1 luglio 1992  Dall´agenda grigia di Paolo Borsellino

 

Ore 7.00 Roma (Holiday Inn)
Ore 9.00 SCO
Ore 15 Dia
Ore 18.30 Parisi
Ore 19.30 Mancino
Ore 20 Dia

L´agenda grigia di Paolo Borsellino (mercoledí 1 luglio 1992)

Vittorio Aliquò e Paolo Borsellino, entrambi procuratori aggiunti a Palermo, si recano a Roma per interrogare Gaspare Mutolo. Alle 15, nello stanzone della Dia, davanti a Borsellino ed Aliquó, al tenente colonnello Domenico Di Petrillo ed al vicequestore Francesco Gratteri, entrambi della Dia e all´ispettore di polizia Danilo Amore, Mutolo comincia a declinare le proprie generalitá, per aprire la verbalizzazione ed iniziare il suo racconto nero sulla mafia.[2] L’aspirante collaboratore dice a Borsellino che conosce il nome di alcuni funzionari dello stato corrotti, cita Bruno Contrada e Domenico Signorino, ma preferisce prima parlare solo di fatti di mafia perché teme molto le conseguenze delle sue rivelazioni. Durante il colloquio Borsellino riceve una telefonata e, secondo la testimonianza di Mutolo, gli dice: “Sai Gaspare, devo smettere perché mi ha telefonato il ministro, manco una mezz’oretta e vengo.” Sempre stando alle parole di Mutolo, Borsellino torna dopo circa un’ora molto preoccupato, tanto che fumava così distrattamente da avere due sigarette in mano. Mutolo chiede: “Dottore cos’ha?” e Borsellino gli rivela di aver appena incontrato il dottor Parisi ed il dottor Contrada, pertanto lo invita a verbalizzare subito quanto di sua conoscenza riguardo alle infiltrazioni della mafia nello Stato. Mutolo si rifiuta e ripete di voler prima verbalizzare quanto gli è noto sull’organigramma mafioso. Su chi abbia incontrato Paolo Borsellino al Viminale il primo luglio 1992 la ricostruzione non é ancora del tutto chiara: Vittorio Aliquò ricorda due telefonate del Capo della Polizia a Borsellino e ricorda di essere andato assieme a lui al Ministero. Aliquó conferma di aver incontrato Vincenzo Parisi al Viminale e di aver accompagnato Borsellino sulla soglia dell´ufficio del neo-ministro Mancino, restando fuori; poi, di essere entrato a sua volta per un incontro con il ministro appena insiedato. Aliquó non rammenta un incontro con Contrada ed esclude che Borsellino gliene abbia parlato. Aliquo´ afferma però di non essere stato tutto il tempo con Borsellino.   Mancino non ricorda l’incontro con Borsellino ma non esclude che possa essere avvenuto: “Non ho precisa memoria di tale circostanza, anche se non posso escluderla […]. Era il giorno del mio insediamento, mi vennero presentati numerosi funzionari e direttori generali […]. Non escludo che tra le persone che possono essermi state presentate ci fosse anche il dottor Borsellino. Con lui peró non ho avuto alcun specifico colloquio e perció non posso ricordare in modo sicuro la circostanza […] non sapevo della sua presenza a Roma ed escludo, quindi, di aver io provocato un colloquio dello stesso con me. Non escludo che il capo della polizia possa, di sua iniziativa, aver invitato il giudice Borsellino per presentarlo a me.” E’ stato accertato comunque dai magistrati di Caltanissetta che Borsellino incontrò Parisi. Se Borsellino quel giorno ha incontrato Contrada, non lo ha confidato a nessuno, tranne che a Mutolo. E, forse, ma il ricordo non é troppo preciso, anche al PM Pietro Vaccara, applicato dalla Procura di Caltanissetta per le indagini sulla strage di Capaci. Dice oggi Vaccara: “Ricordo, ma sono passati tanti anni, che Borsellino mi disse di aver visto Contrada che usciva da una porta del ministero, forse la stanza del capo della polizia Parisi, mentre lui entrava. É un ricordo flebile, nel senso che io lo colloco certamente dopo il 1° luglio, in una data prossima alle mie ferie, scattate il 15 luglio. Con Borsellino al mio ritorno dovevamo incontrarci a Caltanissetta, ma poi c´é stata la strage…”.

Fonte 19luglio.com

 

 

 

1° LUGLIO 1992 ROMA– A Roma da un giorno, Borsellino trascorre la mattina all’Holiday Inn e si prepara agli appuntamenti del pomeriggio. Alle tre, nei palazzoni della Dia, lo aspetta il nuovo pentito, il boss di Partanna Mondello Gaspare Mutolo, ex autista di Totò Riina, per il primo interrogatorio ufficiale. La sua storia di aspirante pentito è tormentata: braccio destro e killer di fiducia del boss Saro Riccobono, Mutolo, detto «il barone», è tra i pochissimi sopravvissuti alla mattanza del 30 novembre 1982 che decimò la cosca di don Saro. Gasparino si salvò per la sua vicinanza con Totò Riina, suo compagno di cella, con cui giocava a carte «facendolo vincere», dirà poi ai magistrati. Ma Cosa nostra gli sta stretta, sa perfettamente che, in quanto vicino al boss perdente, il suo destino è segnato. E prima o poi la campana a morto suonerà pure per lui. Per questo gioca d’anticipo, chiedendo, alla fine del 1991, di parlare con il giudice Giovanni Falcone. La richiesta, però, non può essere accolta perché, lavorando al ministero della Giustizia, Falcone è fuori dai ruoli della magistratura, e non può ascoltarlo. Glielo dice lo stesso Falcone, incontrandolo nel carcere di Spoleto il 16 dicembre 1991. Mutolo si ferma, riflette, non fa passi falsi. E dopo la strage di Capaci torna alla carica, scegliendosi, anche questa volta, l’interlocutore: «Voglio Paolo Borsellino. Mi fido solo di lui» detta a verbale al procuratore di Firenze Piero Luigi Vigna andato a interrogarlo nel carcere toscano. Trasmesso a Palermo, quel verbale arriva sul tavolo del procuratore Pietro Giammanco mentre Borsellino si trova in Germania per un’inchiesta sulla mafia di Palma di Montechiaro. Giammanco non ci pensa due volte: non esiste che il pentito si scelga il magistrato con cui parlare, anche se si chiama Paolo Borsellino. Che si occupa, peraltro, delle cosche di Trapani e Agrigento. E non di quelle di Palermo, di cui Mutolo parlerà. La questione è solo di «difesa dell’autonomia della magistratura» anche di fronte ai pentiti? Di rigido rispetto della competenza, delle forme, che pure spesso sono sostanza? O è legata anche al valore della testimonianza di Gasparino della quale ancora, ufficialmente, non si sa nulla? Giammanco va dritto per la sua strada, ignora la volontà di Mutolo e, senza consultare Borsellino, sceglie il rigido criterio burocratico, affidando il fascicolo ad altri magistrati: l’aggiunto Vittorio Aliquò, i sostituti Guido Lo Forte e Gioacchino Natoli. Borsellino, tornato dalla Germania, resta impietrito quando scopre che il procuratore lo ha tenuto fuori, nonostante l’aperta richiesta del «barone» di parlare solo con lui. È sconvolto e amareggiato, si sfoga con il collega Antonio Ingroia: «Ma come può fare questo? Giammanco sostiene che ho la delega solo su Trapani e Agrigento, che non avendo la competenza su Palermo non posso interrogare Mutolo. E se quello non si pente più?». Si apre così uno scontro frontale con il capo dell’ufficio. Borsellino è furioso, Giammanco capisce che la questione è troppo delicata per affidarla a pandette e codicilli e, accogliendo un suggerimento di Aliquò che indossa i panni del mediatore, fa marcia indietro chiedendo a Lo Forte e Natoli di coordinarsi con Borsellino. È una soluzione di compromesso, ma Borsellino non può che accettarla, se vuole incontrare personalmente l’aspirante pentito. «Dovrò convincere Mutolo -dice a Ingroia -a parlare anche con i miei colleghi, spero che vorrà darmi ascolto.» Il pentito accetta di parlare, ma il disagio e gli scontri non si esauriscono. Alla riunione periodica della Direzione distrettuale antimafia, Giammanco chiede ad Aliquò e a Borsellino di riferire il contenuto del primo interrogatorio dei pentiti Mutolo e Messina. Aliquò riferirà di Mutolo, Borsellino di Messina. Una distinzione che Borsellino legge come un’offesa, un voler rimarcare che lui, con Mutolo, in fondo, non c’entra. Il pomeriggio del primo luglio è cruciale. Mutolo annuncia rivelazioni «scottanti»: sono accuse che colpiscono il cuore delle istituzioni «colluse». Mutolo è pronto a farle, ma ha paura e fa sapere che considera Borsellino l’interlocutore principale, l’unico vero destinatario delle sue parole. Quel giorno il pentito gli ha anticipato che farà dichiarazioni esplosive su alcuni esponenti delle istituzioni. Ma prima vuole tracciare la mappa aggiornata della mafia militare. Ancor prima che quelle accuse vengano ufficialmente verbalizzate, Borsellino dunque sa che quel pentito è «roba che scotta», si rende conto che la riservatezza su quelle anticipazioni di fuoco è necessaria e deve essere assoluta. Si muove con passi felpati; è prudente, guardingo, ma è anche amareggiato perché prevede i conflitti istituzionali che quelle accuse faranno esplodere. Alle 15, nello stanzone della Direzione investigativa antimafia, davanti a Paolo Borsellino e Vittorio Aliquò, al tenente colonnello Domenico Di Petrillo e al vicequestore Francesco Gratteri, entrambi della Dia, all’ispettore di polizia Danilo Amore, Mutolo inizia a declinare le proprie generalità, per aprire la verbalizzazione e cominciare il suo racconto nero sulla mafia. Ma, all’improvviso, accade qualcosa di inatteso. Una telefonata. E per «esigenze di ufficio» il verbale viene chiuso alle 17.40 e rinviato alle 19. Ecco la ricostruzione di Rita Borsellino sugli eventi di quel pomeriggio: «A un tratto, durante l’interrogatorio, Paolo riceve una telefonata, chiude il verbale, si precipita al Viminale, accompagnato da Aliquò e dalla scorta, poi ritorna da Mutolo. Il pentito ha raccontato successivamente che, di ritorno dal Viminale, Paolo era talmente nervoso che fumava due sigarette contemporaneamente e decise di non continuare l’interrogatorio». 23 Ancora più dettagliato emerge il ricordo di quel pomeriggio dalle parole dello stesso Mutolo, qualche anno dopo, il 21 febbraio 1996, nell’aula del processo per la strage di via D’Amelio: «Il giudice Borsellino mi viene a trovare, io ci faccio un discorso molto chiaro […] e ci ripeto, diciamo, quello che io sapevo su alcuni giudici e su alcuni funzionari dello Stato molto importanti, però ci dico che non volevo verbalizzare niente se prima non parlavo della mafia, ma diciamo li ho avvisati per dirci: “C’è questo pericolo, insomma, mi sa che questa cosa qui finisce male”. Allora mi ricordo probabilmente […] che il dottor Borsellino la prima volta che mi interroga, interroga, riceve una telefonata, mi dice: “Sai, Gaspare, debbo smettere perché mi ha telefonato il ministro. Va be’ -dice -manco una mezz’oretta e vengo”. Quindi manca qualche ora, quaranta minuti, cioè all’incirca un’ora, e mi ricordo che quando è venuto, è venuto tutto arrabbiato, agitato, preoccupato, ma che addirittura fumava così distrattamente che aveva due sigarette in mano. Io, insomma, non sapendo che cosa… “Dottore, ma che cosa ha?” E lui, molto preoccupato e serio, mi fa che viceversa del ministro, si è incontrato con il dottor Parisi e il dottor Contrada… mi dice di scrivere, di mettere a verbale quello che io gli avevo detto oralmente, cioè che il dottor Contrada, diciamo, era colluso con la mafia, che il giudice Signorino, diciamo, era amico dei mafiosi… amico… insomma che tutto quel che sapeva gli diceva, ci ho detto: “Guardi, noi più di questo non dobbiamo verbalizzare niente, perché -ci dissi io -io… insomma a me mi ammazzano, e quindi a me interessa che prima io verbalizzo tutto quello che concerne l’organigramma mafioso. Io, appena finisco di parlare dei mafiosi, possiamo parlare di qualunque cosa, che a me non mi interessa più”». Sull’incontro al Viminale, sono stati ascoltati al processo sia Aliquò che Mancino. Il primo ricorda che, durante quell’interrogatorio, Mutolo ha accennato a categorie di persone colluse con Cosa nostra, ma non ha fatto nomi. Aliquò conferma di aver incontrato Parisi al Viminale e di aver accompagnato Borsellino sulla soglia dell’ufficio di Mancino, restando fuori; poi, di essere entrato a sua volta per un incontro con il ministro appena insediato, fatto dei consueti convenevoli. Ma non ricorda di aver incontrato Contrada ed esclude che Borsellino possa avergliene parlato. Ricorda che Parisi sapeva che Borsellino stava interrogando Mutolo, ma di questo non si era stupito, dovendo sia lui che Borsellino chiedere la scorta per ogni spostamento, e dunque informando continuamente la polizia della loro attività. Non ricorda, Aliquò, nessuna particolare manifestazione di nervosismo, in Borsellino, successivamente a quell’incontro: «Ma quando mai… a Paolo capitava spesso di accendere la nuova Dunhill con il mozzicone di quella precedente, perché era un grande, accanito fumatore, non perché fosse particolarmente nervoso». E Mancino? L’ex ministro, interrogato su questo argomento, ha detto di non ricordare di aver incontrato Borsellino, ma non ha escluso che l’incontro possa comunque essere avvenuto, considerato che quel primo luglio era il giorno del suo insediamento al ministero, ed erano moltissime le persone che aveva dovuto incontrare. Mancino riferisce: «Non ho precisa memoria di tale circostanza, anche se non posso escluderla… Era il giorno del mio insediamento, mi vennero presentati numerosi funzionari e direttori generali… Non escludo che tra le persone che possono essermi state presentate ci fosse anche il dottor Borsellino. Con lui però non ho avuto alcuno specifico colloquio e perciò non posso ricordare in modo sicuro la circostanza… non sapevo della sua presenza a Roma ed escludo, quindi, di avere io provocato un colloquio dello stesso con me. Non escludo che il capo della polizia possa, di sua inziativa, avere invitato il giudice Borsellino per presentarlo a me». Se Borsellino quel giorno ha incontrato Contrada, non lo ha confidato a nessuno, tranne che a Mutolo. E, forse, ma il ricordo non è troppo preciso, anche al pm Pietro Vaccara, applicato dalla Procura di Caltanissetta per le indagini sulla strage di Capaci. Dice oggi Vaccara: «Ricordo, ma sono passati tanti anni, che Borsellino mi disse di avere visto Contrada che usciva da una porta del ministero, forse la stanza del capo della polizia Parisi, mentre lui entrava. È un ricordo flebile, nel senso che io lo colloco certamente dopo il primo luglio, in una data prossima alle mie ferie, scattate il 15 luglio. Con Borsellino al mio ritorno dovevamo incontrarci a Caltanissetta, ma poi c’è stata la strage…». 24 E Borsellino, dopo quel primo luglio, non è più andato al Viminale..

1 LUGLIO 1992 – PAOLO BORSELLINO SI RECA A ROMA. HA RICEVUTO NOTIZIA CHE IL PENTITO GASPARE MUTOLO HA DELLE RIVELAZIONI IMPORTANTI DA FARE. (1) Vuole parlare direttamente con Borsellino, l’unico giudice di cui si fida e che considera di integrità morale assoluta. L’interrogatorio “segreto” inizia alle ore 15:00 negli uffici della DIA (Direzione Investigativa Antimafia). Mutolo parla a ruota libera delle commistioni tra mafia e istituzioni. In particolare, fa i nomi del giudice Signorino e del numero tre del SISD e Bruno Contrada. Li definisce “avvicinabili”, ovvero pronti ad obbedire docilmente alle richieste di Cosa Nostra. L’interrogatorio prosegue per circa tre ore fino alle 18:00, quando Paolo Borsellino riceve una chiamata dal Ministero. Gli viene fatto sapere che deve recarsi urgentemente negli uffici del neoministro dell’interno Nicola Mancino. L’interrogatorio viene interrotto. L’avvocato generale di Palermo Vittorio Aliquò accompagna Borsellino “fin sulla porta del ministro”. Alle 18:30 il giudice è negli uffici del Ministero. A sorpresa, però, non ci trova Mancino, ma il capo della Polizia Vincenzo Parisi e Bruno Contrada, personaggio citato poco prima dal pentito.Sempre l’agente del Sisde avrebbe riferito al giudice: “Se gli serve qualcosa a Gaspare fammi sapere”. Ma come faceva a sapere dell’incontro, visto che doveva essere segreto? Alla fine, verso le 19:30, finalmente, compare anche Mancino. La conversazione col ministro dura una mezz’ora. Verso le 20:00 Borsellino torna alla DIA per riprendere l’interrogatorio. Mutolo vede il giudice sconvolto, talmente agitato da accendersi due sigarette alla volta. Gli chiede scherzosamente se non è contento di aver visto il ministro. Borsellino risponde adirato: “Ma quale ministro e ministro! Sono andato dal dottor Parisi e dal dottor Contrada!”. Tornato a casa la sera, la moglie ricorderà di averlo visto vomitare: “Sto vedendo la mafia in diretta”.

1° LUGLIO 1992 (2)- Paolo Borsellino si reca a Roma per interrogare Gaspare Mutolo, boss della famiglia di Partanna Mondello, molto vicino a Salvatore Riina. Killer, imprenditore, narcotrafficante, Mutolo si era già incontrato confidenzialmente con Giovanni Falcone non molto tempo prima del suo assassinio. Nel corso della giornata avviene, per lui, qualcosa di sconvolgente. Gaspare Mutolo è l’uomo che fa a Borsellino i nomi di Bruno Contrada, numero tre del Sisde, e di Domenico Signorino, magistrato della procura di Palermo (ha retto insieme ad Ayala l’accusa in Corte d’assise nel famoso maxiprocesso). Mutolo racconta di favori (appartamenti, donne) fatti al poliziotto e al magistrato dalla famiglia mafiosa dei Riccobono, in cambio del loro aiuto. Borsellino, che si ricorda ovviamente di tutte le confidenze di Giovanni Falcone, sta raccogliendo le prove per far arrestare Contrada e Signorino.Durante l’interrogatorio, Borsellino viene avvertito che il nuovo ministro dell’Interno, Nicola Mancino, appena insediato, lo vuole incontrare al Viminale. Borsellino dice a Mutolo:“Sospendiamo, torno fra mezz’ora”. Al Viminale però non incontra il ministro, ma il capo della polizia Vincenzo Parisi e – appunto – Bruno Contrada. Secondo il racconto di Mutolo, Borsellino torna sconvolto. “L’ho visto fumare e accendersi una seconda sigaretta.” Mi ha riferito che Contrada gli ha detto: “Chieda a Mutolo se ha bisogno di qualcosa…”, ma nessuno doveva sapere dell’interrogatorio. I due si lasciano e Borsellino riparte per Palermo.

 

1 e 17 luglio 1992 Verbali interrogatori Mutolo