Provenzano, il boss dei boss tradito da un pizzino
CHI ERA – Zu Binnu, oppure Binnu u tratturi (Bernardo il trattore, per la violenza con cui stroncava le vite dei nemici) è stato uno dei criminali più spietati degli ultimi 50 anni, re di Cosa Nostra dal ’93 al 2006 e condannato in contumacia a 3 ergastoli. Il boss siciliano rappresentava in carne e ossa alcune delle pagine più nere della storia italiana recente. E’ lui a impartire l’ordine degli attentati di Capaci e via d’Amelio nel 1992, le stragi in cui persero la vita i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. E c’è sempre la sua mano nell’autobomba di via dei Georgofili a Firenze.
GLI INIZI – Terzo di sette figli di Angelo, bracciante agricolo, non finisce la seconda elementare per seguire il padre nei campi. Giovanissimo, si unisce al mafioso Luciano Liggio, che lo affilia alla cosca locale. Subito la sua fama è quella di terribile killer sanguinario e di ottimo tiratore di pistola. A inizio anni Sessanta è spietato protagonista della prima guerra di mafia palermitana contro il clan Navarra, quando, nel pieno del conflitto, si registra più di un omicidio al giorno. Diventa latitante il 18 settembre 1963: i carabinieri di Corleone lo denunciano per l’omicidio di Francesco Paolo Streva, uomo del clan Navarra, commesso una settimana prima. In un rapporto protocollato dalle forze dell’ordine, Provenzano viene definito senza mezzi termini “elemento scaltro, coraggioso e vendicativo che si sposta con due pistole alla cintola”. Approda ai vertici di Cosa nostra all’inizio degli anni ’80 e in quel periodo riesce a gestire la sua latitanza nella zona di Bagheria riciclando denaro sporco grazie a fortunati investimenti nel settore immobiliare.
IL BOSS DEI BOSS – La sua furia omicida non si ferma: nel 1981 con Totò Riina(al cui cospetto per alcuni Provenzano era “un nuovo Einstein”) dà linfa alla seconda guerra di mafia, eliminando i boss rivali (i clan Inzerillo e Bontate arricchitisi con il traffico di droga) e formando una nuova ‘Commissione’, composta da capimandamento fedelissimi. Il collaboratore di giustizia Nino Giuffrè dichiarerà che Riina e Provenzano “non si alzavano da una riunione se non quando erano d’accordo”. Nel 1993, dopo l’arresto di Riina, Provenzano rimane l’unico vertice della Cupola.
I PIZZINI – Nei 13 anni alla guida della mafia, sfugge più volte alla cattura. La svolta è proprio l’intercettazione di quei pizzini che per anni lo avevano tenuto nell’ombra, rendendo inaccessibili le sue mosse. A tradirlo è l’ultimo biglietto, inviato alla compagna la mattina stessa dell’arresto. “Complimenti, sono io quello che cercate”, dice il Boss agli agenti che lo trovano l’11 aprile 2006 in una masseria in località Contrada dei Cavalli, poco fuori Corleone, a due passi da dove era nato. Provenzano non oppone la minima resistenza, limitandosi a chiedere che gli venga fornito l’occorrente per le iniezioni che deve effettuare in seguito all’operazione alla prostata. Per il ministero della Giustizia aveva meritato il carcere duro, anche quando per i medici non era più capace di incapace di intendere e volere.
ALTRO
Le lettere di Messina Denaro, alias Alessio, a Bernardo Provenzano
1-10-2003
1-2-2004
25-5-2004
30-9-2004
6-2-2005
30-9-2005
21-1-2006
I due capimafia discutono soprattutto di una questione economica che vedeva contrapposti i clan di Trapani (legati a Messina Denaro) e quelli di Agrigento (legati la latitante Giuseppe Falsone). Le lettere fanno riferimento alla figura di un insospettabile imprenditore del settore della grande distribuzione, Giuseppe Grigoli. Per chi vuole approfondire l’argomento, ecco la memoria depositata dalla Procura di Palermo al tribunale che si è trovato a dover giudicare la posizione di Grigoli:
Memoria della Procura – memoria pm
Le lettere di Alessio a Vaccarino, alias Svetonio
Le lettere di Alessio a
Salvatore Lo Piccolo
Sandro Lo Piccolo
Bernardo Provenzano, detto Binnu u’ Tratturi (Bernardo il trattore, per la violenza con cui falciava le vite dei suoi nemici), Zu Binnu (Zio Binnu) e Il ragioniere[1] (Corleone, 31 gennaio1933 – Milano, 13 luglio2016[2][3]), membro di Cosa nostra e considerato il capo dell’organizzazione a partire dal 1995 fino al suo arresto, avvenuto nel 2006. Arrestato l’11 aprile 2006[4] in una masseria a Corleone, era ricercato da oltre quarant’anni, dal 10 settembre 1963[5]. In precedenza era già stato condannato in contumacia a tre ergastoli e aveva altri procedimenti penali in corso. Nato a Corleone da una famiglia di agricoltori, terzo di sette figli[6], venne ben presto mandato a lavorare nei campi come bracciante agricolo insieme con il padre Angelo, abbandonando presto la scuola (non finì la seconda elementare). Fu in questo periodo che cominciò una serie di attività illegali, specialmente abigeato e il furto di generi alimentari, e si legò al mafiosoLuciano Liggio, che lo affiliò alla cosca mafiosa locale. Nel 1954 venne chiamato per il servizio militare ma venne dichiarato “non idoneo” e quindi riformato[7]. Secondo le indagini dell’epoca dei Carabinieri di Corleone, in quel periodo cominciò a occuparsi di macellazione clandestina di bestiame rubato nei terreni della società armentizia di contrada “Piano di Scala” a Corleone, insieme con Liggio e la sua banda[8]. Il 6 settembre 1958Provenzano partecipò a un conflitto a fuoco contro i mafiosi avversari Marco Marino, Giovanni Marino e Pietro Maiuri, in cui rimase ferito alla testa e arrestato dai Carabinieri, che lo denunciarono anche per furto di bestiame e formaggio, macellazione clandestina e associazione per delinquere[7][8].
Il 10 settembre 1963 i Carabinieri di Corleone lo denunciarono per l’omicidio del mafioso Francesco Paolo Streva (ex sodale di Michele Navarra) ma anche per associazione per delinquere e porto abusivo di armi[7]: Provenzano si rese allora irreperibile, dando inizio alla sua lunga latitanza[9]. Nel 1969 venne assolto in contumacia per insufficienza di provenel processo svoltosi a Bari per gli omicidi avvenuti a Corleone a partire dal 1958[8]. Secondo le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Antonino Calderone, Provenzano partecipò alla cosiddetta «strage di viale Lazio» (10 dicembre 1969), che doveva punire il boss Michele Cavataio: durante il conflitto a fuoco, Provenzano rimase ferito alla mano ma riuscì lo stesso a sparare con la sua Beretta MAB 38; Cavataio rimase a terra ferito e Provenzano lo stordì con il calcio della Beretta, finendolo a colpi di pistola[10][11][12]. Sempre secondo Calderone, Provenzano «era soprannominato “u’ viddanu” e anche “u’ tratturi”. È stato soprannominato “u’ tratturi” da mio fratello con riferimento alle sue capacità omicide e con particolare riferimento alla strage di viale Lazio, nel senso che egli tratturava tutto e da dove passava lui “non cresceva più l’erba”»[13]. Secondo i collaboratori di giustizia Tommaso Buscetta e Totuccio Contorno, nel 1974 Riina e Provenzano divennero i reggenti della famiglia di Corleone dopo l’arresto di Liggio, ricevendo anche l’incarico di reggere il relativo “mandamento“[13][14]. Nel marzo 1978Giuseppe Di Cristina, capo della Famiglia di Riesi, si mise in contatto con i Carabinieri e dichiarò che «Riina Salvatore e Provenzano Bernardo, soprannominati per la loro ferocia “le belve”, sono gli elementi più pericolosi di cui dispone Luciano Liggio. Essi, responsabili ciascuno di non meno di quaranta omicidi, sono stati gli assassini del vice pretore onorario di Prizzi» ed erano anche responsabili «su commissione dello stesso Liggio, dell’assassinio del tenente colonnello Giuseppe Russo»[13]; in particolare, Di Cristina dichiarò che Provenzano «era stato notato in Bagheria a bordo di un’autovettura Mercedes color bianco chiaro alla cui guida si trovava il figlio minore di Brusca Bernardo da San Giuseppe Jato»[13]. Secondo le indagini dell’epoca dei Carabinieri di Partinico, Provenzano trascorreva la sua latitanza prevalentemente nella zona di Bagheria ed effettuava ingenti investimenti in società immobiliari, attraverso prestanome, per riciclare il denaro sporco; sempre secondo le indagini, le società immobiliari restarono in intensi rapporti economici con la ICRE, una fabbrica di metalli di proprietà di Leonardo Greco (indicato dal collaboratore di giustizia Totuccio Contorno come il capo della Famiglia di Bagheria)[13].
Nel 1981 Provenzano e Riina scatenarono la cosiddetta seconda guerra di mafia, con cui eliminarono i boss rivali e insediarono una nuova “Commissione“, composta soltanto da capimandamento a loro fedeli[13][15]; durante le riunioni della “Commissione”, Provenzano partecipò alle decisioni e all’organizzazione di numerosi omicidi come esponente influente del mandamento di Corleone[15][16] e protesse più volte con l’intimidazione la carriera politica di Vito Ciancimino, principale referente politico dei Corleonesi[17][18]: infatti negli anni successivi il collaboratore di giustizia Nino Giuffrè dichiarerà che Riina e Provenzano «non si alzavano da una riunione se non quando erano d’accordo»[15].
Nel 1993, dopo l’arresto di Riina, Provenzano fu il paciere tra la fazione favorevole alla continuazione degli attentati dinamitardi contro lo Stato (Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca, i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano) e l’altra contraria (Michelangelo La Barbera, Raffaele Ganci, Salvatore Cancemi, Matteo Motisi, Benedetto Spera, Antonino Giuffrè, Pietro Aglieri)[19]: secondo il collaboratore di giustizia Vincenzo Sinacori, Provenzano riuscì a porre la condizione che gli attentati avvenissero fuori dalla Sicilia, in “continente”, mentre l’altro collaboratore Salvatore Cancemi dichiarò che, durante un incontro, lo stesso Provenzano gli disse che “tutto andava avanti” riguardo alla realizzazione degli attentati dinamitardi a Roma, Firenze e Milano, che provocarono numerose vittime e danni al patrimonio artistico italiano[19][20]. Dopo l’arresto di Leoluca Bagarella, Provenzano propose a Giovanni Brusca di prendere il comando sui corleonesi, in cambio egli ricevette l’investitura a capo dei capi In modo da poter avviare la cosiddetta “strategia della sommersione” perché mirava a rendere Cosa Nostra invisibile dopo gli attentati del 1992-93, limitando al massimo gli omicidi e le azioni eclatanti per non destare troppo l’attenzione delle autorità al fine di tornare a sviluppare gli affari leciti e illeciti: tale strategia venne decisa nel corso di alcuni incontri a cui parteciparono lo stesso Provenzano insieme con i boss Benedetto Spera, Nino Giuffrè, Tommaso Cannella e il geometra Pino Lipari, il quale non era ritualmente “punciutu” ma poteva partecipare agli incontri perché era il prestanome più fidato di Provenzano.[15]
Il 22 luglio 1993Salvatore Cancemi, reggente del “mandamento” di Porta Nuova, si consegnò spontaneamente ai Carabinieri e decise di collaborare con la giustizia, dichiarando che la mattina successiva avrebbe dovuto incontrarsi con il latitante Pietro Aglieri (capo del “mandamento” di Santa Maria di Gesù), per poi raggiungere Provenzano in una località segreta, offrendosi di aiutarli a organizzare una trappola; l’informazione però venne considerata non veritiera dai Carabinieri, i quali erano convinti che Provenzano fosse morto poiché dopo un decennio la moglie e i figli erano tornati a vivere e a lavorare a Corleone, decidendo quindi di non sfruttare l’occasione[13].
Bernardo Provenzano al momento dell’arresto nel 2006Le indagini che portarono all’arresto di Provenzano si incentrarono sull’intercettazione dei “pizzini”, i biglietti con cui comunicava con la compagna e i figli, il nipote Carmelo Gariffo e con il resto del clan. Dopo l’intercettazione di questi pizzini e alcuni pacchi contenenti la spesa e la biancheria, movimentati da alcuni staffettisti di fiducia del boss[21], i poliziotti della Squadra mobile di Palermo guidati da Giuseppe Gualtieri e gli agenti della Sco riuscirono a identificare il luogo in cui si rifugiava[5][22]. Individuato il casolare, gli agenti monitorarono il luogo per dieci giorni attraverso microspie e intercettazioni ambientali, per avere la certezza che all’interno vi fosse proprio Provenzano. L’11 aprile 2006 le forze dell’ordine decisero di eseguire il blitz e l’arresto, a cui Provenzano reagì senza opporre resistenza, limitandosi a chiedere che gli venisse fornito l’occorrente per le iniezioni che doveva effettuare in seguito all’operazione alla prostata[23]. Il boss confermò la propria identità complimentandosi e stringendo la mano agli uomini della scorta e venne scortato alla questura di Palermo. Il questore di Palermosuccessivamente confermò che per giungere alla cattura le autorità non si erano avvalse né di pentiti né di confidenti[5]. Il casolare (il proprietario del quale venne arrestato) in cui viveva il boss era arredato in maniera spartana, con il letto, un cucinino, il frigo e un bagno, oltre che una stufa e la macchina da scrivere con cui il boss compilava i pizzini[23]. Dopo il blitz, venne portato alla questura di Palermo e poi al supercarcere di Terni, sottoposto al regime carcerario dell’art. 41 bis. Dopo un anno di carcere a Terni, a seguito di alcuni malumori degli agenti di Polizia Penitenziaria che si occupavano della sua detenzione, venne trasferito al carcere di Novara[24]. Dal carcere di Novara tentò più volte di comunicare in codice con l’esterno[25][26]. Il ministero della Giustizia decise allora di aggravare la durezza della condizione detentiva, applicandogli, in aggiunta al regime di 41 bis, il regime di “sorveglianza speciale” (14-bis) dell’ordinamento penitenziario, con ulteriori restrizioni, come l’isolamento in una cella in cui erano vietate televisione e radio portatile[25].
Il 19 marzo 2011venne confermata la notizia che Bernardo Provenzano era affetto da un cancro alla vescica. Lo stesso giorno venne annunciato il suo trasferimento dal carcere di Novara a quello di Parma, dove il 9 maggio 2012 l’ex boss tentò il suicidio infilando la testa in una busta di plastica, con l’obiettivo di soffocarsi. Il tentativo venne sventato da un agente di polizia penitenziaria.[27]
Il 24 luglio 2012 la Procura di Palermo, sotto Antonio Ingroia e in riferimento all’indagine sulla Trattativa Stato-Mafia, chiese il rinvio a giudizio di Provenzano e altri 11 indagati accusati di concorso esterno in associazione di tipo mafioso e “violenza o minaccia a corpo politico dello Stato”. Gli altri imputati erano i politici Calogero Mannino, Marcello Dell’Utri, gli ufficiali Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno, i boss Giovanni Brusca, Salvatore Riina, Leoluca Bagarellae Antonino Cinà, il collaboratore di giustizia Massimo Ciancimino (anche “calunnia”) e l’ex ministro Nicola Mancino (“falsa testimonianza”).[28]
Il 23 maggio 2013 la trasmissione televisiva Servizio pubblico mandò in onda un video che ritrae Provenzano nel carcere di Parma durante un colloquio con la compagna e il figlio minore, il 15 dicembre 2012. Nel video l’ex boss appare fisicamente irriconoscibile, affaticato e mentalmente confuso, tanto da non riuscire a tenere in mano correttamente la cornetta del citofono per parlare con il figlio e nemmeno a spiegargli con chiarezza l’origine di un’evidente contusione al capo: prima dichiara di essere stato vittima di percosse, poi di essere caduto accidentalmente[29]. Il 26 luglio dell’anno seguente la procura di Palermo diede il via libera alla revoca del regime di 41-bis a cui Provenzano era sottoposto, imputandola a condizioni mediche.[30] A causa dell’aggravarsi delle stesse, il 9 aprile 2014 venne ricoverato all’Ospedale San Paolo di Milano, proveniente dal centro clinico degli istituti penitenziari di Parma. Nell’estate 2015 la Cassazione riconfermò il regime di 41 bis presso la camera di massima sicurezza dell’ospedale milanese, respingendo l’istanza dei legali di Provenzano di spostarlo nel reparto riservato ai detenuti ordinari, in regime di detenzione domiciliare. Motivazione di questa decisione fu la tutela del diritto alla salute del detenuto, ritenendo la Corte Suprema che l’esposizione alla promiscuità dell’altro reparto (peraltro non attrezzato ad assicuragli un’assistenza sanitaria efficace come quella di cui godeva nella camera di massima sicurezza) l’avrebbe messo a “rischio sopravvivenza”.[31] Morì all’ospedale San Paolo di Milano il 13 luglio 2016, all’età di 83 anni.[32][33][34] Il questore di Palermo dispose che “per ragioni di ordine pubblico” venissero vietati i funerali (esequie in chiesa e corteo funebre) e qualsiasi altra cerimonia in forma pubblica, concedendo ai familiari di accompagnare la salma al cimitero di Corleone soltanto in forma privata.[35] Compagna e figli optarono per farlo cremare a Milano, per poi traslare personalmente l’urna cineraria al cimitero di Corleone, dove il 18 luglio venne tumulato nella tomba di famiglia.[36]
Il 26 ottobre 2018 la Corte europea per i diritti dell’uomo ha condannato la Repubblica Italiana per aver rinnovato il 41 bis a Bernardo Provenzano in punto di morte, violando, secondo i giudici, il diritto a non essere sottoposti a trattamenti inumani e degradanti. [37]
- Nel 1995, nel processo per l’omicidio del tenente colonnello Giuseppe Russo, Provenzano venne condannato in contumaciaall’ergastolo insieme con Salvatore Riina, Michele Greco e Leoluca Bagarella;
- lo stesso anno, nel processo per gli omicidi dei commissari Beppe Montanae Antonino Cassarà, venne pure condannato in contumacia all’ergastolo insieme con Michele Greco, Bernardo Brusca, Francesco Madonia e Salvatore Riina.
- Seguì il processo per gli omicidi di Piersanti Mattarella, Pio La Torree Michele Reina, nel quale gli viene inflitto un ulteriore ergastolo in contumacia insieme con Michele Greco, Bernardo Brusca, Salvatore Riina, Giuseppe Calò, Francesco Madonia e Nenè Geraci[38].
- Sempre nel 1995, nel processo per l’omicidio del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, del capo della mobile Boris Giuliano, e del professor Paolo Giaccone, Provenzano venne condannato all’ergastolo in contumaciainsieme con Salvatore Riina, Giuseppe Calò, Bernardo Brusca, Francesco Madonia, Nenè Geraci e Francesco Spadaro[39].
- Nel 1997, nel processo per la strage di Capaciin cui persero la vita il giudice Giovanni Falcone, la moglie e la scorta, Provenzano venne condannato all’ergastolo in contumacia insieme con i boss Salvatore Riina, Pietro Aglieri, Bernardo Brusca, Giuseppe Calò, Raffaele Ganci, Nenè Geraci, Benedetto Spera, Nitto Santapaola, Salvatore Montalto, Giuseppe Graviano e Matteo Motisi[40].
- Lo stesso anno, nel processo per l’omicidio del giudice Cesare Terranova, Provenzano ricevette un altro ergastolo in contumaciainsieme con Michele Greco, Bernardo Brusca, Giuseppe Calò, Nenè Geraci, Francesco Madonia e Salvatore Riina[41].
- Nel 1999Provenzano venne condannato all’ergastolo in contumacia nel processo contro i responsabili della strage di via D’Amelio, in cui persero la vita il giudice Paolo Borsellino e cinque dei suoi uomini di scorta; insieme con lui vennero condannati alla stessa pena i boss Giuseppe “Piddu” Madonia, Nitto Santapaola, Giuseppe Calò, Giuseppe Farinella, Raffaele Ganci, Nino Giuffrè, Filippo Graviano, Michelangelo La Barbera, Giuseppe Montalto, Salvatore Montalto, Matteo Motisi, Salvatore Biondo, Cristoforo Cannella, Domenico Ganci e Stefano Ganci[42].
- Nel 2000subì un’ulteriore condanna in contumacia all’ergastolo insieme con Giuseppe Graviano, Leoluca Bagarellae salvatore Riina per gli attentati dinamitardi del 1993 a Firenze, Milano e Roma[43].
- Nel 2002la Corte d’Assise di Caltanissetta condannò Provenzano in contumacia all’ergastolo per l’omicidio del giudice Rocco Chinnici insieme con i boss Salvatore Riina, Raffaele Ganci, Antonino Madonia, Salvatore Buscemi, Nenè Geraci, Giuseppe Calò, Francesco Madonia, Salvatore e Giuseppe Montalto, Stefano Ganci e Vincenzo Galatolo[44].
- Nel 2009ricevette un altro ergastolo insieme con Salvatore Riina per la strage di viale Lazio[45].
Il 31 ottobre 1995 il boss Luigi Ilardo (reggente mafioso della provincia di Caltanissetta) divenne confidente del colonnello Michele Riccio del ROS e gli rivelò che avrebbe incontrato Provenzano in un casolare nei pressi di Mezzojuso; Riccio allertò il colonnello Mario Mori ma non gli furono forniti uomini e mezzi adeguati per intervenire, cosicché non riuscì a localizzare con esattezza il casolare indicato da Ilardo. Successivamente, il 10 maggio 1996, poco dopo aver cominciato la sua collaborazione con la giustizia, Ilardo venne ucciso[46]. Riccio accusò Mori e i suoi superiori di aver trattato la faccenda con superficialità, dando inizio a varie inchieste giudiziarie che ancora non hanno chiarito la vicenda[46].
Nel novembre 1998gli agenti del ROS dei Carabinieri condussero l’indagine denominata “Grande Oriente”, che era partita dalle confidenze rese da Ilardo e portò all’arresto di 47 persone, accusate di attività illecite e di aver favorito la latitanza di Provenzano; tra gli arrestati figurarono anche Simone Castello e l’imprenditore bagherese Vincenzo Giammanco, accusato di essere prestanome di Provenzano nella gestione dell’impresa edile “Italcostruzioni SpA”[47][48][49].
Nel novembre 2003 venne arrestato l’imprenditore Michele Aiello, accusato di essere il prestanome di fiducia di Provenzano[50]: infatti, secondo il collaboratore di giustizia Nino Giuffrè, Provenzano aveva investito denaro sporco nella clinica Villa Santa Teresa, centro oncologico all’avanguardia a Bagheria di proprietà di Aiello[51][52][53]. Per queste ragioni, nel 2011 Aiello verrà condannato in via definitiva a quindici anni e mezzo di carcere per associazione di tipo mafioso, corruzione e accesso abusivo alla rete informatica della Procura[54][55].
Nel gennaio 2005 la DDA di Palermo coordinò l’indagine “Grande mandamento”, condotta dagli agenti del Servizio Centrale Operativo e del ROS dei Carabinieri, che portò all’arresto di 46 persone nella provincia di Palermo, accusate di aver favorito la latitanza di Provenzano e di aver gestito il recapito dei pizzini destinati al latitante[56]; l’indagine rivelò anche che nel 2003 alcuni mafiosi di Villabate avevano aiutato Provenzano a farsi ricoverare in una clinica di Marsigliaper un’operazione chirurgica alla prostata, fornendogli documenti falsi per il viaggio e il ricovero[57]. Uno degli arrestati, Mario Cusimano (ex imprenditore di Villabate), cominciò a collaborare con la giustizia e rivelò agli inquirenti che la carta d’identità usata da Provenzano per andare a Marsiglia era stata timbrata da Francesco Campanella, ex presidente del consiglio comunale di Villabate[58]: nel settembre 2005 anche Campanella cominciò a collaborare con la giustizia e confermò di essere stato lui a timbrare il documento[59][60].
Nel 2006 si verificò un tentativo di depistaggio: il 31 marzo 2006 (11 giorni prima dell’arresto) il legale del boss latitante annunciò la morte del suo assistito[61], subito smentita dalla DIA di Palermo[9].
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- ^Dato riportato a pagina 59 del libro: L’altra mafia: biografia di Bernardo Provenzano, di Ernesto Oliva, Salvo Palazzolo, Rubettino Editore srl, 2001
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- ^«Strage di viale Lazio, il killer era Provenzano»Corriere della Sera, 23 gennaio 2007
- ^La vera storia di Provenzano Siino: “Sparava come un dio” – cronaca – Repubblica.it
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- ^E LEGGIO SPACCO’ IN DUE COSA NOSTRA – Repubblica.it
- ^Salta a:abcdDeposizione del collaboratore di giustizia Antonino Giuffrè al processo contro Biondolillo Giuseppe ed altri(PDF).
- ^ECCO CHI UCCISE CHINNICI E LIMA I PENTITI SVELANO I NOMI DEI KILLER – La Repubblica.It
- ^IL MEDICO MAFIOSO ‘ I CUGINI SALVO E LO ZIO GIULIO … ‘ – La Repubblica.It
- ^è morto Vito Ciancimino la Dc ai tempi dei Corleonesi – la Repubblica.it
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- ^Stop 41 Bis per motivi medici, parere della procura
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- ^Torna in cella il magnate delle cliniche – la Repubblica.it
- ^Rimane in carcere Michele AielloGazzetta del Sud.it
- ^Blitz contro il clan Provenzano “Il boss ha notizie sulle indagini” – la Repubblica.it
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- ^‘Io, fedelissimo di Provenzano vi racconto i segreti del boss’ – la Repubblica.it
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- ^Chiusa inchiesta su Angelo Provenzano, figlio di Provenzano
- ^Il figlio di Provenzano diventa dottore
25.1.2023 Messina Denaro, nei pizzini a Provenzano gli ‘affari’ del boss
MANCATA CATTURA DI PROVENZANO A MEZZOJUSO, COSA SUCCESSE IL 31 OTTOBRE 1995 Ricostruiamo prologo, svolgimento e risoluzione di quel 31 ottobre 1995, il giorno in cui, secondo quanto indicato da Luigi Ilardo al colonnello Riccio, di cui era confidente, avrebbe dovuto incontrare il boss latitante Bernardo Provenzano.
Tutto inizia, come descritto dallo stesso colonnello Riccio nell’informativa “Grande Oriente” quando «la sera del 29 Ottobre 1995, lo scrivente veniva contattato telefonicamente dalla fonte che gli faceva comprendere di avere incontrato il FERRO Salvatore, il quale gli aveva dato appuntamento per le prime ore del Martedì 31.10.1995 al bivio di Mezzojuso, unitamente ed al VACCARO Lorenzo. Consigliava, pertanto, di raggiungerlo al più presto in quanto l’incontro poteva avere importanti sviluppi anche in direzione di PROVENZANO. Lo scrivente, rappresentata superiormente l’esigenza, si recava in Sicilia e la sera del 30 ottobre aveva modo di incontrare il confidente. La fonte gli confermava quanto già detto, ritenendo che l’appuntamento era propedeutico ad incontrare il PROVENZANO». La circostanza è confermata dal generale Mori, nelle dichiarazioni spontanee rese dal Generale Mori il 7 giugno 2013, nel corso del procedimento che vedeva imputato, oltre allo stesso Generale Mori anche il Colonnello Mario Obinu, il quale afferma che «il 30 ottobre 1995, Riccio si presentò al ROS comunicandomi che la sera prima la sua fonte, denominata “Oriente”, da lui gestita a lungo e positivamente durante il periodo di permanenza alla DIA, lo aveva informato di essere stato contattato da Ferro Salvatore e Vaccaro Lorenzo, noti esponenti mafiosi, rispettivamente dell’agrigentino e del nisseno, che l’avevano convocata per un appuntamento, fissato per le prime ore dell’indomani 31.10.1995, presso il bivio di Mezzojuso, sulla strada di scorrimento veloce Palermo – Agrigento». Quali azioni furono le azioni intraprese per quel 31 ottobre 1995 si evince sia dalle dichiarazioni di Mori «nel corso di una riunione estemporaneamente indetta, alla luce delle indicazioni disponibili, malgrado la sostanziale incertezza su partecipanti, terreno e modalità dell’incontro – fattori questi determinanti ai fini dell’efficace adozione di una qualsivoglia scelta operativa – preliminarmente mi orientai sull’ipotesi di approntare un dispositivo che potesse eventualmente procedere al pedinamento dell’Ilardo e dei suoi accompagnatori, dal luogo dell’appuntamento sino al successivo intervento, qualora in una delle fasi del servizio si fosse riscontrata la presenza del Provenzano. Riccio, però, si mostrò decisamente contrario a tale soluzione, chiedendo un tipo di servizio mirato all’esclusiva documentazione dell’incontro al bivio di Mezzojuso, mediante l’osservazione a distanza dell’evento e la sua ripresa fotografica. Ciò anche in relazione all’indeterminatezza dei dati disponibili, con particolare riferimento alla località teatro dell’ipotizzato incontro ed alle modalità con cui il contatto si sarebbe potuto sviluppare. Tale soluzione, sollecitata a detta di Riccio anche dall’Ilardo, sarebbe servita a non fare sorgere sospetti sulla fonte, permettendogli, in prospettiva, di acquisire la piena fiducia degli interlocutori» ma e anche nell’informativa “Grande Oriente” a firma del colonnello Riccio in cui si legge che «dati i tempi ristretti di preavviso e non essendo pronto il materiale tecnico idoneo a garantire la cattura del latitante, in considerazione anche che l’incontro sarebbe avvenuto in territorio sconosciuto, in quanto in quel periodo il Provenzano si era allontanato da Bagheria, si decideva solo di pedinare il confidente. Servizio che veniva sospeso, allorquando, ci si accorgeva che i mafiosi, che proteggevano il latitante, stavano attuando manovre tese a verificare la presenza di eventuali servizi di pedinamento». Illuminante, per capire cosa sia successo esattamente quel 31 ottobre 1995 è la “Relazione di servizio del 31.10.1995” del ROS redatta dal colonnello Riccio in cui si legge che «lo scrivente Ten. Colonnello RICCIO Michele, nelle prime ore della mattina del 31 ottobre 1995, si recava, con personale della Sezione Anticrimine di Caltanissetta, messogli alle sue dipendenze, presso il bivio di Mezzojuso, sito sullo scorrimento veloce Palermo – Agrigento. Lo scopo del servizio era quello di verificare se effettivamente si realizzasse quanto segnalato il giorno prima dalla “fonte”. Il confidente aveva riferito che si sarebbe dovuto incontrare FERRO Salvatore e VACCARO Lorenzo, per effettuare, probabilmente, un appuntamento con PROVENZANO Bernardo». Per il servizio per il 31 ottobre 1995 veniva quindi predisposta «una aliquota di osservazione fissa, composto da due militari, dotati di attrezzatura fotografica» oltre a «un dispositivo dinamico, posto più lontano, pronto ad intervenire se si realizzavano le condizioni necessarie per effettuare un pedinamento senza che ne venisse pregiudicato l’esito e di conseguenza pregiudicata la tutela della “fonte” la cui identità era nota solo allo scrivente».
Lo svolgimento del servizio, sempre sulla base di quanto scritto dal colonnello Riccio nella succitata Relazione di Servizio fu il seguente:
«Il servizio aveva inizio alle ore 5,00 del 31 ottobre 1995 ed aveva il seguente esito:
– alle h. 7.55 giungevano sul luogo di interesse (bivio di Mezzojuso) due autovetture, una Fiat Uno tg. CL 17671O ed un fuoristrada Suzuki tg. SR 335003.
Dalle macchine scendevano due persone, in particolare dal fuoristrada scendeva una persona anziana mentre dalla Fiat Uno una persona giovane, le quali assumevano posizione di attesa su una stradina sopra lo scorrimento, di fronte al bivio di interesse. Le due autovetture, condotte da altre persone, si allontanavano m direzione di Agrigento;
– alle h. 8.05 giungeva un’autovettura Ford Escort, vecchio tipo, tg. PA, di color scuro, della quale non si riusciva a rilevare compiutamente il numero di targa. L’autovettura, proveniente da altra stradina di campagna, raggiungeva le due persone in attesa e, prelevatele, si immetteva sullo scorrimento veloce in direzione di Agrigento;
– non veniva eseguito il pedinamento poiché si riteneva che vi fossero in atto tecniche di contro pedinamento, di fatti nella zona d’interesse erano presenti più macchine tra le quali una Lancia Prisma, tg. EN, di colore verde scuro, la cui targa non veniva rilevata, che, proveniente dallo scorrimento veloce direzione Agrigento, si fermava in mezzo al bivio;
– alle h. 8.20 ritornava la Ford Escort che si fermava vicino al conducente della Lancia Prisma e dopo qualche minuto entrambi riprendevano lo scorrimento veloce in direzione Agrigento;
– alle h. 8.30 venivano notate parcheggiate in un area di servizio ESSO, prossima al bivio di Mezzojuso, in direzione Agrigento, la Fiat Uno ed il Fuoristrada Suzuki in attesa;
– alle h. 1000 veniva terminato il servizio».
Il Riccio, quindi, non accompagnò l’Ilardo al supposto incontro con Provenzano, così come l’Ilardo non aveva registratori o microspie nascoste nei suoi abiti, ma coordinò le operazioni di pedinamento dopo di ché attese, verosimilmente, in altro luogo il suo confidente tant’è che nell’informativa “Grande Oriente” si legge che «lo scrivente, alle ore 23,00 del 31 ottobre 1995, incontrava la fonte che riferiva di avere incontrato il latitante Bernardo PROVENZANO, in una casa con ovile posta lungo una trazzera che partiva sulla destra lungo il segmento stradale che collega i comuni di Mezzojuso e Vicari appartenente allo scorrimento veloce che porta da Palermo ad Agrigento».
L’incontro, sulla base delle dichiarazioni rese dall’Ilardo al Riccio e contenute nell’informativa “Grande Oriente”, era durato complessivamente otto ore, e si era articolato in due fasi, «una prima, in cui si erano affrontati problemi di carattere generale dell’organizzazione alla quale avevano partecipato sia la fonte, che il VACCARO Domenico ed il FERRO Salvatore» e «una seconda, nella quale singolarmente i tre avevano affrontate situazioni di carattere riservato e personale con il PROVENZANO».
Proprio sulla base di quanto scritto nell’informativa e nella relazione di servizio indicata dal Riccio, entrambe da lui redatte appare evidente che l’incontro tra l’Ilardo e il Provenzano avvenuto il 31 ottobre 1995 non è stato un incontro monitorato direttamente né dal colonnello Riccio tantomeno da altre forze di polizia se non in un fase preliminare che terminò poche ore e risulta altrettanto evidente che non era finalizzata ad un’operazione di repressione con conseguente arresto del boss latitante anche perché, lo scrive lo stesso Riccio, si trattava di «probabile incontro». GLI STATI GENERALI ROBERTO GRECO 7 Novembre 2021
Attilio Manca suicidato per salvare Bernardo Provenzano «ATTILIO E’ STATO UCCISO». Parla la signora Angela Manca: «Attilio era un urologo eccellente definito da colleghi e superiori un luminare nel suo campo. Fu scelto per effettuare l’intervento alla prostata e curare il boss di mafia, poi catturato nel 2006 nella sua Corleone. Attilio è stato ammazzato per aver operato Provenzano allora latitante». Ci sono avvenimenti e circostanze che condizionano per sempre l’esistenza di alcune persone. Nel caso della famiglia Manca il loro vivere è stato segnato da ciò che non è avvenuto, cioè la cattura del boss di mafia Bernardo Provenzano che per lunghi anni è stato latitante Inchieste e testimonianze stanno svelando verità spaventose riguardo la mancata cattura di uno dei più sanguinosi boss di mafia, come Bernardo Provenzano il cui nome torna predominante nella vicenda di Attilio Manca. Abbiamo parlato con Angela Manca, madre del medico trovato morto a Viterbo nel 2004. Una morte archiviata dalla Procura di Viterbo come suicido. L’autopsia effettuata sul cadavere di Attilio parla di overdose e certifica la presenza di eroina ed alcool nel corpo del medico siciliano. Ma chi vuole negare la verità? «Il depistaggio è iniziato da subito, già da quella autopsia effettuata velocemente e senza tenere conto di molti fattori: lividi diffusi, ecchimosi, sangue e quei fori di siringa sul braccio sinistro, mentre Attilio era notoriamente un mancino. Mio figlio era un medico molto apprezzato, non avrebbe mai fatto uso di droghe. Passano gli anni ma nessuno vuole scoprire la verità nonostante contraddizioni e depistaggi che sono sotto gli occhi di tutti.»
Depistaggi, insabbiamenti, ricostruzioni falsate e, soprattutto, le dichiarazioni di vari pentiti di mafia portano ad un’altra verità almeno per voi della famiglia, per gli avvocati, per chi conosceva Attilio e per chi presta un po’ di attenzione a questa assurda e dolorosa vicenda. «Certo. Attilio è stato ucciso, era un urologo eccellente definito da colleghi e superiori un luminare nel suo campo e fu scelto per effettuare l’intervento alla prostata e curare il boss di mafia Bernardo Provenzano, poi catturato nel 2006 nella sua Corleone, dopo anni di latitanza. Attilio è stato ammazzato per aver operato Provenzano allora latitante». In questi anni non avete mai smesso di cercare la verità sulla morte di Attilio e, affiancati dagli avvocati Fabio Repici e Antonio Ingroia, chiedete da tempo la riesumazione del cadavere, finora sempre negata. «È un morto che potrebbe “raccontare” tanto: Attilio ritrovato riverso sul letto, semi nudo e con il viso sfregiato. Eppure la riesumazione viene ripetutamente negata» Le Istituzioni vi sono state accanto per arrivare a scoprire ciò che realmente è successo ad Attilio? «No, non siamo mai stati ascoltati da nessuno. Siamo stati ricevuti solo dal ministro della Giustizia Bonafede che ci ha dimostrato la sua vicinanza umana e promesso un comunicato sulla vicenda di mio figlio, ma per ora non abbiamo letto nulla». Parlare con la signora Angela è importante anche per conoscere particolari e circostanze che sono in netta contraddizione con la ricostruzione fatta al momento del ritrovamento del cadavere di Attilio. Cosa c’era di strano nella camera di Attilio? «Un corpo martoriato, il setto nasale rotto (per la caduta sul letto, si è detto), seminudo, con evidenti ecchimosi. Fra le tante cose occorre dire che Attilio era solito togliere il portafogli e le chiavi appena rientrava in casa per riporli in un cassetto. Non lasciava nulla nelle tasche dei pantaloni che sfilava e lasciava in maniera disordinata da qualche parte nella stanza. Quando lo hanno ritrovato indossava soltanto una maglia arrotolata sulla schiena, mentre i pantaloni con le chiavi e il portafogli ancora nelle tasche, sono stati trovati ripiegati e riposti ordinatamente sopra una sedia. Nnessuno indumento intimo, invece, è stato mai ritrovato nella camera. Poi quei fori di siringa sul braccio sinistro, mentre Attilio era notoriamente mancino e quella siringa senza impronte digitali. Tanti elementi che non sono stati considerati». Ci racconta dettagli non trascurabili Angela Manca. Anche se la ricostruzione ufficiale, sino ad oggi, ha archiviato la storia del medico siciliano come un tossicodipendente. Nulla di più lontano dalla realtà. Un incontro, quello di Attilio Manca, con la mafia violenta e sanguinaria di Bernardo Provenzano, che si sarebbe potuto evitare se non ci fosse stata quella parte di Stato deviato che ha portato ad una Trattativa (infinita) con i vertici dell’organizzazione mafiosa e che, ancora oggi, dopo decenni, non permette di far luce sulle stragi e sui troppi morti che gravano pesantemente sulla coscienza di tutti noi. La parte malata delle istituzioni ha proibito, ad alcuni dei suoi uomini, di catturare Riina prima e Provenzano poi, e Matteo Messina Denaro ancora oggi, lasciandoli vivere tranquillamente nei propri paesi di origine. In quelle terre dove scorre il sangue dei morti ammazzati, nella assoluta certezza di restare intoccabili, come testimoniano molte persone. Una rete di protezione fatta di boss e picciotti, di uomini in divisa e politici corrotti che ha garantito latitanze eccellenti e coperture anche oltre frontiera come nel caso di Attilio, massacrato per aver riconosciuto a Marsiglia il paziente scomodo. Si arriverà alla verità secondo lei? «Stanno trascorrendo troppi anni – dice la signora Angela con la voce rotta dal dolore -. Temo di non vivere abbastanza per vedere finalmente riaffermata la verità per mio figlio e nessuno della politica si sta muovendo in tal senso. Riesumare il cadavere di Attilio potrebbe finalmente chiarire molte cose». Oltre a rendere giustizia alla famiglia di Attilio Manca, la verità – sino ad ora negata – potrebbe dare fiducia a chi, ogni giorno, si adopera nella ricerca della verità e nel combattere non solo la mafia con la lupara ma, soprattutto, per debellare quel malaffare che si mostra con la faccia pulita di funzionari e appartenenti alle istituzioni che, invece, con il proprio operato tradiscono il ruolo ricoperto, la Costituzione, ed un Paese intero. Alessandra Ruffini 6.8. 020 WordNews
La Asl pagò Provenzano Adesso c’ è la conferma ufficiale e viene dal ministro della Sanità Girolamo Sirchia: il capo dei capi di Cosa nostra, Bernardo Provenzano, che nell’ ottobre del 2003 si era sottoposto ad intervento chirurgico in Francia sotto falso nome, si è fatto anche rimborsare dal ministero della Sanità le spese mediche per un ammontare di 1.958,45 euro. La conferma del rimborso, che Sirchia ha dato rispondendo alla Camera ad una interrogazione parlamentare di Giampiero Cannella (An), suona anche come una sonora correzione alle smentite che ieri erano arrivate dall’ assessorato alla sanità della regione Sicilia. Ricostruendo l’ incredibile vicenda dei due «viaggi della speranza» compiuti da Provenzano nel luglio e nell’ ottobre del 2003 (la seconda per essere trasferito in un ospedale il cui nome rimane segreto), e rivelata da “Repubblica” nei giorni scorsi, il ministro della Sanità ha dichiarato che la casa di cura francese, la clinica «La Ciotat» di Marsiglia, emise una fattura il 16 febbraio del 2004 per un importo di 1.958,45 euro per prestazioni erogate dal 7 al 10 luglio 2003. La fattura era intestata al signor Gaspare Troia, 72 anni, il nome utilizzato da Bernardo Provenzano. Il rimborso – aggiunge Sirchia – fu richiesto utilizzando un regolare modello (E111) che autorizza l’ assistenza all’ estero. La richiesta fu poi inviata dal ministero alla Asl6 di Palermo per l’ iter di liquidazione. Ma non ebbe risposta e dunque la richiesta fu soddisfatta. «D’ altra parte – precisa puntigliosamente il ministro – spettava alla Asl fare i controlli». Al caso gli investigatori sono giunti esaminando una cartella clinica sequestrata nell’ inchiesta che ha portato in carcere cinquanta tra fiancheggiatori, vivandieri, postini o autisti del boss: era intestata a Gaspare Troia, 72 anni, che con un rapido accertamento si è scoperto non essere mai stato malato di prostata né sottoposto a interventi. è dunque emerso – come ha rivelato “Repubblica” – che Bernardo Provenzano era partito da Palermo accompagnato da uno degli arrestati, Salvatore Troia figlio di Gaspare. Il viaggio, compiuto in automobile, è durato quasi tre giorni. Che Provenzano poi si sia fatto pagare le spese mediche si è saputo soltanto qualche giorno fa quando gli investigatori hanno fatto sequestrare negli archivi dell’ Asl di Palermo tutte le pratiche relative a rimborsi spese sostenute dal paziente «Gaspare Troia». Ieri l’ assessore regionale alla sanità Giovanni Pistorio aveva sostenuto che la Regione siciliana non aveva pagato ed oggi ha risposto a Sirchia: «Evidentemente non c’ è stata una richiesta preventiva, che necessitava del nostro nullaosta, ma un intervento d’ urgenza in Francia. Se il pagamento a Troia è stato fatto dal ministero – ha continuato Pistorio – questo è legato al rapporto con la Asl di Palermo e non con l’ assessorato alla Sanità». Ma di «scenari ancora più foschi» che si aprono dalle risposte di Sirchia, parla Giuseppe Lumia, capogruppo ds alla Commissione antimafia: «Questa vicenda non può chiudersi con analisi burocratiche ma deve svelare tutto il marcio che esiste nelle zone grigie di collusione». E ad «inquietanti interrogativi» fa riferimento anche un altro componente della commissione, Carlo Vizzini LA REPUBBLICA 3 Marzo 2005
LA MAFIA RACCONTATA DAL FIGLIO DI PROVENZANO La crisi economica e la mancanza di posti di lavoro costringono molte persone ad una disoccupazione forzata o a fare le valigie e lasciare il Bel Paese in cerca di un’occupazione. C’è però chi un lavoro è riuscito a trovarlo comunque, come Angelo Provenzano, figlio di Bernardo, che da diverso tempo sta ricevendo comitive di turisti americani a cui illustra le vicende chiave di Cosa Nostra.
L’idea è venuta a un tour operator di Boston (Massachusetts) che ha deciso di inserire nei propri pacchetti vacanza anche un incontro col figlio di Zu’ Binnu. I turisti, dopo essere giunti a Palermo per visitare le bellezze della città come la Cattedrale, il teatro Massimo e il palazzo dei Normanni, vengono accompagnati a conoscere Angelo Provenzano, che illustra loro la sua vita, gli anni di latitanza col padre, il rientro a Corleone e il rapporto con una figura che gli ha condizionato passato e presente e che – nel bene e nel male – ha influenza anche nel suo futuro.
Gli incontri col figlio di Binnu ‘U Tratturi sono cominciati lo scorso settembre e – stando alle fonti – hanno riscosso fin da subito un notevole successo. I turisti, dopo una breve introduzione, si ritrovano faccia a faccia con Angelo Provenzano, che spiega loro alcuni passaggi salienti di Cosa Nostra e risponde alle domande che di volta in volta le comitive gli sottopongono.
“Per me si tratta di un’attività lavorativa importante in un settore, quello turistico, in cui ho sempre creduto”. E ancora: “Confrontarmi con una cultura diversa dalla nostra e scevra da pregiudizi mi pare un’avventura molto stimolante”. Queste le parole del primogenito di Provenzano, che aggiunge: “Vorrei una vita normale ma mi rendo conto che non c’è speranza”. Certamente non è impresa facile scrollarsi di dosso i pregiudizi che si possono avere, considerando il lungo periodo di latitanza (fino al 1992) e la serie di indagini – concluse con un sostanziale nulla di fatto – che dal 2000 al 2009 lo hanno riguardato. Nonostante questo, però, i turisti d’oltreoceano apprezzano la possibilità di incontrarlo e ascoltare la sua testimonianza.
Non mancano le voci di dissenso, come quella di Giovanna Maggiani Chelli, presidente dell’associazione dei familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili, l’attentato che nel maggio ’93 costò la vita a 5 persone, tra cui una neonata: “Speriamo che i turisti abbiano anche la possibilità di essere indirizzati in via dei Georgofili, a Firenze, vicinissima alla Galleria degli Uffizi: siamo disponibilissimi a raccontare loro la vera storia delle famiglie di Cosa Nostra”.
Più diretto è il senatore del Pd Beppe Lumia, che commenta: “Questa notizia ha dell’incredibile. È solo apparentemente innocua. Oltre a raccontarsi ai turisti, il figlio di Provenzano potrebbe trovare un po’ di tempo per dire ai magistrati dove si trovano le ricchezze accumulate dal padre”. Fonte: duerighe.com, 29 marzo 2015
Attilio Manca suicidato per salvare Bernardo Provenzano «ATTILIO E’ STATO UCCISO». Parla la signora Angela Manca: «Attilio era un urologo eccellente definito da colleghi e superiori un luminare nel suo campo. Fu scelto per effettuare l’intervento alla prostata e curare il boss di mafia, poi catturato nel 2006 nella sua Corleone. Attilio è stato ammazzato per aver operato Provenzano allora latitante». Ci sono avvenimenti e circostanze che condizionano per sempre l’esistenza di alcune persone. Nel caso della famiglia Manca il loro vivere è stato segnato da ciò che non è avvenuto, cioè la cattura del boss di mafia Bernardo Provenzano che per lunghi anni è stato latitante Inchieste e testimonianze stanno svelando verità spaventose riguardo la mancata cattura di uno dei più sanguinosi boss di mafia, come Bernardo Provenzano il cui nome torna predominante nella vicenda di Attilio Manca. Abbiamo parlato con Angela Manca, madre del medico trovato morto a Viterbo nel 2004. Una morte archiviata dalla Procura di Viterbo come suicido. L’autopsia effettuata sul cadavere di Attilio parla di overdose e certifica la presenza di eroina ed alcool nel corpo del medico siciliano. Ma chi vuole negare la verità? «Il depistaggio è iniziato da subito, già da quella autopsia effettuata velocemente e senza tenere conto di molti fattori: lividi diffusi, ecchimosi, sangue e quei fori di siringa sul braccio sinistro, mentre Attilio era notoriamente un mancino. Mio figlio era un medico molto apprezzato, non avrebbe mai fatto uso di droghe. Passano gli anni ma nessuno vuole scoprire la verità nonostante contraddizioni e depistaggi che sono sotto gli occhi di tutti.»
Depistaggi, insabbiamenti, ricostruzioni falsate e, soprattutto, le dichiarazioni di vari pentiti di mafia portano ad un’altra verità almeno per voi della famiglia, per gli avvocati, per chi conosceva Attilio e per chi presta un po’ di attenzione a questa assurda e dolorosa vicenda. «Certo. Attilio è stato ucciso, era un urologo eccellente definito da colleghi e superiori un luminare nel suo campo e fu scelto per effettuare l’intervento alla prostata e curare il boss di mafia Bernardo Provenzano, poi catturato nel 2006 nella sua Corleone, dopo anni di latitanza. Attilio è stato ammazzato per aver operato Provenzano allora latitante». In questi anni non avete mai smesso di cercare la verità sulla morte di Attilio e, affiancati dagli avvocati Fabio Repici e Antonio Ingroia, chiedete da tempo la riesumazione del cadavere, finora sempre negata. «È un morto che potrebbe “raccontare” tanto: Attilio ritrovato riverso sul letto, semi nudo e con il viso sfregiato. Eppure la riesumazione viene ripetutamente negata» Le Istituzioni vi sono state accanto per arrivare a scoprire ciò che realmente è successo ad Attilio? «No, non siamo mai stati ascoltati da nessuno. Siamo stati ricevuti solo dal ministro della Giustizia Bonafede che ci ha dimostrato la sua vicinanza umana e promesso un comunicato sulla vicenda di mio figlio, ma per ora non abbiamo letto nulla». Parlare con la signora Angela è importante anche per conoscere particolari e circostanze che sono in netta contraddizione con la ricostruzione fatta al momento del ritrovamento del cadavere di Attilio. Cosa c’era di strano nella camera di Attilio? «Un corpo martoriato, il setto nasale rotto (per la caduta sul letto, si è detto), seminudo, con evidenti ecchimosi. Fra le tante cose occorre dire che Attilio era solito togliere il portafogli e le chiavi appena rientrava in casa per riporli in un cassetto. Non lasciava nulla nelle tasche dei pantaloni che sfilava e lasciava in maniera disordinata da qualche parte nella stanza. Quando lo hanno ritrovato indossava soltanto una maglia arrotolata sulla schiena, mentre i pantaloni con le chiavi e il portafogli ancora nelle tasche, sono stati trovati ripiegati e riposti ordinatamente sopra una sedia. Nnessuno indumento intimo, invece, è stato mai ritrovato nella camera. Poi quei fori di siringa sul braccio sinistro, mentre Attilio era notoriamente mancino e quella siringa senza impronte digitali. Tanti elementi che non sono stati considerati». Ci racconta dettagli non trascurabili Angela Manca. Anche se la ricostruzione ufficiale, sino ad oggi, ha archiviato la storia del medico siciliano come un tossicodipendente. Nulla di più lontano dalla realtà. Un incontro, quello di Attilio Manca, con la mafia violenta e sanguinaria di Bernardo Provenzano, che si sarebbe potuto evitare se non ci fosse stata quella parte di Stato deviato che ha portato ad una Trattativa (infinita) con i vertici dell’organizzazione mafiosa e che, ancora oggi, dopo decenni, non permette di far luce sulle stragi e sui troppi morti che gravano pesantemente sulla coscienza di tutti noi. La parte malata delle istituzioni ha proibito, ad alcuni dei suoi uomini, di catturare Riina prima e Provenzano poi, e Matteo Messina Denaro ancora oggi, lasciandoli vivere tranquillamente nei propri paesi di origine. In quelle terre dove scorre il sangue dei morti ammazzati, nella assoluta certezza di restare intoccabili, come testimoniano molte persone. Una rete di protezione fatta di boss e picciotti, di uomini in divisa e politici corrotti che ha garantito latitanze eccellenti e coperture anche oltre frontiera come nel caso di Attilio, massacrato per aver riconosciuto a Marsiglia il paziente scomodo. Si arriverà alla verità secondo lei? «Stanno trascorrendo troppi anni – dice la signora Angela con la voce rotta dal dolore -. Temo di non vivere abbastanza per vedere finalmente riaffermata la verità per mio figlio e nessuno della politica si sta muovendo in tal senso. Riesumare il cadavere di Attilio potrebbe finalmente chiarire molte cose». Oltre a rendere giustizia alla famiglia di Attilio Manca, la verità – sino ad ora negata – potrebbe dare fiducia a chi, ogni giorno, si adopera nella ricerca della verità e nel combattere non solo la mafia con la lupara ma, soprattutto, per debellare quel malaffare che si mostra con la faccia pulita di funzionari e appartenenti alle istituzioni che, invece, con il proprio operato tradiscono il ruolo ricoperto, la Costituzione, ed un Paese intero. Alessandra Ruffini 6.8. 020 WordNews
La Asl pagò Provenzano Adesso c’ è la conferma ufficiale e viene dal ministro della Sanità Girolamo Sirchia: il capo dei capi di Cosa nostra, Bernardo Provenzano, che nell’ ottobre del 2003 si era sottoposto ad intervento chirurgico in Francia sotto falso nome, si è fatto anche rimborsare dal ministero della Sanità le spese mediche per un ammontare di 1.958,45 euro. La conferma del rimborso, che Sirchia ha dato rispondendo alla Camera ad una interrogazione parlamentare di Giampiero Cannella (An), suona anche come una sonora correzione alle smentite che ieri erano arrivate dall’ assessorato alla sanità della regione Sicilia. Ricostruendo l’ incredibile vicenda dei due «viaggi della speranza» compiuti da Provenzano nel luglio e nell’ ottobre del 2003 (la seconda per essere trasferito in un ospedale il cui nome rimane segreto), e rivelata da “Repubblica” nei giorni scorsi, il ministro della Sanità ha dichiarato che la casa di cura francese, la clinica «La Ciotat» di Marsiglia, emise una fattura il 16 febbraio del 2004 per un importo di 1.958,45 euro per prestazioni erogate dal 7 al 10 luglio 2003. La fattura era intestata al signor Gaspare Troia, 72 anni, il nome utilizzato da Bernardo Provenzano. Il rimborso – aggiunge Sirchia – fu richiesto utilizzando un regolare modello (E111) che autorizza l’ assistenza all’ estero. La richiesta fu poi inviata dal ministero alla Asl6 di Palermo per l’ iter di liquidazione. Ma non ebbe risposta e dunque la richiesta fu soddisfatta. «D’ altra parte – precisa puntigliosamente il ministro – spettava alla Asl fare i controlli». Al caso gli investigatori sono giunti esaminando una cartella clinica sequestrata nell’ inchiesta che ha portato in carcere cinquanta tra fiancheggiatori, vivandieri, postini o autisti del boss: era intestata a Gaspare Troia, 72 anni, che con un rapido accertamento si è scoperto non essere mai stato malato di prostata né sottoposto a interventi. è dunque emerso – come ha rivelato “Repubblica” – che Bernardo Provenzano era partito da Palermo accompagnato da uno degli arrestati, Salvatore Troia figlio di Gaspare. Il viaggio, compiuto in automobile, è durato quasi tre giorni. Che Provenzano poi si sia fatto pagare le spese mediche si è saputo soltanto qualche giorno fa quando gli investigatori hanno fatto sequestrare negli archivi dell’ Asl di Palermo tutte le pratiche relative a rimborsi spese sostenute dal paziente «Gaspare Troia». Ieri l’ assessore regionale alla sanità Giovanni Pistorio aveva sostenuto che la Regione siciliana non aveva pagato ed oggi ha risposto a Sirchia: «Evidentemente non c’ è stata una richiesta preventiva, che necessitava del nostro nullaosta, ma un intervento d’ urgenza in Francia. Se il pagamento a Troia è stato fatto dal ministero – ha continuato Pistorio – questo è legato al rapporto con la Asl di Palermo e non con l’ assessorato alla Sanità». Ma di «scenari ancora più foschi» che si aprono dalle risposte di Sirchia, parla Giuseppe Lumia, capogruppo ds alla Commissione antimafia: «Questa vicenda non può chiudersi con analisi burocratiche ma deve svelare tutto il marcio che esiste nelle zone grigie di collusione». E ad «inquietanti interrogativi» fa riferimento anche un altro componente della commissione, Carlo Vizzini LA REPUBBLICA 3 Marzo 2005
LA MAFIA RACCONTATA DAL FIGLIO DI PROVENZANO La crisi economica e la mancanza di posti di lavoro costringono molte persone ad una disoccupazione forzata o a fare le valigie e lasciare il Bel Paese in cerca di un’occupazione. C’è però chi un lavoro è riuscito a trovarlo comunque, come Angelo Provenzano, figlio di Bernardo, che da diverso tempo sta ricevendo comitive di turisti americani a cui illustra le vicende chiave di Cosa Nostra.
L’idea è venuta a un tour operator di Boston (Massachusetts) che ha deciso di inserire nei propri pacchetti vacanza anche un incontro col figlio di Zu’ Binnu. I turisti, dopo essere giunti a Palermo per visitare le bellezze della città come la Cattedrale, il teatro Massimo e il palazzo dei Normanni, vengono accompagnati a conoscere Angelo Provenzano, che illustra loro la sua vita, gli anni di latitanza col padre, il rientro a Corleone e il rapporto con una figura che gli ha condizionato passato e presente e che – nel bene e nel male – ha influenza anche nel suo futuro.
Gli incontri col figlio di Binnu ‘U Tratturi sono cominciati lo scorso settembre e – stando alle fonti – hanno riscosso fin da subito un notevole successo. I turisti, dopo una breve introduzione, si ritrovano faccia a faccia con Angelo Provenzano, che spiega loro alcuni passaggi salienti di Cosa Nostra e risponde alle domande che di volta in volta le comitive gli sottopongono.
“Per me si tratta di un’attività lavorativa importante in un settore, quello turistico, in cui ho sempre creduto”. E ancora: “Confrontarmi con una cultura diversa dalla nostra e scevra da pregiudizi mi pare un’avventura molto stimolante”. Queste le parole del primogenito di Provenzano, che aggiunge: “Vorrei una vita normale ma mi rendo conto che non c’è speranza”. Certamente non è impresa facile scrollarsi di dosso i pregiudizi che si possono avere, considerando il lungo periodo di latitanza (fino al 1992) e la serie di indagini – concluse con un sostanziale nulla di fatto – che dal 2000 al 2009 lo hanno riguardato. Nonostante questo, però, i turisti d’oltreoceano apprezzano la possibilità di incontrarlo e ascoltare la sua testimonianza.
Non mancano le voci di dissenso, come quella di Giovanna Maggiani Chelli, presidente dell’associazione dei familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili, l’attentato che nel maggio ’93 costò la vita a 5 persone, tra cui una neonata: “Speriamo che i turisti abbiano anche la possibilità di essere indirizzati in via dei Georgofili, a Firenze, vicinissima alla Galleria degli Uffizi: siamo disponibilissimi a raccontare loro la vera storia delle famiglie di Cosa Nostra”.
Più diretto è il senatore del Pd Beppe Lumia, che commenta: “Questa notizia ha dell’incredibile. È solo apparentemente innocua. Oltre a raccontarsi ai turisti, il figlio di Provenzano potrebbe trovare un po’ di tempo per dire ai magistrati dove si trovano le ricchezze accumulate dal padre”. Fonte: duerighe.com, 29 marzo 2015
Il gruppo “Duomo”, così nasce il reparto che catturerà Bernardo Provenzano
Si trova tra corso Vittorio Emanuele, dove si arriva percorrendo lo strettissimo vicolo del Lombardo, e il mercato di Ballarò. Il cortile dell’ex Commissariato confina con quello della Caritas, che ospita un asilo multietnico dove giocano bambini multicolori, accomunati da un dialetto palermitano che padroneggiano meglio dei loro genitori.
Che bello, quell’asilo! Mi pare il simbolo stesso della Sicilia, che ha visto passare nel corso dei millenni coloni, conquistatori e migranti, e da ciascuno ha preso una parola, un modo di dire, un’espressione artistica, un’idea, dove tutto si è fuso in un prodotto nuovo e unico che ha tuttavia conservato, ben distinguibili, i caratteri propri e l’identità delle diverse civiltà.
Alle spalle del nostro Duomo, verso il mercato di Ballarò, il Liceo Scientifico Benedetto Croce, e sull’altro lato una scuola elementare e media. Il gruppo occuperà tutto il piano terreno, perché di sopra ci lavorano alcuni colleghi della sezione criminalità organizzata della squadra mobile.
Un piccolo corpo di guardia protegge un lungo corridoio sul quale si aprono, sul lato destro, sette stanze; l’ultima parte del corridoio è chiusa da una porta, ed è diventata a sua volta una stanza, più piccola, da dove si transita per entrare in quella del dirigente.
Renato Cortese e i suoi
Renato Cortese lo conosco, ma non benissimo: l’ho visto qualche volta a Roma e l’ho incontrato alla Squadra Mobile di Palermo qualche mese prima, al ritorno da una missione nell’interno della Sicilia.
Il gruppo lo dirigerà lui, per continuità nelle indagini, perché le ricerche di Bernardo Provenzano vanno avanti già da qualche anno, con la Catturandi. A fine gennaio loro hanno chiuso l’operazione “Grande Mandamento”, arrestando una cinquantina di persone, mafiosi e favoreggiatori tra Bagheria, Palermo e la provincia.
A Provenzano ci sono andati vicini, anzi vicinissimi, ma ancora una volta “Binnu” aveva fiutato il pericolo e se ne erano perse le tracce. Gli uomini del gruppo sono stati scelti da Cortese e sono tutti della Catturandi, ma non la sezione al completo, e la cosa ha destato qualche malumore tra gli esclusi, com’è naturale, e qualche altro malumore è nato per la presenza, nel gruppo, di personale del Servizio Centrale Operativo, e non gli si può dar torto.
Ancora una volta mi trovo nella situazione di chi arriva in un posto che conosce poco, a lavorare su ambienti criminali che magari un po’ comprende, ma di certo non con la padronanza di chi, invece, professionalmente è cresciuto a pane e latitanti.
È sabato, e il Duomo è pieno di tecnici e di operai: stanno montando scaffalature che ospiteranno i faldoni della vecchia indagine e quelli della nuova, sistemano i cablaggi dei computer per le intercettazioni telefoniche, i monitor per le telecamere e la saletta per i colleghi incaricati di riascoltare le conversazioni intercettate.
La giornata è prefestiva, il lavoro investigativo vero e proprio non è ancora iniziato e dei colleghi della Catturandi sono presenti solo quattro o cinque, che conosco di nome e di fama: me ne ha parlato Pippo, che conosco dai tempi delle scorte a Francesco Marino Mannoia e che da parecchi anni è stato trasferito nel mio ufficio, alla mia sezione: lui viene dalla squadra mobile di Palermo e a Palermo conosce tutti: è nel gruppo anche lui.
Renato Cortese fa le presentazioni, che si concludono come di prassi al bar; andiamo al Kaleido, in corso Vittorio.
Ci si arriva percorrendo il vicolo del Lombardo, una viuzza strettissima tra due palazzi vicinissimi tra loro, col risultato che è sempre in ombra: è una specie di camino naturale dove il vento si infila tutto l’anno, e sbuca quasi di fronte alla Cattedrale di Palermo, offrendo un colpo d’occhio che mi lascia senza fiato: un lato della piazza è occupato dal Liceo Classico Vittorio Emanuele II, un’architettura geometrica e austera, seria come la scuola che ospita e come ci si aspetta debba essere un liceo; di fronte, sull’altro lato della piazza, l’Arcivescovado, e a coprire il tutto un cielo sempre azzurro dove spiccano, a dar lavoro agli obiettivi fotografici dei tanti turisti, le sagome di altissime palme e i contorni della Cattedrale. Imparerò a conoscerli bene, quei luoghi intorno al mio nuovo ufficio: i negozi che si affacciano sul corso, il Kaleido, l’ottico Punto di Vista, di cui conservo ancora la tessera fedeltà, la libreria delle Paoline, la farmacia, l’Isola Saporita, l’armeria, il bar Marocco e tutti gli altri, ma per ora è solo uno sguardo di sfuggita.
Per oggi è tutto, mi vado a sistemare provvisoriamente in un alberghetto, a Ballarò, e penso alle difficoltà che mi aspettano. Nei giorni successivi conosco i nuovi colleghi: non è una squadra di centravanti, è una squadra, e in ciascun ruolo Renato Cortese ha scelto quanto di meglio poteva senza spogliare la Catturandi, perché quelli che sono rimasti a lavorare lì, negli uffici della Mobile, hanno le stesse caratteristiche dei prescelti.
Tra noi non ci sono nomi di fantasia, e mi dispiace deludere chi è convinto che chi fa questo lavoro abbia un nome di battaglia; no, ci si chiama per nome: Tommaso, Giuseppe, Alfonso, Paolo, Luigi, Salvatore, Luciano, Fabio, Adriano, Vincenzo, Rosario, Vittorio, Maurizio e così via.
I nomi di battaglia appartengono alle fiction, perché il pubblico li ama, ma questa è una cronaca, e nelle cronache al massimo ci sono i soprannomi, legati a caratteristiche fisiche, caratteriali, dell’abbigliamento: “er Pomata”, “er Caciara”, “il Cammello”, “l’Imperatore”.
Un reparto investigativo d’eccellenza
Ho la qualifica di Sostituto Commissario, che nel gruppo è la più elevata dopo quella di Renato Cortese, ma mi rendo conto che ciascuno degli specialisti della Catturandi ha molto da insegnarmi dal punto di vista tecnico, e allora busso, chiedo permesso, ed entro in punta di piedi.
La squadra mobile di Palermo, nel 2005, è un reparto investigativo d’eccellenza e all’avanguardia: lavorano con microspie e telecamere di ultima generazione, almeno per gli standard della Polizia, e vedo con sollievo che la tecnologia ha fatto sensibili progressi dai tempi in cui, a Corleone, andavamo rubando la Fiat Uno dei Provenzano quasi tutte le notti: avrò molto da studiare per rimettermi in pari, ammesso che ci riesca.
Però posso occuparmi delle carte, di tutto quel lavoro noioso, ripetitivo, sedentario e indispensabile, che di solito non vuol fare nessuno, e nessuno di sicuro si offenderà se intanto me ne prenderò l’appalto, mettendomi a disposizione per il resto.
Il turno di marzo passa in fretta, si pianifica il da farsi e come iniziare: intercettazione dei colloqui in carcere di molti degli arrestati di “Grande Mandamento”, perché se favorivano Provenzano quando si nascondeva a Bagheria potrebbero avere qualche informazione che può ancora tornarci utile.
È un lavoraccio, dal punto di vista anche delle carte: per ciascun colloquio di ogni detenuto bisogna prendere contatto con il carcere dove si trova, interpellare le ditte che forniscono le microspie e le telecamere, farsi mandare i preventivi di spesa e portarli alla procura della Repubblica, che deve valutare e autorizzare caso per caso, recuperare i Cd con le registrazioni dopo i colloqui, occuparsi di chiedere eventuali proroghe, perché le prime autorizzazioni valgono quaranta giorni, le successive venti, e tanto le richieste iniziali quanto quelle per le proroghe vanno tutte e sempre motivate.
Iniziano anche le intercettazioni telefoniche: si discute se lasciare l’incarico di seguire quelle dei familiari del latitante al Commissariato di Corleone; dico che secondo me sarebbe preferibile avere notizie di primissima mano, anche gli altri sono d’accordo, anche perché piste calde da seguire non ce ne sono, per il momento. Nel gruppo funziona così, tutti devono essere a conoscenza di quello che si sta facendo, del perché lo si sta facendo e di come si intende proseguire a farlo; si ascoltano i pareri, poi si decide.
I componenti del gruppo sono intercambiabili tra loro, ma in ciascun settore ci sono i punti di riferimento, per le intercettazioni telefoniche individuo Alfonso: lui ascolta e riascolta tutto all’inizio di ogni turno, fa collegamenti, ricerca nelle vecchie conversazioni elementi che possano far luce su alcuni dialoghi poco comprensibili e, grandissima dote, quello che trova lo mette per iscritto, per futura memoria sua e degli altri. Al riascolto, che forse è il settore dove si nascondono le informazioni più utili, il riferimento è Totò.
Il riascolto è per così dire il cuore di un’indagine: tutto ciò che viene raccolto con le microspie e ascoltato, quando possibile, in diretta, finisce nella sua saletta; lì ogni conversazione viene ripulita da fruscii, scariche e rumori di fondo e viene sentita una, due, dieci, cento volte, al bisogno.
Sono incredulo, mi fanno provare: ascolto dieci secondi di quello che a me sembra il rumore del vento e delle voci indistinte e lontane. Totò mi guarda e chiede: – ’U capisti? – poi, come colto da un improvviso dubbio anche sulla mia competenza linguistica – Hai capito? – si affretta a tradurre. Lo guardo perplesso: mi sta sfottendo? No, è serissimo, manda indietro il cursore della traccia sul monitor e mi fa riascoltare, mi aggiusta le cuffie, rallenta la velocità, regola i toni, ma per me non cambia niente, rumori erano e rumori restano.
Mi aiuta, scandisce lentamente le parole che lui sente, fa ripartire il file audio; ora le colgo, stupito come un bambino.
Non ho passato il primo esame, ma Totò è indulgente, sa che non è facile. Però guai a disturbarlo mentre riascolta: tutti passiamo in punta di piedi davanti al suo minuscolo regno, funzionari compresi, e sono pochi quelli che si azzardano a contraddirlo nell’interpretazione: se nascono dubbi, i riascolti vanno avanti a oltranza, fino a quando tutti non sono convinti.
A volte succede che qualcuno nutra qualche dubbio, ma se lo va a chiarire a tarda sera, quando Totò non c’è. Nel gruppo ci sono due ispettori superiori della Catturandi, esperti e carismatici: uno più diretto, l’altro più diplomatico; tutti e due provengono dai gradi iniziali della Polizia e hanno fatto carriera a suon di promozioni ottenute sul campo, a differenza di quanto è successo a me, entrato nell’Amministrazione già con la qualifica di “ispettore”.
Fare carriera partendo dal basso comporta più tempo, ma impari a fare di tutto, a capire meglio le difficoltà di un lavoro e i problemi di chi lo deve svolgere, sei in grado di spiegare come si fa e come vuoi che venga fatto, e poi la strada maestra per imparare a comandare è iniziare obbedendo.
Mi accompagnano in procura e mi presentano ai magistrati che dirigono l’indagine, Giuseppe Pignatone è il Procuratore Aggiunto, che già conoscevo da altre vecchie attività, Michele Prestipino e Marzia Sabella. Conosco anche il personale della segreteria, Mariangela, Rita, Sandro, Giuseppe; non è solo personale del Ministero della Giustizia, ma anche della polizia e della “municipale” e anche loro sono una “squadra”; l’impressione che ricevo mi spinge all’ottimismo: se ognuno fa il suo e se si rema tutti a tempo e nella stessa direzione, strada se ne può fare. Alla fine del primo turno, risalgo a Roma più sereno di quando sono partito. […]. Dal libro “Io, Sbirro a Palermo”, di Maurizio Ortolan
Sulle tracce di “Iddu”, un fantasma da quasi mezzo secolo
Nelle indagini, specie nelle indagini lunghe e complicate, ci sono due scuole di pensiero, e i poliziotti si dividono tra cacciatori e pescatori; il poliziotto cacciatore insegue la preda, la bracca, fa terra bruciata, chiude le tane e forza i servizi, a costo di farsi vedere: è il poliziotto delle serie americane un po’ datate, per intenderci, determinato nei modi e sbrigativo nell’azione.
Il poliziotto pescatore, invece, è più sul modello inglese, riflessivo, una via di mezzo tra Sherlock Holmes e il Tenente Colombo: tende le reti e attende, paziente, che la preda ci finisca dentro, contrapponendo l’acume alla furbizia. Alla Catturandi, e di conseguenza al Duomo, le due tecniche si sposano: si tendono reti e trappole ma c’è sempre la massima allerta per cogliere al volo la minima occasione. Siamo a maggio, e come si dice a Roma “nun se move ’na foglia”.
Dai colloqui dei detenuti in carcere non apprendiamo niente di rilevante, i familiari conducono vita assolutamente normale e ritirata; dalle altre intercettazioni, e anche da qualche “ambientale” che abbiamo in corso a Bagheria e in qualche masseria in provincia, non si ricava niente, tanto che qualcuno inizia persino a dar credito all’insolita intervista rilasciata dall’avvocato Traina, lo storico difensore di fiducia di Provenzano, che ipotizza addirittura che il boss sia morto già da anni, da quando la famiglia è ricomparsa a Corleone all’inizio del 1992.
L’indagine langue, e il mio ufficio riduce il personale della mia sezione che aveva destinato al “gruppo Duomo”, dirottando gli altri nella ricerca di un altro most wanted, Attilio Cubeddu, dell’Anonima sequestri sarda, ultimo ricercato per il sequestro Soffiantini dopo l’arresto a Sydney di Giovanni Farina.
Del servizio centrale operativo, a Palermo, restiamo in sette. Insomma si vivacchia, ma il destino segue strade sue, gli eventi si intrecciano, e le conseguenze degli intrecci sono imprevedibili e inaspettate. La svolta nell’indagine si presenta con le insospettabili sembianze di uno sfratto, uno sfratto che raggiunge alla fine di maggio Salvatore e Simone Provenzano, fratelli del latitante.
Lo sfratto è causato dalla confisca dell’abitazione nella quale vive Simone, che così è costretto a trasferirsi; dovrà traslocare in un’altra casa, sempre a Corleone, in Cortile Colletti. Chiamano la Telecom per farsi allacciare lì il telefono, al nuovo indirizzo, e la richiesta viene fatta da un numero che abbiamo già sotto controllo.
Il poliziotto pescatore coglie nell’aria l’occasione e lascia la scena al poliziotto cacciatore; il poliziotto cacciatore esegue l’allaccio del telefono con mezzi uguali a quelli della Telecom e con gli strumenti che usa la Telecom, ma nel frattempo abbiamo avuto dai magistrati l’autorizzazione a effettuare anche un’intercettazione ambientale, e così nel cavo che viene teso attraverso il giardino ed il portico per portare in casa la linea del telefono sono cablate un paio di microspie; per telefono non si parla di questioni delicate, lo sappiamo, ma fuori, in giardino, chissà… e la rete è tesa.
La svolta
Passa solo qualche giorno, e nella nuova casa di Simone Provenzano viene in visita il nipote, Carmelo Gariffo, da sempre ritenuto un soggetto vicinissimo al latitante.
Al telefono non si parla di questioni delicate; in casa non si parla di questioni delicate, ma anche le questioni delicate vanno trattate in qualche modo, sia pure con mille accortezze, e in giardino qualcosa la ascoltiamo.
Pare che ci sia in piedi una questione su un vecchio prestito che a Bernardo risulta restituito solo in parte: sono frammenti di frasi e di discorsi che non si colgono nella loro interezza, ma si capisce che Carmelo Gariffo si sta interessando della vicenda per conto del latitante. Drizziamo tutti le orecchie, specialmente Totò.
La mattina del 10 giugno c’è un’altra conversazione, sempre all’esterno, e sembra di percepire la voce di Simone che rivolgendosi al nipote Carmelo gli chiede, abbassando il tono: – Ma Iddu cca è? Una bella svolta! Ascoltiamo tutti… le orecchie più allenate del gruppo affiancano quelle di Totò per cogliere altri passaggi, mentre io raccolgo le carte che quotidianamente, o quasi, vanno portate in Procura e mi avvio, a piedi, come ogni giorno, con un collega.
Alla televisione, nelle fiction, le cose ordinarie non le fanno mai vedere, perciò pochi sanno che nei Palazzi di Giustizia esiste un Ufficio Intercettazioni dove convergono tutte le carte, dove arrivano tutte le richieste di intercettazione e da dove escono tutti i decreti da eseguire; è un collo di bottiglia, dove spesso si deve fare la fila per ritirare le autorizzazioni.
Fare la fila non emoziona e non dà emozione, quindi nelle fiction certi aspetti si tralasciano per dare spazio alla pubblicità, però senza la fila e senza l’Ufficio Intercettazioni non si fanno indagini, al massimo solo le fiction.
La telefonata mi arriva sul cellulare mentre, appunto, sto facendo la fila, e dall’altra parte c’è un arrabbiatissimo Renato Cortese, che mi sta chiamando dall’ufficio di Michele Prestipino, il pubblico ministero, e anche lui non mi pare tranquillo. – Ma come, parlano di Iddu, di Iddu che è Qua (qua lo pronuncia tutto in maiuscolo), e tu non mi dici niente? Ma ti rendi conto… La mia prima reazione è di meraviglia, non capisco il perché di tanta agitazione: – Doc, mica è ancora sicuro; la conversazione è di mezz’ora fa e la stanno tutti riascoltando, l’avrei informata appena avuta certezza… Credo che voglia mangiarmi, ma sono fuori tiro, l’Ufficio Intercettazioni sta nello stesso edificio, ma all’ultimo piano, praticamente nel sottotetto del Palazzo di giustizia di Palermo. – Cioè… stiamo parlando di uno che stiamo cercando da quarant’anni, che dicono sia morto… tu senti i parenti che chiedono se è Qua (di nuovo tutto a lettere maiuscole), e tu non lo dici Subito?
Io sono pragmatico, e non riesco ancora a sentirmi così colpevole: dopo tutto non è che lo abbia detto ad altri e non a lui, mio diretto superiore, semplicemente non mi è mai andato a genio l’atteggiamento di chi ad ogni minima cosa alza il telefono e allarma i “capi”, spesso inutilmente, ma evidentemente qualcuno, al Duomo, la pensa diversamente e ha bruciato i tempi. Pazienza, la lavata di testa me la sono presa, ma di sicuro la mia mancanza non ha portato danno all’indagine.
Mi stringo nelle spalle e continuo a fare la fila. Quando torno al Duomo nella stanzetta del riascolto c’è ressa, con grande disappunto di Totò, ma quell’“Iddu cca è?” appena sussurrato pare che lo vogliano sentire proprio tutti. Nei giorni seguenti preparo le richieste di intercettazione telefoniche e ambientali per Carmelo Gariffo, posto che, a quanto pare, è lui il collegamento con il latitante: con Iddu. […].
Ritorno in Sicilia, la caccia per stanare l’ultimo boss di Corleone
È il 5 marzo del 2005, sono a bordo di un vecchio Super 80 dell’Alitalia prossimo alla pensione, o a una nuova esistenza nel sud del mondo, diretto a Palermo. Sono passati tredici anni da quando mi richiamarono dalle ferie, subito dopo la strage di via D’Amelio; come già successo per la strage di Capaci, anche in quell’occasione pensavo di dover scendere a Palermo, magari di doverci restare a lungo, ma anche quella volta del mio ufficio non scese nessuno, e ci occupammo di altro.
Altro per modo di dire: a novembre del 1992 con le dichiarazioni di Leonardo Messina portammo a termine l’operazione “Leopardo”, a Caltanissetta, poi a Como altri 380 arresti in quella che credo sia ancora la più imponente operazione – per numero di arresti – mai fatta nei confronti della criminalità organizzata di tipo mafioso, le catture di capimafia latitanti del calibro di Giuseppe “Piddu” Madonia e di Nitto Santapaola; poi le indagini per il sequestro Soffiantini e la missione in Australia dove era stato localizzato uno dei responsabili, Giovanni Farina; la missione a Padova e l’arresto del serial killer Michele Profeta e tante altre storie, ciascuna delle quali, da sola, meriterebbe d’essere raccontata per filo e per segno ma ho scelto di riprendere da qui, dal 2005, dal mio ritorno a Palermo, per chiudere il cerchio di quel percorso ideale iniziato scortando un pentito tanti anni prima.
Fino a febbraio ero stato a Siracusa, per collaborare nelle indagini sull’incendio di un pub, del quale la stampa s’era parecchio interessata, ma Gilberto Caldarozzi, nel frattempo diventato il direttore della mia divisione, me l’aveva detto chiaro: – Mauri’, sta partendo un gruppo di lavoro a Palermo con la Catturandi, e io ci metto tutta la tua sezione, tre gruppi di cinque e turni di dieci giorni, la dirige Renato Cortese e dovete iniziare subito. Scegliti il gruppo e organizzati. Nel corso degli anni, prima al Nucleo Centrale Anticrimine e poi al Servizio Centrale Operativo, di funzionari ne avevo visti passare tanti, ma la sostanza era sempre la stessa: loro dicevano una cosa e noi dovevamo solo prenderne atto, almeno inizialmente, ma Caldarozzi era stato mio collega di corso, a Nettuno, nel 1983, e mi ero sempre sentito in diritto e in dovere di opporgli obiezioni, al bisogno. – Doc, – azzardo – ho qualche perplessità. Mia nonna diceva sempre “chiesa grande, devozione poca”, sicuro che dobbiamo scendere tutti? E poi i turni di dieci giorni non sono troppo brevi? Un giorno per andare e sistemarsi, l’ultimo per tornare e ne restano otto… poi uno sta via tre settimane e quando torna si deve andare a rivedere e a rileggere da capo quello che è successo nel frattempo… Non mi contraddice, ed è già tanto: – Senti, se tu vuoi stare fuori turno e rimanere di più non c’è mica problema! Intanto partiamo così, casomai ci si aggiusta strada facendo, e poi la Squadra Mobile di Palermo ce ne mette venti, tutti della Catturandi, e dobbiamo fare metà e metà… Vabbe’, mi dico, iniziamo ad andare e “comu finisci si cunta”.
In sostanza si tratta di un ritorno: a Palermo, dal 1988 in poi, c’ero stato un’infinità di volte, ma si era sempre trattato di missioni relativamente brevi, una settimana o dieci giorni al massimo, e mai per indagini lunghe. C’era stata una sola eccezione, proprio per le ricerche di Bernardo Provenzano, tra il 1994 e il 1995, quando ero stato inserito in un piccolo gruppo di lavoro con personale del Commissariato di Corleone e della squadra mobile di Palermo.
Eravamo pochi, una decina o giù di lì, e facevamo base in alcuni locali del palazzo delle Poste, in via Ausonia, e con quella composizione andò avanti per sette o otto mesi.
La famiglia Provenzano “controllata”
L’attività era concentrata sulla famiglia del latitante, avevamo delle microspie e un localizzatore Gps sulla Fiat Uno che utilizzava Angelo Provenzano, il figlio maggiore. Sulla stessa macchina, montata dietro la mascherina anteriore, c’era anche una telecamera, che nelle nostre intenzioni ci avrebbe dovuto far vedere i luoghi dove si fermava.
Forse la tecnologia a quei tempi non era abbastanza matura, non so, fatto sta che di quello che si diceva a bordo del mezzo intercettato si sentivano solo frammenti di conversazione, perché coperti da continue scariche e dall’autoradio sempre accesa, la localizzazione gps era alquanto approssimativa, e se in occasione di qualche pedinamento a Palermo l’auto veniva persa di vista, ritrovarla attraverso le coordinate del gps diventava un’impresa.
La telecamera in compenso funzionava, ma bastavano cento metri di trazzera polverosa per coprire completamente la lente. Col fango, poi, era pure peggio: bastavano due pozzanghere e fine delle trasmissioni! Tutti gli apparati, inoltre, si alimentavano dalla batteria della povera Fiat Uno, col risultato che spesso andava giù di carica.
La famiglia Provenzano era ricomparsa a Corleone nell’aprile del 1992 e nel 1994 abitava a poca distanza dal Commissariato di Polizia, in via Verdi, in un appartamento che si affacciava in strada, dove di solito era parcheggiata la Fiat Uno.
Questo di giorno, perché di notte molto spesso la macchina veniva presa da noi e portata in un box del Commissariato per regolare le apparecchiature, pulire la lente della telecamera e ricaricare la batteria; una volta arrivammo addirittura a sostituirla con una di maggiore amperaggio, nella speranza che diminuissero i problemi, ma con scarsi risultati.
Per tutte queste operazioni tecniche certe volte se ne andavano anche un paio d’ore, ed eravamo costretti a parcheggiare al posto della Fiat Uno dei Provenzano un’auto dello stesso tipo e colore per il tempo necessario. Insomma, buona volontà ce ne avevamo messa, ma era impossibile che non se ne fossero mai accorti. A tutto questo pensavo mentre il Super 80, dal lato di Terrasini, allineava il muso alla pista di Punta Raisi.
Appostamenti e telecamere, il cerchio si stringe a Montagna dei Cavalli
Sono in auto con uno degli ispettori della Catturandi, su una delle Fiat Stilo a gasolio che abbiamo in noleggio a lungo termine e dobbiamo stare “in zona” senza compiti particolari, se non quello d’essere in grado di raggiungere rapidamente Corleone nel caso ci fosse necessità di un pedinamento.
Le macchine a gasolio non le sopporto e non le ho mai sopportate fin da bambino, mi fanno venire la nausea; ho pure un inizio di mal di gola, fa freddo e il collega che è con me, alla guida, fuma il sigaro, il cui odore si mescola e si sovrappone a quello del gasolio bruciato.
Sono frullato dalle curve: stare in zona significa che non puoi stare fermo, perché fermarsi da qualche parte è il miglior modo per farsi notare, anche se stai su una Stilo grigia, che da quelle parti pare sia il mezzo di trasporto più diffuso.
Piove alla assuppa viddanu, passiamo il tempo andando da un paese a un altro, esplorando trazzere sconnesse e fangose; due soste in qualche bar fuori mano, dove non parlo neppure: che ci fa un romano, a metà gennaio, nelle campagne della provincia palermitana? Il tempo non vuole passare, fa buio presto, prestissimo, ma dobbiamo comunque restare fuori.
Ci si racconta la vita, le esperienze e le aspettative, poi si ricomincia, e poi di nuovo e ancora, ma alla fine si tace. Ho già scritto dell’importanza della pazienza? In certe occasioni il tempo non passa davvero mai. A sera torniamo, non abbiamo ricevuto nessuna telefonata per tutto il giorno: scendiamo a valle accompagnati da un senso di inutilità, scandisco ogni tornante con ripetuti colpi di tosse.
Per una sera anche una piccola stanza d’albergo ha il sapore di casa. Il giorno 20 torno a Roma, e arrivo in ospedale giusto in tempo: sta nascendo il mio primo nipote, che ha avuto la pazienza di aspettare e sapermi presente nei dintorni prima di affacciarsi al mondo. Quand’è che succede? Non lo ricordo con precisione, e per una volta non posso indicare il giorno preciso, ma è a cavallo tra gennaio e febbraio. Siamo alle telecamere, come sempre, in una serata di routine: Giuseppe è andato a trovare Angelo Provenzano a casa, si trattiene all’interno pochi minuti poi esce.
In mano ha un sacchetto da supermercato abbastanza grande, con i manici legati a fiocco. Passa davanti ai contenitori della spazzatura, raggiunge la sua macchina parcheggiata poco più avanti, apre il cofano e ripone il sacchetto all’interno, mette in moto e va via.
È qui che succede, qui qualcuno si pone la domanda: perché non ha gettato il sacchetto nella spazzatura quando è passato davanti al contenitore? In qualsiasi indagine le microspie registrano conversazioni, le telecamere riprendono e documentano tutto ciò che accade, i server memorizzano ogni suono e ogni immagine, ma non servono a niente fino a quando un umano non si pone una domanda, anzi la domanda. Accade tutto in fretta: riprendiamo in mano le registrazioni precedenti e vediamo che anche altre volte Giuseppe, quando ha un sacchetto con sé, lo mette in macchina, e sempre nel cofano.
Perché? Dove va? Recuperiamo le localizzazioni del Gps, che ci dicono che va a casa. Cerchiamo analogie: cosa fa il giorno successivo a quando esce dalla casa di Provenzano con i sacchetti? Non emergono coincidenze, né comportamenti ripetuti. Beh, se porta i sacchetti a casa magari restano a casa, e la traccia che ci serve è lì che la dobbiamo cercare.
Serve un posto idoneo, lo troviamo in un edificio in costruzione che guarda la casa dei Lo Bue: ma è lontano, ci vuole una telecamera buona, che costa di più. La Procura ci autorizza, la installiamo. Aspettiamo. Siamo fortunati: già al primo sacchetto vediamo Giuseppe arrivare e infilare l’auto nel box che si apre sulla strada; prende il sacchetto, apre il baule della macchina del padre accanto alla sua e lo ripone all’interno.
La cosa si ripete nelle settimane seguenti, ma le telecamere non ci possono dare altro. Bisogna rischiare qualcosa in più: è il turno del poliziotto cacciatore. La sera del 17 marzo da casa Provenzano esce un sacchetto che viene messo da Giuseppe Lo Bue nell’auto del padre.
Dalla prima mattina del 18 noi abbiamo due auto a Corleone; nel pomeriggio Calogero esce in macchina, gira un po’ in paese, poi incontra per pochissimi secondi un uomo che viaggia a bordo di un’altra vettura; riusciamo a prendere la targa: è di Bernardo Riina; i due si dirigono fuori paese con le rispettive automobili, ma è impossibile seguirli senza farsi scoprire.
Abbiamo, netta, l’impressione di essere vicini, anzi vicinissimi. I nostri sospetti sono confermati da quello che ascoltiamo al telefono: quando Bernardo Riina e Calogero Lo Bue si devono incontrare, gli accordi vengono presi dai rispettivi figli, come se si trattasse di un incontro tra i due ragazzi, e invece a incontrarsi sono i genitori. Pensiamo tutti che Bernardo Riina sia l’ultimo tramite, preparo una richiesta per intercettare i telefoni della famiglia; Renato Cortese la porta in procura, ma me la riporta indietro. – Tienila in sospeso – dice. – Pignatone e Prestipino non la vogliono fare, quest’intercettazione. Almeno per ora – aggiunge. Stento a crederlo, ma Cortese, paziente, mi spiega. – Troppe volte siamo stati vicini a prenderlo, e troppe volte, quando eravamo vicini come ora, è successo qualcosa. Dopo tutto dei telefoni di Riina non abbiamo bisogno, se è davvero lui l’ultimo anello… L’intercettazione di un telefono è una faccenda riservata, sulla carta, ma in pratica lo viene a sapere un sacco di gente, oltre a noi che ascoltiamo e ai magistrati che la dispongono o la autorizzano. Lo sanno all’ufficio intercettazioni, lo sa la Telecom, lo sanno tutti i gestori delle compagnie telefoniche, lo sa la società che fornisce i server, il software e l’hardware che ci consentono di ascoltare, registrare e riascoltare.
È vero che conoscono solo il numero di utenza e non l’intestatario, però… Per un momento mi sembra un eccesso di prudenza e di diffidenza, ma mi viene subito in mente Falcone, quando nel 1989, nel teatro dell’Istituto Superiore di Polizia ci invitava a non parlare neanche per radio. E aveva ragione lui, allora, come adesso hanno ragione i magistrati che vogliono andare avanti con decisione, sì, ma anche con la massima cautela.
Chi si guardò, si salvò, si dice, e in effetti per rimanere latitante 43 anni magari non basta solo la furbizia da viddano. Chiudiamo Corleone in un cerchio di telecamere, vediamo verso quale trazzera si dirige Bernardo Riina quando esce dal paese dopo essersi incontrato con Lo Bue, mettiamo un’ulteriore telecamera che guarda tutta la zona dall’alto. Qualche giorno e sappiamo dove va: nella masseria di Giovanni Marino, in Contrada Montagna dei Cavalli.
L’arresto del vecchio boss e il mistero della sua Bibbia rossa
Il 5 aprile abbiamo la certezza che nella casetta c’è qualcuno: Giovanni Marino sta sistemando un’antenna per la televisione su un palo, a una decina di metri dall’edificio; la sposta, la orienta, sembra rivolgersi a qualcuno che è in casa… sposta ancora l’antenna, sembra chiedere a qualcuno che sta all’interno, ma che non si affaccia mai, se la ricezione migliora.
Una sera, con discrezione, i magistrati vengono al Duomo, a rendersi conto di persona; da Roma scende Gilberto Caldarozzi, che è il direttore “reggente” del servizio centrale operativo.
Anche lui guarda le telecamere, con il dirigente della squadra mobile, Giuseppe Gualtieri. Noi siamo divisi: una parte vorrebbe intervenire subito, già quella stessa sera, perché ora pare esserci qualcuno, ma domani chi lo sa? Altri sono più prudenti: e se la casetta fosse solo un’ulteriore tappa del percorso dei sacchetti? La domanda è legittima, ma nessuno può rispondere.
Alla fine è Caldarozzi a decidere: si aspetterà di veder arrivare il prossimo pacco alla casetta di Montagna dei Cavalli, si farà osservazione diretta tutta la notte e poi a oltranza, fino a una nuova visita di Bernardo Riina, e allora si interverrà.
Avrei preferito agire di notte, e nel caso non si trovasse nessuno lasciare delle microspie, ma il capo è Gilberto, e la responsabilità è sua. Ci prepariamo all’azione, guardo avanti e guardo indietro, a vicende vissute in Polizia; l’esperienza mi ha insegnato che una cosa è raccontare, descrivere anche nei particolari, e una cosa è far vedere e documentare i fatti attraverso le immagini.
Un’intuizione efficace
Di mia iniziativa dico a Daniele, un collega della Catturandi, di procurarsi una telecamera e gli dico che dovrà riprendere tutto, dall’inizio alla fine, e se si troverà qualcosa dovranno essere le immagini, prima dei verbali, a far vedere a tutti cosa si è trovato, come si è trovato e dove si è trovato.
Gli dico che è una cosa per noi, la metto sul gioco, gli dico di fare anche delle riprese in ufficio, al Duomo, prima dell’intervento, per un ricordo solo nostro. L’idea gli piace e inizia a darsi da fare. La mattina dell’11 aprile vediamo Giovanni Marino sulla porta della casetta, sembra bussare, ci pare di vedere una mano che attraverso la porta socchiusa gli porge qualcosa.
Alle 9.58 arriva Bernardo Riina, ha con sé un pacchetto, entra nella casetta. Inizia l’operazione: si parte! Tutti vogliono partecipare, tutti vogliono essere presenti; non è più la “sindrome del centravanti”, è un gruppo di persone che hanno lavorato, che si sono sacrificate, che si sono impegnate e ci hanno creduto, e ora si aspettano di raccogliere il frutto del lavoro svolto.
Non è possibile andare tutti, bisogna continuare ad ascoltare i telefoni e a guardare le telecamere. Renato Cortese indica i ragazzi della Catturandi che devono rimanere al Duomo, poi si rivolge a me. – Per lo Sco, decidi tu, è il tuo ufficio, almeno due devono restare… Mi sento morire.
Non è vero che è il mio ufficio, perché lui è un funzionario del Servizio Centrale Operativo, e ora devo essere io a scegliere i due colleghi che non giocheranno la partita? I mezzi sono pronti, il fuoristrada, il furgone, altre due auto.
Non posso mettermi a fare la polemica che vorrei: si sta andando ad arrestare, probabilmente, Bernardo Provenzano, latitante da quarantatré anni. Può essere un’occasione irripetibile per la Polizia e per la società tutta. – Luigi, io e te restiamo. L’esempio non si dà solo sfondando le porte o suonando la carica, ma anche rinunciando alla vanità di recitare il ruolo del protagonista.
L’arresto
Partono, alle 11.21 lo arrestano, lo vediamo in diretta, dalle telecamere, mi arriva un sms di conferma; al diavolo telefoni e telecamere, salgo anch’io e faccio in tempo a vedere i luoghi, i “pizzini”, il vecchio mafioso con i tre crocifissi al collo che ripete: – Non sapete che avete fatto… Fisso in mente solo alcune immagini: una lettera iniziata infilata nel rullo di una delle macchine da scrivere, Adriano che aiuta il vecchio boss ad allacciarsi le scarpe, e il particolare mi fa piacere, perché noi del Servizio abbiamo sempre goduto di cattiva fama, quanto a durezza di modi.
Ma non c’è tempo, devo tornare di corsa: ci sono i verbali da preparare, le ordinanze di custodia cautelare da notificargli, mi precipito a Palermo e vado al Duomo a prendere le carte.
Le copie dei numerosi provvedimenti restrittivi pendenti le abbiamo preparate già dal giorno precedente, e abbiamo fatto bene ad anticipare, con un collega della Squadra Mobile che si è sobbarcato il lungo lavoro di ricerca e di fotocopia; io ho predisposto il verbale. Mi telefonano che stanno arrivando, e porteranno l’arrestato proprio lì alla Squadra Mobile, dove li devo raggiungere subito.
Dal Duomo alla Squadra Mobile, in piazza della Vittoria, saranno sì e no trecento metri, ma quando arrivo davanti la piazza è piena: c’è un’infinità di poliziotti, in divisa e in borghese, ma anche tanta gente; ormai le televisioni di mezzo mondo stanno parlando dell’arresto, ci sono giornalisti e telecamere, alcuni furgoni attrezzati si stanno organizzando per la diretta, contendendosi i posti migliori.
Provo a farmi largo ma non è facile, tutti vogliono essere in prima fila. Per fortuna tra i colleghi al portone ce n’è uno che mi conosce, sa quel che devo fare e ha una voce possente: – Maurizio, fate passare Maurizio! All’invito autorevole la folla si apre, guadagno l’ingresso, salgo al primo piano, alla Segreteria trovo un pc e inizio a stampare il verbale di notifica che ho preparato su un floppy. Nei corridoi della Mobile non si riesce a passare per quanti colleghi ci sono; preparo e stampo il verbale di arresto, poi mi portano Bernardo Provenzano: gli devo notificare le ordinanze.
Appare smarrito per la confusione, ma non sembra particolarmente turbato. È solo preoccupato per la sua salute, e anche a me ripete che ha urgenza di farsi praticare un’iniezione. Lo rassicuro, in carcere troverà chi se ne farà carico. Passo al verbale, sono tre pagine, che gli leggo: il provvedimento più vecchio è l’ordine di cattura 170/82 emesso il 26.07.1982 dalla procura della Repubblica di Palermo per «associazione per delinquere finalizzata alla commissione di delitti contro la persona, traffico di sostanze stupefacenti ed altri gravi reati”; proseguo, e scandisco bene quando arrivo all’ordine di esecuzione 74/98 emesso l’1.12.1998 procura della Repubblica presso il tribunale di Caltanissetta»…dovendo espiare l’ergastolo per la strage di Capaci e reati connessi”, e all’ordine di esecuzione 241/03 Res emesso il 7.04.2005 dalla procura generale della Repubblica presso la Corte d’Appello di Caltanissetta “…dovendo espiare l’ergastolo per vari reati, tra i quali la strage di Via D’Amelio, gli attentati di Roma, Firenze e Milano del 1993, il tentato omicidio di Salvatore ‘Totuccio’ Contorno”.
Gli spiego che si tratta dei provvedimenti restrittivi che lo riguardano, che gliene darò una copia, che se vuole mi firmerà una copia del verbale per ricevuta, altrimenti darò atto che si rifiuta di firmare. – Se lei mi dice che non importa, non firmo… Passo al verbale di sequestro: ottomilaseicento euro, un bisturi ancora sigillato in una busta di carta… Poi entra Mauro, collega dello Sco, e mi porge un libro rosso che ha in mano: – Dice Caldarozzi se gli dai un’occhiata, se è pure da sequestrare…
Prendo il libro in mano: è una Bibbia, assai consunta, guardo l’edizione, è del 1968; tra le pagine numerosi bigliettini, numerosissime sottolineature, e poi segnalibri, segni, crocette, qua e là qualche annotazione… – …e dice di sbrigarsi, perché c’è l’elicottero della Polizia che aspetta a Boccadifalco per portarlo in carcere e i tempi sono stretti perché di notte non vola… Impossibile sfogliarla tutta in pochi minuti: con Mauro conveniamo di sequestrarla, per poterla esaminare con calma. […].
Dal libro “Io, Sbirro a Palermo”, di Maurizio Ortolan
a cura di Claudio Ramaccini, Direttore Centro Studi Sociali contro la mafia – PSF