Di Matteo, il pm simbolo dell’antimafia e quel processo farsa sulla strage di Borsellino

La domanda è: perché quei pm, Di Matteo, Petralia e Palma, per quanto giovani e forse inesperti di cose di mafia, seppure alle dipendenze di un procuratore – Tinebra – di cui in seguito sono state ipotizzate consuetudine con associazioni massoniche, non hanno ritenuto necessario approfondire quello che già si diceva del pentito chiave Scarantino?

 

Il presidente Sergio Mattarella lo dice nel luogo più istituzionale, mentre presiede il plenum del Csm dedicato alla commemorazione di Paolo Borsellino. “Le indagini su quella strage sono state segnate da troppe incertezze ed errori. Ancora oggi tanti sono gli interrogativi sul percorso per assicurare alla giusta condanna i responsabili di quel delitto”. Giovanni Canzio, presidente della Cassazione e il primo magistrato d’Italia, aggiunge altro: “Gli organi dello Stato hanno il dovere morale di accertare e far conoscere alla comunità da chi e perché dopo la strage di via d’Amelio fu costruita una falsa verità giudiziaria, i motivi di un così clamoroso e indegno depistaggio pure nella acquisita certezza probatoria che fu Cosa Nostra a ideare ed eseguire il crimine”.
E poi  il vicepresidente Legnini, il togato Luca Palamara che ha curato la pubblicazione del volume con i verbali e le denunce di Borsellino davanti ai colleghi del Csm, Luca Forteleoni e Aldo  Morgigni che hanno redatto i capitoli più difficili. 
Soprattutto loro, Lucia e Fiammetta, le figlie di Paolo Borsellino. Lucia, la più grande, è ospite nell’aula Bachelet e al presidente Mattarella e al Csm riunito chiede, tra l’emozione, che “a fronte delle anomalie emerse nel comportamento di uomini delle istituzioni nel corso delle indagini si intraprendano le iniziative per fare luce su cosa è accaduto”. Fiammetta, invece, è a Palermo, davanti alla Commissione antimafia, a cui consegna in chiaro il messaggio più volte bisbigliato tra gli addetti ai lavori ma mai denunciato in sedi istituzionali: “E’un dovere e un obbligo morale delle istituzioni indagare sui depistaggi di quell’inchiesta dopo che la sentenza Borsellino quater (aprile 2017) parla di induzione alla calunnia (nei confronti del primo e falso pentito Scarantino che ha tenuto lontana la verità dal 1993 al 2008, ndr)”. 

“Tinebra, un procuratore massonico”

Le figlie del giudice si muovono insieme (non può farlo il fratello, Manfredi, stimato dirigente della polizia di stato) e completano, a margine, il significato delle loro parole: un balordo del rione della Guadagna, Vincenzo Scarantino, scambiato per lunghi quindici anni per un boss mafioso e terribile stragista dal gruppo più esperto degli investigatori dell’epoca e da numerosi magistrati come Annamaria Palma, Carmelo Petralia e Nino Di Matteo guidati “da un procuratore massonico come Gianni Tinebra”. Allora erano la giovane pubblica accusa nel primo processo Borsellino, che, quattro processi dopo, è corretto dire che fu raggirata da prove fasulle e menzogne varie che si portano tuttora dietro una lunga scia di misteri.
Lucia e Fiammetta ne citano solo qualcuno, i più evidenti: perché, nonostante Capaci e l’allarme altissimo su Paolo Borsellino, non fu vietata la sosta delle auto e una 126 imbottita di tritolo potette restare parcheggiata in via d’Amelio? Perché, in quei 58 giorni tra Capaci e D’Amelio, Paolo Borsellino non fu mai sentito da alcuna Procura? Perché l’attesa delega a seguire le inchieste su mafia-appalti-colletti bianchi gli arrivò con una telefonata dell’allora procuratore la mattina di quel 19 luglio?

“Basta retorica, ora servono i fatti”

Ora, il senso della giornata, al di là delle emozioni, dei documenti importantissimi che il vicepresidente Legnini ha liberato dagli archivi del Csm ordinandone la pubblicazione on line (www.csm.it), sta proprio nella chiarezza della denuncia di Mattarella, Canzio e del procuratore nazionale antimafia Franco Roberti.

E nel dito puntato delle figlie su quel primo gruppo di magistrati che istruì il processo Borsellino. La domanda è: perché quei pm, Di Matteo, Petralia e Palma, per quanto giovani e forse inesperti di cose di mafia, seppure alle dipendenze di un procuratore – Tinebra – di cui in seguito sono state ipotizzate consuetudine con associazioni massoniche, non hanno ritenuto necessario approfondire quello che già si diceva del pentito chiave Scarantino? “Le figlie hanno detto chiaramente oggi cosa dobbiamo fare, noi come Csm e anche la magistratura inquirente” commenta un membro togato mentre la solenne seduta si scioglie. Fiammetta ha consegnato alla Commissione antimafia alcuni atti ci cui peraltro la Commissione è già in possesso: la lettera di 12 pagine con cui nel 1994 due magistrati, Ilda Boccassini e Roberto Sajeva elencarono i punti per cui Scarantino non era attendibile. Scrissero ai procuratori di Caltanissetta (Tinebra) e Palermo (Caselli) che erano necessarie e urgenti una lunga serie di verifiche.
Nel dibattimento del Borsellino quater, Boccassini ha confermato tempi, modi e contenuti della missiva. “Io però tornai a Milano e non seppi più nulla”. 
Tinebra, nello stesso dibattimento, disse di non ricordare di averla ricevuta. Il procuratore è morto due mesi fa. E anche altri testimoni importanti, come il superpoliziotto Arnaldo La Barbera che guidava il pool degli investigatori.

Il paradosso

Tra i tanti, c’è un paradosso più incredibile degli altri in questa giornata che mette in fila sussurri e ipotesi: Nino Di Matteo è diventato poi il pm simbolo dell’antimafia e del processo sulla trattativa Stato-mafia, un accordo per mettere fine alle stragi che è già stato riconosciuto in altre sentenze e di cui il processo in corso a Palermo cerca i protagonisti ( tra gli imputati politici e investigatori). 
Quel Di Matteo che il Movimento 5 Stelle vorrebbe proprio alla guida del ministero dell’Interno. E che alle figlie di Borsellino ha voluto rispondere subito. “Io so e tanti sanno fuori e dentro la mafia e fuori e dentro le istituzioni, chi in questi anni ha continuato a cercare la verità sulla strage e si è esposto e ha esposto la propria famiglia a rischi gravissimisacrificando la propria libertà e anche la carriera”. Il punto è che nessuno mette in dubbio l’azione di Di Matteo. Quello che gli viene chiesto, semmai, è di ricordare come fu possibile, all’epoca, un così totale e colossale raggiro.