché quell’assenza era stata voluta fermamente da mio padre per sottrarre una ragazzina di appena 19 anni da un clima terribile che si respirava a casa nostra e per questo motivo l’affidò al suo migliore amico, un ginecologo, del quale probabilmente voi non avete mai sentito parlare proprio perché era il migliore amico, a cui ha affidato mia sorella in quel periodo.
All’epoca non esistevano i cellulari, quindi era ovvio che fosse difficile rintracciarla.
Poi abbiamo saputo solo successivamente che mia sorella stette malissimo molto prima di sapere che mio padre stesse male, perché evidentemente lei temeva di non poterlo più rivedere.
E fui io, e non il dottor Petralia sicuramente, a comunicarle l’accaduto.
Un altro episodio, non ultimo, che può rientrare in questa categoria di insulti, perché non posso definirli in altro modo, è stata un’intercettazione in capo all’ex magistrato Silvana Saguto, indagata nell’inchiesta nissena della gestione dei beni confiscati alla mafia, pubblicata su la Repubblica del 21 ottobre 2015, che al telefono con un’amica senza sapere di essere intercettata perché era nel pieno delle sue funzioni, a seguito di una manifestazione, ahimè, sulla legalità il giorno dell’anniversario della morte di mio padre il 19 luglio dell’anno 2014, commentando la commozione di mio fratello espressa in occasione dell’incontro con il Presidente della Repubblica ebbe a dire: «Manfredi Borsellino è uno squilibrato, lo è sempre stato, lo era pure quando era piccolo e Lucia Borsellino è cretina precisa».
Preciso che non abbiamo mai avuto rapporti neanche di mera conoscenza con la dottoressa Saguto. Devo dire che in quella circostanza mio fratello Manfredi intervenne dicendo: «Non vogliamo commentare espressioni che andrebbero catalogate alla voce cattiveria, solo parlandone rischieremmo perciò di attribuire importanza a chi quelle parole ha proferito».

Un’intuizione che le cose sarebbero andate, ahimè, verso questa direzione in alcuni momenti lo lasciava presagire anche quell’incontro che io ebbi con il vice questore Arnaldo La Barbera, allora capo della squadra mobile di Palermo, allorquando nel mese di novembre del 1992 ci consegnò la borsa di mio padre.
Io mi trovavo a casa con mia madre, sono fatti ormai noti perché riferiti all’autorità giudiziaria, notai subito l’assenza dell’agenda rossa e ne chiesi spiegazione.
Anche in quella circostanza lo stesso dottor La Barbera, che aveva provveduto a smentire prontamente la dichiarazione che Antonino Caponnetto (lo chiamo per nome perché è stata una persona che oltre a essere un collega di papà è stata una persona di famiglia), si affrettò a smentire appunto quello che il dottor Caponnetto aveva detto anche su sollecitazione di mia mamma, ebbe a dire a mia madre, visto il mio risentimento nel non avere trovato l’agenda, che io probabilmente avevo bisogno di un aiuto psicologico perché stavo delirando.
Ci sarebbero altre circostanze che non intendo però riferire in quanto afferenti alla nostra sfera più intima, perché già per me è un fortissimo dolore doverle rievocare.


PRESIDENTE. Grazie. Passo alle domande dei commissari. Ho iscritto per primo a parlare il senatore Scarpinato


ROBERTO MARIA FERDINANDO SCARPINATO. Presidente, una sola domanda per la dottoressa Lucia Borsellino e varie domande per l’avvocato Trizzino.
Dottoressa Lucia Borsellino, chiedo se le risulta che il dottor Giammanco fu costretto ad andare via dalla procura della Repubblica di Palermo a seguito di un documento sottoscritto da otto sostituti procuratori della DDA, nel quale si minacciava di dare le dimissioni se Giammanco non fosse stato allontanato.
E se a seguito di questo documento ebbe inizio l’inchiesta del CSM, nel quale furono raccolte le dichiarazioni a cui ha fatto riferimento varie volte l’avvocato Trizzino, nel corso del quale i sostituti raccontavano quello che era successo.
E se si ricorda chi prese l’iniziativa e chi furono i sottoscrittori di questo documento.
Per quanto riguarda invece l’avvocato Trizzino faccio una premessa.
Io non farò alcuna domanda sulle parti della dichiarazione dell’avvocato Trizzino nelle quali ha fatto riferimento alla mia persona, questo per ragioni di eleganza istituzionale e anche perché, tenuto conto dell’esiguo tempo a mia disposizione, ritengo di dovermi concentrare soltanto sulle questioni rilevanti.
Ho fatto questa premessa affinché il mio silenzio al riguardo non venga frainteso come acquiescenza alle dichiarazioni dell’avvocato Trizzino, che ritengo in più punti inesatte.
Fatta questa premessa vado alle domande.
L’avvocato Trizzino ha affermato che l’inchiesta «mafia-appalti», scaturita dall’annotazione del ROS depositata il 20 febbraio 1991, produsse solo sette arresti, che ha specificato nelle persone di Siino Angelo, Lipera Giuseppe, Farinella Cataldo, Falletta Alfredo, Morici Serafino, arrestati nel giugno del 1995, a cui si aggiungono Cascio Rosario e Buscemi Vito arrestati nel febbraio del 1992.
In sostanza, dunque, tenuto conto della portata dell’inchiesta la montagna aveva prodotto un topolino.
Ciò sarebbe avvenuto perché la procura di Palermo aveva sottovalutato le risultanze processuali o, peggio, non aveva voluto approfondirle.
Più in particolare l’avvocato Trizzino ha dichiarato che la procura richiese nel febbraio del 1992 un’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di Vito Buscemi, definito dall’avvocato Trizzino il «Buscemino», perché poco rilevante a suo parere, e rimase invece inerte nei confronti di Buscemi Antonio, mafioso definito il «Buscemone», per sottolinearne l’importanza, che era socio occulto di imprese riconducibili al gruppo Ferruzzi il cui patron era Raul Gardini le cui imprese operavano in Sicilia. 
Ciò premesso chiedo all’avvocato Trizzino se lei sia a conoscenza che la Commissione parlamentare antimafia in data 3 febbraio 1999 procedette all’audizione del procuratore della Repubblica di Palermo, dottor Giancarlo Caselli, il quale depositò una relazione della procura di Palermo di 107 pagine, nella quale si ripercorreva analiticamente tutto lo sviluppo dell’indagine «mafia-appalti», originata dall’annotazione del ROS depositata il 20 febbraio 1991, mai archiviata, proseguita negli anni 1992-1993 e seguenti, con una successione analiticamente indicata in quella relazione di ordinanze di custodie cautelari nel corso delle quali venivano arrestati complessivamente circa 120 soggetti (tra mafiosi, imprenditori di respiro nazionale, politici, professionisti) e venivano richieste numerose richieste di autorizzazione a procedere nei confronti di ministri e parlamentari.
In particolare chiedo all’avvocato Trizzino se le risulta che in quella relazione venne documentato che non è affatto vero che l’inchiesta si concluse negli anni 1991-1992 con sette arresti da lei citati, ma che già nel maggio del 1993 fu chiesta e ottenuta ordinanza di custodia cautelare nei confronti di 25 persone, tra cui tutti i capi mafia che gestivano gli appalti (Riina, Giuseppe Lipera, uomini politici, dirigenti di enti regionali che gestiscono appalti per mille miliardi).
Le chiedo se le risulta che in quella relazione veniva documentato che unitamente a Salvatore Riina e altri mafiosi fu arrestato nel maggio del 1993 proprio quel Buscemi Antonino da lei definito «Buscemone», nei cui confronti la procura, secondo quanto lei ha affermato, avrebbe omesso di approfondire le indagini.
Se le risulta che ancor prima del maggio del 1993, già nell’ottobre del 1992 la procura della Repubblica aveva chiesto il sequestro e la confisca per misure di prevenzione di tutto il patrimonio dei Buscemi, comprese le quote riconducibili al gruppo Ferruzzi.
Quindi se può precisare alla Commissione in che senso la procura di Palermo non avrebbe sviluppato le indagini su Buscemi Antonino, lasciandolo indenne nel tempo da conseguenze giudiziarie.
Se le risulta che nel maggio del 1993 tra gli imprenditori di livello nazionale tratti in arresto dalla procura vi erano Lodigiani Vincenzo, la cui importanza non penso di dover sottolineare, Claudio De Eccher con tutto lo staff dirigenziale di quell’impresa, Salomone Filippo, imprenditore cerniera tra l’imprenditoria del Nord e del Sud.
Se le risulta che tra i politici arrestati vi era l’onorevole Salvatore Lombardo, che poi fu arrestato sempre nel 1993, l’onorevole Sciangula Salvatore.
Che furono richieste, sempre nel 1993, autorizzazioni a procedere nei confronti dell’ex Ministro Mannino, del Ministro Nicola Caprio, di Severino Citaristi, di Rosario Nicolosi, di Michelangelo Russo.
Se le risulta che sempre nel 1993 fu incriminato l’ex Ministro Calogero Mannino per una tangente di 900 milioni e sempre nel 1993 fu iniziato un processo per concorso esterno nei confronti di Mannino.
Se le risulta che gli anni seguenti fu sequestrato tutto il patrimonio della Ferruzzi.
Lei ha detto che il 13 luglio 1992 fu archiviato il processo «mafia-appalti».
Le chiedo se le risulta se fu archiviato il processo «mafia-appalti» o se invece quel processo non fu mai archiviato ma furono archiviate soltanto alcune posizioni processuali, che il processo non fu mai archiviato tant’è che si era in attesa di informative dei ROS che furono depositate il 5 settembre nel processo aperto.
Quindi il processo non poteva essere chiuso il 13 luglio se vengono depositate il 5 settembre del 1992 delle nuove informative.
Se le risulta che l’archiviazione del 13 giugno del 1992 fu determinata anche dal fatto che non solo non c’erano a quella data le collaborazioni di Baldassare Di Maggio e di altri, ma dal fatto che la procura di Catania non aveva comunicato alla procura di Palermo che Lipera, personaggio centrale, aveva iniziato a collaborare, e quindi le dichiarazioni di Lipera non fu possibile prenderle in considerazione nel provvedimento di archiviazione che altrimenti non ci sarebbe stato.
L’altra domanda è questa.
Lei ha descritto l’informativa «mafia-appalti» del 20 febbraio 1991 come un’informativa che sostanzialmente consentiva di ricostruire tutta la gestione illecita degli appalti e ha attribuito una grande rilevanza giustamente alla componente politica di quel «tavolino» che aggiustava gli appalti.
Le chiedo se le risulta che quell’informativa constava di circa 900 pagine, di 484 allegati, si concludeva con delle schede riassuntive finali nelle quali venivano segnalati personaggi di maggiore interesse investigativo, 43 persone, di cui 23 come personaggi di interesse per il 410-bis e 22 come personaggi di interesse per il reato di associazione a delinquere semplice.
Se le risulta che in tutte le 900 pagine, in tutti i 484 allegati non vi era un rigo che facesse riferimento ai personaggi più importanti del potere politico siciliano, che gestivano gli appalti in quel periodo, cioè l’onorevole Salvo Lima, l’onorevole Rosario Nicolosi, l’onorevole Calogero Mannino e poi anche in campo nazionale l’onorevole De Michelis.
Se le risulta che fu appurato che tali nominativi non erano menzionati in quella informativa perché a quella data non erano state ancora acquisite delle notizie, ma che al contrario non erano menzionati per una scelta del ROS. Fu accertato in realtà che esistevano delle conversazioni intercettate estremamente importanti che riguardavano questi politici.
Una di queste era un’intercettazione del 6 aprile 1990, quindi quasi un anno prima dell’informativa, che riguardava l’onorevole Lima, referente della mafia in Sicilia, il quale telefonava a un dirigente della Sirap, che gestiva mille miliardi di appalti in Sicilia, e gli diceva di essere amico di Cataldo Farinella, un mafioso importante che venne arrestato nel 1991.
Nell’informativa del ROS c’erano pagine e pagine che riguardavano Cataldo Farinella, conversazioni, tant’è che fu arrestato, non si menzionava affatto che c’era una telefonata in cui Lima raccomandava Farinella alla Sirap.
Questa telefonata non fu tirata fuori neanche dopo l’omicidio di Lima.
Se le risulta che venne accertato che non furono omesse soltanto le conversazioni che riguardavano Lima, ma anche le conversazioni tra Ciaravino e La Cavera del 19 marzo 1990, in cui si parlava di Mannino, si parlava di Nicolosi, si parlava di Lombardo nell’affare Sirap, la telefonata del 22 aprile del 1990 in cui si parlava di Nicolosi, dell’assessore Gorgone.
Se le risulta che queste intercettazioni vengano a conoscenza della procura di Palermo soltanto il 5 settembre del 1992, quando il ROS si decise a depositarle con l’informativa Sirap, e il primo ottobre del 1992 quando la procura di Catania trasmise l’informativa Caronte, nonostante l’informativa del febbraio 1991 doveva essere un’informativa riassuntiva di tutto il quadro e dare un chiaro quadro ai magistrati di tutte le componenti implicate negli appalti.
Le chiedo se le risulta che il maresciallo capo Iannetta Carmine, colui che effettuava gli ascolti in diretta, sentito dalla procura il 9 ottobre del 1998, e richiesto di spiegare perché non fossero state inserite le intercettazioni dei politici nell’informativa del febbraio del 1991 alla procura di Palermo, rispose: «Aggiungo che in effetti tali circostanze non furono evidenziate nel rapporto per valutazioni operate dai miei superiori che le ritennero irrilevanti».
Le chiedo se lei può dare una spiegazione del motivo per cui il ROS nel febbraio del 1991, facendo un’informativa riepilogativa di tutto, ritenne irrilevanti le intercettazioni che riguardavano i politici.
La terza domanda è questa.
In base alla sua prospettazione degli avvenimenti, i mandanti dell’accelerazione della strage di via D’Amelio andrebbero ricercati e individuati all’interno di coloro che temevano che Paolo Borsellino, rimanendo in vita, potesse svolgere indagini che avrebbero portato alla luce gli affari sporchi che si celavano dietro l’affaire «mafia-appalti», compromettendo lucrosi interessi economici e personaggi importanti appartenenti al mondo politico, economico e alla magistratura. 
Da questa prospettazione si desume che il depistaggio Scarantino, visto che Scarantino non voleva certamente proteggere i mafiosi, fu finalizzato a impedire che le indagini potessero orientarsi sul filone «mafia-appalti» e potessero fare emergere le responsabilità di personaggi eccellenti e potenti coinvolti nella vicenda «mafia-appalti».
Più in particolare, lei ha prospettato che responsabili dell’accelerazione possono essere stati Giammanco, Buscemi Antonino, socio occulto di Raul Gardini, il quale era amico di Martelli.
Le faccio questa domanda.
La falsa collaborazione di Scarantino non inizia nel 1992 – nel 1992 Scarantino viene arrestato – inizia il 24 giugno del 1994, due anni dopo, quella è la data del primo verbale dichiarativo.
Tenuto conto che il 24 giugno del 1994 Giammanco non era più il procuratore di Palermo da due anni e il nuovo procuratore della Repubblica era Giancarlo Caselli.
Tenuto conto che Buscemi Antonino, il «Buscemone», era stato già arrestato il maggio 1993 e le sue quote azionarie erano sequestrate dalla procura di Palermo.
Tenuto conto che Raul Gardini si era suicidato nel luglio del 1993 e che Martelli non era più Ministro da anni.
Le chiedo chi erano secondo la sua prospettazione i soggetti potenti coinvolti «in mafia-appalti» che potevano orchestrare un depistaggio che coinvolgeva i vertici della polizia da La Barbera in su.
Le chiedo inoltre se lei ritiene importante il fatto che il collaboratore Francesco Di Carlo abbia indicato Arnaldo La Barbera, colui che fu l’artefice del depistaggio Scarantino, come la stessa persona che si recò in un carcere inglese per chiedere l’aiuto di cosa nostra per neutralizzare Giovanni Falcone.
L’altra domanda riguarda Subranni.
Lei ha parlato di Subranni ma io le voglio leggere pagina 715 della sentenza della Borsellino quater, della motivazione, dove citando Agnese Borsellino si riporta alla sua frase che dice: «Confermo che mi disse (Paolo, il marito) che il generale Subranni era “punciutu”.
Mi ricordo che quando me lo disse era sbalordito.  Ma aggiungo che me lo disse con tono assolutamente certo.
Non mi disse chi glielo aveva detto, mi disse comunque che quando gliel’avevano detto era stato tanto male da aver avuto conati di vomito.
Per lui infatti l’Arma dei carabinieri era intoccabile».
La dottoressa Lucia Borsellino sentita al processo Borsellino quater…

PRESIDENTE. Senatore, chiedo scusa, io non sono intervenuta fino ad ora perché devo rispetto e tempo a tutti, però sono venti minuti che lei interviene…

ROBERTO MARIA FERDINANDO SCARPINATO. Su cinque ore di esposizione.

PRESIDENTE. Non è un dibattito tra me e lei, le dico quali sono…

ROBERTO MARIA FERDINANDO SCARPINATO. Se mi vuole togliere la parola…

PRESIDENTE. Non le tolgo la parola, le spiego qual è la questione e lei poi finisce la sua ampia possibilità di fare domande. Qui non siamo in un’aula di tribunale, questo non è un controesame di un teste, lo dico a me stessa perché lo capiscano tutti, anche chi ci ascolta fuori. Quelle che vanno fatte qui sono domande che servono per ricostruire la storia, non per legittimare o meno alcune posizioni. Siccome lei è giustamente partito con eleganza, le chiedo gentilmente intanto di stare nei tempi e dopodiché di ricordarsi che questo non è un esame di un teste.

ROBERTO MARIA FERDINANDO SCARPINATO. Lei non mi deve ricordare niente, perché io sto facendo domande precise all’avvocato Trizzino, non sto facendo…

PRESIDENTE. Senatore, lei parla da venti minuti facendo premesse di due e domande di mezzo secondo, questo io lo permetto a tutti fino a un tempo congruo che permetta a tutti i commissari di parlare, altrimenti si tratta di un’audizione, senatore. Finisca.

ROBERTO MARIA FERDINANDO SCARPINATO. Rinuncio alle mie domande.

PRESIDENTE. No, guardi, può finire nel tempo congruo.

ROBERTO MARIA FERDINANDO SCARPINATO. Rinuncio.

PRESIDENTE. Avvocato Trizzino.


FABIO TRIZZINO

Intanto io non ho indicato Giammanco come mandante.
Io non ho fatto il nome del dottor Giammanco come mandante, questo deve essere chiaro e preciso.
Il problema è che in questa sede viene riproposta la famosa teoria della doppia informativa, che vorrei spiegare bene perché il problema è affrontato nel provvedimento della dottoressa Gilda Loforti. Secondo le dichiarazioni rese recentemente dal dottor Lo Forte e dal dottor Scarpinato, ai primi di giugno del 1992 loro cominciano a redigere in minuta l’archiviazione di cui vi ha parlato il senatore Scarpinato.
Il 15 giugno del 1992 (e ho qui il documento che lascerò in Commissione) i dottori Scarpinato e Lo Forte fanno il cosiddetto stralcio Sirap, con cui dicono: «siccome stiamo aspettando l’informativa Sirap dal ROS, siccome dobbiamo definire le posizioni residuali aspettiamo che il ROS ci depositi l’informativa».
Primo punto, il 28 maggio del 1992 il capitano De Donno chiede, e Lo Forte autorizza, il riascolto, non dell’intercettazione, il riascolto di alcune di quelle intercettazioni in cui si parlava di Lima, di Cataldo Farinella, che erano state illo tempore depositate, tant’è che Gilda Loforti tra virgolette bacchetta i sostituti procuratori dicendo: «se avevate interesse erano lì, le trascrizioni e le bobine, potevate farle sviluppare dai vostri consulenti».
Succede che il 28 Lo Forte autorizza De Donno a riascoltare, De Donno il 30 giugno del 1992 quando l’archiviazione era già finita in minuta, gli dice: «Io ho fatto tutto quello che voi mi avete autorizzato, cioè ho riascoltato, e ditemi voi sostituti procuratori Lo Forte e Scarpinato se vi devo depositare adesso le relative risultanze o successivamente».
Quindi prima cosa da dire: non è vero che la predisposizione della cosiddetta informativa Sirap non è stata concertata.
Il capitano De Donno è riuscito a dimostrare nel procedimento disciplinare, procedimento che si è chiuso con l’archiviazione, portando i documenti che io lascerò in Commissione, che ci fu un’interlocuzione, una concertazione tra il dottor Scarpinato e il dottor Lo Forte circa il deposito dell’informativa Sirap.
Fanno lo stralcio 3541 del 1992, l’informativa Sirap viene depositata il 5 settembre. Io chiedo alla Commissione di acquisire presso le competenti autorità quali atti di indagine sono stati compiuti tra il 5 settembre e il 28 ottobre del 1992 in relazione al procedimento 3541/92, cosiddetto Sirap, da parte dei sostituti procuratori titolari di quell’indagine.
Andiamo a tutto il resto delle domande. Mi verrebbe da dire, proprio perché allontanato il dottor Giammanco, forse quell’inchiesta si poté fare.
Ma il senatore omette di ricordare l’altro punto fondamentale. La distruzione dei brogliacci, la smagnetizzazione del procedimento che arriva da Massa Carrara che ha il numero 35… del 91 con lettera di trasmissione, in cui la posizione del Buscemi, in un’implicazione tra le risultanze del rapporto in cui dicono che Vito Buscemi è soltanto il prestanome delle imprese di Nino e di Salvatore Buscemi.
Tant’è che nel corso dell’esame testimoniale al processo Depistaggio, siccome si parlava di circolarità delle informazioni tra di loro, quando abbiamo chiesto al dottor Scarpinato e al dottor Lo Forte se sapessero della richiesta dell’1, archiviazione del 19 e conseguente distruzione dei brogliacci, vi ho letto il contenuto secondo il dottor Lama di quelle intercettazioni, in cui in poche parole si ha l’ennesima fuga di notizie.
Il punto è, senatore Scarpinato, se vi erano elementi per contestare l’associazione a delinquere agli imprenditori.
Si insiste sull’aspetto politico della vicenda, io ho spiegato bene che il grimaldello per arrivare ai politici erano gli imprenditori.
Paolo Catti De Gasperi aveva il Nos, era una delle poche ditte accreditate presso il servizio di informazione democratica per lo svolgimento dei lavori dei servizi segreti italiani. Paolo Catti De Gasperi, oggettivamente, esce fuori da questa inchiesta quando… ecco la discovery che fanno gli arresti del 25 giugno.
Vi spiego l’antefatto, perché le domande sono durate venti minuti e io devo avere la possibilità di poter rispondere adeguatamente.
Teoria della doppia informativa.
Non è vero, i sostituti sapevano che i ROS stavano facendo atterrare l’informativa Sirap, vengono informati e dicono «portatela a settembre» fondamentalmente.
Questo si evince dalla comunicazione che fa il De Donno, che interloquisce «non è vero che non sapevano che c’era la delega Sirap, tant’è vero che il 15 giugno 1992 fanno lo stralcio 3541/92.
La Sirap è un atto concertato e comunicato dal ROS ai sostituti procuratori. Ripeto, nell’ambito di quel procedimento vorrei sapere dalla Commissione se ci sono atti di indagini dal 5 settembre al 28 ottobre, quando scoppia il caso Felice Lima di cui dobbiamo parlare».
Catti De Gasperi, nella famosa intercettazione secondo cui Siino e Li Pera si pongono come partecipi dell’associazione e lo costringono a ritirare la busta dall’appalto relativo all’insediamento commerciale di Petralia bivio Madonnuzza, nella richiesta di arresto del 25… ecco perché c’è una discovery, secondo la mia plausibile ricostruzione, perché a un certo punto bisognava riportare quella parte di intercettazione in cui si dice «bene, ho risolto tutto, ho parlato con chi dovevo parlare e ho ritirato la busta», questa era la prova che Li Pera sostanzialmente era riuscito, tramite la mediazione di Giorgio Zito, altro soggetto tutelato nel senso di non valutato, nel senso che Giorgio Zito viene considerato anche lui una vittima ma quello che c’è nel rapporto (come vi dicevo prima) non riguarda solo la Sirap, c’è anche il Consorzio Cempes, e nel Consorzio Cempes quello che combina Giorgio Zito lo dovrete vedere voi da soli.
Parla con Defortis, con Orcel dell’Agenzia del Mezzogiorno, «dovete darci i soldi, dobbiamo finanziarci, io ho già pronto il progettista, devo fare questi lavori», tutto senza che si guardi minimamente all’interesse pubblico.
E quand’anche l’interesse pubblico c’era con le perizie di variante si ottenevano le provviste per pagare tangenti a destra, a manca e a sinistra.
Nella richiesta di arresto del 1991 pubblicano quella parte di intercettazione in cui Paolo Catti De Gasperi, uomo di Andreotti che aveva il Nos, amico intimo anche dell’ex presidente Scalfaro, riportano l’intercettazione completa in cui continuando il discorso dice: «Io prima di ritirare la busta voglio rassicurazioni da uno che sta più in alto di S», che sarebbe il Siino Angelo. E Giorgio Zito gli dice: «Guarda che mi hanno promesso che potremo partecipare con successo alla gara del Duomo di Monreale». Gli risponde Catti De Gasperi: «Ma lì vedo una griglia difficile».
Tenete a mente queste parole che ora devo spiegarvi.  
Quindi dall’intercettazione pubblicata nella richiesta di arresto del 25 giugno del 1991 abbiamo un Catti De Gasperi considerato vittima del sistema che però dice a Giorgio Zito che deve parlare con uno che è più in alto di Siino e che deve avere rassicurazioni dall’altro.
Quando gli prospetta Giorgio Zito la possibilità di avere, secondo il sistema dei favori dell’associazione a delinquere di tutti questi imprenditori volta all’illecita gestione degli appalti, si facevano i favori tra di loro attraverso il pass, corrompendo pubblici funzionari e politici, dice «io lì vedo una griglia difficile».
Questo è importante perché il meccanismo si fondava sul fatto che la gara di appalto, di cui poi la successiva pubblicazione, veniva decisa dagli imprenditori con i politici con trattative private e una volta raggiunto l’accordo si formalizzava il tutto con il bando.  
Quindi se Catti De Gasperi dice «io li vedo una griglia» vuol dire che lui è ben inserito nel sistema innanzitutto, non è vittima, chiede di avere rassicurazioni da uno che sta più in alto di Siino, che poi verrà individuato in Salamone che era il vero garante del patto, è colui che Riina nel suo disegno egemonico voleva scalzare dal ruolo di capo del tavolino nella mediazione tra imprenditori e politici.  
La posizione di Paolo Catti De Gasperi infatti… Nell’archiviazione del 13 questa parte di intercettazione non c’è più.
Non c’è più. Potrete verificare che nella richiesta d’arresto c’è questa parte di intercettazione, nella richiesta di archiviazione la parte di intercettazione che comprometteva obiettivamente la posizione di Catti De Gasperi, perché dice: «Voglio rassicurazione da uno che sta più in alto …io ho visto la griglia, è difficile», non c’è nella richiesta di archiviazione del 13. 
Non c’è.  Quindi doppia informativa inesistente.  
Andiamo a Catania, perché questo è un punto fondamentale. Ne abbiamo parlato del famoso anonimo del 30 aprile e 3 maggio del 1992 quello che, secondo le dichiarazioni di Canale spinge Borsellino a fare l’incontro segreto; ma la cosa che viene accertata documentalmente, poi sempre per rispetto di quel criterio di confronto Canale successivamente riconnetterà al corvo bis.
Ma in nessuna sentenza è dato leggere che il corvo bis, che conoscevano tutti a differenza del corvo del 3 maggio (perché c’è stata pure la pubblicazione sui giornali del corvo bis) l’unico anonimo che viene riferito nella campagna di delegittimazione ROS è quello del 3 maggio. Bene anche di questo anonimo la Procura viene informata il 12 maggio, la Procura di Palermo sa che Lipera è sotto indagine a Catania. Tant’è vero che la dottoressa Gilda Loforti lì sottolinea :«Ancora una volta loro lo sapevano e non potevano certo aspettarsi che Catania se ne stesse con le mani in mano» fondamentalmente. Ma perché Felice Lima non comunica nulla a Palermo? Primo non era un obbligo giuridico, ex articolo 371 è una facoltà non è un obbligo, poi c’erano esigenze di sicurezza. Lipera si trovava ristretto nel carcere di Teramo insieme a dei mafiosi che lo minacciavano tramite il buon ufficio dell’avvocato Memi Salvo. Poi vi era in atto una terribile attività di inquinamento probatorio da parte di Claudio De Eccher, il quale verrà trovato nel settembre/ottobre del 1992 con i verbali di Leonardo Messina usciti dalla Procura di Palermo. Usciti da un amico a Palermo, aveva i verbali di Leonardo Messina. E come lo scopre Felice Lima, anche lui crocifisso come Augusto Lama?
Lo scopre perché la segretaria di Lipera, interrogata nel settembre e nell’ottobre del ’92 racconta agli investigatori che De Eccher, con il verbale in mano, va a dire: «Vedi, Messina ha detto questo, lei deve confermare questo perché così noi della Rizzani De Eccher ne usciamo fuori».  
Lima cosa fa, fa l’accertamento relativo al giorno in cui… lo stesso giorno in cui succede questa cosa la segretaria parla con l’ufficio di Catania.
Cosa succede? Il dottor Lima delega a Roma un’attività di indagine, per vedere i nomi dei passeggeri che sull’aereo stavano arrivando da Catania o da Palermo. Trovano Claudio De Eccher, lo accompagnano in una sala riservata, gli fanno aprire la valigia e trovano un verbale uscito dalla procura di Palermo con le dichiarazioni, che dovevano essere, segretissime di Leonardo Messina.
Perché Lima non parla con Palermo? Semplice, perché si consiglia con Paolo Borsellino e lo dichiara davanti alla commissione del CSM nel 1996. Quindi Borsellino sa che Lipera sta parlando e il primo consiglio che da a Lima è di non parlare con Palermo.
Anche perché a Palermo, ripeto, c’erano queste manovre di inquinamento. Lo so che De Eccher venne arrestato nel maggio del ’93, ma De Eccher è arrestato da Palermo quando già era stato arrestato da Pordenone, nel marzo del ’93, perché totalmente inserito nel meccanismo di Tangentopoli.  
Il problema è, poteva o non poteva prima che Paolo Borsellino morisse, quell’indagine avere un certo sviluppo?
Questo è il punto dal momento che, ripeto, Paolo Borsellino con un appalto del porto turistico fece diciassette arresti nel maggio del ’91. Io non voglio condizionarvi ma il rapporto è imperfetto ovviamente dà una visione pan-mafiosa, ma il rapporto va letto attraverso le dichiarazioni riportate nel rapporto di Giaccone e di Aurelio Pino che sono due imprenditori che spiegano come funziona il sistema. Il sistema ve l’ho spiegato tra le righe qual è, e loro stessi nella richiesta di arresto del 25 giugno ’91 parlano di racket dei progettisti, di sistema delle combine, che necessità c’era del politico? Cominciamo ad arrestare quelli che fanno parte del racket dei progettisti e del sistema delle combine e poi si arriva al politico che è quello che di cui parlano Di Pietro e Paolo Borsellino «dobbiamo trovare il sistema per far parlare gli imprenditori» ma chi punta al politico dritto? E poi ripeto, quelle intercettazioni erano state depositate perché il dettaglio anche qui è fondamentale. Il capitano De Donno chiede l’autorizzazione al riascolto per potere reinserire il materiale che man mano avevano accumulato.
Quindi io voglio riascoltare perché a questo punto certe espressioni che magari possono essere non comprensibili ora, con tutto il materiale che ho progressivamente accumulato, diventa più chiaro.
Quindi la teoria della doppia informativa non esiste, il problema è l’informativa Caronte, quella contiene le dichiarazioni di Lipera.
Ma l’informativa Caronte non poteva essere mandata a Palermo per un motivo molto semplice, è quella la vera informativa diversa, non quella Sirap. Perché l’informativa Caronte contiene sì le dichiarazioni collaborative di Lipera, ma se c’era un’attività inquinatoria in atto da parte di chi doveva essere arrestato per associazione a delinquere (cioè Catti De Gasperi, De Eccher, Giorgio Zito, tutti i progettisti della SASI progetti, Barbaro, Giuseppe Zito) è ovvio che Lima non può mandare gli atti a Palermo perché c’è un’attività di inquinamento. Vogliamo parlare di quello che viene riportato nella ordinanza di Gilda Loforti su quello che fanno gli avvocati Fabbri, l’avvocato Vizzini, l’avvocato Memi Salvo, che poi verrà condannato, per spingere sulla moglie di Lipera a non collaborare?  

La doppia informativa, rispetto alla Sirap, non esiste fu un atto concertato e vi prego se potete accertare quali atti di indagini sono state fatte tra il 5 settembre e il 28 ottobre del 1992 nell’ambito del procedimento 3541/92 che sarebbe il procedimento Sirap.


LUCIA BORSELLINO

Il senatore mi chiedeva se fossi a conoscenza del documento sottoscritto da otto sostituti della procura di Palermo. Do atto al dottor Scarpinato, conosco questo documento, do atto del fatto – ma l’avvocato Trizzino durante la sua esposizione ne ha dato conto alla Commissione

– che è stato lei tra l’altro a sollecitare questa sottoscrizione che coinvolgeva appunto otto dei suoi colleghi, compreso lei. Non li ricordo tutti, ma sicuramente c’erano il dottor Ingroia, il dottor Teresi, il dottor Gozzo, la dottoressa Consiglio, il dottor Napoli. Forse Nino Napoli, poi se dimentico qualche nome mi scuserete perché non ho il documento qui con me, però ne sono a conoscenza e gliene do atto di questo.
Noi infatti abbiamo sottolineato più volte che il problema era legato al fatto (e questo lo diciamo tra l’altro dopo tanti anni) che non fosse stata mai richiesta una deposizione del dottor Giammanco nelle udienze che hanno riguardato i processi per la strage di via D’Amelio, il che lo ritenevamo una cosa assolutamente necessaria. Non nego sicuramente che è stato anche questo documento a sollecitarne il trasferimento.


FABIO TRIZZINO

Io ho trovato, tra gli atti dell’inchiesta, una lettera scritta da Alessandro Rovera che venne acquisita dal ROS nel corso di una perquisizione delegata al momento dell’indagine dalla procura di Palermo, una lettera scritta da Alessandro Rovera che era un funzionario della Rizzani-De Eccher datata Caltanissetta 6 marzo 1990.
Questi sono atti che, si deposita l’annotazione, i pubblici ministeri quindi delegano la polizia giudiziaria ad alcuni atti di indagine, i famosi allegati. Il rapporto l’ho letto dieci volte, sono in grado se voi mi dite di una telefonata di dirvi che tra chi e che tra chi non è. La lettera è scritta da Alessandro Rovera, era funzionario della Rizzani – De Eccher, è datata Caltanissetta 6 marzo 1990 ed è indirizzata a Claudio De Eccher, a Marco De Eccher, a Giorgio Zito, all’ingegner Cipriani e a Giuseppe Lipera.
Questo è un atto che la procura, nel momento in cui si determinò ad archiviare, aveva.
Riunione commerciale Sicilia del 3 marzo 1990 presso l’ufficio di Caltanissetta, presente il dottor Cani (che era un alto funzionario della Rizzani – De Eccher) che viene indicato come relatore, geometra Lipera, signorina Giulia Lunetta, è divisa in punti contrassegnati da lettere dell’alfabeto. C’è: a) organizzazione dell’attività, poi c’è b) nuovi futuri lavori, poi c) varie e sotto varie.
Si dice fra l’altro testualmente «il progetto di Naro ha ricevuto parere favorevole dal Comitato Tecnico amministrativo regionale ora» sentite qua «ora occorre decidere a quale sportello (virgolette) presentarlo per ottenere il finanziamento».  
Questa è una ditta quindi che è fuori dal sistema, e a questa riunione partecipano Rizzani De Eccher, Claudio De Eccher eccetera.
Attenzione, si sosterrà in sede di archiviazione che al limite si poteva contestare non il reato associativo o il concorso ma il semplice 353. No, perché tutto questo nel rapporto si innesta in accordi tra imprenditori e tra soggetti e questo emerge dal rapporto, che esiste un’associazione a delinquere.
Tant’è vero che la famosa ordinanza di custodia cautelare del maggio ’93 La Commare, a cui fa riferimento il dottor Scarpinato, contesterà l’associazione a delinquere.
È una fotocopia di quanto avrebbe fatto Felice Lima se non fosse stato bloccato dal dottor Alicata. Chi è il dottor Alicata, ce lo dice Teresa Principato nei verbali della Commissione e ce lo dice anche Vittorio Teresi.
Ci dicono «il dottor Alicata era amico di Mario D’Acquisto e già con riferimento all’indagine Lima sull’imputato Susinni si chiese l’intervento di D’Acquisto su Alicata».
Quindi si ha lo stesso modo di fare a Palermo, e Alicata lascerà solo Felice Lima nella gestione di questo. Questa lettera è importante perché dimostra come Claudio De Eccher, Marco De Eccher, Cani, Giorgio Zito, erano tutti dentro al sistema fino al collo e che non c’era motivo per archiviare – siamo in fase di ricostruzione storica lo posso dire – storicamente posso io valutare, una melius re perpensa, a noi questa archiviazione è sembrata veloce, è sembrata un’accelerazione.
Non so perché, questo lo dovete vedere voi.
È troppo breve l’analisi delle posizioni, a parte De Eccher (che credo l’abbia scritta proprio il senatore Scarpinato dove si attarda), ma tutto il resto è una totale divaricazione tra le premesse della richiesta di arresto il 25 in cui si parla di sistema di combine, racket dei progettisti.
Per questo ho detto senatore che è stata la montagna che ha partorito il topolino. Il topolino perché già voi il 25 giugno del 1991, nella premessa della richiesta di arresto, avevate compreso esattamente i termini del problema.
Allora perché io parlo di gestione anomala, perché quegli arresti del ’91, come lei sa, poi furono seguiti da quell’iniziativa di cui vi ho detto che Giammanco manda il rapporto a livello politico, lo manda a Falcone, lo manda alla Presidenza della Repubblica, lo manda alla Presidenza del Consiglio.
Quindi c’è un tentativo di decentrare in altra sede la risoluzione del problema, ecco la rilevanza.
Quello che è successo dopo la morte di Borsellino ci sta, perché Giammanco se ne è andato, Riina è stato catturato, lo Stato sta reagendo e soprattutto non c’è più Giammanco, forse, a mettere come dire un tappo su tutta questa pentola. Questa potrebbe essere un’ipotesi secondo me, questo è il quadro. Io conosco troppo bene le vicende procedurali di questa inchiesta, atto per atto.


WALTER VERINI. Molto velocemente, però con una piccola premessa sull’ordine dei lavori. Presidente, io intanto non ringrazio formalmente sia la dottoressa Borsellino, sia l’avvocato, di più. Le ore nelle quali hanno esposto, quanto ci hanno esposto, rappresentano davvero un contributo di straordinario valore non solo civile, ma umano di cui davvero li ringrazio.  
Personalmente starei altre sette ore perché si sente, oltre che la conoscenza profonda, anche la ferita che voi provate che è principalmente vostra ma è anche di tutto il Paese e di tutti noi. Grazie davvero.
Detto questo presidente, però l’avvocato Trizzino e in misura minore la dottoressa Borsellino hanno parlato già per sette-otto ore sollevando una miniera di questioni e interrogativi.
Peraltro per chi non è quotidianamente avvezzo, anche professionalmente – mettiamola così – alle cose, sono faticosissimi non la comprensione, ma il dettaglio e la minuziosità, quindi è del tutto evidente che, anche se capisco il tema, io non ho fatto un’esperienza in Commissione antimafia chissà quanto lunga, ma non era mai capitato che ci fossero audizioni così corpose e così lunghe, delle quali vi ringrazio e secondo me dovrebbero continuare.
Questo però pone un problema (nostro, non vostro), cioè la sede plenaria deve avviare un lavoro che poi va evidentemente articolato altrimenti non riusciamo ad approfondire.
Abbiamo la fortuna di avere in questa Commissione personalità che hanno anche la sensibilità e l’eleganza (abbiamo visto il senatore Scarpinato) di non entrare nelle questioni in cui poteva essere citato.
Da commissario e perché lui è qui come parlamentare, avrei interesse che Scarpinato abbia non dieci minuti, venti minuti, ma che possa avere tutto il tempo.
Non dipende da voi, parlo per noi. Quindi presidente le pongo un problema, come andare avanti. Detto questo, non so se vuole rispondere subito.


PRESIDENTE. Lei mi insegna che la sede per la programmazione dei lavori non è la plenaria ma è l’ufficio di presidenza. Noi abbiamo stabilito un orario nel quale ci fermeremo o convocheremo un ufficio di presidenza per stabilire come procedere. Io non posso sapere a prescindere quanto durano le domande né posso sapere quanto durano le risposte, come è noto, perché la questione è molto complessa. Io stessa ho formulato delle domande che, seppur come immaginerete abbia lungamente studiato questo dossier, ho ristretto al minimo anche per rispetto verso chi sta qui.


WALTER VERINI. La ringrazio presidente, ma non posso…


PRESIDENTE. Scusi, lei non mi interrompe, mi ha fatto una domanda e mi fa rispondere, poi conclude, grazie. Io non posso né stabilire a prescindere quanto durerà l’audizione, né quanto dureranno le domande dei commissari. Posso però ricordare a tutti qual è il nostro ruolo e ho fatto semplicemente questo, e continuo a fare questo per rispetto di chi ho qui e per rispetto dei commissari. Alle 12.30, come stabilito, noi interromperemo l’audizione e, ovviamente, laddove ci siano moltissimi interventi che non si sono potuti svolgere daremo modo di farli. Prego senatore.


WALTER VERINI. La ringrazio. Preciso solo che non ho intenzione di insegnare, né posso, niente a nessuno. Dico solo che però bisogna stabilire delle regole, non solo degli orari di inizio e di interruzione, delle regole nella durata delle audizioni, della durata delle domande e anche nell’articolazione dei nostri lavori. Detto questo procedo…


PRESIDENTE. Scusi senatore sennò sembra …


WALTER VERINI. Mi ha interrotto, presidente, non mi può interrompere


PRESIDENTE. Io la posso interrompere perché lei sta dicendo una cosa che non è vera. Noi abbiamo stabilito le rego in una riunione dell’ufficio di presidenza nella quale lei era presente e durante la quale abbiamo stabilito che avremmo accettato soltanto domande e non audizioni, perché le audizioni dei commissari non sono consentite. Ora lei mi obbliga a renderlo pubblico, io lo rendo pubblico, però qui chiudiamo e ne parliamo in ufficio di presidenza per rispetto. Le rilascio la parola.


WALTER VERINI. Non obietto anche se avrei molto da obiettare, presidente. Per rispetto degli auditi dicevo che è un problema nostro, interno alla Commissione.
Sullo sfondo, ma non troppo, c’è il tema agenda rossa e le parole che voi avete detto confermano tutte le inquietudini che il Paese nutre rispetto a questo vero e proprio trafugamento.
È evidente che non sono stati degli operatori delle cosche a prendere l’agenda, ma che possono essere stati uomini dello Stato che avevano agibilità in quel momento, in quel luogo dell’attentato. Quindi quella sottrazione dell’agenda rossa e quel depistaggio (perché di questo si tratta) dal punto di vista di merito posso immaginarlo, ma dal punto di vista un po’ più generale… Voi avete fatto un quadro che pone grandi domande, che sono domande di merito ma anche domande appunto di quadro. Avete un’idea di chi, non giudiziaria ma più tra virgolette politico istituzionale, di chi può aver avuto interesse a sottrarre l’agenda?
Seconda domanda, mafia e appalti, la dico velocissimamente così. Chi può aver avuto il potere, la possibilità nelle due edizioni (lo dico tra virgolette) del dossier «mafia appalti» che il ROS trasmise, chi può aver avuto il potere di espungere dalla prima delle edizioni consegnate le intercettazioni che riguardavano i politici nazionali?
Terza domanda veniamo al ROS. Mi pare che lei non abbia nella risposta alla domanda del senatore Scarpinato approfondito, anche se lei stesso ha ricordato la testimonianza della signora Agnese circa il generale Subranni, i giudizi drastici che il giudice Borsellino aveva dato sul generale Subranni. Ora la mia domanda è un po’ questa: potevano i colleghi del generale Subranni che avevano lavorato tutti i giorni con lui e visti anche i rapporti, stando a quanto avete detto, del giudice Borsellino con De Donno, con lo stesso Mori la fiducia che lui nutriva nei Carabinieri e quindi anche nel ROS non essersi accorti di questa sua caratteristica che il giudice Borsellino aveva confidato anche ad Agnese?
L’ultima domanda. È stata a lungo tratteggiata la guerra per l’egemonia mafiosa in Sicilia, il ruolo di Totò Riina. Voi che idea vi siete fatti, è possibile ritenere che ci fosse questa guerra per l’egemonia da parte della mafia «contadina» di Totò Riina oppure davvero in quegli anni ci fu un intreccio tra quelle che vennero definite «menti raffinatissime»? Ricordo che stavano cambiando scenari politici nel Paese, scomparivano partiti, ne nascevano altri, si cercavano referenti politici, le mafie cercavano referenti politici e certa politica cercava referenti mafiosi. Da questo punto di vista voi, la famiglia, vi siete fatti un’idea delle connessioni tra quell’azione, lo stragismo, le iniziative delle mafie, gli obiettivi, i beni culturali e le «menti raffinatissime»?
Ho finito con le domande, un ultimo inciso. Questo lo dico non come mio fatto personale. Secondo me lei avvocato nel tratteggiare il quadro ha però commesso un errore, perché in qualche modo, involontariamente credo, ha sporcato una storia che non può e non deve essere sporcata.
Involontariamente può averlo fatto, vogliamo parlare del consociativismo in Sicilia e non solo in Sicilia. Giustamente è un tema, però quando si parla di personalità come Emanuele Macaluso e penso a Villalba, penso a Portella della Ginestra, penso alle sue lotte da ragazzo, penso a Girolamo Li Causi, alla sua amicizia stretta con Pio La Torre, ecco errori ne facciamo tutti, però è una storia che sta dalla parte giusta la sua. Lei ha fatto riferimento a una telefonata. Quella è una storia che fa onore al Paese e non merita quindi riferimenti sbagliati e impropri.


PRESIDENTE. Senatore, io do la parola all’avvocato Trizzino, ricordando a tutti che siamo in sede di domande.


FABIO TRIZZINO

Partiamo dall’ultimo. In quella telefonata si parlava di reati e si va a denunciare, tanto più che il Partito Comunista ha dato vite magnifiche – come quella di Pio la Torre – alla lotta alla mafia, questo per chiarire.
Tanto è vero che nell’interrogatorio successivo, quando gli si chiede conto e ragione di quelle telefonate sono più i non ricordo che le spiegazioni.
Questo per chiarire perché proprio in Sicilia il Partito Comunista ha avuto le sue magnifiche vite che si sono sacrificate, Pio la Torre per primo. Io non sporco niente, io porto atti e descrivo situazioni. Ho dato un giudizio, è vero, ma quello fin quando è possibile credo si possa dare.
Per quanto riguarda tutte le altre domande, l’agenda rossa.
Abbiamo già accennato al fatto che di fronte a un contributo della famiglia Arnaldo La Barbera, nome e cognome, dà la risposta che ha dato.
Abbiamo l’intercettazione di Di Matteo: «Ci sono infiltrati della polizia nella strage di via D’Amelio».
Il depistaggio lo fa la polizia, con il ruolo fondamentale degli alti gradi del Ministero dell’interno.
Ho detto anche che Augusto Lama, su una telefonata di Raul Gardini viene allontanato dal Ministero, viene messo sotto procedimento disciplinare.
Vogliamo parlare di quello che era il sistema? Parliamone.
La parte pubblica, l’Eni, nell’ambito della joint venture Enimont controllata dal sistema penta partitico va a corrompere il presidente del tribunale vicario di Milano.
Questo era il livello della degenerazione, ma nello stesso tempo quel sistema aveva il controllo dei gangli vitali del Paese. Tor di Valle, Catti De Gasperi è un uomo che fa i lavori per il SISDE, ha il Nos.
Ho spiegato, nella mia ampia introduzione, che il sistema dei partiti doveva vendere la pelle a caro prezzo e ha tentato di salvarsi. Ho inquadrato anche in un’ottica soprattutto preventiva, doveva morire anche Di Pietro non dovevano morire soltanto Falcone e Borsellino. E questo lo trovate nel verbale di Di Pietro. Di Pietro doveva morire come Falcone e Borsellino.
La tangente Enimont ancora non è stata scoperta quando muoiono Falcone e Borsellino, questo è un punto chiave. Il colpo mortale glielo daranno poi la tangente Enimont.
Il corpo elettorale il 5 aprile dà un avviso, la Lega arriva al 9 per cento su base nazionale, il 25 per cento in Lombardia che era il polmone vitale della Repubblica sotto il profilo economico.
C’è un malessere di cui parla Scotti nell’ambito del processo Borsellino quater, in una riunione fatta con Vincenzo Parisi e con il generale Pisani.
Nel marzo del ’92 il dottor Grassi di Bologna trasferisce un’informativa al Ministro Scotti dicendo «sta per iniziare una strategia». L’indomani sul giornale spunta che questa informazione al dottor Grassi l’aveva data Ciolini, noto mitomane o giù di lì, per cui Scotti si lamenta del fatto che un’informazione così importante viene subito bruciata, per cui non può fare l’intervento in Parlamento. Gli omicidi, le stragi, hanno anche una funzione preventiva, è l’ultimo tentativo che si fa per impedire il crollo del sistema. E chi è che organizza il depistaggio?
Il depistaggio viene da Roma, immediatamente. Questo emerge dalla storia, specialmente recente, degli atti processuali e delle sentenze definitive, dove si attribuisce grande importanza al movente di «mafia appalti», proprio perché era, come vi dicevo prima, il punto di una rappresentazione alquanto degenerata di un sistema che stava cadendo. Io ho ricordato la notte del 10 luglio, lo 0,006 per cento. Il popolo italiano era inviperito, scoprire che c’era un sistema che si reggeva sull’erosione costante della spesa pubblica con alleanze anche mafiose, e dovremmo anche andare sul tema delle privatizzazioni.
Perché io vorrei ricordare che c’è un atto della Commissione, c’è una relazione del 26 gennaio del 1999 dell’attuale Sottosegretario della Presidenza del Consiglio Mantovano, in cui un sindacalista della Fincantieri viene ad accusare la Fincantieri di avere svenduto ad una società dei Galatolo tutto il patrimonio, le giacenze, ed è quello che aveva accertato Lama, con riferimento all’Imeg e alla Smeg e la valutazione delle giacenze della privatizzazione, perché l’Italia aveva bisogno di liquidità, il sistema dei conti pubblici aveva bisogno di liquidità, pecunia non olet, svendevano le giacenze, questo è.
L’enorme corruzione, l’enorme sistema degenerato che c’era, c’era un clima da Norimberga.
Forse questo non sono riuscito a spiegarlo, quando crolla un sistema è così e il sistema reagisce specie con chi, Falcone, Borsellino e Di Pietro voleva fare le inchieste. E Di Pietro poverino si spaventa, si spaventa quando gli arriva la nota del 16 luglio, gliela comunicano il 22 luglio, con cui dice «guarda il prossimo sei tu», lo prendono e lo portano non so dove, in Costa Rica. Cosa che non fecero con Paolo Borsellino.
Per quanto riguarda Subranni voglio ritornarci, a questo punto sviluppiamo bene questo tema. Borsellino va in ufficio, Borsellino è stato con Subranni. «L’amico mi ha tradito» viene pronunciato il 29 giugno, quindi si tratta di qualcuno che lo ha tradito prima di quella data o un minuto prima di quella data e di quell’ora. Ma se Borsellino avesse saputo che Subranni era un «punciutu» avrebbe fatto tutto quello che ha fatto con lui fino a quasi l’ultimo giorno della sua vita? E poi, io sto difendendo Borsellino non sto difendendo Subranni, sia chiaro. E poi la frase è precisa. Era andato in ufficio, ha parlato con Ingroia, non sappiamo con chi altri ha parlato, perché dice «ho visto la mafia in diretta». Perché mi hanno detto che Subranni è «punciutu»? Cioè ci si muove lungo una linea di delegittimazione del ROS. Tanto più che nella riunione del 14, cosa che ci mancava, Borsellino si fa ambasciatore delle doglianze del ROS rispetto al poco largo respiro del dossier, specie con riferimento all’associazione a delinquere che era costituita dagli imprenditori del dossier. «Ho visto la mafia in diretta perché mi hanno detto» come se io uscendo di qua dico «ho visto perché quello ha detto», quindi è qualcosa che è accaduto nell’ufficio di Borsellino e non si tratta di Schembri, come diceva Agnese, o Messina, perché quelli mafiosi sono e potevano parlare…
No, la mafia in diretta è riferita a qualcuno che gli sta dicendo, di inaspettato… Perché se lo può aspettare da tre collaboratori che gli possano dire che qualcuno è mafioso. No, esce dall’ufficio quel giorno e dice «ho visto la mafia in diretta perché mi hanno detto». Bisogna capire chi ha incontrato e chi gliel’ha detto. Questo è il vero punto.


SALVATORE SALLEMI. Grazie presidente, grazie dottoressa Borsellino, grazie avvocato Trizzino per aver deciso, dopo anni di martirio mediatico, di voler accendere e consentire a questa Commissione di poter accendere un riflettore su quella che è una delle pagine più oscure, più grigie e più tragiche della storia di questa Nazione.
Credo che il compito di questa Commissione sia quello di rigettare il pensiero che ci sia già una realtà costituita, definita, stabilita, a prescindere. Credo che tutti noi commissari abbiamo il compito di capire cos’è accaduto, come si è sviluppato e dobbiamo aprire un cono di luce su quella che è la verità. Capire chi era dalla parte giusta e capire chi era dalla parte sbagliata. Abbiamo trent’anni di storia giudiziaria che ci consentono (come lei ha fatto, avvocato Trizzino) di poter aprire nuove parentesi.
Detto ciò mi accingo a fare domande che ho chiaramente predisposto. Tornando su «mafia-appalti», su Catania, credo che lei abbia toccato l’argomento rispondendo alla domanda del senatore Scarpinato, ma gliela ripropongo per una mia chiarezza maggiore. Cosa le risulta sapesse Borsellino esattamente dell’indagine catanese nello specifico, e le risulta che avesse stabilito dei contatti diretti col PM Felice Lima?
Un’altra domanda che le faccio è cosa può dire sul fatto che Lipera collaborò a Catania e non a Palermo.
Un’altra domanda che mi porto dietro da quando avevo 17 anni, è questa. Non fu intensificata la scorta a Paolo Borsellino, non venne bonificata via D’Amelio il giorno dell’attentato, questo è stato oggetto di mia domanda fatta dal Presidente della Commissione regionale antimafia a un poliziotto audito in commissione. E, soprattutto, la casa di via D’Amelio, 46 non è stata mai perquisita e non sono state svolte indagini su quell’abitazione che era, ci risulta essere, di proprietà o vicina, o riconducibile, alla famiglia mafiosa Buscemi.
È evidente che queste tre cose, sostanzialmente aumentare la scorta, bonificare l’area e controllare quell’immobile, questa vacanza investigativa secondo lei appare importante e fondamentale per risalire alla verità e da che cosa deriva?


FABIO TRIZZINO  

Innanzitutto voglio essere veloce ma ringraziarla per la premessa. Noi qui stiamo proponendo una ricostruzione e abbiamo aspettato trentuno anni per farla, trentuno anni, non tre giorni, quindi se abbiamo preso un po’ di tempo è perché abbiamo dovuto aspettare questi trent’anni.
Non abbiamo una tesi precostituita, stiamo offrendo la nostra ricostruzione poi sarà compito dell’autorità giudiziaria e vostro fare quello che c’è da fare.
Per l’indagine catanese, intanto è lo stesso Felice Lima che dice di parlare con Paolo Borsellino.
Lo riferisce Canale, salvo poi Canale ritornare indietro, tant’è che Felice Lima se ne addolora in seno di audizione del CSM nel 1996. Ma soprattutto, posso dedurre da fatti che trovano una spiegazione non altrimenti, il fatto che il giudice Borsellino, per esempio, incontra il 29 giugno del 1992 a casa sua il dottor Fabio Salamone.
Devo dire che di questo incontro, così come dell’incontro alla caserma Carini, non esiste un’annotazione nell’agenda grigia. Quindi è plausibile, non ho la certezza, può essere che l’annotazione relativa all’incontro segreto con i ROS e l’incontro con Fabio Salamone del 29 sia nell’agenda rossa, in ragione del fatto che un incontro precedente con il dottor Fabio Salamone del 29 aprile del 1992 (che si deduce dall’agenda grigia) e afferente alle indagini sull’omicidio del povero giudice Livatino, era stato segnato nell’agenda grigia. Quello del 29 non c’è.
L’incontro ce lo testimoniano sia Antonio Ingroia, sia la signora Agnese.
In poche parole quell’incontro perché è rilevante? Perché sul ciglio della porta di casa (anche se Salamone nega) il dottor Borsellino dice: «È meglio che te ne vai dalla Sicilia».
Questo è importante perché di Salamone, il primo a parlare, gli stessi ROS non erano riusciti a capire chi era quell’essere più in alto a cui, Catti De Gasperi vittima del sistema, si sarebbe rivolto per avere le rassicurazioni sui passi successivi.
Quindi Salamone viene definito negli interrogatori del 13, 14 e 15 giugno del 1992 da Lipera, ed è questo il momento in cui c’è la deviazione dei progetti omicidiari di Riina con riferimento all’omicidio Mannino, ma si passa ad uccidere Borsellino.
Ce lo dice Brusca che c’è una deviazione che inizia a metà giugno.  
Quindi Salamone viene ricevuto perché Borsellino sa che suo fratello, di lì a poco, sarà coinvolto nelle indagini. Tanto ciò è vero, e lo racconta la dottoressa Camassa il 4 maggio del 2012 nel processo Mauro ObinuMori, ma nella stessa Commissione antimafia della XVII legislatura del luglio del 2017, Bindi, dice che Sinesio, mai sentito credo, Giuseppe Sinesio amico di Paolo Borsellino, uomo che gestiva i collaboratori all’Alto commissariato – io continuo a fare nomi e cognomi come vedete – chiede, subito dopo la morte di Borsellino proprio alla Camassa, se Borsellino gli avesse riferito qualcosa su Salamone. E la Camassa gli dice anche delle confidenze di Mutolo sul dottor Contrada. E poi la Camassa dice:«Io non sapevo che questo era del SISDE, mi sembrava un poliziotto». Quindi Sinesio SISDE, Tor di Valle SISDE, potere di un imprenditore di alzare la cornetta e fare punire un magistrato. D’Acquisto, Lima su Giammanco.  
Quindi perché parla a Catania? Per un motivo molto semplice, perché, e i fatti gli daranno ragione, la stessa procura della Repubblica di Palermo gli darà ragione.
Lui si sentiva… Ha sempre negato tutto, ma vorrei vedere, nemo tenetur se detegere, dicevano i latini e io sono un avvocato. Lui negava l’evidenza.
Per carità è un diritto dell’inquisito di negare l’evidenza, ma il vero motivo è che lui non accettava di pagare per tutti. Perché quella lettera di Rovera, che vi ho fatto vedere, in cui si stabiliscono le strategie commerciali, lo sportello per il finanziamento, poi il progettista, il racket, le combine, quello dice «ma possibile che prendete me che sono l’ultimo, sì importante, agisco in Sicilia, ma io non faccio nulla, sono un nudus minister.
Io agisco per nome e per conto, ma come è possibile pensare che in un sistema così imbrigliato di relazioni» tant’è che nel rapporto si parla della visita che Claudio De Eccher fa all’onorevole Fiorino per ottenere il finanziamento del Consorzio di Bonifica di Gela. Non ci va Lipera con Fiorino per ottenere i finanziamenti e fare acquisire il progetto che fa la stessa Rizzani de Eccher dal Consorzio di Bonifica, perché l’ente appaltante doveva presentare il progetto. Ma glielo faceva l’azienda e questo risulta tutto dal rapporto.
Allora lui dice «io vado a parlare con chi è disposto ad ascoltarmi circa il fatto che io faccio parte di un ingranaggio ben complesso» e comincia a parlare, e racconta il famoso triangolo: imprenditori, politici, pubblici amministratori. Che cos’è questa? Una Tangentopoli gigantesca, in salsa mafiosa però.


LUCIA BORSELLINO

Intervengo per rispondere alla domanda che aveva rivolto sulle misure di protezione. Posso confermare che le misure di protezione per mio padre sono state potenziate soltanto nel periodo successivo alla morte di Giovanni Falcone.
Le macchine di scorta, oltre alla blindata che guidava da sé, molto spesso, erano due.
Una che faceva da guida, poi la macchina blindata e poi un’altra macchina che lo seguiva.
Ragione per cui purtroppo, durante la strage, morirono cinque agenti di scorta; perché ricordiamo che il sesto, Antonio Vullo, è un sopravvissuto.
Posso anche confermare che nessuna misura di protezione aggiuntiva è stata presa per il luogo dove mio padre si recava notoriamente ogni domenica.
Tra l’altro mio padre era una persona molto abitudinaria, quindi tutti conoscevano i suoi principali spostamenti.
Soprattutto, mio padre aveva lamentato il fatto che non era possibile controllare la parte retrostante la nostra abitazione in quanto credo che il terreno (che è immediatamente alle spalle dei garage dove veniva conservata la macchina blindata) era un terreno probabilmente di proprietà di mafiosi e quindi il timore era che appunto potessero addirittura posizionare un esplosivo lì.
Per quanto riguarda la mancata perquisizione dell’immobile di via D’Amelio, 46 da quello che so, dalle notizie che ho appreso solo successivamente perché naturalmente non eravamo così addentro alle questioni, le confermo che non c’è stata una perquisizione di quell’immobile, per quanto fosse stato individuato come la postazione dalla quale poteva osservarsi, tra virgolette, il buon andamento della strage.


PIETRO PITTALIS Grazie presidente. Intanto io voglio ringraziare l’avvocato Trizzino e la signora Lucia Borsellino per il grande, straordinario contributo che danno alla Commissione e mi permetto di osservare che davvero trovo grave l’affermazione che ho sentito, cioè che questo straordinario contributo sporchi una storia. No, questo straordinario contributo fa emergere semmai una verità, quella che bisogna dire è stata (dopo anni spesi anche nella Commissione antimafia) vanificata perché si sono inseguiti probabilmente fantasmi. Allora ecco perché l’audizione sulla informativa «mafia-appalti», su quell’interessante dossier che forse avrebbe dato anche spazi di prosecuzione di indagine, su quelle intercettazioni, che probabilmente avrebbero costituito spunti interessanti anche per aprire nuovi fascicoli.
Però qui io debbo, presidente, aprire una parentesi, perché le domande da parte di qualche componente pongono alla Commissione, che deve unitariamente essere investita del compito di ricerca della verità e dell’accertamento dei fatti, il problema se non vi sia qualche posizione in evidente conflitto di interessi e di opportunità di permanenza nella Commissione antimafia. Questo lo dico per un dovere che ritengo debba essere in cima alla funzione delicata che esercitiamo in una Commissione dove penso che si debbano unire le forze non per offendere gli auditi né per cercare di raccontare un’altra storia.
Vengo subito alla domanda. Io ho ascoltato nella scorsa audizione un riferimento, ma anche in questa, al dottor Pignatone padre. È una circostanza peraltro che si evince dagli atti giudiziari che il padre del dottor Pignatone, all’epoca tra i sostituti procuratori di Palermo, ricoprisse l’incarico di presidente dell’ESPI, una società pubblica della Regione Siciliana che controllava la Sirap, ovvero la grande impresa che allora ha gestito appalti del valore di mille miliardi delle vecchie lire e che aveva a che fare con vicende che potevano essere oggetto di indagine. Il dottor Pignatone secondo lei, avvocato Trizzino, si astenne? C’erano degli aspetti che meriterebbero un approfondimento, anche se a distanza di alcuni decenni, anche per capire l’ambiente palermitano dell’epoca, i contatti, le vicinanze, le parentele che hanno caratterizzato quella stagione? La ringrazio.
Io penso che dovremmo, presidente, ma questo sarà oggetto di dibattito interno, approfondire se del caso ancora, avere il supporto collaborativo dell’avvocato Trizzino, su aspetti che meritano ancora un’approfondita verifica. Grazie.


FABIO TRIZZINO

Io mi limito a rispondere all’onorevole Pittalis rimandando a due atti che ho prodotto come fonti. In uno che è provento di archiviazione della dottoressa Gilda Loforti del marzo del 2000, il problema viene sollevato e la dottoressa Gilda Loforti sostiene che non sussistessero ragioni tecnico-giuridiche ma sicuramente di opportunità. Cioè, anche lì la dottoressa Gilda Loforti solleva un problema di conflitto di interessi, perché la Sirap, che era la stazione appaltante dei famosi mille miliardi di cui parlava Siino, effettivamente era una controllata di due altre società pubbliche, la Fi – Me Finanziaria Meridionale e l’Espi appunto, presidente dell’Espi era il presidente Francesco Pignatone, padre del dottor Pignatone. Il quale, dopo la prima tranche degli arresti del luglio 1991, nel novembre del 1991 abbandona l’inchiesta, l’inchiesta non è più gestita da lui.
Un altro riferimento è sempre contenuto… io riporto quanto contenuto in provvedimenti giudiziari, i mandanti bis occulti, un provvedimento del 2003, quando Giovanni Brusca parla dell’infiltrazione della mafia nel tavolino lui parla di una minaccia che dovette fare al presidente Nicolosi, il presidente della Regione Sicilia, il quale a detta di Brusca impediva, attraverso la consulenza di un avvocato fratello del dottor Pignatone, alle società di Brusca di entrare nel tavolino. Ma lì faceva bene, perché sostanzialmente impediva l’infiltrazione mafiosa. Questi sono i riferimenti che vengono contenuti e riferiti al dottor Pignatone.
Ripeto, si parla di conflitto di interesse, ma non sotto un profilo strettamente giuridico ma di opportunità.


GIUSEPPE PROVENZANO. Grazie presidente. Anch’io mi unisco ai ringraziamenti. Io credo che lo Stato e le istituzioni abbiano un debito nei vostri confronti e nei confronti di tutta l’opinione pubblica e che questa Commissione possa provare, anche alla luce di questa audizione, a colmare parte almeno di questi debiti. Proprio il rispetto per il lavoro approfondito che avete fatto e che ci avete restituito con questa ricostruzione mi impone di porre alcune domande, anche qualora queste domande possano apparire non elegantissime.
La prima ha a che fare proprio con il tema del generale Subranni, perché dalla sua ricostruzione, avvocato, mi pare di poter dire (ma mi corregga se sbaglio, e questa è la domanda) se lei sta offrendo un’interpretazione diversa rispetto a quella che ha fornito Agnese Borsellino nel processo Borsellino quater nel quale, da quello che abbiamo sentito anche qui, mi pare che con grande chiarezza Agnese Borsellino dica che la notizia dell’affiliazione mafiosa di Subranni era stata recepita da Borsellino come un fatto certo e non come un tentativo di delegittimazione mafiosa, come mi pare lei, nell’interpretazione che qui ha fornito, tende ad accreditare.
La seconda questione invece riguarda un punto che a mio avviso è importante, anche perché legato al tema dell’agenda rossa. Lei ha ricostruito un particolare su cui almeno io credo, pur avendo letto tanta letteratura sulle vicende mafiose, su cui si è riflettuto abbastanza poco, cioè sul fatto che Rocco Chinnici teneva un diario, così come lo teneva Giovanni Falcone, le famose annotazioni, e che riconduce anche all’agenda rossa di Paolo Borsellino, all’importanza di tenere quell’agenda anche alla luce di esempi che poteva aver avuto in magistrati verso i quali nutriva stima e affetto.
Le annotazioni di Falcone, che hanno un’importanza cruciale a mio avviso nella sua ricostruzione, che immagino riportino accenni al sistema partitocratico su cui lei qui sta affondando molta della sua interpretazione della vicenda, cioè la crucialità del dossier «mafia-appalti», la Tangentopoli in salsa mafiosa, come l’ha definita, che è cruciale. Eppure quelle annotazioni danno un’importanza altrettanto rilevante a un tema che poi invece è scomparso completamente nella sua ricostruzione, che è Gladio. La domanda è se dal suo punto di vista Borsellino non riservasse la stessa importanza a quell’elemento, perché nella sua ricostruzione poi improvvisamente Gladio viene in ombra.
A un certo punto, credo nella prima delle sue interpretazioni, e questa è la terza domanda, avvocato, ha accennato all’informativa Cavallo.


FABIO TRIZZINO Caronte.


GIUSEPPE PROVENZANO. Allora gliela ricordo io. Un’informativa Cavallo su cui la procura di Caltanissetta, proprio nei mesi scorsi, ha incentrato una richiesta di arresto su una possibile pista legata alla presenza di Delle Chiaie in Sicilia nei mesi precedenti la strage. In quella richiesta si accenna anche a un riferito incontro tra il pentito Lo Cicero e Borsellino, poco prima della morte di Borsellino. Ecco, su questa pista io volevo capire se nella sua lunga ricostruzione, nel suo lungo studio ha trovato delle lacune investigative nel corso della sua analisi.
Quarta domanda, sempre un po’ riferita a questa. Si è molto concentrato sulla vicenda della procura di Palermo, poi c’è tutto un filone che ha sviluppato oggetto anche di studio e di analisi in questa Commissione sulle indagini politiche fatte da quella procura su politici dopo il 1993. Mi pare che invece manchi nella ricostruzione, se non sbaglio, un approfondimento sulla procura di Caltanissetta. Cosa avviene alla procura di Caltanissetta?
Questo io credo sia utile a questa Commissione. Perché, vede (e chiudo su questo), lei intreccia nella sua ricostruzione elementi di ricostruzione storico-politica molto importanti, che meritano una riflessione a parte, con elementi di ricostruzione giudiziaria procedurale, che meriterebbero un altrettanto significativo approfondimento.
L’intreccio tra queste due questioni, pur necessario al raggiungimento di una verità possibile su quella vicenda, comunque impone uno sforzo e anche una precisione.
A proposito di questo io credo che l’onorevole Pittalis non abbia minimamente inteso quello a cui si riferiva l’onorevole Verini a proposito di sporcare la memoria di alcuni personaggi citati nella sua ricostruzione, credo che Pittalis non abbia capito a cosa si riferisse l’onorevole Verini, ma io le faccio una domanda su questo.
Lei è a conoscenza del fatto che Emanuele Macaluso, che lei ha citato a proposito di intercettazioni che riguardavano l’ufficio di Ciancimino nella sua ricostruzione, è stato il primo accusatore politico di Ciancimino come mandante politico dell’omicidio di Pio La Torre, che abbia fatto queste accuse nei confronti di Ciancimino molto prima che indagini giudiziarie sfiorassero la figura di Vito Ciancimino all’apice della sua potenza politica e della sua capacità di organizzazione di gestione di quel sistema politico-mafioso che in Sicilia ha portato poi all’affermazione dei Corleonesi e della loro strategia mafiosa?


PRESIDENTE. Grazie onorevole Provenzano. Prego, avvocato Trizzino.


FABIO TRIZZINO

Temo di non essermi spiegato. Visto che si ritorna sulla figura di Emanuele Macaluso, il problema non è Macaluso, il problema è l’interlocutore di Macaluso: Mimì la Cavera.
Allora andiamo per ordine. Per quanto riguarda la Gladio…


GIUSEPPE PROVENZANO. Su Subranni.


FABIO TRIZZINO

Su Subranni vuole rispondere Lucia. Io debbo dilungarmi un pochino perché le cose che lei ha sollevato sono importanti.
Per quanto riguarda Gladio, gli appunti sostanzialmente dimostrano che Falcone voleva indagare e Giammanco prende tempo. Lui vuole il contatto con il giudice Andrea, vuole il contatto con Priore.
E chi è che mette sempre il solito tappo? Giammanco.
Ma la cosa interessante è che poi nell’ambito… Io rinvio alla lettura dalla pagina 1547 dell’ordinanza sentenza delitti politici, in cui Falcone affronta l’indagine su Gladio e risolve il problema dicendo che con riferimento… Allora, pagina 1550 dell’ordinanza sentenza a firma del dottor Falcone sui delitti politici. Con riguardo alla Gladio è opportuno ricordare, poi, che ulteriori accertamenti documentali sono stati compiuti dall’ufficio del PM di Palermo nell’ambito di un diverso procedimento riguardante l’omicidio di Giuseppe Insalaco.
Se lei ricorda, nelle annotazioni c’era il problema se inserire l’indagine su Gladio nel momento in cui, finita l’istruzione formale, i pubblici ministeri stanno redigendo la requisitoria finale, si pone un problema che viene risolto nel senso che i magistrati che stavano stipulando la requisitoria finale dicono: «Noi abbiamo già un’impostazione, se mettiamo pure Gladio qui non ne usciamo più, quindi mandiamo il discorso del rinvio al giudice istruttore di ulteriori indagini con riferimento all’omicidio di Insalaco che è ancora contro ignoti». Ce lo spiega benissimo il dottor Guarnotta il 2 dicembre del 1998 al processo Borsellino ter.
A che conclusione arriva Falcone? Falcone dice: «In tale sede» – cioè nell’ambito del procedimento per Giuseppe Insalaco – «l’esame della documentazione completa concernente tutte le persone inserite nella struttura, o anche semplicemente valutate per un eventuale inserimento, ha consentito di escludere l’esistenza di alcuna relazione con i temi e le persone costituenti oggetto del presente procedimento.
In tal modo, come si è già detto nella parte relativa all’omicidio dell’onorevole La Torre, si è pure venuto incontro a una specifica richiesta del Partito Comunista PDS».
Quindi Falcone fa le sue indagini su Gladio, ma nel fare le sue indagini, ne dà contezza nell’ambito della stessa ordinanza sentenza, accede al Sisde e Falcone dice: «Ho avuto la massima collaborazione dal Sisde anche in relazione a questa indagine su Gladio». E arriva alla conclusione che poi trasfonde in un’audizione alla Commissione parlamentare antimafia del 1990, desecretata da poco, in cui dice: «Nell’88 ancora dovevo indagare e pensavo che effettivamente, con riferimento ai delitti politici, ci potesse essere una sorta di incontro tra la mafia e l’eversione.
Ora indagando, facendo tutte le indagini sulla Gladio, sul Sisde eccetera, io escludo…» – E lo dice Giovanni Falcone, non lo dico io, e parla con riferimento agli omicidi politici di delitto politico-mafioso. – E dice: «L’omicidio del compiantissimo presidente della Regione Siciliana Piersanti Mattarella avviene in un momento in cui ci sono tutti i prodromi e si sta preparando la guerra di mafia». Qui noi abbiamo una commissione spaccata, abbiamo da una parte gli Inzerillo e i Bontate, dall’altra un Riina che sta facendo proseliti all’interno della commissione, perché nell’aprile del 1981 partirà la seconda guerra di mafia.
Siccome l’omicidio di Piersanti Mattarella interessava a una parte di cosa nostra, precisamente all’ala corleonese referente a Ciancimino, cosa ipotizza Falcone? Ipotizza che, siccome l’ala che sarà poi perdente non era interessata all’omicidio di Piersanti Mattarella, è stato possibile che Salvatore Riina potesse appaltare l’esecuzione del reato a dei terroristi del NAR, ed esce fuori la cosa di Fioravanti. Sul punto dobbiamo dare atto che le inchieste sui NAR in relazione all’omicidio Piersanti Mattarella credo si siano risolte con una assoluzione dei terroristi dei NAR.
In più voglio dire che Buscetta e lo stesso Marino Mannoia dissero che mai e poi mai Salvatore Riina avrebbe affidato l’esecuzione di un delitto così importante a un terrorista sia di destra che di sinistra. Perché? Perché con Riina si rompono i parametri con cui noi dobbiamo interpretare cosa nostra.
L’anno zero per cosa nostra è l’arrivo di Salvatore Riina.
L’anno zero nel senso che poi la distruggerà fondamentalmente col suo modo di fare.
Salvatore Riina in quel torno di tempo, sono quasi dodici anni, in cui compie l’impossibile a Palermo (la guerra di mafia, l’omicidio dalla Chiesa, tutto quello che è successo), Salvatore Riina si fida solo della sua Falange Armata, il suo esercito che per lui è fondamentale.
Riina non appalta a nessuno.
Certo, può essere rinforzato nel proposito, quello sì. Abbiamo un problema, perché io non voglio eludere le domande, abbiamo la testimonianza di Spatuzza che ci dice che c’è un soggetto che non ha mai conosciuto al momento del riempimento dell’esplosivo a via Villasevaglios dell’autovettura.
Ma questi sono elementi che ancora sono in corso di accertamento. Quindi su Gladio io credo che Falcone sia tranciante, a un certo punto, dice: «Io ho indagato, ho fatto le indagini ed escludo che Gladio possa essere interessata nell’ambito dei delitti politici svolti a Palermo».
Sulla procura di Caltanissetta, onorevole Provenzano, non ho aperto questa maglia perché altrimenti avrei dovuto parlare tre giornate di fila. Non ha detto: «La caserma Carini è un “nido di vipere”, ha detto “il mio ufficio”».
Io amo i dettagli. Se uno dice: «Un amico mi ha tradito» e dopo un secondo dice: «Qui è un nido di vipere» ma perché andare a cercare Subranni? O meglio, cerchiamolo Subranni, ma cerchiamo anche dentro quell’ufficio se c’è lì il traditore. Io sto difendendo proprio la memoria di Paolo Borsellino. Dico, dobbiamo contestualizzare, è il 29 giugno che dice questo.
E ve l’ho dimostrato che bella giornata ha passato il 29 giugno del 1992 il dottor Borsellino.
Non ha detto: «La caserma Carini è un nido di vipere», ha detto: «Il mio ufficio».
Allora dobbiamo chiederci se in questi anni c’è stato il tentativo di allontanare e di allocare altrove il traditore. Questo è il punto che io offro come oggetto dell’approfondimento.


LUCIA BORSELLINO

Sulla questione Subranni anche la dichiarazione di mia madre è stata oggetto di sentenza passata in giudicato, si è formato un giudizio sulla persona del generale Subranni che chiaramente non sta a noi ribaltare.
Per noi fu un fatto estremamente sconcertante, tra l’altro apprenderlo da mia madre.
Perché fin quando mia madre non ha fatto questa dichiarazione a noi non aveva dato alcuna memoria di questo fatto.
Lei lo ha anche detto perché lo ha fatto solo nel 2009, intanto per non adombrare sospetti sull’Arma, non avendo chiaramente altre testimonianze se non quella che gli aveva reso mio padre nello sfogo del 15 luglio.
Ma ancor più non l’aveva detto a noi per non metterci in difficoltà.
A me quella dichiarazione ha reso uno sgomento pari a quello che evidentemente avrà provato mio padre nel momento in cui gli hanno riferito questo fatto.
Però, ripeto, questo fatto ha formato un giudizio che non siamo certamente noi a ribaltare, noi siamo qua nel pieno rispetto delle sentenze che si sono formate e per cercare di ricostruire tutti i passaggi che hanno condotto mio padre alla morte dalla data in cui Giovanni Falcone è stato ucciso.
Questo era l’oggetto della nostra ricostruzione, al netto di quanto già si è consolidato nelle sentenze, che in questa ricostruzione sono tutte rispettate.
Questo ci tengo a dirlo. Soprattutto, anche con riferimento a quello che abbiamo detto, ancorché desumibile dagli atti, lo ribadisco ancora una volta, noi gradiremmo essere smentiti.
Perché per noi questa è una storia veramente assurda, non accettabile in uno Stato di diritto. È una storia assurda. Qualora fossimo smentiti, presidente, noi verremmo qua a chiedere scusa.


FABIO TRIZZINO

Un’ultima cosa, onorevole Provenzano, su Macaluso.
Perché sono stato così duro l’altra volta? Perché nell’informativa Sirap… Verbale 2009, il primo verbale di Agnese, contestualizza preciso e dice: «Perché mi hanno detto», quindi il mafioso per Paolo Borsellino è chi glielo ha detto.


GIANLUCA CANTALAMESSA. Grazie presidente, grazie agli auditi.
Io ho bisogno di fare una premessa sull’ordine dei lavori.
Già in ufficio di presidenza avevo paventato il rischio del conflitto di interesse del senatore Scarpinato in questa audizione, di essere citato più volte dagli auditi ed essere un commissario.
Il fatto che questa Commissione, ponendo delle domande, si ponga nei confronti degli auditi come se fossero dei testimoni in un processo penale è semplicemente inaccettabile, a tutela dell’Istituzione che è questa Commissione e della sacralità laica che rappresenta questa Commissione.
L’avevo paventato in ufficio di presidenza e purtroppo il rischio si è verificato per il tramite di domande dirette o forse anche indirette poste ad altri colleghi.
Ciò premesso, volevo dire che ho l’onore di far parte di questa Commissione da qualche anno e sono poche le giornate che hanno riempito di valore e di significato questa Commissione. La vostra audizione è tra queste giornate.
Altra cosa, e me ne assumo la responsabilità personale, trovo vergognose le dichiarazioni del dottor Petralia in merito alla figlia del dottor Borsellino.
Ciò premesso, volevo fare due domande all’avvocato Trizzino.
Lei ha parlato del conto Gabbietta, ma non ho sentito bene a che proposito ne ha fatto riferimento.
La seconda domanda, si è parlato di appunti Falcone da 15 a 39, lei ne ha letto qualcuno qui. Si sa dove sono gli altri, c’è traccia?
Poi una domanda alla signora Borsellino. I rapporti tra suo padre e Falcone dopo il trasferimento di suo padre a Marsala e dopo quello del dottor Falcone a Roma si sono modificati? Grazie.


PRESIDENTE. Grazie, senatore Cantalamessa. Prima di dare la parola all’avvocato Trizzino, per chiarire a tutti coloro i quali non erano in ufficio di presidenza che il tema era stato posto e che io, e mi assumo la responsabilità di questo, ho risposto che non avevo gli strumenti per valutare questa incompatibilità perché mai avvenuto prima e che quindi questa era una riflessione che doveva spettare all’interessato o al gruppo dell’interessato. Fermo restando che, come ho sottolineato e come poi ho fatto, sono intervenuta nel momento in cui ho avuto la sensazione che non si stesse più svolgendo una normale domanda ma un tentativo per l’appunto di interrogare.
Prego, avvocato Trizzino.


FABIO TRIZZINO

Per quanto riguarda la prima domanda, il riferimento al conto Gabbietta, non è nient’altro che una nota contenuta nel provvedimento – richiesta di archiviazione – Mandanti occulti bis.
È una nota 23, a pagina 9, della richiesta Mandanti occulti, in cui il dottor Lama, interrogato nell’ambito di quel procedimento in relazione alla famosa vicenda Imeg Smeg di cui alla distruzione eccetera, il dottor Lama sentito a Caltanissetta dal verbale del 19 aprile del 1994 di Giuseppe Bellini, tesoriere occulto del gruppo Ferruzzi dinanzi al PM dottor Lama, quindi è una nota che riprende… nel discorso i giudici dicono «il dottor Lama ha rievocato» e quindi c’è la nota.
Dice: «Si apprende che il ricavato della vendita della Imeg (ai Buscemi fondamentalmente) servì per ripianare le perdite della società del gruppo Ferruzzi e parte dell’attivo fu utilizzato a luglio 1991 per pagamenti a un uomo di affari greco e in altre direzioni, fra cui versamenti al noto Primo Greganti attraverso il cosiddetto conto Gabbietta».
È una nota che trovate in un provvedimento che io vi ho prodotto agli atti.
Le annotazioni l’ho già spiegato ampiamente, sono 39, riscontrato dalla Sabatino e questo è il punto fondamentale, e devono essere in seno all’autorità giudiziaria che si occupa della strage di Capaci, quindi Caltanissetta.


LUCIA BORSELLINO

Rispondo alla domanda che mi ha posto.
Mio padre adorava Falcone, penso di non potere usare un termine diverso. Ne aveva una stima incondizionata.
Fin dal momento in cui si trovarono a lavorare insieme all’interno dell’ufficio istruzione di Palermo, quella collaborazione e intesa perfetta sul piano professionale non si è mai arrestata, anche quando mio padre ebbe quella lunga parentesi alla procura di Marsala e anche quando Falcone ebbe fino alla sua morte la sua permanenza a Roma. 
Di questo ne siamo testimoni come familiari, nella misura in cui papà si rammaricava, anche molto, di non avere potuto avere sul piano umano quella stessa intensità di rapporti che vi era sul piano professionale, perché erano due persone talmente assorbite dal loro lavoro che il suo rammarico era appunto quello di non avere potuto anche fruire dell’amicizia di Giovanni sotto un aspetto più familiare.
Questo è stato un rapporto molto espresso anche dall’amicizia tra mia madre e Francesca Morvillo, che si è intensificato ancor più dopo quella che noi definiamo quasi una deportazione, anche se chiaramente il termine è molto forte, all’Asinara, è stato l’unico aspetto veramente positivo di quella vicenda, che ci ha portato ad avere una sorta di convivenza proprio all’interno della stessa abitazione, quindi quello ci ha consentito anche di intessere dei rapporti umani ancora più forti dal punto di vista familiare.


FABIO TRIZZINO

Ho bisogno di intervenire di nuovo perché ho eluso una domanda dell’onorevole Provenzano riguardante Alberto Lo Cicero e Maria Romeo.
Alberto Lo Cicero ha avuto il coraggio di dire davanti al tribunale di Palermo, e chi fu presente notò la reazione del presidente Ingargiola, che Totò Riina baciava le mani a Mariano Tullio Troia.
Maria Romeo è interessata da quella indagine, del provvedimento del GIP con cui vengono arrestati questi soggetti. Maria Romeo viene definita una sorta di soggetto assolutamente non attendibile in quanto da tanti anni cerca di ottenere, proponendo ricostruzioni fantasiose, il programma di protezione.
Quindi sono due testi che sono lontani anni luce rispetto ai testi che vi ho portato io in questa sede.


PRESIDENTE. Grazie. Prima di chiudere i lavori e valutare quando aggiornarli in altra sede, ci tengo a chiudere ringraziando sia la dottoressa Borsellino che l’avvocato Trizzino, perché se quello che abbiamo fatto fino a qui è stato per voi molto doloroso noi vi dobbiamo delle scuse perché in alcuni casi vi è sembrato di dover rivivere tutto.
Chiedo a me stessa e a voi commissari di non stare in questa sede con i presupposti di difendere quel nostro o vostro riferimento.
Il giudice Borsellino ci ha lasciato l’insegnamento, da gigante morale quale era, di perseguire fino alla fine la giustizia, qualunque persona coinvolga e qualunque cosa questo comporti.
Io, con il rispetto che devo a chi siede a fianco a me, intendo proseguire così.


 

24.10.2023

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito dell’audizione di Lucia Borsellino e Fabio Trizzino, ai quali do il benvenuto, e che ringrazio ancora per la non scontata disponibilità.
Ricordo che la seduta odierna si svolge nelle forme di audizione libera ed è aperta alla partecipazione da remoto dei componenti della Commissione. I lavori potranno proseguire in forma segreta a richiesta dell’audito o dei colleghi. In tal caso non sarà più consentita la partecipazione da remoto e verrà interrotta la trasmissione via streaming sulla web-tv.
Diversi colleghi si sono già iscritti a parlare già dalla volta precedente, quindi procedo ad annotare le nuove iscrizioni. Do la parola al senatore Rastrelli.

SERGIO RASTRELLI. Grazie presidente, mi consenta di associarmi anche personalmente ai ringraziamenti del presidente per la vostra rinnovata disponibilità con quel carico di sofferenza che certo comporta e mi lasci dire che la vostra audizione nobilita e dà un senso particolare al nostro mandato parlamentare. Noi siamo tra coloro che ritengono che il diritto alla verità, di cui avete parlato, non sia una ossessione della famiglia o dei familiari delle vittime, ma un diritto che appartiene all’intera comunità nazionale. La verità di cui parliamo, quella sulla morte del dottor Borsellino, purtroppo è stata ostacolata, e questo è di tutta evidenza, non soltanto da indagini o accertamenti non particolarmente approfonditi, ma anche da veri e propri depistaggi, nell’ambito dei quali naturalmente spicca quello che è stato definito il più grande depistaggio della storia nazionale. Quello su cui si innestano poi i processi di Caltanissetta e la dinamica Scarantino.
La mia domanda è rivolta specificamente all’avvocato Trizzino, perché mi ha colpito una sua dichiarazione quando è giunto a sostenere che la logica del depistaggio ha addirittura preceduto la morte del dottor Borsellino, quindi le sarei grato se potesse chiarire questo specifico pensiero. Restando al tema del depistaggio e alla collaborazione di Scarantino, vorrei sapere se loro hanno avuto modo in qualche modo di dubitare della veridicità delle sue dichiarazioni ancora prima della divulgazione delle dichiarazioni di Spatuzza. Grazie.

PRESIDENTE. Se per lei va bene, avvocato, farei intervenire un paio di colleghi, così riesce a rispondere più fluentemente. Ho iscritto l’onorevole Tenerini.

CHIARA TENERINI. Grazie presidente. Anche io mi associo ai ringraziamenti all’avvocato Trizzino e a Lucia Borsellino per queste audizioni che ci hanno aperto una prospettiva importante, anche per il carico umano ed emotivo che abbiamo percepito, almeno che io ho percepito, in queste lunghe ore e la necessità di arrivare quanto meno alla verità di una vicenda che riguarda tutti gli Italiani, sapendo ed essendo cosciente personalmente che vivere all’ombra di questa verità, di qualsiasi verità, non è facile. Questo lo so per esperienza personale. Rispetto a quanto lei ci ha raccontato in queste lunghe audizioni vorrei soffermarmi su una questione che lei ci ha già abbastanza specificato ma che vorrei in qualche maniera rendere più evidente.
Dagli atti si evince, ed è circostanza storica nota, che il dottor Borsellino, nella fase che precedette la strage di via D’Amelio, si incontrava con gli esponenti dei carabinieri del ROS che conducevano l’inchiesta mafia-appalti in una caserma dei carabinieri, pur potendoli ricevere più agevolmente in procura. Come mai il dottor Borsellino si recava nella caserma dei carabinieri? Probabilmente non si fidava dell’ambiente della procura? In questo caso le interpretazioni cervellotiche che hanno portato i processi sulla cosiddetta trattativa conclusi con l’assoluzione piena degli esponenti dei carabinieri verrebbero ribaltate. La mancanza di trasparenza e di fiducia riguardava la procura o l’Arma dei carabinieri? Grazie.

FABIO TRIZZINO

legale di Lucia, Manfredi e Fiammetta Borsellino. Per quanto riguarda il depistaggio devo dire che nel processo ci siamo battuti, appunto in considerazione dell’immediatezza dell’esecutività delle azioni depistatorie, a porre la questione in termini strettamente logici, prima ancora che giuridici perché, se il depistaggio inizia con la mancata repertazione della borsa (un trattamento della borsa del dottor Borsellino come se fosse qualcosa che non andava, invece, attenzionata, come è previsto dai protocolli, anche un uditore giudiziario, appena superato il concorso in magistratura in via Arenula, se gli aveste chiesto cosa avrebbe fatto lui della borsa di Paolo Borsellino l’avrebbe repertata, con tutto il contenuto), e al di là della borsa, essendo iniziato immediatamente il depistaggio, bisognava, in qualche modo, dimostrare che c’era una preordinazione ex ante. Tant’è vero che la sentenza del tribunale di Caltanissetta, accogliendo la nostra impostazione, afferma a chiare lettere che tra il depistaggio e l’esecuzione della strage vi è una correlazione diretta. Quindi, come vedete, è stata accolta la nostra impostazione, ma perché è nella logica dei fatti. La nota con cui il dottor Pansa chiede al dottor Petralia il 20 luglio di non acquisire il traffico in entrata del dottor Borsellino non ha senso da un punto di vista del rispetto del protocollo delle indagini. Come, d’altra parte, la risposta immediata che il dottor La Barbera diede a un’indicazione neutra della famiglia, per il tramite di Caponnetto (con un’Ansa del 24 luglio Caponnetto si fa latore dell’ambasciata della famiglia circa l’esistenza di un’agenda rossa). Io non vedo il motivo, se non in un’ottica strettamente depistatoria, di respingere immediatamente al mittente questa indicazione neutra, un contributo di indagine, dicendo: l’agenda rossa, se c’era, è sparita, o è andata distrutta nel corso dell’esplosione. Cioè, vi sono elementi che da subito, oggi valorizzandoli, ci dicono che il depistaggio è iniziato immediatamente e non il 24 giugno del 1994 come, nel corso delle sue domande, il senatore Scarpinato ha detto ponendolo in correlazione col fatto (domandando come si concilia con il fatto) che Scarantino inizia a parlare il 24 giugno? Scarantino inizia a parlare il 24 giugno perché, come sappiamo, inizia il forcing su Candura. Ma abbiamo la nota del 13 agosto del 1992, con cui il Sisde, con cui il colonnello Ruggeri dice: «da informazioni acquisite dalla squadra mobile di Palermo noi conosciamo non solo l’autore, ma anche il luogo dove è stata ricoverata la macchina per l’imbottitura dell’esplosivo». E al 13 agosto se potevano essere valorizzate le dichiarazioni della Sbigottiti e di Pietrina Valenti, cioè la proprietaria della 126, con riferimento all’indicazione di Totò Candura, del luogo in cui la macchina è stata imbottita, non si capisce da dove lo prendono.
E poi, vedi caso, quel luogo viene indicato nel canovaccio, nello spartito fatto recitare a tre attori assolutamente incapaci di reggere la scena, come Candura, Andriotta e Scarantino, che si inseguono costantemente nella circolarità delle informazioni che vengono trasmesse dalla Polizia di Stato, o meglio da alcuni funzionari del gruppo Falcone-Borsellino. Quindi il depistaggio nasce immediatamente, oserei dire alle 16.59 del 19 luglio, ma non lo voglio dire. Sicuramente quella nota del 20 è inspiegabile. Non acquisire il traffico in entrata del dottor Borsellino è un vulnus alle indagini che si spiega soltanto nel tentativo di nascondere qualcosa che non doveva essere reso ostensibile. Quindi credo di avere risposto. Il tribunale di Caltanissetta in primo grado dice: «Non c’è ormai più dubbio, sulla base di quello che è stato riversato in atti, che tra il depistaggio e l’esecuzione della strage c’è un diretto collegamento».
Poi, per quanto riguarda l’incontro alla caserma Carini, io credo di avere spiegato abbondantemente come il dottor Borsellino abbia vissuto il suo inferno (prima ancora, poi spero il paradiso, per quanto riguarda il resto) il suo inferno lo ha vissuto anche in seno alla procura della Repubblica. Vi prego di valorizzare l’audizione della dottoressa Falcone che dice: «Paolo mi disse di avere scoperto cose tremende». Il 23 giugno. E le mette in relazione, la stessa dottoressa Falcone, con Giammanco. È ovvio.
Ho dimostrato che il dottor Borsellino ha dovuto interrompere il flusso delle comunicazioni e ne ha fatto confidenza a Ingroia, a Teresi e al dottore Scarpinato, che sapevano che il dottor Borsellino aveva deciso di venir meno al dovere di lealtà, che ha sempre connotato la sua azione di magistrato. Quindi c’erano problemi seri.
La necessità di un incontro alla caserma Carini nasce dal fatto che allo stato il dottor Borsellino non si fidava della procura di Palermo e, segnatamente, in primis, del suo capo. Fa un incontro carbonaro, l’ho definito, con il rischio di subire anche un procedimento disciplinare. Per questo l’incontro è estremamente rapido, perché non ha la titolarità formale neanche per fare quelle indagini. Ma lui è arrivato a fare queste forzature, io invoco lo stato di necessità, per evitare un pericolo a sé mortale, che comunque non è riuscito ad evitare. Quindi i fatti sono lì.
A meno che, come si tenta più volte di dimostrare, Falcone e Borsellino erano degli incapaci. Per carità erano fallibili anche loro, non erano perfetti, il dottor Borsellino pure avrà fatto i suoi errori, ma chi lo mette in dubbio? Ma non c’è dubbio che agli occhi della mafia, di cosa nostra, e di quel grumo di interessi politici e imprenditoriali che attorno alla mafia facevano azioni di contiguità e di collusione, sia Falcone che Borsellino erano sempre stati considerati degli acerrimi nemici perché erano professionalmente validi. Si attenevano a ricostruzioni fattuali. Volevano afferrare le prove. E quante volte hanno dovuto scarcerare persone di cui, pur sapendo, per esempio, lo spessore di killer, li hanno dovuti scarcerare perché non avevano le prove. È giusto che i giudici tornino a fare i giudici e si occupino di prove e di fatti. Io credo nei fatti che il giudice Borsellino avesse fiducia nei confronti del ROS e non nei confronti del capo della procura e, non lo so, di alcuni fedelissimi.
Fondamentalmente io chiedo alla Commissione di acquisire l’audizione segreta del maresciallo Canale resa davanti al presidente Del Turco in Commissione, in cui Canale addirittura stava facendo dei nomi di alcuni magistrati della procura di Palermo di cui il dottor Borsellino sospettava. So che questa audizione probabilmente è segreta, ma io credo che la Commissione abbia il potere, comunque, di visionare questa audizione.  
E vedrete che Del Turco lo blocca, ma non perché lo vuole bloccare, perché gli dice: «Stia attento a quello che dice, perché lei si limita a riportare una confidenza del dottor Borsellino». Benissimo, oggi voi avete tutti gli elementi perché quella confidenza venga innestata, si innesti in una serie di circostanze documentali e fattuali incontrovertibili.
Per quanto riguarda, invece, il fatto se noi abbiamo creduto o meno a Scarantino, è questo il senso del grande tradimento e del grande dolore che noi soffriamo oggi. Noi ci siamo affidati alle istituzioni. Da quando nel 2015 ho cominciato a leggere tutti gli atti, io lo dico chiaramente, quello che hanno combinato i magistrati che hanno indagato su Scarantino, Andriotta e Candura, dal mio punto di vista, professionalmente, è qualcosa di inenarrabile. E non mi si venga a dire il contesto, non contesto. Perché quando si sceglie deliberatamente di non depositare per trentatré mesi, cioè per quasi tre anni, il confronto tra Scarantino e Cancemi, in cui Cancemi smentisce Scarantino, non sui fatti, ma sulla stessa possibilità antropologica che uno come Scarantino potesse far parte e assumere un ruolo, quale che sia, all’interno di una delle più eclatanti stragi della storia della Repubblica denota come minimo la mancanza di capacità di conoscere le dinamiche di cosa nostra. Quel confronto in cui addirittura Cancemi invoca e dice ai magistrati: «Per favore, io sono la mafia ma voi siete lo Stato, non vi potete fare prendere in giro da uno così». Ebbene, Scarantino è stato stradifeso nella sua versione. Gli avvocati degli imputati mafiosi hanno condotto una guerra senza sconti, perché il depistaggio è stato sì preordinato bene, ma poi alla fine è stato abbastanza grossolano, perché gli attori a cui è stata data la parte da recitare erano veramente scarsi. Solo che gli avvocati dei mafiosi erano mafiosi e i magistrati invece … No? E tutti siamo caduti in questo tranello terribile. Per cui oggi io non ho alcun timore ma, per un atto di onestà intellettuale, vi devo dire che nell’ambito del processo Borsellino 1 e bis, chi ha difeso la toga del giudice Borsellino sono stati gli avvocati. E ancora io sto aspettando che qualche magistrato scriva l’elogio degli avvocati, perché noi avvocati, specialmente con riferimento alla ricostruzione di quella stagione stragista, abbiamo svolto un ruolo come minimo paritario a quello dei magistrati.
Quindi noi ci siamo affidati alle istituzioni, e le istituzioni ci hanno confezionato delle sentenze che a leggerle ancora oggi io inorridisco. Però la fiducia nella magistratura, nelle istituzioni, va sempre mantenuta intatta. Perché quella stessa magistratura, che ha confezionato quei mostri, poi si è messa a lavorare per restituire alla Nazione, e a noi ovviamente, una ricostruzione più plausibile. Quindi noi la fiducia l’avremo finché moriremo, perché tradiremmo noi per primi l’esempio di Paolo Borsellino. Però se lei mi chiede se abbiamo dubitato, non potevamo dubitare delle forzature incredibili che sono state fatte in quell’altro monastero, che è la procura della Repubblica retta da Giovanni Tinebra. E su questo vi devo dire che mia moglie ha da raccontare un episodio che è emerso. Qualche warning noi l’abbiamo avuto, ma non potevamo pensare a tutto questo. E su questo credo si attarderà Lucia.

LUCIA BORSELLINO

C’è stato un episodio che ci ha un po’ inquietato, tra l’altro rievocato da un testimone nel corso del dibattimento del processo Borsellino quater ordinario.  
Si trattava del mio fidanzato all’epoca dei fatti in cui, appunto, è stata compiuta la strage che ha portato alla morte di mio padre, il quale, per le ragioni legate al fatto che in casa mia non si viveva più all’indomani della strage, lui di fatto rimaneva a casa nostra fino a tarda sera. Si trattava, peraltro, di un poliziotto, di un agente di Polizia in servizio presso la Polizia scientifica di allora. Ebbene, nel mese di febbraio del 1994 abbiamo ricevuto uno squillo al citofono di casa alle 21.50, o alle 22 addirittura, e sotto casa c’era l’allora moglie di Scarantino, la signora Rosalia Basile, la quale con un gruppo di persone (poi si è scoperto che aveva con sé anche un gruppo di persone, dei bambini, non so) voleva salire a casa nostra e parlare con mia madre. Devo dire che abbiamo visto questa incursione come un’incursione poco opportuna, tenuto conto anche dell’orario, quindi il mio fidanzato di allora ritenne, per tutelare la privacy familiare, di scendere giù e fare da filtro, visto che non avevamo un controllo stabile da parte delle forze dell’ordine nella nostra abitazione. Quindi, di fatto, non consentì alla signora Basile di salire a casa. Fece una relazione di servizio su indicazione dell’allora questore Finazzo, che chiamammo perché era una persona della quale mio padre si fidava, e nella quale mia mamma riponeva fiducia. Il questore ordinò di fatto a quel ragazzo di fare una relazione di servizio e di inviarla, oltre che al questore di Palermo, anche al suo capo della Polizia scientifica, la signora Pluchino. Ebbene, di quella relazione per molto tempo non se ne seppe nulla. Abbiamo scoperto solo in sede di dibattimento del processo Borsellino quater che la relazione non era mai stata assunta agli atti dei processi, ragione per cui questo testimone è stato sentito solo nel 2016 o nel 2018 addirittura. Praticamente già allora, dalle poche parole che riuscirono a scambiare con la signora Basile, il dottor Iuppa (questo era il suo nome) seppe che la signora Basile voleva riferire a mia madre dei maltrattamenti che il marito Scarantino subiva al carcere di Pianosa per essere costretto a parlare. E stiamo parlando di un periodo – febbraio 1994 – che è antecedente all’avvio del depistaggio nel senso più pieno del termine.

FABIO TRIZZINO

 legale di Lucia, Manfredi e Fiammetta Borsellino. Volevo aggiungere che il destinatario di quella relazione era il dottor La Barbera, che era quello che pestava Scarantino per farlo parlare. Quindi per questo non si trova la relazione.

PRESIDENTE. Grazie mille. Ho iscritto a parlare il vicepresidente D’Attis.

MAURO D’ATTIS(intervento da remoto). Grazie presidente. Mi scusi per l’assenza, ma sono contemporaneamente in Commissione bilancio da dove sto seguendo l’audizione e ringrazio nuovamente l’avvocato Trizzino e la signora Borsellino. Arrivo subito alle domande all’avvocato Trizzino. Abbiamo compreso che, secondo alcuni, il dottor Paolo Borsellino era consapevole, secondo alcuni, dell’orientamento dei settori della procura di Palermo di archiviare in parte o in tutto a proposito dell’inchiesta mafia e appalti. Da molti atti giudiziari e anche da quello che sta emergendo da queste audizioni si evince, invece, che il dottor Borsellino non era stato informato di una scelta che probabilmente non avrebbe condiviso. In sintesi, proprio in due parole, vorrei il pensiero dell’avvocato Trizzino su questo.
Vorrei poi chiedere allo stesso, in sintesi, quali furono i magistrati che al tempo insistettero per le archiviazioni, i massimi promotori della decisione di archiviare, seppur parzialmente, mafia e appalti. Questa archiviazione, seppure parziale, a parere dell’avvocato Trizzino, ha cagionato danni all’inchiesta di mafia e appalti? Infine, se, a parere dell’avvocato Trizzino e della signora Borsellino, può essere l’archiviazione e l’inchiesta mafia e appalti in particolare, tra le cause principali dell’accelerazione della strage di via D’Amelio, visto che, da quello che stiamo ascoltando, il dottor Borsellino aveva avuto centralità nell’azione investigativa condotta nel contrasto all’azione dell’organizzazione mafiosa a Palermo e in tutta la Sicilia. Grazie.

FABIO TRIZZINO

legale di Lucia, Manfredi e Fiammetta Borsellino. Questa domanda contiene in sé diverse cose, per cui mi prenderò un po’ di tempo per rispondere.
Fino a quando non abbiamo scoperto che c’era stata una riunione il 14 – in cui Borsellino si presenta ed è l’unico (e vi spiegherò i motivi) che conosce quel rapporto e fa delle domande al dottor Lo Forte – noi, prima di avere appreso questa circostanza, sapevamo che c’era questa archiviazione. Io personalmente non l’ho mai vista bene in relazione alla tempistica, cioè un’archiviazione fatta il 13, 22, 14. Ma, ovviamente, venendo a sapere che Borsellino, invece, compulsa il collega – sulla base delle dichiarazioni di testi qualificati presenti al momento, cioè il dottor Gozo, il dottor Patronaggio, il dottor Matassa, la dottoressa Consiglio, eccetera – a quel punto mi sono posto il problema: ma era informato, o no, di questa archiviazione?
E qui sono cominciati i veri problemi. Perché? Ho sentito l’altra volta derubricare a battuta il discorso che Paolo Borsellino avrebbe detto, a battuta sarcastica: «quei due non me la raccontano giusta». Non si può derubricare perché il problema è il contesto: siamo in una riunione allargata a tutti i magistrati della procura, voluta dal dottor Giammanco e non sono i condomini di un condominio. Il dottor Borsellino – ed ecco la cosa che non ci piace – viene fatto passare per uno facilone. Io sto difendendo in questa sede la statura o lo spessore professionale del dottor Borsellino. Il dottor Borsellino, se dall’altra parte gli avessero detto facciamo un’archiviazione allo stato degli atti del 2789/90 – citiamo i numeri visto che non piace dire «inchiesta mafia e appalti», citiamo un numero di procedimento – se il dottor Borsellino avesse sentito (e nessuno dei testimoni qualificati ne parla) «Guarda, stiamo facendo un’archiviazione allo stato degli atti…» invece no, il dottor Borsellino dice: «Come è finito poi con le carte di Pantelleria?» – tenete a mente questo dato – «Come è finita con le carte di Pantelleria? Come mai non sono state inserite nella richiesta di rinvio a giudizio del 9 marzo del 1992?» Questa è una mia ricostruzione che sono costretto a fare deduttivamente perché tutti si guardano bene dal ricordare veramente quello che è successo. Anche in seno a quella verbalizzazione sono molto imprecisi. Ma me lo immagino, giovani che erano lì convocati per una riunione, si sentono Borsellino che parla con Lo Forte «Hai messo quelle carte?» Quali sono le carte? Sono le carte riguardanti gli imprenditori Antonino Spezia e Bulgarella Puccio che, con un’istanza del 4 febbraio del 1992, la procura di Palermo chiede e Ingroia – nell’ambito di un procedimento per associazione a delinquere semplice, finalizzata alla turbativa degli incanti con gli amministratori del comune di Pantelleria – manda a Palermo, dicendo: «Attenzione, non rendete ostensibile questo verbale» – sta parlando la segretaria di Antonino Spezia – «rendetelo ostensibile nei limiti in cui non mi danneggi le indagini per associazione semplice a Marsala».
Borsellino rimane a Marsala fino al 29 febbraio del 1992, sta due giorni a Marsala, tre giorni a Palermo. Il primo marzo prende possesso definitivamente della funzione di procuratore aggiunto di Palermo. Quindi Borsellino, quando c’è la trasmissione degli atti, sovrintende con Ingroia a questa trasmissione degli atti e vuole sapere da Lo Forte perché quegli atti non sono nella richiesta di rinvio a giudizio, e riguardano la posizione di Spezia e Bulgarella che sono archiviati il 13. Ma è incomprensibile, dal mio punto di vista, questa archiviazione.
Vi devo spiegare le tre gare di Pantelleria. Mi dovete consentire questo breve riferimento alle tre gare di Pantelleria, correggendo innanzitutto una cosa che ho detto nella foga della risposta. Con riferimento a Catti De Gasperi non viene prelevata la busta, ma egli in qualche modo – con prospettazione di vantaggi futuri, non con minacce – viene convinto a recedere dalla volontà di presentare un ricorso giurisdizionale presso l’autorità amministrativa rispetto alla delibera di esclusione dalla gara per l’aggiudicazione, appunto, della gara per l’insediamento artigianale di Petralia Bivio Madonnuzza. È il famoso episodio in cui io vi ho dimostrato che quelle parti di intercettazioni, che inguaiano fino al collo Catti De Gasperi, sono presenti nella richiesta di arresto del 25 giugno 1991 e spariscono dall’archiviazione del 13 luglio, dalla relazione del 7 dicembre del 1992 al CSM per il caso Lima (di cui dovremmo forse parlare), e soprattutto dalla relazione citata in questa sede del febbraio 1998 di cui all’audizione del dottor Caselli nel 1999. C’è Catti De Gasperi che dice, tutto spaventato da Siino: «Io prima di aderire a quello che mi dice Siino, devo parlare con uno che è più in alto di esso». E soprattutto dice: «Rispetto al vantaggio prospettato della gara io ho visto la griglia e lì non c’è niente». Ma la cosa importante è che non esiste il bando della gara di Monreale quando dice «io ho visto la griglia». E questo conferma che le trattative venivano fatte prima, e il bando era il momento in cui si formalizzava a discapito totale dell’interesse pubblico. E quando questo interesse pubblico sussisteva si doveva trovare il modo, attraverso le perizie di variante, di creare provviste per corruzioni e per mantenere in vita il sistema.
Quindi vi rendete conto di come la posizione di Giorgio Zito e di Catti De Gasperi…
Nel rapporto si parla dei lavori del consorzio Cempes, costituito dalla Tor di Valle (Catti de Gasperi), dalla Cisa di Cataldo Farinella e dalla Federici. La Federici era una multinazionale il cui amministratore delegato per le cose di Sicilia sapete chi era? Un uomo di San Giuseppe Jato. E quello che combina Giorgio Zito con riferimento al consorzio CEMPES ai lavori per lo stadio, ai finanziamenti… E la cosa assurda è che nelle deleghe di indagine i magistrati della procura di Palermo danno le giuste indicazioni: «andate a sentire Fortis, andate a sentire Orcel, fate le perquisizioni all’Agenzia del Mezzogiorno. Fate tutto». E poi? Tac. Quindi ci sarà stato qualcosa. E quel qualcosa cos’è? L’iniziativa di Giammanco, che invia il plico alle autorità politiche. Lì devo dire una cosa. Falcone ha sbagliato, me ne assumo la responsabilità, io sarei andato immediatamente dal procuratore della Repubblica a denunciare Giammanco per rivelazione del segreto d’ufficio. Altro che nota di restituzione. E avrebbe salvato, probabilmente, la sua vita, e anche quella di Borsellino, se lo avessero arrestato in quel momento, Giammanco per un reato gravissimo, cioè, mandare una notizia di reato alle autorità politiche. Questo ripeto a chi dice ancora oggi che quell’indagine non valeva niente.
Quindi non sapeva dell’archiviazione. Borsellino non lo sa, non lo può sapere perché non avrebbe mai accettato che le posizioni di Spezia e di Bulgarella venissero archiviate. Lo sapete perché? Perché le gare di Pantelleria sono tre e queste le conosce per ragioni del suo ufficio, perché Borsellino fino al 20 novembre del 1991 poteva indagare su fatti di mafia relativi al proprio circondario. Soltanto con l’introduzione del decreto del 20 novembre si crea la procura distrettuale antimafia e si crea la Procura nazionale antimafia. Quindi Borsellino è costretto a mandare le carte perché? Perché con riferimento alla gara della circonvallazione e alla gara di contrada Scauri e di Arenella, l’associazione sta muovendosi, l’associazione mafiosa: Siino, Spezia, Bulgarella, Cascio Rosario, si muovono per stravolgere gli esiti di quella gara. E la cosa incredibile che emerge dal rapporto è che a un certo punto ci sarà una dilazione per quanto riguarda la gara della circonvallazione, che è quella famosa da cui il Lipera ritira la busta, fa il doppio gioco, si mette d’accordo con Iacobelli della Iagi (perché Lipera, nel frattempo, sta cercando di coltivare un suo orticello). Attenzione, lui si muove secondo le direttive di Claudio De Eccher, perché tra gli atti sequestrati vi erano lettere compromettentissime nei confronti di Claudio De Eccher. Eppure, Claudio De Eccher viene creduto in tutte le sue deduzioni difensive, e la buttano tutta su Lipera. Ecco perché Lipera non parla con Palermo. Non ci vuole parlare perché ha capito che hanno preso, non dico il nudus minister, però se la stanno prendendo con l’ultimo.
E poi dobbiamo parlare delle manovre inquinatorie di Claudio De Eccher. Ne dobbiamo parlare. La gara di Pantelleria, quella della circonvallazione, doveva svolgersi inizialmente il 16 gennaio del 1990. Cosa succede? Succede che il Lipera non viene informato da Cani – che era l’altro esponente, dirigente di Udine della Rizzani De Eccher, salvato anche lui nell’archiviazione del 13, o meglio la sua posizione è stata ritenuta non suscettibile di attenzione – non lo avevano informato che dovevano cedere il pass e cioè dovevano fare vincere la gara ad altre imprese. Quindi lui cosa fa? Per cercare di coltivarsi il suo orticello propone questa busta a Procopio della Iagi di Agrigento. Quindi fa il doppio gioco. Ma siccome le pressioni che stanno arrivando per la gara del 16 sono importanti, cosa fa? Si inventano la malattia del segretario della commissione di aggiudicazione Marino e rinviano la gara una prima volta al 22 di gennaio. E sono interessanti le telefonate contenute nel rapporto. Il 22 gennaio, siccome gli accordi tra le imprese non sono ancora stati presi – e questo emerge dalle telefonate nel rapporto – un soggetto, che era l’amministratore delegato di una società di Antonino Spezia, fa una manovra dilatoria presentando un ricorso, assolutamente inutile, ottenendo l’effetto di rinviare la gara dal 22 al 25 gennaio. Il 25 gennaio si risponde a questa istanza del rappresentante di una ditta di Spezia Antonino e, poi, si rinvia per la decisione definitiva al 22 o 25 febbraio del 1992. Ebbene, la cosa che emerge dal rapporto sono le telefonate in cui Morici, Bulgarella e Siino danno conto degli accordi che devono fare, delle manovre dilatorie per arrivare a questa benedetta gara del 25 febbraio sulla circonvallazione con l’accordo sulle associazioni che devono vincere la gara. Quindi c’è tutto questo. Poi la gara viene aggiudicata ma la cosa incredibile è che la gara viene aggiudicata ad un’altra impresa, all’impresa che va con Siino, ma si scopre che l’impresa che vince la gara è essa stessa dei fratelli Spezia. Quindi gli Spezia partecipano a queste gare sotto doppia veste, prima con l’impresa di famiglia e poi con l’impresa delle mogli. L’impresa di famiglia degli Spezia fa ricorso per ottenere la dilazione, poi l’impresa degli Spezia intestata alla moglie vince l’appalto.
Questo è un meccanismo che il ROS spiega perfettamente. E soprattutto sono le telefonate che spiegano come hanno fatto di tutto per prendere tempo e fare gli accordi in vista della vittoria di quella gara. La cosa che non mi convince è che a un certo punto, soprattutto per le gare del 30 marzo – perché quella della circonvallazione è del 25 febbraio 1992, quella di contrada Scauri e Arenella è del 30 marzo – c’è una telefonata in cui il Siino parla con Bulgarella, parla con Salvatore Fauci, e gli dice: «Sono stato mortificato da Nino». Noi abbiamo Siino considerato il dominus mafioso, che viene mortificato da Spezia, archiviato, dicendo che non c’è nulla che possa afferire alla sua partecipazione all’associazione mafiosa nell’ambito del procedimento di cui al rapporto. E i ROS cosa dicono? Perché tutta questa roba la trovate nella sezione del rapporto relativo all’associazione di stampo mafioso. Quindi già il ROS individua in Puccio Bulgarella, che addirittura ha una telefonata con Siino in cui parlano di un grande latitante, in cui devono spostare il loro appuntamento in un luogo. E Bulgarella dice: «Tu l’hai saputo dove è andato a dormire quello?» «No, non lo so dove ci luccicano gli occhi». E i carabinieri del ROS scrivono «Probabilmente si riferiscono ad un grande latitante». E Puccio Bulgarella esce archiviato?
Borsellino queste cose le conosceva e ce lo dice anche Canale il 24 marzo del 1998 al processo Borsellino bis. Andate a leggervi anche quelle dichiarazioni di Canale. Se Borsellino avesse saputo che Puccio Bulgarella, Nino Spezia, lo stesso Rosario Equizzi, erano fuori…
Perché Equizzi chi è? Equizzi è un altro che, con Siino, prendono l’appalto per la ricostruzione dello stadio di Mazara, e affidano in subappalto occulto i lavori a un certo Lombardino che – guarda un po’ chi era Lombardino? – era il guardaspalle di Accardo, boss di Partanna del Belice, che era sotto l’attenzione di Paolo Borsellino.
Nel rapporto viene citato un episodio accaduto nel 1976, quando il Lombardino, come autista di Accardo Francesco, venne fatto segno di colpi di pistola in un tentato duplice omicidio e poi Mariano Agate, per vendicare questo tentato duplice omicidio, ne ammazza quattro tra il 1976 e il 1978.
E Lombardino sparisce anche lui. Equizzi sparisce dall’orbita delle considerazioni.
Io mi infervoro sapete perché? Perché tutti i grandi soloni del pensiero, giornalisti, dicono che questo rapporto era una cosa inutile. Io non accetto questa impostazione perché attraverso questo si vuol far passare Paolo Borsellino, e prima ancora Giovanni Falcone, come degli incompetenti. E noi questo non lo accetteremo mai. Questo è il punto. La mia difesa non è del ROS. La mia difesa è del pensiero di Falcone e Borsellino che ritenevano questo rapporto fondamentale. Quindi il dottor Borsellino non lo sapeva. Tanto ciò è vero, e mi dispiace, ma questo lo devo sottolineare, che il problema dell’archiviazione si pone quando noi scopriamo la riunione del 14.
C’è una progressione dichiarativa, davvero, che deve essere davvero degna di migliore attenzione. I magistrati che hanno fatto quell’indagine oggi ci vengono a dire che lo sapevano. Ma se andate a guardare le dichiarazioni rese illo tempore non c’è nulla di tutto questo.
Allora questa progressione dichiarativa, dal mio punto di vista, deve essere attenzionata, perché non si può procedere secondo un criterio strettamente antitetico per cui il tempo passa e i ricordi devono essere minori. No, qui il tempo passa e i ricordi aumentano. Quindi, sinceramente su questo io voglio la giusta attenzione.
Quindi, perché la mafia appalti è importante nell’ottica dell’accelerazione della strage? Non lo dico io, lo dicono le sentenze definitive, il ter, il quater, lo dice circa a sentenza di primo grado del tribunale, lo dice il provvedimento di archiviazione dei mandanti occulti bis, lo dice la stessa Gilda Loforti, di cui dovremo parlare, perché la teoria della doppia informativa non esiste. È stata confutata, smentita da un giudice terzo, il giudice del procedimento, il giudice delle indagini preliminari, dottoressa Gilda Loforti. La quale interviene nel marzo del 2000, cioè in epoca successiva alle dichiarazioni del dottor Caselli alla Commissione parlamentare antimafia. Quella prospettazione unilaterale, contenuta nella relazione, viene confutata nei punti fondamentali da un provvedimento di un giudice terzo. E non si può far finta che questo provvedimento, se siamo ancora in una cultura della giurisdizione, non si può fare come se non esistesse. Perché lì la dottoressa Gilda Loforti, rifiutando l’archiviazione tout-court, e richiedendo con un’ordinanza del 27 gennaio 1999 una serie di approfondimenti documentali e non, riesce a dimostrare l’infondatezza della tesi della doppia informativa. E io, sinceramente non so più come spiegare che questa cosa non esiste. Non ci riesco più. Vi dico andatevela a leggere perché si vede che non sono bravo a spiegare questo fatto che la doppia informativa non c’era e che i magistrati della procura di Palermo aspettavano la Sirap, e lo sapevano.
Soprattutto la dottoressa Gilda Loforti riesce a dimostrare che nelle notizie di reato interlocutorie del 30 aprile, del 3 luglio e dell’agosto del 1990 c’erano tutte le intercettazioni, comprese quelle di Lima con il Ciaravino che parlano di Cataldo Farinella. E che il ROS venne semplicemente autorizzato al riascolto, non a fare nuove intercettazioni. Tant’è vero che la dottoressa Gilda Loforti li bacchetta: «Voi avevate tutto lì, non li avete visti, ma non potete buttarla sui carabinieri perché i carabinieri hanno agito correttamente». Tant’è vero che De Donno è stato archiviato in tutti i procedimenti, compresi quelli disciplinari.
Quindi noi lo riteniamo sulla scorta degli atti. Ricordate l’affermazione di Montalto Salvatore: «Chi ce lo portava a Borsellino di parlare di ‘ste cose». Borsellino non mi risulta che abbia parlato di eversione nera, Gladio, massoneria, ma ha parlato, e l’ho dimostrato internamente ed esternamente, del fatto che Falcone voleva tornare a fare il magistrato e che, come ho dimostrato internamente, Borsellino aveva, sulla scorta delle pregresse interlocuzioni costanti con Giovanni Falcone, il chiodo fisso di mafia e appalti.

PRESIDENTE. Ho iscritti l’onorevole Congedo e il senatore Sisler.

SAVERIO CONGEDO. Un grazie non rituale all’avvocato Trizzino e alla dottoressa Borsellino per questa audizione che immagino sia stata particolarmente impegnativa, non solo per la mole di dati, fatti, circostanze e ricostruzioni che ci avete offerto.
Con riferimento all’accelerazione della strage di via D’Amelio, successivamente a quella di Capaci, nella sentenza di primo grado sulla trattativa Stato-mafia, poi annullata e di cui non so se sono state ancora depositate le motivazioni, viene riportato che la ragione o una delle ragioni per cui cosa nostra, in particolare Riina, dette un’accelerazione alla seconda strage, con le conseguenze in termini di attenzioni mediatiche e dello Stato, fu che la presunta trattativa tra Stato e mafia venne percepita da cosa nostra e da Riina come un segnale di debolezza delle istituzioni e dello Stato. Da quello stato di debolezza cosa nostra avrebbe potuto lucrare in termini di ulteriore tempo a disposizione, di acquisizione di territori per incentivare il suo disegno criminale. Mi sembra che nell’arco della sua lunga audizione, avvocato, abbia riportato qualcosa riferito proprio all’accelerazione. Con questo passaggio della sentenza di primo grado mi piacerebbe sapere qual è il suo pensiero sostanzialmente.

SANDRO SISLER. Grazie presidente. Io ho due domande per la dottoressa Lucia Borsellino, che vorrei anzitutto ringraziare per la disponibilità. Lo hanno già fatto altri, ma ci tengo a farlo anch’io perché possiamo solo immaginare cosa significhi per lei continuamente ripercorrere quei giorni, quindi la ringraziamo. Posso solo dirle che per noi, per molti di noi, suo padre ha rappresentato e rappresenta un modello e un esempio. Spero che questo possa servire da parziale consolazione, diciamo così.
Anzitutto vorrei chiederle se lei ricorda quale fosse la posizione di suo padre circa l’idea del dottor Falcone di costituire la Superprocura e se c’erano, invece, dei magistrati contrari all’idea della costituzione della Superprocura.
La seconda domanda: dall’articolata ricostruzione dell’avvocato Trizzino è emerso chiaramente quale fosse l’idea di suo padre circa la procura nella quale operava. Questo mi è sembrato evidente. Al contrario, invece, quali erano i magistrati con i quali suo padre aveva un chiaro rapporto di fiducia? Con quali magistrati aveva simbiosi e rapporto di fiducia? Grazie dottoressa.

LUCIA BORSELLINO

Intanto sono io che ringrazio ulteriormente il presidente e voi per la pazienza di averci ascoltati, perché per noi questo è stato un momento, sì, faticosissimo, che mai forse avremmo voluto avere e immaginare, visto l’andamento che le cose hanno avuto nel corso di questi trent’anni. Vi ringrazio anche per la pazienza nell’ascolto di queste lunghe audizioni che complessivamente credo abbiano cumulato otto ore, e credo che non sia facile neanche per voi. Però per noi rimane un’occasione. Non so se è l’ultima o se ci saranno altre occasioni di questo genere, perché abbiamo capito, ed evidentemente lo avete notato anche dalle nostre parole, che non c’era più tempo per attendere e per dire come la pensavamo, rispetto agli atti che si sono consolidati, perché qui non stiamo prospettando opinioni personali che non siano suffragate. A maggior ragione noi figli, che non avevamo e non abbiamo le competenze tecniche, ma abbiamo certamente un substrato culturale per potere comprendere quanto è accaduto.
Colgo l’occasione anche per esprimere in questa sede una mia profonda amarezza per le espressioni di sconcerto che le nostre audizioni avrebbero, in alcuni casi, provocato. Lasciando al loro posto le relazioni familiari che intercorrono anche con alcuni componenti della famiglia di origine di mio papà, che ritengo debbano rimanere nell’ambito di un alveo strettamente intimo, in quanto ritengo profondamente irrispettoso, quanto meno per la nostra intimità, che vengano rese oggetto di dichiarazioni pubbliche. A fronte anche del contegno istituzionale che, senza tema di smentita, ciascuno di noi della famiglia nucleare e anche dell’avvocato Trizzino hanno mantenuto nel corso di tutte le sedi, istituzionali e non, nelle quali ci siamo trovati a dovere sporgere delle dichiarazioni e delle denunce pubbliche, mi preme, con profondo dolore e dispiacere, dover constatare che ciò purtroppo si è verificato. Noi, come ha detto mio marito, siamo qui per difendere unicamente nostro padre e l’operato di nostro padre. Non abbiamo e non vogliamo sfruttare occasioni di questo genere per tessere le lodi o meno di uomini per ciò che hanno compiuto o non hanno compiuto, perché comunque per questo risponderanno loro stessi alle loro coscienze. Noi, tra l’altro, non abbiamo neanche pronunciato, e lo devo dire, il nome del dottor Di Matteo nel corso delle nostre audizioni che, come appunto avevo ricordato, hanno cumulato circa otto ore, ancorché l’ambito oggetto della nostra ricostruzione è stato unicamente quello dei cinquantasette giorni che intercorsero tra le due stragi e in quei cinquantasette giorni non potevano esserci certo come protagonisti i magistrati che noi abbiamo conosciuto solo tanto successivamente.
Detto questo, e mi scuserete anche per questa premessa, per quanto riguarda l’opinione che mio padre aveva sull’organismo della Superprocura ideato da Giovanni Falcone, voi sapete come mio padre, nella sua estrema franchezza, non ha mai omesso di dichiarare il suo dissenso anche nei confronti dell’opinione e della ideazione di un progetto come quello della Superprocura, ancorché fosse fatto da uno dei suoi più intimi amici, quale appunto Giovanni Falcone rappresentava per mio papà, oltre che stimatissimo collega. Mio padre ebbe modo anche pubblicamente di esprimere le ragioni per le quali manifestava il suo dissenso. Lo ha fatto anche in occasione di una seduta pubblica. Ricordo vi era la presentazione del libro del sociologo Pino Arlacchi, nel corso del quale il Ministro Scotti, presente in quell’occasione, ebbe quasi a candidarlo pubblicamente alla Superprocura, tenuto conto che già si era consumata la strage di Capaci. Era il 28 maggio del 1992. E mio padre si irritò fortemente per questa candidatura pubblica, non solo perché appunto aveva già in passato espresso il suo dissenso, perché riteneva che questo organismo – lo dico in breve, tenuto conto che non sono un tecnico – fosse un organismo sì utilissimo, ma che avrebbe comunque determinato un forte accentramento di potere in capo ad un unico soggetto. In quel caso, sì ironicamente, e non troppo ironicamente, papà diceva che probabilmente a quell’organismo l’unica persona che poteva essere preposta era proprio Giovanni Falcone. Questo lo dimostra ancor più quando, a seguito della proposizione alla candidatura fatta in maniera così anomala da parte del Ministro Scotti, papà ebbe a irrigidirsi al punto che alcuni giornalisti ricordano che ebbe ad andarsene senza neanche rispondere alle loro domande, cosa che non avrebbe mai fatto in altre circostanze per la sua nota caratura umana e cortese. Preferì rispondere con una lettera, che se volete vi leggo, perché l’ho conservata, che inoltrò al Ministro Scotti, a cui chiese addirittura di renderla pubblica se avesse voluto. Quella lettera non fu mai pubblicata, ma fu resa nota soltanto poi con la prima biografia fatta sulla vita di mio papà da parte del giornalista Umberto Lucentini. Volevo leggervi qualche passaggio. «Onorevole signor Ministro, mi consenta di rispondere all’invito dalei inaspettatamente rivoltomi nel corso della riunione per la presentazione del libro di Pino Arlacchi. I sentimenti e la lunga amicizia che mi hanno legato a Giovanni Falcone mi renderebbero massimamente afflittiva l’eventuale assunzione dell’ufficio, al quale non avrei potuto aspirare se egli fosse rimasto in vita. La scomparsa di Giovanni Falcone mi ha reso destinatario di un dolore che mi impedisce, infatti, di rendermi beneficiario di effetti comunque riconducibili a tale delittuoso evento. Le motivazioni addotte da quanti sollecitano la mia candidatura alla Direzione nazionale antimafia mi lusingano, ma non possono tradursi in presunzioni che potrebbero essere contraddette dai requisiti posseduti da altri aspiranti a detto ufficio, specialmente se fossero riaperti i termini del concorso. Molti valorosissimi colleghi invero non posero domanda perché ritennero Giovanni Falcone il naturale destinatario dell’incarico, ovvero si considerarono non legittimati a proporla per ragioni poi superate dal Consiglio superiore della magistratura. Per quanto a me attiene le su esposte riflessioni, cui si accompagnato le affettuose insistenze di molti dei componenti del mio ufficio, mi inducono a continuare a Palermo la mia opera appena iniziata». Appena iniziata, eravamo al 28 maggio del 1992. «In una procura della Repubblica che è sicuramente quella più direttamente e aspramente impegnata nelle indagini sulla criminalità mafiosa. Lascio ovviamente a lei, onorevole signor Ministro, ogni decisione relativa all’eventuale conoscenza da dare a terzi delle mie deliberazioni e di questa mia lettera».
Ricordo, tra l’altro, solo per inciso, che in quel periodo appunto mi pare il Ministro Martelli aveva proposto la riapertura dei termini del concorso e la questione poi appunto fu risolta dal CSM.
La seconda domanda. Per quanto riguarda i colleghi di mio padre con cui intercorrevano rapporti di maggiore fiducia e di amicizia, anche qui, visto che purtroppo noi siamo continuamente esposti al rischio di strumentalizzazioni di quelle che sono le nostre parole, noi per primi non vogliamo parlare di una persona che non c’è più, benché forse ne abbiamo il diritto. Io vorrei rappresentare in questa sede, vedete, che anche la nostra partecipazione a questa audizione, per quanto mi riguarda in particolare, mi ha costretto a ripercorrere non solo la vita vissuta insieme a mio padre, ma anche i trent’anni che mi sono vista trascorrere davanti. Per una ragione di sopravvivenza, perché non la posso definire in altro modo, io mi ero, per un certo periodo, anche tenuta lontano dalle carte, a maggior ragione in questo ultimo periodo in cui una grave malattia ha messo a dura prova la mia salute. Però l’ho dovuto fare. L’ho dovuto fare perché non posso accettare che siano sempre altri a parlare per lui.
A questo punto, nel ripercorrere questi trent’anni di storia, mi sono ricordata che la borsa di mio papà non conteneva soltanto l’agenda rossa. La borsa di mio padre, a detta del carabiniere Arcangioli che l’aveva prelevata, uno dei tanti che l’aveva prelevata e del quale si è riusciti, grazie anche al movimento delle Agende Rosse – io non nego i meriti a chi ce li ha – a mettere a fuoco tutti questi fotogrammi che avevano poi identificato nel carabiniere Arcangioli uno di coloro che aveva preso in mano materialmente la borsa, lui o Maggi, una delle altre persone che l’aveva presa prima di lui, ricordano che la borsa era pesante e piena. Quella borsa ci è stata restituita solo con il costume di mio padre, le chiavi di casa, un pacchetto di Dunhill e un’agenda marrone. Noi sappiamo per certo, da quello che abbiamo acquisito successivamente, che la borsa di mio padre conteneva, oltre all’agenda rossa, anche il fascicolo di Mutolo, così come ha dichiarato il dottor Aliquò nelle audizioni innanzi al CSM nel 1992. Mio padre non avrebbe mai portato con sé la borsa da lavoro solo per metterci il costume da bagno.
Ebbene, di questa borsa noi non abbiamo mai avuto un verbale né di acquisizione né di consegna. Anzi prego questa Commissione di cercarlo vivamente e di rendercene edotti nel caso in cui fosse possibile – e in questo sono sicura che riuscirete più di noi – acquisirne copia. Ma quello che è ancora più grave, quand’anche ci fosse una repertazione …
Perché così dice il dottor Cardella, tra i testi che sono stati sentiti, che sembrerebbe avere dovuto repertare quella borsa che è stata per oltre cinque mesi abbandonata sul divanetto della stanza dell’allora capo della squadra mobile dottor Arnaldo La Barbera come un oggetto qualunque. Come se, invece, anche per decoroso rispetto nei confronti del deceduto, questo non fosse un effetto personale, di cui in ogni caso avere cura, anche se non aveva rilevanza ai fini investigativi. Perché questo è stato detto, che la borsa e il suo contenuto non avevano alcuna rilevanza ai fini investigativi.
Ebbene, anche in questa presunta repertazione che è stata riferita dal dottor Cardella lui ammette di non avere repertato l’agenda marrone, perché all’interno della borsa c’era anche un’agenda legale di color marrone che conteneva una rubrica telefonica. Tenuto conto della complessità di questa storia, io ritengo, da profana, da cittadina, ma spinta in questo momento soltanto dall’amore immenso per un genitore al quale non finirà mai di dire grazie, che in questa storia anche il minimo respiro di mio padre, e quindi anche il minimo scritto può avere una rilevanza ai fini investigativi, soprattutto se letto dopo tanti anni. Quell’agenda ci fu consegnata, ma ci fu consegnata senza alcuna repertazione. Quindi, noi ne siamo in possesso da trent’anni senza avere mai saputo se questa agenda ha mai avuto alcuna attenzione sotto il profilo delle indagini. Pequesto la teniamo conservata nel nostro archivio. Questo che per noi è stato un lavoro è cominciato molto tempo prima delle date in cui le audizioni sono state fissate e in questi ultimi giorni è continuato. Io ho chiesto a mio fratello di fornire a questa Commissione le copie scansionate della rubrica telefonica che io vi consegnerò. Sarà mio padre a far comprendere chi erano le persone di cui si fidava e quelle di cui non si fidava. Per evitare strumentalizzazioni su questo importantissimo reperto, vorrei anche dare una chiave di lettura che, in questo caso senza alcuna modestia, solo noi figli possiamo dare. Perché in quella rubrica sono contenuti anche i numeri di alcune persone strettamente appartenenti alla cerchia familiare, perché era una rubrica che comprendeva tutti i contatti di mio padre, sia quelli professionali che quelli familiari ed è stata aggiornata per altro la mattina del 19 luglio perché era ospite in casa nostra il cugino di mio padre, che risiede in Veneto, che è stato per lui un fratello, che ha vissuto a casa nostra in quei giorni, il quale ricorda – e lo ha testimoniato nel corso del Borsellino 1 a marzo del 1995 – che mio padre stesse proprio aggiornando i numeri di telefono. Lo vedrete perché alcuni numeri sono stati aggiornati con un inchiostro di colore blu rispetto agli altri. In questa agenda voi troverete per tre quarti nomi di magistrati, dei quali alcuni riportano anche i numeri di casa, quelli privati, eccetera. La lettura è questa: questo surplus di numeri che venivano indicati erano indicati perché o mio padre con queste persone aveva un rapporto di lealtà e di confidenza tali che aveva necessità di cercarli dovunque, oppure erano persone – e mi riferisco in questo caso al suo procuratore Giammanco, per portare un esempio – con le quali necessariamente doveva avere tutti i numeri di telefono, in quanto lo doveva poter reperire in ogni momento della giornata per questioni lavorative. Un dato è chiaro, che i numeri che non troverete sono quelli con i quali queste frequentazioni non c’erano, o erano sporadiche, o erano mediate. Su questo io mi assumo tutta la responsabilità. Non troverete neanche, e lo dico in partenza, il numero dei miei nonni, perché erano persone il cui numero naturalmente era impresso nella memoria di mio padre, li chiamava ogni giorno. Non troverete il numero della sorella Adele, presso la quale mia nonna risiedeva per gran parte dell’anno, perché la chiamava ogni giorno. Non troverete il numero della mia migliore amica, che mio padre chiamava ogni giorno, perché non c’erano i cellulari, ma troverete quello della sua casa di campagna. Quindi questo già spiega che la mia chiave di lettura è assolutamente autentica, verosimile. Per i numeri che non troverete lascio a voi ogni valutazione.

PRESIDENTE. Grazie dottoressa. Sicuramente chiederemo anche il verbale sul contenuto della valigetta. Prego, avvocato Trizzino.

FABIO TRIZZINO

legale di Lucia, Manfredi e Fiammetta Borsellino. Per quanto riguarda la domanda sul processo Stato-mafia, nel corso della mia audizione, ho detto che, conoscendo perfettamente quelli che sono i meccanismi procedurali, per cui è il giudice che alla fine stabilisce il materiale probatorio che deve entrare, io ve lo ribadisco: nel momento in cui il presidente Montalto e il Giudice hanno scritto che Borsellino non conosceva il rapporto mafia e appalti per me io ho preso e ho chiuso. Se andate a sentire la mia arringa al processo Messina Denaro io ho definito quell’iniziativa improvvida perché per certi versi ha, in qualche modo, determinato un ulteriore innalzamento della soglia di pericolo del lato di chi era interessato ad eliminare Borsellino in ragione della sua attenzione per mafia e appalti. Perché? Perché chi contatta è De Donno, il materiale redattore del rapporto insieme al generale Mori, e da che vanno? Da Ciancimino. Che definirlo Giano bifronte è qualcosa di…
Però Ciancimino era all’interno del sistema degli appalti. Ciancimino era sicuramente un soggetto che, qualora avesse deciso di saltare il fosso, avrebbe ulteriormente rafforzato e rinfocolato le risultanze probatorie contenute nel rapporto delle indagini precedenti.
Quindi io non ho dubbi che si è trattato di un’azione info investigativa, come è stata percepita all’esterno.
Il punto ce lo spiega bene Brusca. Brusca al processo Borsellino ter, ci dice: «Bisogna vedere quello che ci arrivò a Riina». Cioè nel passaggio delle informazioni. Perché Brusca è particolare, e su questo la Petruzzella lo distrugge sul piano dell’attendibilità, allorché nell’ambito dell’abbreviato a carico di Calogero Mannino dice: «attenzione, Brusca all’inizio si concentra su mafia e appalti, ci spiega il meccanismo egemonico di Totò Riina, poi quando diventa in voga il processo trattativa, tac, si ricorda del papello, di questo e di quell’altro». E lì si pone il problema della gestione delle dichiarazioni errate dei collaboratori di giustizia. E Brusca viene totalmente distrutto in quella sentenza, proprio perché la progressione delle sue dichiarazioni è sospetta, e sembra – dice la giudice – volere in qualche modo accontentare le domande suggestive e le suggestioni dei pubblici ministeri che stanno facendo quelle indagini.
Questo è molto importante, lo dobbiamo tenere presente perché il Brusca iniziale, quello del 1998, ci parla di mafia e appalti. Con Siino ci danno un quadro perfetto del fatto che la mafia si è spaventata di Borsellino. Lo dicono chiaramente: «Ma chi ce lo portava a parlare di queste cose?» Siino ci dice: «Noi abbiamo capito che Falcone aveva capito quando ci ha detto che la mafia era entrata in Borsa». Ferfin, Ferruzzi, Massa Carrara. Tutto distrutto. Tutto.
Ed è importante perché, attenzione, Buscemi, nel 2003, viene indagato per 422, cioè viene considerato stragista Nino Buscemi e Lipari Giuseppe. E i giudici dicono: «Noi purtroppo non possiamo andare tanto perché purtroppo non abbiamo le bobine e sono stati distrutti i brogliacci». Attenzione, è importante la smagnetizzazione e la distruzione dei brogliacci. È molto importante perché ci spostiamo dalla Tangentopoli a un procedimento in cui i mandanti occulti sarebbero Nino Buscemi e Lipari Giuseppe. Attenzione, questo è un passaggio che forse non sono riuscito a spiegare, perché c’è un’indagine per 422 a carico del Buscemi Antonino. Non c’è solo mica la Tangentopoli. E i giudici, i PM, Messineo e gli altri, si lamentano del fatto che gli atti dal 1994 gli vengono trasmessi nel 2000 e che purtroppo gli atti originari di Massa Carrara sono smagnetizzati o distrutti.
Questo deve essere chiaro ed è negli atti, non mi sto inventando nulla. È negli atti.
Quindi io le dico una cosa. Io di fronte a dichiarazioni progressive, come giurista, faccio mille analisi. Dico: perché non l’ha detto prima?
E poi c’è un’altra cosa, un dato sociologico che vi voglio rassegnare. Perché in questi anni si è parlato solo del processo Trattativa, quando noi a Caltanissetta stavamo scoprendo il più grave depistaggio della storia giudiziaria italiana, oggi considerato prodromico e propedeutico all’assassinio di Borsellino e dei suoi angeli custodi, e sui giornali non c’era una riga, una, e venivano santificati…? E su chi stava combattendo a Caltanissetta un’altra battaglia, molto più decisiva, come oggi vedete, c’era il silenzio assoluto. Quel silenzio che continua. E qualche giornalista chiama me depistatore. No, noi i depistaggi li abbiamo subiti e oggi abbiamo contribuito a scoprirli. Noi i depistaggi li abbiamo subiti. Deve essere chiaro questo.
La trattativa Stato-mafia è stata solcata. Abbiamo partecipato a Caltanissetta nell’incidente programmatico, perché è stata valutata come possibile momento dell’accelerazione. Ma poi quando Caltanissetta ha scoperto che il papello era falso, che Massimo Ciancimino aveva mentito – questa storia del passaporto, il signor Franco, individuato in un soggetto della Presidenza del Consiglio dei ministri – un soggetto che veniva portato nelle trasmissioni come l’icona dell’antimafia, Caltanissetta ha detto: non è possibile, non è quello il motivo, lo abbiamo solcato, lo abbiamo affrontato.
Ma poi, dico io, e ce lo chiediamo perché è il momento del redde rationem secondo me. Io ho aspettato questo momento perché vorrei dire anche a certi giornalisti che io ho letto nel luglio del 2022, quando hanno fatto un articolo in cui hanno chiesto quale fosse il segreto che era stato rilevato a tre magistrati da Borsellino. Teresi, Scarpinato ed Ingroia. E io, pur sapendo che loro sapevano quale fosse il segreto, di fronte al silenzio di non ricordarlo, non sono andato sui giornali. Ho aspettato l’audizione davanti a un organo istituzionale. Allora mi aspetto che quel giornalista oggi rintervisti quelle persone per vedere se ricordano quale fosse il segreto che io ho rivelato nel corso delle audizioni.
Deve finire questo utilizzo della ricostruzione del sacrificio di Borsellino e Falcone come marketing. C’è in gioco ben altro. La sanità delle istituzioni innanzitutto, ma soprattutto che quello che è accaduto non ritorni più.
Quindi io alla trattativa ho sempre guardato con sospetto, le dico la verità, sospetto che poi si è inverato quando ho letto che Borsellino non conosceva il rapporto, smentito dai fatti, e soprattutto quando si va per ragionamenti.
Quando uccidono Falcone Borsellino dice ad Alberto Di Pisa: «Questa è una strage per stabilizzare, non per destabilizzare».
La strage viene considerata da Borsellino come il tentativo di cui vi ho detto alla prima audizione, di uno Stato che sta per essere scoperto nelle sue degenerazioni di utilizzare la strategia della tensione con formule. Non c’entrano l’eversione nera, Gladio o massoneria, ma il sistema dei partiti. La Tor di Valle ha il NOS, il nulla osta sicurezza: quando si devono fare opere pubbliche che riguardano la sicurezza nazionale Catti De Gasperi era uno degli imprenditori impegnati. Raul Gardini con una telefonata blocca Augusto Lama. Di questo stiamo parlando. Il potere finanziario. E noi oggi stiamo vedendo come la politica ha totalmente ceduto il dirigismo delle nostre vite al potere finanziario. È il mondo che sta cambiando quello del 1992. Quindi Borsellino dice a Di Pisa: «Attenzione, questa è una strage per stabilizzare, non per destabilizzare».
Perché pensano ancora che utilizzando le stragi si possa… come facevano ai tempi … ma non è Stefano Delle Chiaie, la massoneria non lo so, ma ora vi devo leggere qualcosa perché devo correggere un punto. Quelle piste sono state solcate.
Se ci sono novità denunciatele, fate le vostre inchieste. Noi stiamo proponendo un’altra rilettura che è stata totalmente negletta.
Anche perché io mi fido delle conclusioni a cui arrivò il dottor Natoli nell’ordinanza sentenza di rinvio a giudizio del 9 giugno 1991. Lì ho fatto un errore, cioè nella foga di correre, perché qui io avrei migliaia di cose da raccontare, di atti compulsati a corroborare il mio ragionamento. Io l’altra volta ho detto che l’ordinanza sentenza di rinvio a giudizio nei confronti di Michele Greco più diciotto, nell’ambito dei reati politici, è stata di Falcone. No, è stata di Gioacchino Natoli, però la requisitoria scritta del 9 marzo del 1991 è stata firmata da tutta la procura della Repubblica, tra cui ovviamente anche Giovanni Falcone. E quando ho riportato quel passaggio irisposta all’onorevole Provenzano, io ho detto che in poche parole c’era una sovrapposizione perfetta tra le conclusioni cui è arrivato Giovanni Falcone nella requisitoria scritta, a pagina 1102, che è il passaggio secondo cui «invero tutti i più attendibili e significativi elementi…» – questo è Giovanni Falcone che scrive nella sua requisitoria scritta, che poi verrà, a pagina 1450, recepita nell’ordinanza sentenza di rinvio a giudizio del dottor Natoli – «Invero tutti i più attendibili e significativi elementi di valutazione emersi da un decennio di indagini» – perché i delitti di Reina, Piersanti Mattarella e La Torre avvengono tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta – «inducono ad escludere che un’alleanza di questo tipo» – cioè un’alleanza legata alla massoneria, ai servizi segreti, all’eversione nera – «si sia mai stabilita, e ciò per l’irriducibile vocazione di cosa nostra a salvaguardare la propria segretezza e la propria assoluta indipendenza da ogni altro centro di potere esterno».  
Allora, o diciamo che Falcone non ha capito niente di cosa nostra, oppure continuiamo.
C’è una parte dedicata proprio alla pista nera. Ci sono le dichiarazioni di Alberto Volo, le considerazioni sull’attendibilità. C’è tutto. L’omicidio Mangiameli, il comportamento processuale di Volo nel procedimento relativo alla strage. Falcone ha sondato tutto.
E allora cosa dice Falcone? È stato poi ripreso da Natoli nella sua ordinanza sentenza: «È stato categoricamente escluso in particolare che Alberto Volo avesse mai avuto contatti con i servizi di sicurezza o con l’organizzazione Gladio. Con riguardo alla struttura Gladio è opportuno ricordare poi che ulteriori accertamenti documentali sono stati compiuti da questo ufficio nell’ambito di un diverso procedimento riguardante l’omicidio di Giuseppe Insalaco». L’ho spiegato, ce lo spiega bene il dicembre 1998 il giudice Guarnotta, che era uno dei giudici delle sezioni stralcio, giudice istruttore. «Noi abbiamo l’istanza del Partito Comunista che vuole sapere, anche con riferimento all’omicidio dei delitti politici» – ma siccome la requisitoria doveva essere scritta, anche perché il giudice Natoli doveva diventare sostituto procuratore il 10 giugno del 1991, e c’erano dei tempi proprio che bisognava rispettare, dice – «Poi affrontiamo la problematica di Gladio nel procedimento per l’omicidio di Giuseppe Insalaco». E lì Falcone arriva a questa conclusione: «In tal sede l’esame della documentazione completa concernente tutte le persone inserite nella struttura, ed anche semplicemente ‘valutate’ per un loro eventuale inserimento ha consentito di escludere l’esistenza di alcuna relazione con i temi e le persone costituenti oggetto del presente procedimento». E siamo nel 1991.
Quindi abbiamo Falcone e gli altri magistrati della procura che arrivano a questa conclusione. E dall’altra parte nel 1991 abbiamo il dossier mafia e appalti, abbiamo la fine della partitocrazia incipiente. E nel processo Borsellino quater viene riportata addirittura una cosa incredibile dal mio punto di vista, e cioè un incontro tra il capo della Polizia Vincenzo Parisi, il Ministro Scotti e il generale Pisani, a cui partecipa anche l’allora segretario della DC, il bresciano Martinazzoli. A un certo punto il capo della Polizia dice: «Ma mentre al sud c’è lo stragismo» siamo nel settembre 1992 «al nord c’è l’avanzare della Lega». Come c’è l’avanzare della Lega? È il corpo elettorale che si sta esprimendo. Questo per farvi capire che il sistema temeva il cambiamento prima ancora dentro le cabine elettorale. Questo è il punto. Un capo della Polizia che dice: «È pericoloso questo avanzamento della Lega al Nord», ma di che cosa stiamo parlando? Il 5 aprile del 1992 c’erano state delle regolari elezioni politiche democratiche. Per dirvi come il sistema temeva il cambiamento, che sarebbe vieppiù stato accentuato e accelerato dalle inchieste a tenaglia da Nord a Sud.
Di Pietro doveva morire. Cosa c’entra Di Pietro con l’eversione nera? Cosa c’entra Di Pietro con Gladio? Cosa c’entra Di Pietro con la massoneria? Di Pietro doveva morire perché era l’attendente al Nord delle stesse indagini che si dovevano fare al Sud.

PRESIDENTE. Grazie avvocato. Ci sono ancora cinque iscritti a parlare, vorrei farli intervenire tutti, ricordando che alle 14 c’è voto in Aula, quindi invito tutti a stare nei tempi. Inizio dall’onorevole Orlando, poi Cafiero de Raho e De Corato.

ANDREA ORLANDO. Grazie presidente, grazie avvocato. Io credo che l’insieme di suggestioni che sono state sottoposte a questa Commissione ci pongano di fronte a una ricostruzione che merita un approfondimento, tanto più che parrebbe non avere avuto questa sorte nelle diverse vicende processuali di cui ci siamo occupati in questi anni, di cui si è occupata la magistratura. Però, al di là dei fatti, che naturalmente sono molti e, quando si individuano, si individuano sempre attraverso uno schema di lettura che con onestà l’avvocato ha in qualche modo esplicitato, ci sono alcune questioni sulle quali volevo capire come coniugava i diversi aspetti che comunque sono emersi nelle vicende processuali, anche se non hanno portato a una verità definitiva. Cerco di richiamarli.
La ricostruzione che ci offre è quella di un sistema partitocratico agonizzante che utilizza la mafia come strumento di stabilizzazione. In questa ricostruzione però entrano in contraddizione alcuni punti. Il primo è quello dell’omicidio di Salvo Lima, perché Salvo Lima può essere considerato tutto tranne che un antagonista dell’eventuale sistema delle tangenti, essendone stato, in qualche modo, il garante politico. Questo credo che sia un dato accertato anche in sede giudiziaria. Il mandato ad uccidere nei confronti di Calogero Mannino ormai provato processualmente. Anche in questo caso Mannino è risultato estraneo ad alcune contestazioni che gli sono state fatte, ma sicuramente non emerge come un antagonista del sistema partitocratico. Mi pare che sia difficile collocarlo storicamente, a differenza probabilmente di Piersanti Mattarella o di Pio La Torre. In questo caso ci troviamo di fronte a un protagonista di quel sistema. L’altro aspetto che in qualche modo volevo capire come viene coniugato, è dopo il 1991 un protagonismo di alcuni elementi che con l’eversione nera avevano molto a che fare, e che sono protagonisti, anche qui accertati in sede di sentenza. E, da ultimo, rispetto alle indagini della procura di Firenze. Mi riferisco in particolar modo alla figura di Bellini. Bellini è uno stabilizzatore del sistema del tavolo delle tangenti, è uno strumento? Fatto sta che la mafia, diciamo così, accetta il suggerimento di deviare il proprio orientamento dalle stragi nei confronti di persone per orientarlo verso… Quindi non è un soggetto in qualche che è entrato in contatto occasionalmente e ha avuto una buona idea. Evidentemente c’era una frequentazione risalente che si può pensare fosse anche antecedente – non lo sappiamo, ma ci sono elementi che possono suggerire questo – al 1991.
L’ultima considerazione, sempre per capire come si combinano questi aspetti, è il tema della strategia complessiva che la mafia adotta all’indomani del 1991/1992 che sembra in qualche modo guardare non tanto a una difesa del vecchio sistema, ma a una partecipazione alla costruzione del nuovo. I tentativi di costruire la Lega Sud, il tentativo di lavorare sul fronte, diciamo così, di un riordino del sistema. Il ruolo e la funzione svolta – e anche qui stiamo alle carte – nell’interlocuzione con Dell’Utri nel momento della fondazione di Forza Italia. Tutti elementi che sembrano alludere più che a una mafia preoccupata per il crollo del vecchio sistema, interessata, con la consapevolezza o meno dei soggetti destinatari di questo interesse, alla costruzione del nuovo assetto che si viene a determinare.
Questi tre elementi, per titoli gli omicidi eccellenti della partitocrazia, l’aspetto che riguarda la conclamata interazione con l’eversione nera, probabilmente risalente a prima del 1991, ma questo non sono in grado di dimostrarlo, l’aspetto che riguarda, invece, il candidarsi ad essere levatrice del nuovo assetto che si viene a determinare della mafia, sembrerebbero in qualche modo in contraddizione con la ricostruzione che lei ci ha proposto.

PRESIDENTE. Grazie onorevole Orlando, prego vicepresidente Cafiero de Raho.

FEDERICO CAFIERO DE RAHO. Grazie presidente. Innanzitutto devo ringraziare la dottoressa Lucia Borsellino e l’avvocato Trizzino per il grande contributo di conoscenza che ci hanno dato per il panorama amplissimo di cui hanno parlato che ci aiuta a leggere ancora meglio e di più le carte e a confrontarle anche con tutto il quadro già acquisito. Questo è importante perché il diritto alla verità è un diritto riconosciuto dalla nostra stessa Costituzione, e che dobbiamo necessariamente rispettare. Ne va della nostra democrazia.
Voglio sottolineare un punto. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino saranno sempre degli eroi per noi. Sempre. Nessuno ha mai messo in dubbio la loro statura morale, etica, professionale. Sono dei giganti. Dei giganti ai quali tanti di noi si sono rivolti. Tanti di noi hanno scelto di essere magistrati proprio guardando quel modello. Quindi qualunque eventuale ventata sporca cui voi avete forse fatto riferimento in qualche intervento, credo che non sia stata colta assolutamente da nessuno di noi e da nessun componente del popolo italiano che rispetta e ricorderà sempre persone come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Io vorrei fare alcune domande. In primo luogo se fosse possibile avere qualche miglior chiarimento, ma è possibile che più di quello che è stato detto non è possibile avere. «Nido di vipere», avete delle indicazioni specifiche? È possibile rilevare con nomi e cognomi? E poi c’è stato anche un riferimento ai «fedeli di Giammanco e a tutto il restante ufficio», cioè Giammanco quindi poggiava su un sostegno all’interno del proprio ufficio? Su uomini che erano fedeli a lui e non seguivano, invece, l’andamento di quello che era un orientamento diverso nell’ambito dell’ufficio?
Un altro aspetto, Contrada era uomo che operava come esponente dei Servizi con Tinebra. Tinebra si avvaleva di lui e anche di altri. Quando poi il procuratore aggiunto Paolo Borsellino assume l’informazione, che resta solo oralmente acquisita, di uomini presenti nello Stato legati a cosa nostra, quindi Contrada, Domenico Signorino, immagino che questa sia stata una notizia sconvolgente. Domenico Signorino era stato il sostituto che aveva portato avanti il più grande processo che c’è stato a cosa nostra, quindi associarlo a Bruno Contrada e pensare che le indagini su Giovanni Falcone fossero portate avanti da persone che da Gaspare Mutolo venivano ritenuti uomini di cosa nostra, deve essere stato veramente sconvolgente. Su questo se poteste dare, sempre che ce ne sia, qualche ulteriore indicazione perché certamente, una notizia così sconvolgente non può essere restata priva di una conseguenza anche interiore per un gigante come il procuratore aggiunto Paolo Borsellino.
Avete poi parlato di qualcuno che lo ha tradito o lo aveva tradito. Certo non era il generale Subranni, che pure comunque – almeno sembra, non l’ho ben compreso in verità – nel momento in cui acquisisce la notizia dell’esplosivo che arriva a Palermo, ne dà informazione ad Andò, al procuratore Giammanco, non lo dice proprio al suo amico procuratore aggiunto Paolo Borsellino. Il che effettivamente è un’altra informazione sconvolgente questa nel momento in cui se ne prende atto. Anche su questo, se riuscissi ad avere una vostra risposta.
Ancora, nella sua ampia esposizione dei rilevanti fatti che hanno preceduto la strage di via D’Amelio, è stato dato un significativo rilievo all’incontro alla caserma Carini del procuratore aggiunto Paolo Borsellino con il generale Mori e il capitano De Donno, in cui si parlò delle indagini mafia-appalti. Di tale incontro il generale Mori e il capitano De Donno però non hanno mai parlato in prossimità di quella strage, di una strage così importante. Ne parlano, mi sembra, la prima volta alla fine del 1997 o agli inizi del 1998. Potrei però aver perso un suo passaggio, avvocato Trizzino. Di questo parla anche il GIP, Gilda Loforti, in quel provvedimento di archiviazione cui lei ha fatto riferimento e sottolinea anche un aspetto di quel tipo. Anche su questo, se fosse possibile, vorrei avere una sua indicazione.
Ancora molto brevemente. Ci fu una proposta di sorveglianza speciale di sequestro di beni nei confronti di Buscemi Antonino e Buscemi Giuseppe, anche con riferimento alla Calcestruzzi S.p.A., acquisti immobiliari e tanti altri beni che appunto appartenevano a costui, proprio come indiziato di appartenere alla mafia. Questa risale al 28 ottobre 1992, quindi già lì la prima delega era stata data nel 1991, vi è stato un sollecito il 15 luglio 1992. Su questo, se effettivamente anche questo era un precedente.
Era stata poi emessa un’ordinanza di custodia nei confronti di Riina Salvatore più ventiquattro, fra i quali vi era anche Buscemi Antonino, ma vi era anche Ciaravino Antonino, vi era Lodigiani Vincenzo. Vi erano grandi mafiosi e al tempo stesso grandi imprenditori, proprio quelli cui lei ha fatto riferimento. Questa però viene depositata il 17 maggio 1993 e il 25 maggio viene poi eseguita.
Infine, proprio nell’ambito di tutte le sue conoscenze, lei ha legato in qualche modo la strage di Capaci e quella di via D’Amelio con quello che è stato successivamente il programma stragista continentale, laddove in alcuni provvedimenti giudiziari si dice che si trattava di un progetto unitario sostanzialmente?
Infine, se vi fossero elementi in relazione all’omicidio del dottor Scopelliti, che era sostituto procuratore generale e avrebbe dovuto rappresentare, come è noto, il pubblico ministero davanti alla Corte di cassazione nel maxi processo. Se ve ne fossero in relazione appunto alla cosiddetta Falange Armata che rivendicò l’omicidio di Scopelliti e alle strutture Gladio di cui appunto parlava riunendole assieme già la sentenza ordinanza dell’Italicus bis, che pure sembra in qualche modo poter integrare un quadro generale.
Ringrazio davvero l’avvocato Trizzino e la dottoressa Lucia Borsellino per aver dato un contributo straordinario e una spinta notevolissima a quello che sarà il nostro successivo lavoro. Grazie presidente.

PRESIDENTE. Grazie a lei vicepresidente. Per facilitare la risposta le do subito la parola avvocato.

FABIO TRIZZINO

legale di Lucia, Manfredi e Fiammetta Borsellino. Chiedo il consenso ad invertire l’ordine delle risposte. Prima rispondo all’ex Procuratore nazionale antimafia Cafiero de Raho e poi all’onorevole Orlando.
Per quanto riguarda il «nido di vipere» lei deve metterci un «qui». «Qui è un nido di vipere», quel «qui» cambia tutto: procura della Repubblica. Per i fedelissimi è Antonio Ingroia che ce lo dice al processo depistaggio e alla Commissione Claudio Fava, Lo Forte e Pignatone.
Per quanto riguarda Contrada e Tinebra fu Vincenzo Parisi, tramite il genero Costa, a chiedere la collaborazione di Contrada, il quale in tutto quel contesto, fu l’unico che si mosse secondo legalità, dicendo: a) «Io non sono autorizzato, potrò lavorare a questa indagine soltanto se ottengo l’autorizzazione»; b) diede le giuste informazioni, che furono assolutamente non seguite. Graziano e Madonia; c) Contrada viene posto sul luogo della strage immediatamente ed è riuscito a dimostrare che si trovava altrove, altrimenti avrebbe avuto un 422 c.p. Quindi Contrada a me sembra più un soggetto da sacrificare in nome di alti giochi che avvengono a Roma.
Non è vero che il dottor Borsellino non venne informato da Subranni subito. I Carabinieri seguono una gerarchia ben precisa. Lei come Procuratore nazionale antimafia avrà sicuramente letto la dichiarazione di Sinico nel processo Borsellino ter che dice che Baudo e Obinu, dopo aver appreso il 15 l’informazione dal carcere, grazie al maresciallo Lombardo, si recarono da Borsellino. Borsellino – dichiara il capitano Sinico – dice: «Io devo lasciare qualche spiraglio per la famiglia». Questo lo dichiara Sinico con riferimento al giorno 16 giugno del 1992. Il 18 arriva un anonimo con una bara e Giammanco questo anonimo lo voleva stracciare. Lì il dottor Natoli si oppone. Il 19/20 arriva l’informativa di Subranni e Paolo Borsellino si incavola non perché non sa che il tritolo è arrivato, perché glielo comunicano Baudo e Sinico il 16 di giugno – queste informazioni dovrebbero essere patrimonio della Procura nazionale antimafia – ma si incavola perché l’inerzia del dottor Giammanco nell’attivare il comitato di sicurezza è la prova provata che le «cose tremende che stava scoprendo» è che aveva un procuratore che gli remava contro, davvero. Quindi sgombriamo il campo, Subranni ha detto ai suoi sottoposti: «Avvisate subito Borsellino». E vanno in ufficio. E ce lo dice il capitano Sinico.
Per quanto riguarda le dichiarazioni sulla caserma Carini, neanche il dottor Scarpinato fino al 2021 ci ha detto che sapeva che il dottor Borsellino avrebbe dovuto incontrare il ROS e di non dirlo a Giammanco. Lo abbiamo scoperto nel 2021 ad Avezzano. Lo ha dichiarato il senatore Scarpinato.

ROBERTO MARIA FERDINANDO SCARPINATO. (fuori microfono) Ma che dice? Non mi può attribuire cose che non ho detto.

FABIO TRIZZINO

Lo leggo nella sua relazione. È agli atti.

PRESIDENTE. No, questa interlocuzione non si può fare senatore. Grazie.

FABIO TRIZZINO

È agli atti, io mi riferisco ad atti.
Per quanto riguarda il sequestro dei beni avviene nell’ottobre del 1992, e Siico ci dice che quei beni dopo quindici giorni furono restituiti.
Per quanto riguarda il progetto unitario, se per progetto unitario si intende – e voglio rispondere in parte anche all’onorevole Orlando – Lima e Mannino sicuramente sono amici o considerati tali. Soprattutto Lima. Su Mannino poi ci sono stati processi, e in questo Paese bisogna prendere atto che ci sono giudici terzi che possono decidere e se la decisione non ci piace la dobbiamo accettare.

PRESIDENTE. Onorevole la prego, non ho dato parola di replica a nessuno, vale per tutti. La prego onorevole Orlando.

ANDREA ORLANDO. Solo perché non rimanga agli atti un addebito che ho fatto all’onorevole Mannino. Era solo una ricostruzione politica.

FABIO TRIZZINO

legale di Lucia, Manfredi e Fiammetta Borsellino. Il problema qual è? Riina ha subìto – l’ho spiegato bene nel corso delle mie audizioni – la sentenza del maxi, ha subìto la sentenza Basile, Riina ha un problema di leadership interna spaventosa. Non è riuscito a garantire nulla alla sua organizzazione di quello che aveva promesso, e infatti crea la «Supercosa». Stringe attorno a sé i fedelissimi, e questo emerge dalle risultanze del processo Messina Denaro, Borsellino quinquies, Capaci ter. Quindi ha la necessità di contemplare ai suoi sodali che è il momento della vendetta, perché ci manca pure che rimane fermo rispetto al fatto che si sono tutti presi l’ergastolo e il teorema Buscetta è stato confermato. «Quindi Lima va ucciso» lui contempla ai suoi nella riunione del dicembre 1991, «Va ucciso perché non è riuscito a proteggerci». Di Mannino sappiamo da Brusca. Brusca ci dice: «Dopo Falcone doveva morire Mannino». E poi c’è il clinamen, cioè la deviazione su Borsellino. Quindi l’omicidio Lima va innanzitutto inserito nella necessità che ha Salvatore Riina di contemplare all’esterno che là ci deve essere una reazione.
Come ho spiegato prima il disegno egemonico di Salvatore Riina, come ce lo spiega benissimo Brusca, prima di andare verso il papello ed altro, è quello di sedersi lui al «tavolino». È questa la grande differenza tra la mafia di Bontade, Badalamenti, Greco e gli altri. Riina vuole sedersi al «tavolino». Il che significa intrecciare rapporti diretti con Raul Gardini, il quale non mi si venga a dire che in quegli anni non aveva il potere con una telefonata, non dico di decidere, perché poi lui pagò la decisione sulla mancata defiscalizzazione delle plusvalenze. Però chi era Gardini? Gardini è uno che poteva alzare il telefono e dire: «Io faccio Enimont se mi fate la defiscalizzazione delle plusvalenze». Poi siccome i politici, Craxi e gli altri, non volevano mollare le galline dalle uova d’oro, De Mita e tutti quelli non gli fanno il provvedimento di defiscalizzazione delle plusvalenze derivanti da joint-venture.
È più complicato di quello che sembra. Io rivendico il mio sacrosanto diritto di utilizzare paradigmi interpretativi non tralatizi, perché l’Italia e il mondo stava cambiando. E l’ho spiegato nell’analisi del contesto storico. E poi io ho fatto nomi e cognomi. O pensiamo ad uno Stato italiano totalmente governato da una Spectre, per cui Pansa chiede di non acquisire il fascicolo, quell’altro la borsa la tratta come niente, Tinebra fa i depistaggi, La Barbera fa i depistaggi, ma tutti questi soggetti a chi rispondono? Rispondono all’eversione nera, alla massoneria? Che ne so io. Io vi ho portato dei dati. Dire che La Barbera, Pansa, Tinebra sono dei sodali, fanno parte dell’eversione nera sinceramente mi riesce difficile, ma se mi si dimostrerà lo accetterò, ci mancherebbe. Io ho solo l’interesse a che si scopra per conto di chi questi soggetti hanno agito. Però Borsellino dice: «qui è un nido di vipere». E questo, credetemi, non è stato mai analizzato a sufficienza. Questo siamo venuti a dirvi.
Per quanto riguarda la strategia unitaria: anche qui si è sempre pensato a cosa nostra come un monolite. Già nel marzo del 1992 Borsellino fa una dichiarazione in cui dice: «Riina e Provenzano sono come due pugili in lotta». Anche lì andrebbe rivista la famosa monoliticità, unitarietà della commissione. Io credo che Riina – e l’ho spiegato – agisse in pieno delirio di onnipotenza per necessità sue interne e perché era convinto che, appunto, dando i colpetti, potesse utilizzare i vecchi sistemi per cui poi alla fine ci si accordava. La politica della mediazione, come vi ho detto nel corso della mia audizione introduttiva sul contesto. Dovete inquadrare questa risposta con riferimento al disegno egemonico di Riina. Riina pensa di poter essere colui che va a occupare il vuoto di potere che si sta per determinare per effetto delle indagini. Questa consapevolezza viene dopo, nel 1993. Ecco perché io non lo ritengo un progetto unitario. Nel 1992 le stragi hanno una ragione preventiva, che viene venduta come vendicativa alla maggior parte della commissione che non sa degli affari di Riina e del disegno egemonico di Riina per arrivare al «tavolino».
Quindi le stragi di Capaci e via D’Amelio non sono connesse con le stragi in continente, perché lì se un simulacro di unitarietà della deliberazione delle commissioni si potrebbe rinvenire nel disegno vendicativo nei confronti di Falcone e Borsellino, rispetto alla strategia stragista in continente, quando cioè è fallita la logica preventiva di bloccare quelle inchieste, Riina, tra l’altro catturato, i suoi sodali cercano di giocare l’impossibile. Ma io non vedo tra Italicus, Bologna… Io ho sentito pure di Portella della Ginestra, come se fosse un disegno unitario, come se gli anni non passassero solo per noi e per il mondo, ma tutto fosse fermo. Quando si parla di mafia, dei rapporti Stato-mafia ci si ferma, il tempo non passa, i paradigmi non vengono superati. Quando io sento parlare di Portella della Ginestra associata alle stragi di Falcone e Borsellino, io divento letteralmente pazzo, come se la storia, gli eventi, il dinamismo sociale, anche il cambiamento culturale all’interno dello stesso sodalizio mafioso… Ma c’è una differenza enorme tra Messina Denaro e Totò Riina, per substrato culturale, per strategia, per tutto. E le nuove generazioni saranno ancora peggio e quindi meglio per noi.
Bellini. Il progetto della Lega Sud fa parte di questo tentativo di creare un proprio spazio. Addirittura, c’è un verbale della Commissione parlamentare antimafia, la posizione del defunto onorevole Mattioli, in cui dice: «Attenzione, guardate che quelli persi per persi, va di moda il leghismo, va di moda, proviamo la strada della Lega del Sud», proprio per occupare e darsi un ruolo. Ci dirà poi Cancemi, e soprattutto ce lo dirà Giuffrè, Riina voleva uccidere Provenzano. Giuffrè ci dice che quando Riina gli chiese: «Ma a che ora esce Binno?» Giuffrè ha capito che attraverso il boss di Caccamo, fedelissimo di Provenzano – quindi prima della cattura di Riina – Riina voleva addirittura uccidere Provenzano, perché voleva il campo libero in questo suo disegno pazzesco, folle, in pieno delirio di onnipotenza.  
Bellini è una figura inquietante, sono d’accordo con l’onorevole Orlando, ma Bellini fa parte di quel «mondo di mezzo», perché Bellini è protagonista di alcune trattative. Una è quella famosa legata alla restituzione di alcuni beni artistici. Ed è il Bellini che si propone al Brusca Giovanni perché, attraverso il famoso maresciallo Tempesta, se ricordate, si fa questa prima trattativa. Ma è chiaro che in quel momento storico, dove tutti perdono dei punti di riferimento, l’unica Falange Armata veramente esistente non è quella che rivendica il 21 giugno il fatto che Ayala sta mentendo sui diari di Falcone, sulle annotazioni, perché le annotazioni poi le abbiamo trovate. La Falange Armata, voi sapete, è stata poi studiata dal giudice Salvini è stato dimostrato che molte volte si trattava di hackers. E soprattutto è stato dimostrato che in un’agenzia giornalistica in Portogallo, in piena epoca pre-crollo del muro di Berlino, si era organizzato un centro di spionaggio. Tant’è vero che chi voleva indagare su quella struttura in Portogallo poi è stato bloccato per motivi di segreto di Stato, perché lì c’era – anche attraverso l’utilizzo, per carità, di soggetti di estrema destra fondamentalmente – l’utilizzo di una cellula di controspionaggio, ma sempre in funzione anticomunista.
Quindi la vera Falange Armata che io ho visto operare seriamente in quegli anni erano le pattuglie di Riina che piazzavano tritolo. E poi ho visto un’altra Falange Armata muoversi: uomini dello Stato che hanno fatto di tutto per depistare le indagini sulla strage di via D’Amelio. Se voi riuscite a dimostrarmi che cos’è la Falange Armata io sono il primo a dire: «Allora portatemi le prove che esiste un’altra Falange Armata, che è la vera. Io conosco solo quella Falange Armata».
L’omicidio Scopelliti. Diciamo che sull’omicidio Scopelliti c’è da dire che conosco poco, non posso sapere tutto. So solo che una delle causali viene individuata nella inavvicinabilità dello stesso, con riferimento alla requisitoria che avrebbe dovuto fare nella funzione di sostituto procuratore generale in Cassazione rispetto al maxi processo. Io vorrei ricordare che già Riina si mosse molto per cercare di aggiustare il maxi processo. Non ci riuscì. E lì sul versante calabro catanese ammetto di non avere le stesse conoscenze che ho sulla mafia del versante occidentale. Quindi qualora mi si dimostrerà che Scopelliti è stato ucciso anche attraverso l’intervento di terroristi, io non potrò che prenderne atto.
Quello che veramente vorrei che restasse è che noi stiamo cercando di offrire materiale nuovo, e di non andare sempre a riciclare del materiale vecchio che è stato già oggetto di ampia delibazione nelle sedi competenti.

PRESIDENTE. Grazie mille avvocato. Io ho ancora tre iscritti a parlare. Prego onorevole De Corato.

RICCARDO DE CORATO. Io volevo ringraziare sia la dottoressa Borsellino sia l’avvocato Trizzino. Nella prima audizione ha iniziato con il paragone Mani pulite e mafia. Io sono stato consigliere comunale a Milano dal 1985 fino al 2016 e ho vissuto in quegli anni tutta la vicenda di Mani pulite nel consiglio comunale di Milano, quindi non devo dire altro. La sua ricostruzione mi ha impressionato, soprattutto perché questo accostamento mafia-appalti non era mai stato fatto. Ad esempio lei ha detto che Di Pietro fu portato in Costa Rica a un certo momento perché c’era il rischio. Questo è un fatto che a Milano non si è mai saputo. E questo è un fatto anche di un certo rilievo. La domanda che io le farò – poi noi avremo modo di sentire anche il dottor Di Pietro – perché in un’intervista a L’Espresso del 19 gennaio 2020 che lei ha citato, Antonio Di Pietro racconta l’incontro con Paolo Borsellino. L’incontro avviene ai funerali di Falcone. Dice il dottor Borsellino: «Ci siamo parlati e lui ripeteva: “Dobbiamo fare presto, dobbiamo fare presto” con riferimento alle indagini sul rapporto del ROS». Di Pietro spiega il valore di quell’indagine giungendo addirittura ad affermare che Mani pulite e Palermo sono un’unica storia e questo emerge in maniera chiarissima. Io per questo la ringrazio perché dopo quello che lei ci ha detto credo che i dubbi possono essere pochissimi. Io non li ho. Il riferimento decisivo è proprio all’indagine su Gardini e la Calcestruzzi, guarda caso. Mani pulite non è partita da Milano, ma da Palermo, con il rapporto dei ROS del 1991. Questo per esempio è un fatto fondamentale, almeno per chi come me per anni ha vissuto nel consiglio comunale di Milano con denunce varie che ho portato anche al dottor Di Pietro. Questo rapporto del ROS, che io ritengo un dato fondamentale, la storia di quello che è accaduto nel nostro Paese, in relazione a tutte le vicende delle tangenti, a Milano come a Palermo. Questo rapporto del ROS del 1991 viene messo in cassaforte da Giammanco, guarda caso, dove veniva raccontato quello che ho scoperto anni dopo. Dice Borsellino.
Domanda: avete notizie sul rapporto personale tra il dottor Borsellino e il dottor Di Pietro? Cosa pensate di queste affermazioni? Lei le ha citate, ma non siamo mai entrati in queste affermazioni del dottor Di Pietro che, è inutile dire, è stato l’autore di tutta la vicenda di Mani pulite, almeno nella parte più importante. Grazie.

RAOUL RUSSO. Grazie presidente. Naturalmente un ringraziamento non formale a Lucia Borsellino e all’avvocato Trizzino per quello che hanno detto, soprattutto perché lo hanno fatto con dovizia di particolari, con concretezza, e perché hanno – l’avvocato Trizzino in modo particolare con le sue correlazioni perfette oserei dire tra fatti e contesto – rievocato anche il clima della Palermo dell’epoca. Perché magari chi, come me, è palermitano un po’ si ricorda, perché aleggiava il tema di questa procura che era un «nido di vipere», come veniamo a sapere dopo e soprattutto questo clima da «mani sulla città» collegato al potere politico e al potere economico che, vi assicuro, era molto visibile, perché i figli di Siino andavano nelle migliori scuole di Palermo, qualcuno se lo scorda. Siino era considerato uno degli imprenditori più importanti di Palermo. Molti dei nomi che sono stati fatti sono i principali costruttori che hanno costruito e devastato Palermo. Quindi parliamo di un contesto molto importante e chi l’ha vissuto non si può meravigliare come questo potere economico e politico fosse non solo intrecciato, ma non volesse avere rotte le scatole. Una domanda alla dottoressa Borsellino in modo specifico. Secondo me, lei oggi ci ha dato una notizia importante: ci ha consegnato, se ho ben compreso, la rubrica telefonica contenuta nell’agenda marrone sicuramente trovata nella famosa borsa, dandocene anche una chiave di lettura che io ritengo assolutamente plausibile per una generazione che ancora utilizzava carta e penna. Quindi le faccio una domanda quasi provocatoria: cosa c’era secondo lei, che viveva con il dottor Borsellino, quindi non de relato, in quella borsa? Come diceva la famosa agenda rossa, c’era altro? Ovviamente a sua memoria.
E poi una domanda per l’avvocato Trizzino. Lipera – forse mi è sfuggito, però volevo precisare meglio – inizia a collaborare con la procura di Catania e aveva manifestato ufficialmente, ufficiosamente la volontà di collaborare anche con la procura di Palermo in questo meccanismo di indagini? Grazie.

PRESIDENTE. Grazie mille. Avvocato, se vuole rispondere intanto.

FABIO TRIZZINO

 legale di Lucia, Manfredi e Fiammetta Borsellino. Parto da quest’ultima domanda. Lì si apre una pagina, secondo me, tra le più terribili della storia, che è un incidente all’interno di tutta questa vicenda, il cosiddetto caso Catania. Il giudice Felice Lima è stato vittima, e lo dico senza paura, di un attacco feroce della procura di Palermo per essere riuscito a fare quello che loro non erano riusciti a fare. Cioè, valorizzando il rapporto, ovviamente anche attraverso le dichiarazioni di Lipera, fanno una richiesta di custodia cautelare, che io ho agli atti, che non venne vistata dal procuratore Alicata, benché il procuratore Alicata avesse seguito tutte le indagini. L’altra volta, nella sua domanda, il senatore Scarpinato mi ha chiesto di Lodigiani. Bene, il primo che va ad interrogare Lodigiani è stato Felice Lima. Ed era già nella richiesta di arresto non vistata del 15 ottobre del 1992. Non bisognerà aspettare l’ordinanza del maggio del 1993 per avere il nome di Lodigiani.
La cosa incredibile – e io vi rimando alle fonti, per lo studio di questa questione è fondamentale – io voglio sapere, nell’ambito del procedimento 3541/92, stralcio Sirap, una volta che, il 5 settembre del 1992, De Donno produce l’informativa Sirap, quali atti di indagine significativi sono stati fatti fino al 28 ottobre del 1992, quando scoppia il caso Lima, che viene accusato dai magistrati della procura di Palermo di recare un danno alle loro indagini. E il danno sarebbe quello di portare come teste al processo Claudio De Eccher, che stava inquinando da mesi le indagini. Questo era il danno che stava provocando Felice Lima a Palermo. De Eccher viene trovato con il verbale uscito dalla procura di Palermo di Leonardo Messina e lo scopre Felice Lima. Felice Lima lo vuole arrestare subito perché De Eccher è il più proclive a delinquere di tutti gli imprenditori che sono nel rapporto di mafia-appalti. Era veramente un imprenditore spregiudicato. C’è una registrazione della signora Stella, la moglie di Lipera, di quando, nello studio dell’avvocato Carlo Fabbri, Claudio De Eccher e Carlo Fabbri cercano di convincere la signora Stella, moglie di Lipera, pagandogli l’assistenza dei difensori, conservandogli il posto di lavoro e tante altre cose, per impedire al marito di collaborare. Questo è Claudio De Eccher, archiviato. E poi nella dichiarazione del 7 dicembre 1992 di denuncia di Felice Lima questo sarebbe il danno, dimostrare che quel soggetto che avrebbe dovuto fare il teste era un vero delinquente che stava inquinando le indagini. E quando loro lo arrestano nel maggio del 1993, era stato arrestato nel marzo del 1993 dalla procura di Pordenone.
Andava arrestato nell’ottobre del 1992, come voleva Felice Lima, perché stava inquinando le carte processuali, altro che maggio 1993.
E la cosa incredibile è che la procura di Palermo fa un’eccezione che normalmente facciamo noi avvocati, e cioè: avete sentito Lipera a s.i.t. come persona informata sui fatti e non come imputato di reato connesso. Ma fece bene Lima, per tanti motivi. Primo, non sapeva chi aveva di fronte. La prima cosa che gli dice fuori verbale è che la procura di Palermo non si fida perché lui conosceva personalmente dal 28 febbraio 1991 il rapporto. Quindi da quella procura è uscito il rapporto e ce lo conferma Gilda Loforti. Gilda Loforti lo dice: «È assai logico e probabile che la divulgazione illecita sia avvenuta dalla procura, non dai carabinieri». Altro che i carabinieri.
Lima viene attaccato, sottoposto ad un procedimento disciplinare devastante solo perché era riuscito a far parlare Lipera, aveva capito la natura associativa del patto del «tavolino» che precede l’infiltrazione della mafia. Per cui prima esiste il sistema delle combine, il racket, ed era tutto desumibile dalla richiesta di arresto del 25 giugno 1991. Gli stessi magistrati della procura di Palermo, quando fanno la richiesta di arresto di Siino, Lipera, Falletta, Cataldo Farinella latitante, e un altro che in questo momento non mi ricordo, attraverso il giusto recupero che fanno delle dichiarazioni di Pino Aurelio, e di Giacone, che io ho definito erroneamente imprenditore, ma era il sindaco di Baucina, amico intimo del Taibi ucciso nel settembre del 1989, da cui cominciano le indagini proprio tra Tor di Valle, che si associa con un imprenditorino di quattro soldi. Da lì nasce l’inchiesta oltre che dall’omicidio di Barbaro o La Barbera. Sono veloce, però come si fa a essere veloce a raccontare la storia d’Italia in quattro righe? Felice Lima è uno scandalo, ha subito la stessa sorte di Augusto Lama solo perché si era infilato in quella cosa in cui non si doveva infilare. Allora io voglio sapere, nel momento in cui l’informativa Sirap atterra su Palermo il 5 settembre, e siccome c’era stato lo stralcio del 15 giugno, 3541/92, quali deleghe di indagini sono state fatte sulla base della lettura dell’informativa Sirap. Perché se per caso si dovesse scoprire che dal 5 settembre al 28 ottobre non c’è niente, ci deve essere una spiegazione.
Tra l’altro Felice Lima nei verbali – e vi rinvio a questi atti che vi produco – richiesta di arresto non vistata dal procuratore Alicata, quello che ci dice Teresa Principato nel maxi bis, che aveva chiesto che rispetto a un procedimento a carico di Susinni, tenuto da Felice Lima, attraverso D’Acquisto si doveva arrivare ad Alicata per influire su Felice Lima. Sempre questo è il giro. D’Acquisto, capo di una procura, sostituto che si occupa di certe indagini. Sempre questo, e ce lo dice Teresa Principato nei verbali della commissione. Circostanza emersa nel processo maxi bis. Quindi vi rinvio per la storia del caso Lima alla relazione della procura di Palermo del 7 dicembre 1992 al CSM. Anzi andiamo prima, richiesta di custodia cautelare non vistata del 15 ottobre del 1992 di Felice Lima. Vi ho prodotto gli interrogatori del 13, 14, 15 gennaio, 20 luglio, eccetera, di Lipera. Lì troverete anche i tentativi degli avvocati fanno, soprattutto Memi Salvo, per far tacere Lipera. Tra le cose che gli contestano nella relazione del 7 è che Lipera è stato sentito non alla presenza di quell’avvocato di cui loro oggi dicono che era un mafioso.
Vedete la contraddizione? La contraddizione è pazzesca. È un paradosso tutto questo. Io avrei voluto veramente avere più tempo per rappresentare passo passo tutte le anomalie di quella gestione. Guardate che il caso Catania grida vendetta. È come se Caltanissetta, che aveva dimostrato l’inattendibilità di Ciancimino, avesse sollevato un caso al CSM perché l’arresto lo fa la procura di Palermo che lo aveva portato in cima in Italia come l’icona dell’antimafia. Non è successo niente. Si fa una telefonata tra capi e si dice: «Guarda non ti ho fatto il collegamento per questo e questo motivo». C’era il problema che Lipera era chiuso in un carcere con i mafiosi e che c’erano in atto manovre inquinatorie, anche da parte della mafia, per non farlo parlare tramite l’avvocato Memi Salvo. E poi – sentite, sentite – lo dichiara Felice Lima al CSM nel marzo e nell’aprile del 1996 (atti che vi ho depositato): «Io ho parlato con Borsellino ed è stato lui a far capire di non far mandare niente a Palermo». È chiaro?
Ma le ragioni di Lima sono estremamente importanti perché tutto avviene in quattro mesi. L’articolo 371 c.p.p. stabilisce una facoltà e non obbligo. Palermo aveva anch’essa l’anonimo di Catania, perché non si interessava Palermo, visto che l’anonimo era stato sequestrato come atto di delega di indagine della procura di Palermo? In realtà se voi leggete la posizione di De Eccher nell’archiviazione è pazzesco come si valorizzano le sue deduzioni difensive pro domo sua, si analizzano molto attentamente telefonate, pezzi di intercettazioni, documenti, però tutti gli elementi che, invece, andavano a carico della posizione, e che erano lì, perché la lettera e l’appunto sequestrato nella segreteria di Caltanissetta del Lipera erano stati sequestri fatti dal ROS su delega di indagine della procura di Palermo. Erano lì gli atti. Ecco quali sono le anomalie che non ci convincono. Noi pensiamo, a torto o a ragione, che quella archiviazione fu accelerata. Non si diede il tempo a Borsellino di ritornare, se fosse vissuto, e a dire: ne parliamo dopo. Come fa nella riunione del 14. Gli dice: «Vedete di acquisire gli atti dell’ultimo pentito» che era Leonardo Messina «e poi di questa questione ne parliamo appena torno dalla Germania». E secondo voi un magistrato parla così se gli avessero detto: «c’è un’archiviazione allo stato degli atti»? Ma di che cosa stiamo parlando?
Quindi vi rinvio per lo studio attento del caso Lima, al provvedimento della dottoressa Gilda Loforti, alla relazione della procura di Palermo del 7 dicembre 1992, alle sedute del marzo e dell’aprile 1996 della sezione disciplinare del CSM in cui Felice Lima spiega, convincendomi pienamente, che non era opportuno e che – visti i pericoli di vita che correva Lipera, e soprattutto le manovre inquinatorie accertate di Claudio De Eccher – non c’era alcuna necessità di informare Palermo. E che anzi in vista dell’inizio del dibattimento del 19 ottobre del 1992 del procedimento a carico di Siino e altri bisognava bloccare e arrestare Lodigiani, De Eccher, Catti De Gasperi eccetera, perché erano tutti associati a delinquere semplice in una grande organizzazione volta alla gestione illecita degli appalti, in cui poi vi era anche la mafia.

LUCIA BORSELLINO

Soltanto sulla conoscenza di mio padre con Di Pietro. Era una conoscenza che chiaramente si ascrive più al periodo finale della sua vita. Questo lo sappiamo dal dottor Di Pietro. Io poi l’ho conosciuto personalmente insieme con mia madre a casa nostra, perché è venuto a casa dopo la strage di mio padre, e fu lui che appunto ci confermò che stava lavorando con lui, aveva frequenti contatti nell’ultima fase della sua vita.
Noi, a dire la verità, per essere proprio estremamente trasparenti e chiari, non abbiamo trovato il suo numero, per esempio, in quella famosa rubrica; per chi poi dovesse sollevare anche questo tipo di obiezione, visto che ci aspettiamo tutto. Però c’era il numero del ROS di Milano.
Il presidente mi ricordava che tra le sue domande, onorevole Russo, vi era anche la questione del contenuto della borsa. Io ho testimoniato personalmente nella fase del dibattimento deL quater.
Sono stata sentita come teste della difesa chiamata dall’avvocato Repici per testimoniare in ordine alla presenza dell’agenda rossa. L’agenda rossa era contenuta all’interno della borsa perché io sono stata una testimone oculare dell’utilizzo di questa agenda da parte di mio padre la mattina del 19 luglio. Così come mio zio, Bruno Lepanto, è stato testimone del fatto che mio padre avesse aggiornato l’agenda, la rubrica proprio quella mattina del 19 luglio. Lui era solito alzarsi molto presto e in particolare quella mattina si era alzato prima delle cinque perché alle cinque aveva avuto un appuntamento telefonico con mia sorella, prima che poi venisse chiamato alle sette dal procuratore Giammanco. Perché io fui testimone di quelle ore, che papà trascorse a lavorare? Perché visto che la mia camera da letto era occupata dagli zii che dormivano da noi in quei giorni, io dormivo quella notte nel divano che vi era proprio in prossimità della sua scrivania.
Quindi io fui svegliata dalle telefonate, a partire da quella delle cinque del mattino, per cui poi mi trattenni nel letto, senza dormire chiaramente, in dormiveglia, fino poi a svegliarmi completamente, guardando tutto quello che papà aveva fatto prima di andare via. Tra l’altro lui partì da casa intorno alle nove e mezza, dieci, se non vado errata, e quindi fino a quel momento aveva continuato a lavorare. Si era poi ritagliato questo spazio della mattina, fino al primo pomeriggio, per stare con la sua famiglia a Villa Grazia.
Io stetti proprio a stretto contatto con lui perché fino all’ultimo voleva convincermi ad andare con lui la mattina. Convinse mia cugina di dodici anni, che mise con lui in macchina. Quindi se mio padre fosse stato sicuro di morire quel giorno, e mi risulta che c’era stato un tentativo di far brillare l’ordigno la mattina stessa, mio padre avrebbe portato a morte anche me e mia cugina Silvia di dodici anni. Quindi questo dimostra che mio padre fino all’ultimo ha creduto nella possibilità che lo Stato potesse proteggerlo. Questo lo dico a gran voce. Poi per un puro caso io non fui con lui perché appunto l’indomani dovevo sostenere un esame all’università, che poi fa rimandato di una settimana perché fu proclamato il lutto cittadino, e quindi poi non lo vidi più dalle dieci meno un quarto in poi perché appunto si apprestò ad andare alla casa del mare.
Quindi l’agenda rossa era contenuta nella borsa insieme con l’agenda marrone di cui vi ho parlato, contenente la rubrica, vi era un costume da bagno, le chiavi di casa, le sigarette che ci sono state restituite con il pacchetto, tutto era integro, perché la borsa ovviamente ha subìto una trasformazione nell’esplosione a livello esteriore, ma non ha assolutamente compromesso il contenuto. Per questo io mi sono particolarmente arrabbiata quando il capo della squadra mobile, il dottor Arnaldo La Barbera, ci ha consegnato la borsa e non ci ha dato l’agenda, perché io ero certa che fosse contenuta all’interno di quella borsa.
  Lo dimostra il fatto, e questo lo dice il maresciallo Canale più volte, e anche il suo collega di Salerno Diego Cavaliero, che quando mio papà si trovò lì a Salerno per il battesimo del figlio del collega Diego Cavaliero, per un attimo dimenticò l’agenda rossa in albergo e fece di tutto per riuscire a recuperarla, sebbene poi sarebbe ritornato in albergo e quindi l’avrebbe naturalmente ritrovata, ma anche quelle due ore di permanenza dell’agenda in albergo a lui destava preoccupazione. Quindi questo a dimostrazione del fatto che l’ha portata con sé, e sono certa di questo, per averla vista inserire all’interno della borsa, come risulta anche dai miei verbali di deposizione innanzi all’autorità giudiziaria presso la procura di Caltanissetta. Escludo la possibilità che lui l’abbia minimamente lasciata, per esempio, nella casa del mare, pur avendola utilizzata, o in altri luoghi, perché appunto non se ne separava mai e avrebbe fatto di tutto per ritornare nel luogo dove l’aveva dimenticata. Quand’anche nella malaugurata ipotesi l’avesse lasciata a Villa Grazia di Carini e non gli sarebbe stato dato il tempo di ritornare, perché nel frattempo è stato ucciso, a Villa Grazia di Carini noi abbiamo subìto un furto, che abbiamo regolarmente denunciato, nel quale per altro non ci sono state forzature e che ha messo a soqquadro soltanto lo studio di mio padre, senza rubare nulla che fosse importante, almeno non abbiamo rinvenuto la sottrazione di alcun oggetto che potesse essere di valore. Questo è tutto quello che posso dirvi sull’argomento.

FABIO TRIZZINO

Io ho eluso una risposta, ma non era mia intenzione. Sulla natura dei rapporti tra Falcone, Di Pietro e Borsellino io la rimando, senatore, al verbale dell’aprile del 1999, Borsellino ter, che ho tra gli allegati, dove lì Di Pietro spiega perfettamente come nasce prima il rapporto con Giovanni Falcone, legato a un progetto di informatizzazione degli uffici della procura, perché Di Pietro era abile con gli strumenti informatici. Poi da lì si comincia a parlare, e siamo nella primavera del 1992, quindi Falcone è ancora vivo, Borsellino è ancora vivo e cominciano tutti e tre. Lei lo vede dal verbale del 1999, tutti e tre, Falcone, Borsellino e Di Pietro parlano delle indagini. Siamo all’inizio, Baggina e piccole cose lombarde. Borsellino e Falcone hanno, invece, il rapporto del ROS. Non dimenticate la reazione di Falcone quando nell’agosto del 1991 Giammanco gli manda il rapporto: «Lo stanno insabbiando». Non dimenticate la reazione di Borsellino come raccontatoci da Antonio Ingroia nel 2021: «Lo stanno insabbiando». Borsellino credeva che stessero insabbiando quell’indagine. Ho spiegato più volte la manovra a tenaglia. Di Pietro da una parte, Falcone Procuratore nazionale, Borsellino non oso immaginare. Tant’è vero che c’è una dichiarazione del 1998 di De Donno in cui De Donno dice: «Falcone mi chiama e mi dice: se divento Superprocuratore la voglio con me nella costituenda forza d’indagine che vado a creare». E secondo voi De Donno di che cosa si sarebbe occupato con Falcone? Non penso di Stefano Delle Chiaie, mi pare un po’ difficile in quel momento storico, ma non lo voglio dire, lo potrei dire anche di Curcio, Moretti, a me non interessa il colore, nero, bianco o rosso delle frange terroristiche. A me piace l’aderenza ai fatti. E ho dimostrato che Riina, tramite Panzavolta, Bini, Buscemi, era così con Raul Gardini, quello che è in grado di fare una telefonata e bloccare un’inchiesta.
L’Italia stava cambiando, non c’erano più quei paradigmi. Poi ci può essere sempre un rimasuglio, ma dire che la mafia è eterodiretta dall’eversione è una follia perché è smentita dai fatti. È la storia di cosa nostra che è così, ma quella di Riina poi non ne parliamo. Riina è talmente ossessionato che non si fida neanche dei suoi. Scarantino è rimasto in vita nonostante Ferrante che si pente nel 1996, perché Ferrante non sapeva realmente chi aveva rubato la macchina. E Ferrante chi è? Colui che presidia Borsellino la domenica da via Cilea, tutta la staffetta. E Ferrante non sa chi ha rubato la macchina. Quindi un Riina che non si fida manco dei suoi, deve appaltare a chicchessia le stragi? Questa cosa se riuscite a dimostrarmela io sarò il primo a chiedere scusa a tutta l’Italia, però su questo voglio essere giudicato, su questo voglio essere contrastato.

PRESIDENTE. Avvocato Trizzino nessuno la giudica. Mi permetto di dirlo a nome di tutti, ci mancherebbe altro. Comunico ai colleghi che l’Aula è ripresa, quindi il tempo a nostra disposizione è terminato. Ho iscritta l’onorevole Ascari, la prego di essere velocissima, poi il vicepresidente D’Attis voleva sollecitare una domanda e liberiamo la dottoressa Borsellino e l’avvocato Trizzino.

STEFANIA ASCARI (intervento da remoto). Grazie presidente, farò il possibile, anche perché, come sa, il tema è estremamente complesso. Ringrazio anch’io l’avvocato Trizzino e la dottoressa Borsellino per l’importante contributo. È un dato di fatto e sappiamo tutti che Falcone stava indagando su Gladio prima ancora che questa organizzazione diventasse di pubblico dominio.. Sappiamo che, dopo il fallito attentato, Falcone parlò per la prima volta di «menti raffinatissime». Nel corso del processo per l’omicidio Rostagno è stato acquisito un documento, datato 10 giugno 1989, nel quale si davano istruzioni per un’operazione riconducibile a Gladio, con l’utilizzo di mezzi del centro Scorpione di Trapani. Mi riferisco all’operazione Domus Aurea, operazione che doveva svolgersi proprio nel tratto di mare antistante il villino abitato dal dottor Falcone all’Addaura. Dieci giorni dopo c’è stato l’attentato. Fatto sta che tre anni dopo, quando il dottor Falcone si è trasferito all’ufficio Affari penali del Ministero di grazia e giustizia a Roma, ha portato con sé alcuni file che riteneva importanti, tra questi quello su Gladio. Un mese dopo la strage di Capaci qualcuno ha consultato quei file. Io vorrei chiederle, dottoressa Borsellino, se vostro padre all’interno del nucleo familiare vi ha mai parlato di Gladio e se sì se prima del 1990, anche perché ci fu un dibattito feroce con Giammanco proprio su questo argomento.
La seconda domanda è questa: la signora Agnese, sua mamma, ha dichiarato durante il processo per la strage: «Mi ha accennato qualcosa, e non in quel contesto, che c’era una trattativa tra la mafia e lo Stato, ma che durava da un po’ di tempo. Dopo la strage di Capaci disse che c’era un colloquio tra la mafia e alcuni pezzi infedeli dello Stato e non mi disse altro». Questa è una domanda che faccio sempre a lei dottoressa Borsellino, perché vorrei capire se proprio all’interno delle mura avete avuto modo con la signora Agnese di approfondire questa dichiarazione nel merito, proprio come nucleo familiare. La strage di via D’Amelio è sempre stata definita anomala proprio perché troppo ravvicinata a quella di Capaci e anche perché le conseguenze sarebbero state ovviamente e palesemente dannose per gli stessi mafiosi.
Per quanto riguarda l’avvocato Trizzino vorrei chiederle, a proposito di trattativa Stato-mafia, ad aprile scorso, come tutti sappiamo, la Cassazione ha confermato l’assoluzione per gli uomini dell’Arma; per quanto riguarda l’ex parlamentare Dell’Utri, oltre ad aver riconosciuto la prescrizione per il boss di cosa nostra Leo Luca Bagarella e per il medico Antonino Cinà, ritenuto vicino a Totò Riina. Assolti per non avere commesso il fatto e non perché il fatto non costituisca reato. Ricordo a tutti noi che, nelle migliaia di pagine delle motivazioni della sentenza di secondo grado, i giudici siciliani, spiegando le ragioni dell’assoluzione dal reato di minaccia al corpo politico dello Stato, parlando del ruolo svolto dai militari dell’Arma, hanno scritto: «Una volta assodato che la finalità perseguita – o comunque prioritaria – non fosse quella di salvare la vita all’ex ministro Mannino o ad altre figure di politici che rischiavano di fare la fine di Lima, nulla osta a riconoscere che i carabinieri abbiano agito avendo effettivamente come obiettivo quello di porre un argine all’escalation in atto della violenza mafiosa che rendeva più che concreto e attuale il pericolo di nuove stragi e attentati, con il conseguente corredo di danni in termini di distruzioni, sovvertimento dell’ordine e della sicurezza pubblica e soprattutto di vite umane». Insomma non è un reato trattare con i boss mafiosi per arginare la violenza mafiosa. E qui la mia domanda: se il dottor Borsellino è morto perché, come è emerso anche da queste importanti audizioni, aveva intenzione di proseguire l’indagine, quindi sul dossier mafia-appalti, ritenendo quindi la commistione tra politica e mafia da denunciare e combattere assolutamente, cosa pensate? Lo chiedo a entrambi perché ho sentito una parte di una versione. Cosa pensate entrambi di questa sentenza della Cassazione? Una sentenza che assolve uomini dello Stato che hanno trattato con i mafiosi.
Ultime due domande velocissime. Vorrei che venisse approfondito il fatto che il dottor Borsellino andò in Germania, anche se è stato approfondito anche dall’avvocato Trizzino. Proprio il giorno della strage avrebbe dovuto andare in Germania per parlare con Gioacchino Schembri per l’omicidio Livatino. Pensa che quella visita fosse collegata alle indagini che Livatino stava facendo prima di essere ammazzato anche con riferimento al traffico di armi?
La dottoressa Lucia Borsellino ha parlato della visita della moglie di Scarantino, che è stata filtrata dall’ex fidanzato del tempo. Vorrei capire se quel filtro che c’è stato ha riferito in merito alla volontà di interlocuzione con la famiglia Borsellino. Grazie.

PRESIDENTE. Il vicepresidente D’Attis vorrebbe ripetere una domanda alla quale non è stata data risposta.

MAURO D’ATTIS(intervento da remoto). Riguarda mafia e appalti. Sulle altre aveva risposto, e la ringrazio. Se fosse possibile sapere quali sono stati in effetti poi i magistrati che hanno insistito all’archiviazione, seppur parziale, dell’inchiesta mafia e appalti e quindi massimi promotori di questa decisione che avvenne prima della strage.

FABIO TRIZZINO

Per quanto riguarda l’ultima domanda è documentale, si trovano nel testo i nomi dei magistrati che hanno firmato la richiesta di archiviazione di posizioni che sono state definite residuali nell’ambito del processo di Avezzano e di Caltanissetta. Tra questi vi era appunto Nino Buscemi, Lipari, Equizzi, Bulgarella e Nino Spezia. Quindi posizioni residuali. Il compendio probatorio in realtà non era per questa residualità. Quindi i nomi si trovano nel documento.
C’è da accertare semplicemente un aspetto che riguarda l’apposizione del visto sulla richiesta, perché il dato documentale – ed è riconosciuto tra l’altro nella sentenza Pellino a pagina 1583 – ci dice addirittura che Giammanco avrebbe vistato il 22. Questo francamente non lo so. Certo se ha vistato la richiesta dopo la morte di Borsellino per me il significato è importante, perché senza il visto del procuratore quello era un atto tamquam non esset. Se ha ritenuto, come ultimo atto, prima di andar via della procura di vistare quell’archiviazione, poi a sua volta accolta de plano il 14. L’archiviazione rispetto ad un procedimento poi, attenzione, non è che significa che l’indagine la riprendi come vuoi. No, devono arrivare nuove prove, devi chiedere a un giudice terzo l’autorizzazione a re-indagare e devi motivare quali sono le fonti di prova che danno in qualche modo reviviscenza all’importanza e all’attualità di una nuova indagine.
Quindi si può dire quello che si vuole, ma con riferimento a quelle posizioni, in quel contesto ben preciso che noi abbiamo preso come riferimento, cioè i cinquantasette giorni tra le due stragi, c’è anche l’archiviazione. Quindi quello è. Quello che è stato fatto dopo mi interessa relativamente. Vivaddio c’è l’obbligatorietà dell’azione penale in questo Paese, e di fronte alla messe incredibile di situazioni che sono emerse che però erano in nuce, anzi, più che in nuce, dentro il rapporto – e questo è l’oggetto della mia contestazione – certo che sono stati fatti i processi, ma sono stati fatti come una semplice Tangentopoli, giammai ponendo in relazione l’interesse di Borsellino per quelle carte e la sua uccisione. Quindi trovate tutto negli atti.
Chi sono? Non c’è problema, sono il dottor Scarpinato, il dottor Lo Forte che richiedono, il visto viene apposto dal dottor Giammanco; il dottor Sergio La Commare il 14 agosto de plano accoglie la richiesta di archiviazione.

LUCIA BORSELLINO

Sarò velocissima. La prima domanda che mi è stata posta è l’opinione che avevo rispetto a quanto è accaduto con riferimento al tentato omicidio ai danni di Giovanni Falcone all’Addaura. Io voglio chiarire intanto la mia posizione, che credo sia abbastanza chiara. Io sono la figlia di Paolo Borsellino e sono qui non in veste di opinionista o di persona esperta in materia giuridica. Me ne guardo bene. Vorrei anche dire che riportandomi all’epoca dei fatti io ero appena una ragazzina, in particolare nel 1989 avevo diciannove anni, poi quando è morto mio padre ne avevo ventidue. Questo è risaputo, noi potevamo cogliere qualche aneddoto della vita lavorativa di mio papà, ma non certo eravamo destinatari di confidenze, specie con riferimento a quello che poteva essere un tema delicatissimo qual era stato appunto quell’evento che aveva caratterizzato il fallito attentato all’Addaura.
Lo stesso dico con riferimento alle dichiarazioni che ha reso mia madre innanzi all’autorità giudiziaria di Caltanissetta nel 2009 prima innanzi al procuratore Lari e al sostituto Luciani e poi nel 2010 sempre innanzi al procuratore Lari e al sostituto Nico Gozzo, dove ebbe a riferire proprio di questi colloqui tra mafia e Stato. Anche lì mia madre, e lo ha detto lei, quindi non noi, lo riferiva allora per la prima volta (stiamo parlando degli anni 2009/2010, quindi a distanza dalla strage) proprio perché, fino a quel momento, aveva voluto tutelare noi figli. Quindi noi non siamo stati mai destinatari, anche dopo la strage, di confidenze di mia madre in questo senso. Quella era la prima volta che lei deponeva in questi termini dinanzi all’autorità giudiziaria. Noi non ne avevamo avuto alcuna anticipazione. Poi anche su questa frase io non sono tenuta a commentare nulla, ci sono dei processi che sono stati svolti. Io vorrei che chiunque, come sto facendo io, che non è addentro alle indagini, che non ha studi giuridici alle spalle, abbia l’umiltà di dire che appunto non è competente sul tema. Proprio su questa dichiarazione di mia madre è stato imbastito un intero processo, quello appunto sulla trattativa, che è giunto agli ultimi gradi di giudizio. Quindi non sta a me dire che peso avessero quelle confidenze che mio padre, in un momento di disperazione, visto che ormai non si poteva fidare quasi più di nessuno, disse a mia madre, avendo la piena consapevolezza che era arrivato alla fine dei suoi giorni. In realtà la questione che lui fosse oggetto e fosse il prossimo bersaglio, come è stato chiaramente precisato anche dall’avvocato Trizzino, era qualcosa che a mio padre era giunto già il 16 giugno. Quindi l’accelerazione già era in re ipsa, se di accelerazione si vuole parlare, perché già lui ne era a conoscenza ben prima di quando poi ufficialmente il procuratore Giammanco ebbe modo di riferirglielo solo a seguito di un duro confronto e di una dura rivendicazione da parte di mio padre il 28 giugno, a seguito dell’incontro con il Ministro Andò.
E poi vorrei precisare che mia madre in quel termine Stato non intendeva un’accezione generica, perché non c’è niente di più sbagliato che ritenere lo Stato nella sua interezza coinvolto sotto il giudizio dell’infedeltà a quelli che sono, invece, i suoi servitori migliori. In realtà, sono persone che si sono macchiate di infedeltà, ma sono persone, quindi vanno perseguite sul piano individuale, non è lo Stato nella sua interezza. Questo ci teniamo a dirlo proprio perché vogliamo continuare a nutrire fiducia nelle istituzioni da cui siamo governati, e soprattutto nelle quali viviamo e delle quali facciamo parte.

FABIO TRIZZINO

legale di Lucia, Manfredi e Fiammetta Borsellino. Telegraficamente. Credo di avere ampiamente sviscerato la questione di Gladio. Falcone indaga Gladio proprio quando si scopre la struttura. Non poteva farlo prima. E questo è uno degli effetti degli equilibri mondiali che stanno crollando.
Poi per quanto riguarda i file del PC di Falcone, lì è arrivato qualcuno prima di Genchi, perché Genchi non li ha trovati. Questo qualcuno è forse la stessa Criminalpol, che poi li ha portati per sbaglio a Palermo. E poi, infine, Paolo Borsellino ha dimostrato comunque di avere fiducia nel ROS fino al 14 sicuramente, perché li difende. E anche il 15, perché io insisto sulla struttura semantica di quella frase: «Ho visto la mafia in diretta, perché mi hanno detto, non perché Subranni è … perché me l’hanno detto, perché mi hanno detto che Subranni è punciutu» Lì chi glielo sta riferendo è il mafioso, non Subranni. Su questo io insisto perché la lettura complessiva delle carte mi porta a dire – del resto siamo in Sicilia – che nulla è per come appare. Questo è il risultato. Io di questo ormai sono convinto, nulla è per come appare, e viceversa.
Nonostante noi siamo venuti a portare una nuova chiave di lettura, si insiste ideologicamente, quasi che la verità su Paolo Borsellino sia una questione ideologica. Ma è pazzesco tutto questo. Sono quelle cose attorno a cui un Paese deve rifuggire da qualunque dogmatismo ideologico. Noi non teniamo famiglia. Come Paolo Borsellino noi abbiamo perso tutto. Anche la verità. Quindi l’atteggiamento migliore per tentare di ricostruire questa storia è il non tenere famiglia, non difendere rendite, non difendere posizioni, eccetera. Bisogna essere totalmente disinteressati. Noi abbiamo un unico problema da questo punto di vista. Io non sono sempre così e ve l’ho dimostrato, siamo emotivamente coinvolti. Però, ciò nonostante, ho cercato di seguire un metodo rigorosissimo nell’analisi delle carte. Per ricostruire questa vicenda bisogna essere liberi. Liberi. Senza libertà non avremo verità.

PRESIDENTE. Grazie mille, avvocato Trizzino, grazie dottoressa Borsellino.
Io voglio solo dire che spero che la sofferenza generata da questi ricordi possa essere alleviata, anche se solo in parte, dal lavoro che questa Commissione intende fare di sola e pura ricerca della verità, che credo meriti il giudice Borsellino perché è e resta una delle figure più significative e importanti della storia italiana. All’unanimità e in modo assolutamente corale e comunitario, noi gli dobbiamo la risposta alla richiesta di verità. Credo che ce lo abbia detto anche nell’ultima sua relazione fatta qualche mese prima della sua uccisione, quando parlò di criminalità politica e giustizia.
Io ringrazio tutti. Vi ringrazio veramente di cuore per esservi sottoposti a queste ulteriori ore di viaggio e sono certa che la Commissione parlamentare antimafia, dopo tutti questi anni, farà nel suo complesso il meglio possibile per alleviare la vostra solitudine. Grazie.

  La seduta termina alle 14.25.

 


FONTE:

XIX LEGISLATURA
Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali, anche straniere
Audizione di Lucia Borsellino e Fabio Trizzino, legale di Lucia, Manfredi e Fiammetta Borsellino

RESOCONTO STENOGRAFICO Bozze non corrette


 

 

Strage di Via D’Amelio – In COMMISSIONE ANTIMAFIA le audizioni dei famigliari di Paolo Borsellino e testimoni

 

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