Il 25 maggio 2021, presso la COMMISSIONE ANTIMAFIA REGIONE SICILIA , depone il dr Antonio Ingroia.
INGROIA, già magistrato. Perché? Perché, evidentemente, non c’era un rapporto di reciproca fiducia. La riunione era – non ricordo chi partecipò esattamente – ma era prevalentemente, i titolari di quel procedimento erano, la stragrande maggioranza, tutti delfini di Giammanco e quindi Borsellino doveva stare alla larga da quel tipo di indagine, che riguardava politica, mafia, appalti, è’ evidente.
Io ricordo – non ricordo in che data siamo – di avere colto una battuta che Paolo fece a uno dei fedelissimi di Giammanco del tempo – non ricordo se era al dottore Pignatore o al dottore Lo Forte, comunque a uno dei due – disse: “voi non mi raccontate tutta la vera storia sul rapporto del Ros “e aveva ragione.

Le rilevazioni del dottor Ingroia
“Sapere che PIGNATONE è indagato per favoreggiamento alla mafia non mi stupisce” ”Il profilo di PIGNATONE era noto a tutti da tempo…” “Il padre era vicino a Salvo Lima. “ “C’é un NATOLI di prima maniera e di seconda maniera.”
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- 25 maggio 2021 AUDIZIONE COMMISSIONE ANTIMAFIA SICILIA – ANTONIO INGROIA
Il j’accue di Ingroia: “Borsellino non si fidava di molti pm”. “Mi disse di non dire a nessuno di una importante collaborazione che stava per arrivare. Mi chiese di non dirlo neanche a Roberto Scarpinato”.
Pochi giorni prima di essere ucciso nella strage di Via D’Amelio il giudice Paolo Borsellino era diventato guardingo, “non si fidava di molti pm della Procura” e “teneva la porta sempre chiusa”, a differenza dei mesi antecedenti quando “sorrideva e nella sua stanza c’era un gran via via di colleghi”.
A raccontare gli ultimi giorni di vita del giudice antimafia è il suo ex pupillo, Antonio Ingroia. Sentito come teste dell’accusa nel processo sul depistaggio sulle indagini della strage di Via D’Amelio, l’ex Procuratore aggiunto di Palermo e oggi avvocato, rispondendo alle domande del pm Maurizio Bonaccorso, racconta il periodo antecedente e immediatamente successivo alla strage. Alla sbarra ci sono tre poliziotti, Mario Bo, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei, accusati di avere indotto l’ex pentito Vincenzo Scarantino a mentire accusando persone innocenti.
Rispondendo nel corso del controesame alle domande dell’avvocato di parte civile della famiglia Borsellino, l’avvocato Fabio Trizzino, che è anche il genero del giudice ucciso nella strage, ha spiegato che il giudice si fidava di lui e “di pochi altri”.
“Pensava che l’80 per cento della procura fosse controllata dal Procuratore di allora Giammanco…”, spiega Ingroia.
Racconta anche che nei mesi successivi alla strage di Capaci gli disse “che era sua intenzione affiancare me a lui durante l’estate per la collaborazione di alcuni collaboratori, in particolare Leonardo Messina.
Perché si fidava di me, e perché c’erano molti magistrati di cui non si fidava. Io quel giorno, il 15 luglio del 1992, l’ultima volta che lo vidi, gli dissi che stavo per prendermi qualche giorno di ferie ma lui non la prese bene.
Io lo andai a salutare ma lui rimase con la testa china, mi salutò freddamente”.
Borsellino aveva chiesto a Ingroia di affiancarlo, in particolare, nella gestione di due collaboratori, Gaspare Mutolo e Leonardo Messina. “Mi disse ‘Fai andare tutti questi in ferie e ci lavoriamo noi’.
Perché stava andando in una procura che considerava per l’80 per cento controllata dal procuratore Giammanco. Poi c’era un gruppo sparuto chiamato in modo sprezzante i ‘Falconiani’ che per lui era un punto di riferimento”. E spiega ancora che prima della strage di via D’Amelio il giudice Paolo Borsellino aveva cambiato atteggiamento.
“Prima era sempre allegro ed estroverso, a differenza di Giovanni Falcone che era invece più riservato”, dice ancora Ingroia. “Ricordo un giorno mi disse nella sua stanza di non dire a nessuno di una importante collaborazione che stava per arrivare – racconta – La prima volta non mi disse neanche il nome, ma che c’era un grosso pentito che si apprestava a collaborare e che a suo parere poteva fare luce su legami tra Cosa Nostra e altri ambienti.
Mi chiese di non dirlo neanche a Roberto Scarpinato, perché quest’ultimo era uno con cui io parlavo”.
Il riferimento è a Gaspare Mutolo.
Un altro capitolo affrontato da Ingroia è quello sull’ex dirigente dei Servizi segreti, Bruno Contrada. Arrestato alla vigilia di Natale del 1992 per concorso esterno in associazione mafiosa, dopo le dichiarazioni del pentito Mutolo. “L’1 luglio del 1992 Bruno Contrada, allora ai Servizi segreti, sapeva della collaborazione di Gaspare Mutolo”, “che era ancora top secret”, dice Ingroia. E racconta di averlo saputo poche ore dopo la strage. “Paolo Borsellino l’1 luglio si recò quel giorno al Viminale dove incontrò Contrada che gli fece capire di sapere della collaborazione di Mutolo.
Per Paolo era un segnale preoccupante. Perché all’interno del Viminale qualcuno gli mandò a dire che Contrada non era solo”. “Paolo lo percepì come un segnale preoccupante. Pensò che qualcuno dal ministero dell’Interno voleva fargli sapere che Contrada non era solo e c’erano loro dietro di lui. Questo lo appresi da Carmelo Canale e poi da Agnese Borsellino”. Poi, racconta di episodi “anche sconcertanti” che hanno riguardato l’ex Procuratore di Caltanissetta Giovanni Tinebra, “anche nei miei confronti”. “Ebbe anche un atteggiamento intimidatorio con me in una occasione”. dice. “Con il passare degli anni mi sono convinto che da parte di Tinebra vi fosse da una parte una posizione di conflittualità e di contrarietà rispetto alle iniziative che assumeva la Procura di Palermo – racconta Ingroia – e questo mi indusse fare delle pubbliche dichiarazioni in cui criticai la Procura perché non indagava sui cosiddetti mandanti esterni della strage. Questa dichiarazione che venne pubblicata da vari organi di stampa a ridosso dell’anniversario dell’attentato, provocò una reazione di Tinebra che in una riunione alla Dna mi avvicinò e mi disse con atteggiamento intimidatorio: ‘Questa te la faccio passare, ma non ti permettere più di criticare quello che sto facendo’”.
Nei giorni successivi alla strage di via D’Amelio l’allora Procuratore capo di Caltanissetta Giovanni Tinebra chiese proprio all’allora giovane pm Antonio Ingroia di incontrarlo, data la sua vicinanza al giudice Paolo Borsellino.
E in quella circostanza Ingroia gli raccontò quanto appreso il giorno dell’attentato da due colleghi, Teresa Principato a Ignazio De Francisci. “Dopo la strage di via D’Amelio, la domenica stessa, molti di noi pm più vicini a Paolo ci spostammo negli uffici di Procura. Eravamo seduti sulla panca dei corridoi, io con i colleghi Teresa Principato e Ignazio de Francisci. e loro mi raccontarono un particolare che avevano appreso da Borsellino il giorno prima”. “Quel giorno Paolo fece un singolare passaggio per le stanze di alcuni pm come se si stesse accomiatando da ognuno e in quella occasione gli aveva riferito che aveva appreso”. In quel frangente i colleghi gli raccontarono di avere appreso da Borsellino che il collaboratore Gaspare Mutolo gli aveva detto, fuori verbale, di alcune rivelazioni che avrebbe fatto su uomini dello Stato, in particolare su un magistrato, Domenico Signorino (poi morto suicida ndr) e un appartenente ai Servizi segreti, Bruno Contrada. “Questo è quanto io riferii al dottor Tinebra. Non ricordo se nello stesso frangente i colleghi mi raccontarono anche l’episodio dell’incontro tra Borsellino e Contrada. Mutolo gli disse: ‘Dottore si guardi le spalle perché dentro lo Stato ci sono delle complicità con Cosa nostra’ e gli fece i nomi di Signorino e Contrada”. E poi ricorda che quel giorno in cui incontrò Tinebra gli disse che la Procura stava indagando proprio su Contrada. Quello stesso giorno Tinebra chiamò Contrada per chiedergli di aiutarlo nelle indagini sulla strage di Via D’Amelio, come raccontato dallo stesso Contrada anche di recente, sentito dalla Commissione regionale antimafia all’Ars. L’ex falso pentito, che accusò anche l’ex premier Silvio Berlusconi.”Interrogai Vincenzo Scarantino in veste di sostituto. Ci venne segnalato che aveva presunte rivelazioni da rendere a carico di Bruno Contrada, relativamente a presunte soffiate di quest’ultimo che avrebbero fatto sfumare operazioni di polizia, e rivelazioni sul coinvolgimento di Silvio Berlusconi su traffico di droga”, dice.. Quelle su Berlusconi a naso mi parvero subito inattendibili e infatti non c’erano riscontri. In riferimento a quelle su Contrada c’erano dei riscontri generici ma non c’era nessun elemento sul fatto che Contrada pote”. Sempre oggi è stato sentito l’ex difensore del falso pentito Vincenzo Scarantino. Santino Foresta. Ricorda, in particolare, di quando il 2 settembre del 1998, mentre era in corso l’interrogatorio dell’allora collaboratore di giustizia Vincenzo Scarantino, “a un certo punto il pentito ritrattò tutte le dichiarazioni fatte precedentemente” sulla strage di via D’Amelio, “dicendo di essere stato costretto a fare quelle dichiarazioni”. “Le sue parole sconcertarono un po’ tutti. Soprattutto i magistrati – racconta – Ricordo che il pm Giordano si mise le mani nei capelli”. Ma dopo un “po’, nel corso dello stesso interrogatorio ritrattò la sua stessa ritrattazione e confermò quanto detto in precedenza ai magistrati”. Dopo essere stato recluso nel carcere di massima sicurezza di Pianosa, Scarantino decise di collaborare con gli inquirenti spiegando come venne organizzata la strage in cui morì il giudice Borsellino per cui venne condannato a 18 anni per poi accusare i poliziotti e magistrati, che lo avrebbero spinto a fare quelle accuse. Nel 1998 Scarantino ha ammesso di non avere preso parte all’attentato di via D’Amelio e di essere stato costretto dall’allora capo della squadra mobile di Palermo a confessare il falso e di aver subito maltrattamenti durante la sua detenzione nel carcere di Pianosa. Nel 2007 fu il pentito Gaspare Spatuzza a raccontare di essere stato l’autore del furto dell’auto Fiat 126 usata per l’attentato, scagionando Scarantino e dimostrando che era un falso pentito, usato per sviare le indagini sulla morte di Borsellino. L’avvocato Foresta, che in passato ha assistito anche altri collaboratori come Gioacchino La Barbera e Santino Di Matteo, racconta in aula che quel giorno, nel 1998, all’interrogatorio, c’erano i pm Francesco Paolo Giordano, Annamaria Palma e Carmelo Petralia. ”’Cosa successe nell’interrogatorio?”, chiede l’avvocato Giuseppe Scozzola, che rappresenta la parte civile nel processo. ”Scarantino partì un po’ a ruota libera e cominciò all’improvviso a ritrattare tutte le dichiarazioni fatte precedentemente – dice Foresta – queste sue parole sconcertarono un po’ tutti, ma soprattutto i magistrati che conoscevano gli atti di indagine. Diceva di avere avuto delle pressioni ma non disse da chi”. Da parte dei pm? Chiede l’avvocato Scozzola. ”Non penso proprio, i pm erano sconcertati”. Da parte della Polizia? gli chiede l’avvocato. ”Non lo so ma certo non dai magistrati”. ”Dopo un po’ nel corso dello stesso interrogatorio ritrattò la ritrattazione. – dice ancora l’avvocato Foresta -Quindi l’interrogatorio fini’ con la conferma del primo interrogatorio”. Alla domanda dell’avvocato Giuseppe Seminara se dopo la ritrattazione di Scarantino “c’è una sua interlocuzione o un confronto con i magistrati”, replica: “Ci fu una pausa in cui si verbalizzò ciò che aveva detto, poi ritrattò la ritrattazione dando una spiegazione. Ma non ci fu una interlocuzione tra Scarantino e pm. Io rimasi con i magistrati e Scarantino era a quattro mesi di distanza. Non mi pare che qualcuno si sia avvicinato, lo avrei visto. Il contesto era particolare”. Nel corso dell’udienza è stata ascoltata anche una ex legale del falso pentito Francesco Andriotta. Che esclude “di avere mai consegnato dei documenti, degli appunti o degli atti della dottoressa Annamaria Palma a Francesco Andriotta”. A parlare è l’avvocata Floriana Maris. Il processo è stato rinviato al prossimo 22 dicembre. 15.12.2021 ADNKRONOS (dall’inviata Elvira Terranova)
3.8.2024 “ANTONIO INGROIA: “Dopo una riunione Borsellino disse a Pignatone e Lo Forte: sul rapporto mafia e appalti non me la raccontate giusta”
L’ex magistrato, stretto collaboratore del giudice ucciso il 19 luglio 1992, racconta il clima all’interno della procura di Palermo diretta da Pietro Giammanco. “Lui e i suoi fedelissimi misero Borsellino in un angolo”
«Sono passati trentadue anni, ma lo ricordo come fosse ieri – dice Antonio Ingroia, all’epoca sostituto procuratore a Palermo – Al termine di una movimentata riunione nella stanza del procuratore Giammanco, Paolo Borsellino si avvicinò a Guido Lo Forte e Giuseppe Pignatone, disse: “Voi due non me la raccontate giusta sul dossier mafia e appalti».
Loro cosa risposero? «Fecero un sorriso e si allontanarono».
Quando si tenne quella riunione? «Giammanco l’aveva convocata per il 14 luglio, dopo le polemiche seguite alla pubblicazione di stralci del diario di Falcone, in cui si parlava della difficoltà di lavorare alla procura di Palermo».
Che cosa si disse in quell’incontro? «Si fece il punto su diverse indagini, ma su quella riunione ho ricordi sbiaditi. La collega Antonella Consiglio raccontò qualche settimana dopo al Csm che Borsellino espresse un certo dissenso: lamentava che alcuni atti della procura di Marsala non erano stati acquisiti nel fascicolo su Angelo Siino».
Anche a Marsala vi eravate occupati di mafia e appalti? «Dopo aver ricevuto il rapporto del Ros, Giammanco aveva fatto una sorta di spezzatino, inviandoci uno stralcio che riguardava il porto di Pantelleria. Il procuratore Borsellino aveva incaricato me di occuparmene, arrivammo ad arrestare il sindaco. Ricordo pure che eravamo stati a Palermo per parlare di alcuni aspetti dell’indagine con Giammanco».
Quando avvenne? «Paolo era ancora il procuratore di Marsala, erano i giorni in cui stava meditando di fare domanda per ricoprire la funzione di procuratore aggiunto a Palermo, incarico che poi iniziò nel settembre 1991».
Cosa accadde in quest’altra riunione con Giammanco? «Ricordo che nella stanza c’erano i colleghi Lo Forte e Pignatone, i più fedeli collaboratori di Giammanco. Parlammo dello stralcio di mafia e appalti che ci avevano inviato, ma Paolo lanciò anche una battuta a Giammanco: “Se faccio domanda a Palermo come procuratore aggiunto mi metti a occuparmi di esecuzioni in un sottoscala?”. Giammanco sorrise, disse che gli avrebbe dato la delega a seguire le indagini di mafia su Trapani e Agrigento. Tornando a Marsala, Paolo mi disse: “Questi qui cercheranno di mettermi in un angolo”. Ma fece comunque domanda per Palermo».
Aveva visto giusto Borsellino, si trovò presto isolato all’interno della procura di Giammanco. «Dopo il delitto Lima, Falcone e Borsellino compresero che era accaduta una cosa epocale. Borsellino voleva indagare sulle dinamiche mafiose di Palermo e anche sull’omicidio dell’europarlamentare Dc, ma Giammancoglielo negò. Borsellino voleva anche andare negli Stati Uniti per interrogare Buscetta: pure questo Giammanco impedì. Il procuratore arrivò a nascondergli la notizia del pentimento di Gaspare Mutolo».
Inizialmente, chi era stato incaricato di interrogare quel collaboratore così importante? «Aliquò, Lo Forte e anche Natoli, che all’epoca era vicino agli uomini di Giammanco, pure avendo trascorso un periodo importante all’ufficio istruzione di Falcone e Borsellino».
In quello che abbiamo dei diari di Falcone, ci sono molti riferimenti all’isolamento all’interno della procura di Giammanco. Cosa le disse Paolo Borsellino al proposito? «Paolo era convinto che dietro ogni annotazione potesse nascondersi uno spunto importante per comprendere la causale della strage di Capaci. Per questo voleva indagare a fondo su ogni spunto».
Sono trascorsi trentadue anni, i reati contestati dalla procura di Caltanissetta sono tutti prescritti, è il segno che una verità processuale su quella stagione non potrà mai più esserci? «Una verità processuale forse non potrà esserci, è vero, ma sono doverosi gli approfondimenti che la magistratura continua a fare su un periodo storico ancora carico di misteri. Certo, per questo tipo di ricerche, forse la sede più adeguata dovrebbe essere quella di una commissione parlamentare d’inchiesta, ma nel nostro paese i veti incrociati della politica e le contrapposte “tifoserie” hanno sempre bloccato il lavoro delle commissioni. Dunque, ben vengano le indagini della magistratura. E mi aspetterei che ci fosse collaborazione da parte di tutti».
A chi si riferisce? «Mi ha colpito il silenzio di Natoli e Pignatone quando sono stati convocati per l’interrogatorio. Ovviamente, era un loro diritto tacere, ma quando ad essere interrogati sono personaggi pubblici, questi dovrebbero rendere conto alla collettività. Così, ci siamo ritrovati a criticare Silvio Berlusconi, quando si è avvalso della facoltà di non rispondere al processo Dell’Utri.
Certi silenzi agli occhi dei cittadini appaiono ancor più pesanti».” di Salvo Palazzolo 3.8.2024 La Repubblica
5.8.2024 – ANTONIO INGOIA: “Borsellino perseguitato dalle vipere della Procura”
Ingroia, ex pm che collaborò con il giudice ucciso nell’attentato, dialoga con Affari sui rapporti “tesi” tra i magistrati di Palermo
Rischiavano di passare in sordina le audizioni della figlia di Paolo Borsellino, Lucia, e di suo marito, l’avvocato Fabio Trizzino, nella Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali straniere. Audizioni che, tuttavia, si sono rivelate dirompenti in particolare per alcune dichiarazioni di Trizzino: il legale dei figli del magistrato antimafia ucciso nell’attentato di via d’Amelio, nel ricostruire i mesi antecedenti la strage del luglio 1992, ha riportato alcune frasi che avrebbe pronunciato Paolo Borsellino prima della sua morte: “Definì il suo ufficio un nido di vipere”.
Parole inquietanti, che si sono aggiunte a quelle riportate dalla figlia Lucia: “Saranno i miei colleghi a volere la mia morte”, e che hanno gettato una nuova luce su uno dei pezzi di storia più intricati e per molti versi ancora avvolti dal mistero del nostro Paese.
Molti gli episodi e i nomi richiamati, tra i quali quello di Roberto Scarpinato, presente durante le audizioni in quanto oggi senatore – prima magistrato. Ma anche quello di Antonio Ingroia, ex magistrato del pool antimafia di Palermo, che lavorò al fianco di Paolo Borsellino proprio negli anni prima delle stragi.
Affaritaliani.it ha parlato proprio con Ingroia, per cercare di arricchire la storia dei frammenti di verità ancora mancanti.
È vero che Paolo Borsellino aveva definito la procura di Palermo un “nido di vipere”? E perchè?
Si tratta di giudizi e valutazioni che fece il dott. Borsellino e che comunicò anche a me. Sicuramente è vero, era un “nido di vipere” dove il clima era veramente teso. È certo che Paolo Borsellino si fidava davvero di pochi magistrati lì dentro, e aveva ragione. Tanto che più di una volta mi è capitato, mentre parlavamo e mi stava raccontando qualcosa di riservato, che lui interrompesse bruscamente la conversazione.
In particolare c’era una forte ostilità con il procuratore capo Pietro Giammanco
Borsellino non si fidava soprattutto di Giammanco, è vero. Anche perché quest’ultimo aveva sempre osteggiato prima Falcone e poi Borsellino stesso nelle loro indagini. Io fui tra i primi a denunciare al Csm nell’agosto del 1992, in alcune audizioni, la condotta di Giammanco. Contestazioni che determinarono l’apertura di un procedimento del Csm sulla Procura di Palermo, proprio all’indomani della strage di via d’Amelio. Alcuni di noi (magistrati, ndr) sottoscrissero un documento di contestazione (che passò agli onori della cronaca come il “documento degli 8 ribelli”) nei confronti di Giammanco, ritenendo che non fosse una guida autorevole a capo della Procura dopo i due lutti terribili.
Il Csm aprì un’inchiesta, e per un periodo rischiammo di essere sottoposti noi a procedimento disciplinare perché avevamo osato denunciare queste cose ribellandoci al capo ufficio … . Il Csm si è spaccato, ma la posizione di Giammanco era insostenibile – tanto che lui sparì dall’ufficio in quei giorni. Alla fine qualcuno consigliò a Giammanco di ritirarsi, e lui chiese il trasferimento in Corte di Cassazione. Da quel momento non si è mai più sentito parlare di lui.
L’avvocato Trizzino ha parlato di “cose terribili” che Borsellino aveva scoperto su Giammanco. Lei sa di cosa si tratta?
Ci sono diverse questioni da affrontare. Una, per esempio, che riguarda l’omicidio dell’allora onorevole Salvo Lima (politico siciliano noto per i rapporti che ebbe con Cosa nostra, ndr).
Borsellino in quelle settimane acquisì informazioni sui rapporti anche politici che Giammanco aveva con certi ambienti, vicini proprio all’on. Salvo Lima. Una volta parlando con me – non ricordo l’espressione precisa – disse: “Giammanco è un uomo di Lima”. Quindi lo riteneva sostanzialmente un magistrato colluso.
Lo stesso maresciallo Carmelo Canale, che era un suo stretto collaboratore come me fin dai tempi di Marsala, dichiarò in un mio processo che Borsellino gli aveva detto: “Prima o poi farò mettere le manette a Giammanco”.
Al centro delle audizioni di Trizzino c’è anche l’indagine che Borsellino stava compiendo relativamente al rapporto Ros “mafia e appalti”. Anche in questo c’entrava Giammanco?
Le indagini di Borsellino trovano origine nelle ritrovate annotazioni di Giovanni Falcone, diari in parte pubblicati (rimane il mistero mai accertato sino in fondo della parziale cancellazione della sua agenda) in cui si parlava del rapporto Ros mafia-appalti.
Siccome Borsellino – e lo disse a me – sapeva che Falcone non era solito a tenere diari, si sorprese e mi disse: “se ne ha lasciati vuol dire che gli appunti sono importanti, voglio approfondire la cosa”. Va detto che nel 1991, prima di trasferirsi a Palermo, io e Borsellino – da Marsala – ricevemmo dalla procura di Palermo uno stralcio del rapporto che riguardava alcuni appalti del territorio, tra cui quello relativo al porto di Pantelleria, il cui sindaco feci arrestare. E già all’epoca arrivarono notizie dai Carabinieri che alla Procura di Palermo stavano cercando di insabbiare questo rapporto, Giammanco in particolare. E proprio per “uccidere l’indagine” l’avevano sparpagliata in tutte le procure siciliane.
Già Borsellino, quindi, aveva un campanello d’allarme, e da Falcone sapeva che già lui aveva incontrato delle difficoltà. Da qui l’intenzione di vederci chiaro. E dal momento che non si fidava di tanti magistrati all’interno della procura di Palermo volle capire come stavano le cose.
Anche per questo organizzò un incontro segreto con l’allora colonnello Mori e il capitano De Donno. Può dirci di più in merito?
Quello che io so, perché il contenuto esatto dell’incontro non è noto, l’ho riferito a suo tempo alla magistratura di Caltanissetta (che non fece nulla, anzi il procuratore Tinebra poi si rivelò avere contribuito a depistare le indagini su Borsellino, benché conoscesse le dichiarazioni su Giammanco).
Sì, io credo che sia anche in questo contesto che si può collocare l’incontro con Mori e De Donno, ma non è l’unico incontro. Ne fece uno anche con l’allora procuratore (oggi senatore) Scarpinato, organizzato da me. “Voglio vederci chiaro – mi disse Paolo – Siccome tu ti fidi di Scarpinato, organizzami un incontro”. Presero accordi, nessuno dei due mi raccontò dell’incontro, ma immagino che Scarpinato gli abbia esposto come la pensava. E desumo che lo stesso sia accaduto con Mori e De Donno. Bisogna precisare che Borsellino – a dispetto di quanto si dice ancora – non si fidava di tutti Carabinieri. Si fidava solo di alcuni Carabinieri che conosceva bene, tra cui l’allora maresciallo Canale. Per questo suppongo che, come era stato per me, chiese a Canale di fungere da intermediario con i due.
Altrettanto sicuramente posso dire che in quello stesso periodo vi fu una famosa riunione della Dda nella quale emerse come la questione del rapporto Ros “Mafia e appalti” non lo convincesse. Tanto che Borsellino, incrociando uno dei magistrati più vicini a Giammanco poco dopo la riunione, gli disse “Voi non me la raccontate giusta”. Ma ancora non aveva scoperto molto, stava approfondendo.
Ingroia, non è che – forse – sono le stesse “cose terribili” scoperte e su cui stava indagando che hanno portato alla morte di Falcone prima e Borsellino poi?
Che Giammanco abbia cercato di ostacolare Falcone prima e poi Borsellino non c’è dubbio. Che le ragioni fossero collegate certamente ad ambienti magari non mafiosi, ma sicuramente politico-affaristici di quel nucleo su quale Falcone e Borsellino volevano indagare, e poi abbiamo provato a indagare noi, è altrettanto certo. Ma da qui a dire che c’è un diretto coinvolgimento di Giammanco o di altri magistrati nelle due stragi… . È chiaro che se Giammanco ostacolava intenzionalmente Borsellino nell’interesse di altri, comunicava questi altri quello che succedeva in Procura, quello che aveva scoperto Borsellino… .
Ma magari fosse così semplice. Io penso che non ci sia stata una sola causa per la strage di via D’Amelio, ma più cause che si sono sommate. Non penso però che l’ordine sia arrivato dalla Procura di Palermo.
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TESTO
10.8.2024 – INGROIA:“Pignatone? Magistrato antitetico a Falcone e Borsellino. Implacabile con i deboli, indulgente con i forti”

L’ex membro del Csm indagato per favoreggiamento alla mafia. Parla l’ex magistrato Antonio Ingroia
Per ora è solo un’indagine, ma l’accusa mossa dalla Procura di Caltanissetta all’ex procuratore Giusppe Pignatone è gravissima: favoreggiamento alla mafia.
L’attività ruota attorno a un’indagine collegata aperta a Palermo nel 1991, su input della procura di Massa-Carrara, relativa alle infiltrazioni di Cosa nostra nelle cave di marmo in Toscana. Di quel fascicolo il collega Gioacchino Natoli chiese e ottenne l’archiviazione alla fine del giugno del 1992. Tra i principali indagati c’erano Nino e Salvatore Buscemi, imprenditori mafiosi vicini al capo dei capi Totò Riina, poi divenuti soci del gruppo Ferruzzi. Secondo l’accusa, Natoli, Giammanco e Screpanti avrebbero aiutato i sospettati a “eludere le investigazioni”, svolgendo “un’indagine apparente” e in particolare chiedendo “l’autorizzazione a disporre attività di intercettazione telefonica per un brevissimo lasso temporale”, per cui non sarebbero state “trascritte conversazioni particolarmente rilevanti, da considerarsi vere e proprie autonome notizie di reato”. Insomma, un vero e proprio favoreggiamento nei confronti di quella mafia che Pignatone, nel corso della sua lunga carriera dalla Calabria a Roma, ha perseguito. Come mai, allora, il nome dell’attuale presidente del Tribunale vaticano viene accostato ai Buscemi? E che cosa c’entra questa indagine con il dossier Ros “mafia-appalti”, che ancora una volta viene riportato in auge per far luce sulle stragi del 1992? Il primo a parlarne, nel settembre del 2023 davanti alla Commissione Antimafia, è stato l’avvocato Fabio Trizzino, marito di Lucia Borsellino, mentre tanti protagonisti vicini a quelle vicende hanno scelto il silenzio, pensiamo al generale Mario Mori, al colonnello Giuseppe De Donno.
Affaritaliani.it ne ha parlato con Antonio Ingroia, ex magistrato del pool antimafia di Palermo, che lavorò al fianco di Paolo Borsellino proprio negli anni prima delle stragi, e che conosce molto bene Pignatone.
Avvocato, Pignatone si è dichiarato innocente di fronte all’accusa di favoreggiamento È un suo diritto, e del resto non abbiamo bene contezza degli elementi in possesso della Procura di Caltanissetta, che si incentra esclusivamente sull’intreccio tra la mafia e l’imprenditore Ferruzzi. È bene precisare, infatti, che questa vicenda è diversa dal dossier Mafia-appalti dei Ros, anche se ne costituisce un filone, e Pignatone è il nome in comune tra le due vicende.
Ma Lei che lo conosce un’opinione se la sarà fatta… Quello che posso dire è ciò che in tempi non sospetti ho sempre dichiarato: Giuseppe Pignatone ha incarnato un modello di magistrato antitetico rispetto a quello trasmesso da Falcone e Borsellino nella valutazione della rilevanza penale delle condotte. Questo nonostante per la sua preparazione tecnica e investigativa sia stato uno dei migliori.
In che senso? Falcone e Borsellino erano uomini, e magistrati, autonomi e indipendenti fino all’isolamento a difesa delle loro idee. Pignatone, invece, interpretava il ruolo di magistrato secondo principi di compatibilità rispetto al sistema, alla politica. Non esagero quando dico che è stato un magistrato che ha incarnato il modello del doppio-pesismo: implacabile con i più deboli della mafia militare e indulgente con i potenti (soprattutto nella valutazione delle relazioni esterne della mafia con il mondo dell’imprenditoria e della politica).
Mi fa un esempio? Per esempio quando rivendicò che non erano censurabili le condotte di certi parlamentari regionali perché rispetto alle scienze politiche la magistratura deve “fare un passo indietro”.
Ora Pignatone è presidente del Tribunale Vaticano. Cosa ne pensa? Che vista la situazione si dovrebbe porre qualche imbarazzo, almeno per ragioni di opportunità, nei piani alti del Vaticano. Giovedì, 1 agosto 2024 AFFARI ITALIANI
ANTONIO INGROIA
IL RAPPORTO MAFIA APPALTI E L’ELIMINAZIONE DEL DOTTOR BORSELLINO
COMMISSIONE ANTIMAFIA REGIONE SICILIA
- VIA D’AMELIO – RELAZIONE FINALE E AUDIZIONI