FIAMMETTA BORSELLINO – Rassegna Stampa – 2018

 

 


 

19.7.2018 Fiammetta all’Antimafia: i pm rendano conto del loro operato

 

Mutua dalle recenti motivazioni della sentenza Borsellino quater la definizione dell’indagine sulla strage di via D’Amelio, «il più clamoroso depistaggio che la storia della Repubblica ricordi», e per questo Claudio Fava, che dallo scorso novembre siede all’Assemblea siciliana ed è presidente della Commissione regionale antimafia, chiederà agli attuali vertici dell’intelligence «che cosa è accaduto tra il ’92 e il ’94». Fava parla in conferenza stampa dieci minuti dopo che si è conclusa l’audizione di Fiammetta Borsellino, la battagliera figlia del magistrato ucciso a Palermo il 19 luglio ’92 insieme a cinque uomini della sua scorta.
Alla vigilia dell’anniversario della strage, l’Antimafia regionale decide (“per scelta e non per atto dovuto», sottolinea Fava) di sentire Fiammetta Borsellino che stamane, in un intervento su Repubblica, ha messo insieme i 13 punti tutt’ora oscuri sull’assassinio del padre e sull’indagine che ne seguì, con tre processi passati in giudicato che portarono alla condanna di innocenti, prima che il pentito Gaspare Spatuzza parlasse e demolisse il castello di menzogne «costruito a cominciare dal ’92 – dice la figlia del magistrato – quando non avevamo alcun sospetto su quello che stava accadendo e, ignari di tutto, parlavamo con gli inquirenti di allora (il procuratore di Caltanissetta Gianni Tinebra, i pm Carmelo Petralia e Nino Di Matteo). Poi abbiamo capito, e ora sono le carte a parlare. Io non espongo opinioni, cito dati e avvenimenti».
«Le motivazioni del Borsellino quater – spiega Fiammetta al termine dell’audizione – hanno avvalorato quanto sapevamo sui depistaggi. Io racconto fatti, mi riferisco a dati contenuti nelle carte processuali. Se la procura di Caltanissetta e i magistrati del tempo hanno fatto male, è giusto che rendano conto del loro operato. Vertici istituzionali e investigatori che hanno ordito il depistaggio sulla strage di via D’Amelio, hanno fatto male non solo a noi ma all’intero Paese; è stata offesa anche l’onorabilità della magistratura».
E incontestabile è la «violazione delle regole – spiega Fava – che hanno portato ad affidare le indagini ad Arnaldo La Barbera, contemporaneamente capo della Squadra mobile di Palermo e stipendiato dal Sisde. Di tutto questo c’è inevitabilmente traccia da qualche parte e chiederemo agli attuali vertici dell’Aisi di fare chiarezza: chi ha chiesto e chi ha autorizzato questa assoluta anomalia?».
«Ventisei anni dopo la strage e l’inizio di un depistaggio unico nella nostra storia, è chiaro che le tracce sono rimaste ed è da queste che occorre partire per conoscere la verità. Non vogliamo sostituirci alla magistratura ma da settembre cominceremo con le audizioni e la nostra sarà un’indagine politica», conclude Fava, che nella scorsa legislatura è stato vicepresidente della Commissione antimafia nazionale guidata da Rosi Bindi.   CSNTRO STUDI PIO LA TORRE


19.5.2018 Fiammetta Borsellino. Solo con la verità si diventa uomini liberi

 

Fiammetta Borsellino, la terza figlia del giudice Paolo si è recata in visita ai fratelli Graviano, accusati della strage di via d’Amelio del 1992, che costò la vita al padre e agli uomini della sua scorta, per chiedere loro di pentirsi e raccontare la verità. La sollecitazione di Fiammetta Borsellino, al momento, non ha sortito effetto. I fratelli Giuseppe e Filippo Graviano condannati al regime 41 bis dal 1994, si trovano rispettivamente nel carcere di Terni e dell’Aquila, dove Fiammetta, nel dicembre 2017,  si è recata in segreto, dopo aver ricevuto l’autorizzazione dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria.
I motivi che hanno indotto la figlia di Borsellino a incontrare i fratelli Graviano, li ha espressi la stessa Fiammetta in una lettera aperta inviata al quotidiano La Repubblica, che riportiamo di seguito.

La lettera

L’incontro in carcere con Giuseppe e Filippo Graviano è stato guidato unicamente da un lungo, complesso percorso personale e dettato da una forte e urgente esigenza emotiva. Ho sentito la necessità, in quanto figlia di un uomo che ha sacrificato la propria vita per i valori in cui ha creduto e per amore della sua terra, di dovere attraversare questo ulteriore passaggio importante per il mio percorso umano e per l’elaborazione di un faticoso lutto. Un incontro che ha assunto come unico motore la necessità di esprimere un dolore profondo inflitto non solo alla mia famiglia, ma alla società intera. La richiesta di incontro con Giuseppe e Filippo Graviano nasce dunque come fatto strettamente personale. E chiedo che tale debba rimanere.Sono andata da Giuseppe e Filippo Graviano con l’idea che può vivere e morire con dignità non soltanto il magistrato che sacrifica la propria vita, ma anche chi pur avendo fatto del male è capace di riconoscere il grave male che ha inflitto alle famiglie e alla società, è capace di chiedere perdono e di riparare il danno. Riparare il danno per me vuol dire non passare il resto della propria vita all’interno di un carcere, ma dare un contributo concreto per la ricerca della verità. Si tratta di un contributo di onestà che gli uomini della criminalità organizzata devono dare principalmente a loro stessi, perché chi uccide, uccide la parte migliore di sé. E poi soltanto contribuendo alla ricerca della verità, i figli potranno essere orgogliosi dei padri.
Ora è importante che io possa continuare quel dialogo che è stato interrotto, con enorme dispiacere registro la mancanza di una risposta ufficiale da parte delle istituzioni preposte a fronte di una mia richiesta reiterata alcuni mesi fa.
E voglio fare un’altra considerazione. Pur nell’ambito del profondo rispetto che nutro per le istituzioni, e pur cosciente della complessità del percorso che deve portare i giudici della corte d’assise di Caltanissetta alla stesura delle motivazioni della sentenza del Borsellino quater, da figlia ritengo che il passaggio di più di oltre un anno per il deposito del provvedimento sia un tempo troppo lungo. Anche dal deposito di quelle motivazioni dipende un ulteriore prosieguo dell’attività giudiziaria, della procura di Caltanissetta e del silente Consiglio superiore della magistratura, per far luce su ruoli e responsabilità di coloro che hanno determinato il falso pentito Scarantino alla calunnia. A causa di questo depistaggio, sono passati infruttuosamente 25 anni.
Fiammetta Borsellino.  19 maggio 2018, La Repubblica


20.9.2018 -La denuncia di Fiammetta Borsellino. E lo Stato rispose: “Assente”   “Oggi, in questa aula lo Stato non c’è. Né la presidenza del Consiglio, né il ministero dell’Interno o della Giustizia hanno chiesto di costituirsi parte civile contro chi ha tradito le istituzioni. E questo mi amareggia molto”. Sono le parole di Fiammetta Borsellino, figlia di Paolo, al processo di Caltanissetta sul colossale depistaggio delle indagini che riguardavano la strage di via D’Amelio.

I politici, ahinoi, non perdono una passerella antimafia. Sono sempre lì, in prima fila, usano parole vibranti, citazioni colte, persino aneddoti divertenti con gli scolari. E citano, commossi, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, padre Pino Puglisi. Sono fatti così i nostri politici, i nostri governanti. Peccato però che quando si presenta la più propizia delle occasioni per dimostrare nei fatti la sincerità delle belle parole espresse in pubblico e diffuse su Twitter, nessuno si faccia vedere. Diranno, i nostri governanti, che la lotta alla mafia non è in discussione, diranno che, a proposito delle stragi, stanno dalla parte di chi cerca la verità, diranno che non abbasseranno mai la guardia. Diranno, appunto. Su quello che faranno, al momento siamo fermi alle nostre speranze e all’amara certezza espressa da Fiammetta Borsellino: “Oggi in quest’aula lo Stato non c’è”. LA REPUBBLICA


19.7.2018 – FIAMMETTA BORSELLINO, ” BASTA CON I MISTERI DI STATO:  DITECI LA VERITA’ ” LE 13 DOMANDE DELLA FIGLIA DEL MAGISTRATO A 26 anni dalla strage “Troppi depistaggi sulla morte di mio padre” Le 13 domande della figlia del magistrato “ Basta con i misteri di Stato: diteci la verità”

 

FIAMMETTA BORSELLINO Sono passati 26 anni dalla morte di mio padre, Paolo Borsellino, ucciso a Palermo insieme ai poliziotti della sua scorta, Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina. E, ancora, aspettiamo delle risposte da uomini delle istituzioni e non solo. Ci sono domande — le domande che io e miei fratelli Manfredi e Lucia non smetteremo di ripetere — che non possono essere rimosse dall’indifferenza o da colpevoli disattenzioni. Domande su un depistaggio iniziato nel 1992, ordito da vertici investigativi ed accettato da schiere di giudici. 1. Perché le autorità locali e nazionali preposte alla sicurezza non misero in atto tutte le misure necessarie per proteggere mio padre, che dopo la morte di Falcone era diventato l’obiettivo numero uno di Cosa nostra? 2. Perché per una strage di così ampia portata fu prescelta una procura composta da magistrati che non avevano competenze in ambito di mafia? L’ufficio era composto dal procuratore capo Giovanni Tinebra, dai sostituti Carmelo Petralia, Annamaria Palma (dal luglio 1994) e Nino Di Matteo (dal novembre ’94). 3. Perché via D’Amelio, la scena della strage, non fu preservata consentendo così la sottrazione dell’agenda rossa di mio padre? E perché l’ex pm allora parlamentare Giuseppe Ayala, fra i primi a vedere la borsa, ha fornito versioni contraddittorie su quei momenti? 4. Perché i pm di Caltanissetta non ritennero mai di interrogare il procuratore capo di Palermo Pietro Giammanco, che non aveva informato mio padre della nota del Ros sul “tritolo arrivato in città” e gli aveva pure negato il coordinamento delle indagini su Palermo, cosa che concesse solo il giorno della strage, con una telefonata alle 7 del mattino? 5. Perché nei 57 giorni fra Capaci e via D’Amelio, i pm di Caltanissetta non convocarono mai mio padre, che aveva detto pubblicamente di avere cose importanti da riferire? 6. Cosa c’è ancora negli archivi del vecchio Sisde, il servizio segreto, sul falso pentito Scarantino (indicato dall’intelligence come vicino ad esponenti mafiosi) e sul suo suggeritore, l’ex capo della squadra mobile di Palermo Arnaldo La Barbera? 7. Perché i pm di Caltanissetta non depositarono nel primo processo il confronto fatto tre mesi prima fra il falso pentito Scarantino e i veri collaboratori di giustizia (Cancemi, Di Matteo e La Barbera) che lo smentivano? Il confronto fu depositato due anni più tardi, nel 1997, solo dopo una battaglia dei difensori degli imputati. 8. Perché i pm di Caltanissetta furono accomodanti con le continue ritrattazioni di Scarantino e non fecero mai il confronto tra i falsi pentiti dell’inchiesta (Scarantino, Candura e Andriotta), dai cui interrogatori si evinceva un progressivo aggiustamento delle dichiarazioni, in modo da farle convergere verso l’unica versione? 9. Perché la pm Ilda Boccassini (che partecipò alle prime indagini, fra il giugno Dell’ottobre 1994), firmataria insieme al pm Sajeva di due durissime lettere nelle quali prendeva le distanze dai colleghi che continuavano a credere a Scarantino, autorizzò la polizia a fare dieci colloqui investigativi con Scarantino dopo l’inizio della sua collaborazione con la giustizia? 10. Perché non fu mai fatto un verbale del sopralluogo della polizia con Scarantino nel garage dove diceva di aver rubato la 126 poi trasformata in autobomba? Perché i pm non ne fecero mai richiesta? E perché nessun magistrato ritenne di presenziare al sopralluogo? 11. Chi è davvero responsabile dei verbali con a margine delle annotazioni a penna consegnati dall’ispettore Mattei a Scarantino? Il poliziotto ha dichiarato che l’unico scopo era quello di aiutarlo a ripassare: com’è possibile che fino alla Cassazione i giudici abbiano ritenuto plausibile questa giustificazione? 12. Il 26 luglio 1995 Scarantino ritrattava le sue dichiarazioni con un’intervista a Studio Aperto. Prima ancora che l’intervista andasse in onda, i pm Palma e Petralia annunciavano già alle agenzie di stampa la ritrattazione della ritrattazione di Scarantino, anticipando il contenuto del verbale fatto quella sera col falso pentito. Come facevano a prevederlo? 13. Perché Scarantino non venne affidato al servizio centrale di protezione, ma al gruppo diretto da La Barbera, senza alcuna richiesta e autorizzazione da parte della magistratura competente? REPUBBLICA— 18 LUGLIO 2018 LA REPUBBLICA


13.02.2018 – CSM VERSO L’ARCHIVIAZIONE – “SE AVESSERO FATTO IL LORO DOVERE… 

 

Commissione Csm verso archiviazione – Pratica aperta dopo esposto figlia magistrato ucciso. La Prima del Commissione del Csm e’ orientata a archiviare la pratica che era stata aperta nella consiliatura precedente sulla base dell’esposto di Fiammetta Borsellino sui depistaggi nelle indagini sulla strage in cui persero la vita suo padre Paolo e gli agenti di scorta. In particolare la figlia del magistrato ucciso in via D’Amelio aveva chiesto di far luce sulle “disattenzioni” che ci sarebbero state sulle dichiarazioni del falso pentito Vincenzo Scarantino. Il voto con l’approvazione delle motivazioni della proposta e’ previsto per l’inizio di marzo.  RASSEGNA STAMPA


Via d’Amelio, il ministro Bonafede incontra Fiammetta Borsellino: “Ha chiesto atti del Sisde. Vaglieremo la richiesta” Il guardasigilli ha confermato di avere visto la figlia minore del magistrato assassinato: “L’ho incontrata privatamente, dunque preferisco non parlare del nostro colloquio. Dopo 26 anni quella strage non è più lontana, l’impegno dello Stato non può essere minore, ma al contrario deve essere maggiore ora che stanno emergendo ombre sulla storia di questo Paese, con uno Stato che è stato forse complice, negligente e non ha saputo proteggere i propri uomini”. di F. Q. | 19 LUGLIO 2018


2.7.2018  IL NOSTRO OBIETTIVO È CERCARE LA VERITÀ SU QUANTO ACCADUTO fare luce sull’operato dei magistrati all’epoca in servizio alla Procura di Caltanissetta, Giovanni Tinebra, Carmelo Petralia, Anna Maria Palma, Nino Di Matteo, quest’ultimo arrivato nel novembre 1994.  Bisogna fare luce anche sull’operato dei poliziotti del gruppo d’indagine sulle stragi “Falcone e Borsellino”, tutti hanno fatto una brillante carriera». «Questo ridurre tutto a una mera polemica fra me e il dottore Di Matteo è una semplificazione di una parte della stampa che sta facendo molto comodo a chi, oltre a lui che era ovviamente uno degli attori, ha grossissime responsabilità e in questo momento sta ben nascosto nell’ombra. E invece il fine del nostro grido di dolore è quello di addivenire a una verità che non sia qualsiasi, vogliamo trovare le ragioni della disonestà di chi questa verità doveva trovarla» 


IL DEPISTAGGIO  Fiammetta e Lucia Borsellino Controllo anche sui magistrati” Le figlie del giudice: “Finora il Csm è stato purtroppo silente, chiarezza su queste distrazioni”.  “Questo è solo un punto di partenza”. Fiammetta Borsellino, figlia del magistrato ucciso in via d’Amelio, aspettava le motivazioni della sentenza del processo quater come il momento decisivo per la ripresa di altri procedimenti. In primo luogo quello del Csm che ha aperto un fascicolo per valutare le posizioni dei magistrati della Procura di Caltanissetta che non fermarono i depistaggi. In varie occasioni Fiammetta Borsellino ha citato il procuratore del tempo Giovanni Tinebra, l’aggiunto Anna Maria Palma e i sostituti Carmelo Petralia e Nino Di Matteo.  La sentenza dei giudici di Caltanissetta fa solo il nome di Tinebra, che tra l’altro è morto. “Ma è chiaro – dice Fiammetta Borsellino – che questi magistrati avevano compiti di controllo e di coordinamento delle indagini della polizia giudiziaria. E, come risulta dal processo, ci furono disattenzioni che non possono passare inosservate. Si tratta di distrazioni incomprensibili, visto che altri due magistrati, Ilda Boccassini e Roberto Saieva, avevano subito segnalato l’inattendibilità del falso pentito Vincenzo Scarantino”. Per Lucia Borsellino su queste “distrazioni” va fatta subito chiarezza. Da alcuni mesi il Csm ha aperto un fascicolo che però, chiarisce, “è solo un fascicolo vuoto perché si aspettavano le motivazioni della corte d’assise di Caltanissetta”. “Ora – aggiunge – le motivazioni ci sono. Mi aspetto quindi che il procedimento disciplinare vada avanti. Finora il Csm è stato purtroppo silente”. (ANSA).


20.7.2012   La rivoluzione della normalità e la verità che non c’è  “E’ la prima volta, dopo tanti anni, che parlo in pubblico di mio padre, del nostro rapporto, oppure, più semplicemente, della mia scelta, fatta propria da tutta la mia famiglia, di fare qualche passo indietro rispetto ai tanti, troppi … SEGUE  20 luglio 2012


Non far luce su tutte queste anomalie  «Non far luce su tutte queste anomalie rischia di creare quei tanti buchi neri della storia italiana, dove convergono quegli attori e quelle inconfessabili ferite di un Paese che ha avuto molto da nascondere.  Aspettiamo non più procrastinabili risposte istituzionali, ma sembra quasi impossibile fare luce su questa storia, mai come oggi l’accertamento di questa verità sembra connesso all’accertamento delle ragioni di chi doveva attivarsi – spiega – Credo che chi sa debba dare un contributo di onestà che non è dovuto solo ai familiari, ma a tutti coloro che hanno avuto fiducia nella giustizia. E lo devono principalmente a loro stessi   “La Radio Ne Parla – Radio Uno”


Il nostro obiettivo è cercare la verità su quanto accaduto, fare luce sull’operato dei magistrati all’epoca in servizio alla Procura di Caltanissetta, Giovanni Tinebra, Carmelo Petralia, Anna Maria Palma, Nino Di Matteo, quest’ultimo arrivato nel novembre 1994.  Bisogna fare luce anche sull’operato dei poliziotti del gruppo d’indagine sulle stragi “Falcone e Borsellino”, tutti hanno fatto una brillante carriera». «Questo ridurre tutto a una mera polemica fra me e il dottore Di Matteo è una semplificazione di una parte della stampa che sta facendo molto comodo a chi, oltre a lui che era ovviamente uno degli attori, ha grossissime responsabilità e in questo momento sta ben nascosto nell’ombra. E invece il fine del nostro grido di dolore è quello di addivenire a una verità che non sia qualsiasi, vogliamo trovare le ragioni della disonestà di chi questa verità doveva trovarla»


5.10.2018 – Fiammetta Borsellino: «La mafia uccise mio padre. Lo Stato ha depistato e insabbiato i dossier» Fiammetta Borsellino in questa intervista denuncia i depistaggi che hanno impedito di scoprire chi e perché ha ucciso suo padre «Nessuno ha dato un contributo di verità negli anni, possibile che tutti siano stati fatti fessi da Arnaldo La Barbera?». Fiammetta Borsellino, la figlia del giudice ucciso in Via D’Amelio, racconta a Il Dubbio il suo stupore di fronte al fatto che nessuno si sia accorto di quello che succedeva sotto i propri occhi, e cioè uno dei più “grandi depistaggi della storia giudiziaria italiana”, così come è stato definito dalle motivazioni della sentenza del Borsellino Quater. Fiammetta non si capacita soprattutto dei magistrati di allora che non solo credettero all’auto- accusa indotta di Vincenzo Scarantino, ma in seguito non presero atto della sua ritrattazione. In questi anni la figlia di Paolo Borsellino, assieme alla sua famiglia, ha lottato per la verità, non perdendo mai la lucidità, anche se il dolore per la perdita di un padre, ucciso barbaramente assieme alla sua scorta, è sempre più logorante con il passar del tempo. Il dolore aumenta soprattutto quando ci si accorge che alcuni ex colleghi del padre tradirono la sua fiducia. Però c’è una Procura, quella di Caltanissetta, che vuole andare fino in fondo. Non a caso, dopo la sentenza del Borsellino Quater, la Procura nissena ha rinviato a giudizio i tre poliziotti che avrebbero avuto un ruolo per il depistaggio. Tutti accusati di concorso in calunnia. I tre facevano parte del gruppo “Falcone-Borsellino”, creato dopo le stragi per fare luce su quanto accaduto nel 1992. Per l’accusa, i tre poliziotti avrebbero agito con l’aggravante di avere agevolato Cosa nostra. Il 5 novembre ci sarà la prima udienza preliminare. Fiammetta Borsellino si augura che sia una occasione per non limitarsi solo a stabilire le responsabilità di loro tre, ma per capire chi c’era dietro. Magari anche attraverso le testimonianze dei magistrati di allora. Quelli che sarebbero stati fatti “fessi” da La Barbera, il funzionario di polizia che coordinò le indagini sull’attentato, poi morto di tumore nel 2002.

Parliamo della sentenza Borsellino quater, dove dalle motivazioni emerge il depistaggio ( e non vengono salvati neppure gli inquirenti), tant’è vero che giudica le incongruenze, le oscillazioni e le ritrattazioni delle dichiarazioni di Scarantino, come elementi tutti che avrebbero dovuto consigliare un atteggiamento di particolare cautela. Si attendevano le motivazioni della sentenza, ma già il dibattimento aveva reso chiaro che Scarantino è stato indotto alla calunnia da coloro che lo gestivano. Oggi, il rinvio a giudizio dei tre investigatori, che parteciparono alle indagini sotto la direzione di La Barbera, non è che la naturale conseguenza di quello che era emerso durante il processo Borsellino quater. Ora in questo momento mi faccio solo una domanda: come questi investigatori, mandati a giudizio, possono aver fatto tutto da soli? Non finirò mai di farmi questa domanda. Anche il Csm, se da un lato ha fatto le audizioni, dall’altro ha messo le mani avanti, dicendo che non ha poteri. Mi sono chiesta se si potesse dare inizio ad un’audizione dicendo “scusate” al magistrato che si sta per sentire. Mi chiedo: chi ha potere per stanare certe verità?

Che cosa si aspetta da questo processo che partirà nei confronti dei tre investigatori? Mi aspetto che le persone chiamate a giudizio non dicano i soliti “non ricordo”. Ma non solo: io mi auguro che tra i testimoni che verranno citati ci siano anche i magistrati, e che in veste di testimoni diano dei chiarimenti esaustivi. Diversamente, ci dovremo rassegnare a non avere più una risposta alle domande sull’attentato che uccise mio padre.

Ma questo è un processo contro i tre poliziotti, e peraltro il loro superiore è morto. Sì, ma non è una scusante la circostanza di essere dei poliziotti e di aver eseguito solo degli ordini. Il problema è anche un altro: hanno fatto passare 27 anni, era prevedibile il rischio che certe persone potessero morire con tutti i loro segreti. In più, è vero anche che La Barbera era un dirigente del gruppo “Falcone- Borsellino”, ma a questi livelli non si può tacere che le persone del suo ruolo agiscano sotto l’impulso di vertici superiori, anche di magistrati. Mi auguro, da figlia e da cittadina, che non si rinunci a intraprendere questo percorso verso la verità: non so dove ci porterà, ma che sia la strada della giustizia. Non si può tacere che c’è un punto di rottura tra la famiglia e le istituzioni, non tutte naturalmente: se da un lato si è arrivati a intraprendere certi percorsi verso la verità grazie ad una Procura che sta lavorando in questa direzione, e nella quale noi riponiamo fiducia, è anche vero che questa stessa Procura non può fare tutto da sola: ha bisogno della collaborazione delle persone che saranno chiamate in causa.

Nelle motivazioni del Borsellino quater si cerca di affrontare non solo il discorso del depistaggio, ma anche la causa dell’attentato di Capaci richiamandosi all’indagine “mafia- appalti”, di cui recentemente noi de Il Dubbio ci siamo occupati molto. Sono convinta che nel dossier “mafia- appalti” ci siano le risposte: e non capisco perché sia stata chiusa l’indagine. Capisco però che ci sono persone che allora dovevano assumersi lo stesso impegno che si erano assunti mio padre, Falcone e tanti altri, per cercare la verità e invece questa verità l’hanno occultata, archiviando l’indagine. L’unico mio sapere è questo. Avrebbero dovuto fare qualcosa fin da subito, invece noi siamo stati ingannati dalle persone amiche o che si professavano tali, colleghi e quant’altro, che per lunghi anni – cosa che abbiamo capito dopo – ci hanno tenuti a bada e mai ci hanno informato di nulla. Siamo stati traditi a tutti i livelli, dai magistrati agli avvocati, in un momento in cui non potevamo fare nulla, perché a distanza di anni nulla si può fare se non sopravvivere a qualcosa di inimmaginabile. Mi domando, cosa avremmo potuto fare noi: forse i controllori dell’operato dei colleghi di mio padre, amici che entravano e uscivano da casa nostra? Del resto, anche oggi nessuno di loro Annamaria Palma o Nino Di Matteo sono gli unici che oggi posso citare – ha pensato di avvicinarsi a noi per darci delle spiegazioni.

Lei si è data molto da fare. È riuscita anche ad andare a trovare i fratelli Graviano che sono al 41 bis da anni. Ha avuto modo di parlare con loro? Che sensazione ha avuto?  Ho avuto molti incontri che sono durati ore, ma devo dire con sincerità che non possono essere qui sintetizzati in poche parole, perché sono di una vastità enorme. Posso dire che queste sono situazioni che in pochi capiscono; solo chi ha fatto percorsi di questo tipo può intenderne a pieno il significato. Sono entrata in carcere grazie ai pareri delle Procure competenti, che erano almeno quattro perché i Graviano avevano processi pendenti. Io andavo a fare loro visita per capire, non certo per fare indagini. Né ci poteva essere pericolo di una specie di depistaggio, come invece fu detto dalle Procure che ad un certo punto, senza motivo, mi vietarono di proseguire gli incontri. Questa mia scelta non l’hanno capita. Probabilmente fa più paura agli altri che a me, perché per me invece è una sconfitta averli interrotti. Alla luce di questo vuoto che c’è attorno a questa storia dell’attentato, pensare che le persone che probabilmente sanno, siano state confinate in un regime così tremendo, è per me una sconfitta. Sono cosciente che hanno dato pure l’alibi a queste persone per non parlare, del resto nemmeno loro sanno con chi parlare: con il depistatore, con i magistrati di Caltanissetta dell’epoca, con chi? In più c’è da dire che l’informazione non dà risalto alle Procure che si stanno occupando di indagare sulla verità, dando invece accondiscendenza a un circuito mediatico che mette in evi- denza altro. L’esito dei processi è stato emblematico: l’orrore stava a monte, già nell’individuazione del pool: cosa hanno dedicato a mio padre? Tinebra, notoriamente vicino alla massoneria; Palma, una che è andata a fare il Capo di Gabinetto del signor Pisani; Carmelo Petralia che nel Borsellino Quater ha dichiarato di non essersi mai occupato di mafia prima di allora, come scusante; e infine Di Matteo, che all’epoca era alle prime armi, e che ha negato di aver partecipato alle indagini, pur avendo condotto almeno 5 interrogatori. Mi chiedo: erano tutti nelle mani di Scarantino, fatti fessi da La Barbera, ignari e inconsapevoli?


19.7.2018 Nel Borsellino quater una conferma ai dubbi di Fiammetta  Le motivazioni della sentenza del processo Borsellino quater potrebbero contenere elementi chiarificatori per la strage di via D’Amelio «Perché via D’Amelio, la scena della strage, non fu preservata consentendo così la sottrazione dell’agenda rossa di mio padre? E perché l’ex pm, allora parlamentare, Giuseppe Ayala, fra i primi a vedere la borsa, ha fornito versioni contraddittorie su quei momenti?». È una delle domande, pubblicate ieri sul quotidiano La Repubblica, che Fiammetta Borsellino ha posto a coloro che dovrebbero o avrebbero dovuto darle delle risposte sui colpevoli dell’uccisione del padre, il magistrato Paolo Borsellino, avvenuta ormai 26 anni fa in quella domenica in cui si trovava in via D’Amelio a far visita alla madre. La risposta a quella terza domanda di Fiammetta Borsellino si potrebbe trovare nelle motivazioni della sentenza, che ha concluso il primo grado di giudizio del processo Borsellino quater: Giuseppe Ayala era sul luogo della strage – ma non fu il primo ad arrivare – dopo quattro minuti dalla deflagrazione che uccise il magistrato Paolo Borsellino e la sua scorta. L’allora parlamentare Giuseppe Ayala giunse infatti quasi per primo in via D’Amelio al cratere. Fu sempre in quel momento che disse di aver visto la borsa di Paolo Borsellino appoggiata sul sedile posteriore della vettura, di averla presa in consegna ma di non averla aperta perché consegnata subito. Questo è un passaggio delle motivazioni sulla sentenza del Borsellino quater, più precisamente al capitolo relativo alla vicenda della scomparsa dell’agenda rossa di Paolo Borsellino. La famosa agenda, mai trovata, dalla quale ( come è noto) il magistrato, nel periodo successi- vo alla morte di Giovanni Falcone, «non si separava mai», portandola sempre nella sua borsa di cuoio e nella quale appuntava, in modo «quasi maniacale» e con grande ampiezza di dettagli, fatti e notizie riservate, nonché le proprie riflessioni sugli accadimenti che si susseguivano. Ma torniamo all’arrivo di Ayala sul luogo dell’attentato. Egli, come sempre nei suoi fine settimana a Palermo, anche quel 19 luglio, soggiornava nel vicinissimo Residence Marbella: per questo, appena sentita la deflagrazione, trovandosi a poche centinaia di metri da via D’Amelio, arrivò in auto, per ovvi motivi di sicurezza assieme alla scorta. «A Palermo non facevo un passo a piedi», disse al pm Domenico Gozzo, che nel corso della testimonianza al processo Borsellino Quater gli chiese come era arrivato in via D’Amelio. Ayala, riferisce al pm, di esserci andato in auto, di aver raggiunto il cratere percorrendo a piedi tutta la via sul lato sinistro del marciapiede. Un dato è certo nelle sue dichiarazioni: Ayala ricorda perfettamente la presenza di Guido Lo Forte sul luogo del fatto, perché assieme «si piegarono» per il riconoscimento del corpo dilaniato di Paolo Borsellino. Non solo, il teste lo ricorda già presente nei pressi del cratere, al momento in cui vi sopraggiungeva. Di certo per Ayala c’è che sul luogo del fatto ci fosse Lo Forte al sul arrivo; forse ancora prima dell’arrivo della volante, della cui presenza il teste non ha certezza. La testimonianza non fu la prima occasione in cui Ayala raccontò del suo arrivo a via D’Amelio dopo la strage: era il settembre 2015 quando Ayala riferisce di essere giunto sul luogo e di non aver trovato neppure i Vigili del Fuoco e neanche le Forze dell’Ordine. È il pm Gozzo che insiste sulla questione e, in cerca di conferma sul punto, gli chiede «quindi lei sarebbe arrivato, praticamente, quasi per primo. Ecco, le chiedo se può (…) se può ricordare con noi». La domanda non è irrilevante, se si pensa che Ayala risponde «Adesso anche, voglio dire, io… qualche minuto è passato». Insiste il pm per sapere quanti minuti ci avrebbe messo ad arrivare in via D’Amelio per non trovarci neppure i soccorsi, ma solo il magistrato Lo Forte, forse anche il collega Gioacchino Natoli, citato nella contestazione del pm riguardo alle dichiarazioni rese dal teste a settembre 2015, ma non in quelle della testimonianza al processo. «Ecco quanti minuti sono passati rispetto a quando lei ha sentito la deflagrazione?», chiede il pm. La risposta di Ayala è decisa: «Ma guardi, qualche minuto è passato cinque, quattro, adesso non le so dire, poi sono sceso giù, siamo saliti in macchina, bene o male ‘ sti trecento – quattrocento metri li abbiamo fatti, poi sono sceso, insomma, a piedi ho percorso… non che via D’Amelio sia lunghissima, ma insomma, ho percorso questa strada, quindi al momento… penso dieci minuti saranno passati sicuro, quindi io penso che forse una Volante c’era, adesso però, francamente, non me lo ricordo, ma..». Però alle richieste della Procura Ayala risponde che la ricostruzione sulla presenza di «forse una volante» è logica: egli infatti tiene a precisare al pm di non avere un ricordo preciso, ma che gli sembra ragionevole supporre di sì. L’unica certezza che ha Ayala è il ricordo che ci fosse il magistrato Lo Forte, nel momento in cui si avvicinava a piedi al cratere; aggiunge, quando il pm – questa volta il magistrato Stefano Luciani – gli contesta che in una precedente dichiarazione aveva testimoniato che c’era Natoli, che «di certo c’era Lo Forte (..) se ho detto che Natoli c’era, c’era; in questo momento non me lo ricordavo. Lo Forte… lo sa probabilmente la differenza di ricordo qual è? Che Lo Forte io me lo ricordo proprio piegato assieme a me, perche ´, dico, lo abbiamo dovuto guardare molto da vicino per cercare di confermare la… l’identificazione, chiamiamola così. Magari Gioacchino Natoli sarà` rimasto in piedi, insomma, ma se ho detto che c’era, c’era». L’insistenza delle domande del pm Gozzo, che vuole sapere con precisione dal testimone Ayala la tempistica di arrivo su luogo della strage, ha un senso. Così come ha un senso che il pm Luciani insista per sapere chi altro ci fosse in quei primi «quattro o forse cinque minuti» in via D’Amelio, quando sopraggiungeva Ayala. Ma la risposta è stata esaustiva. Anche Lo Forte fu sentito nel corso del processo, ma le sue dichiarazioni non sono utilizzate dalla Corte per argomentare il capitolo relativo alla sparizione dell’agenda rossa. Alla domanda sul suo arrivo nel luogo della strage, Lo Forte risponde di essersi recato immediatamente con la sua auto dopo una telefonata, non ricorda di chi ma che «era domenica», e che appena giunto «c’erano già naturalmente militari esponenti delle forze dell’ordine alcuni colleghi altri sopraggiunsero dopo». Alla domanda se altri colleghi sopraggiunsero dopo di lui, tra i quali il dottor Natoli, Lo Forte risponde di non ricordare se prima o dopo perché c’era moltissima gente, ma che ci fossero tutti i colleghi «quindi ricordo in particolare il collega Ayala che trovai praticamente in preda alle lacrime, col quale mi sono abbracciato ma poi dato il momento noi eravamo del tutto attoniti». Sull’agenda e la borsa di Borsellino anche Lo Forte diede la sua versione dei fatti alla Corte, rispondendo di non aver guardato all’interno della vettura, alla domanda se la borsa fosse aperta o chiusa o se ebbe la percezione delle condizioni eventualmente all’interno di questa autovettura «se ci fosse qualche oggetto particolare». Domande significative. Del resto nello stesso esame si parla della sparizione dell’agenda rossa, che poteva essere dentro la borsa. Quest’ultima, era sul sedile posteriore oppure sul pianale fra i sedili anteriori e quelli posteriori, ma Ayala non vi avrebbe guardato dentro, limitandosi a prenderla in mano per pochi attimi ( forse, era una persona in borghese che gliela passava), consegnandola – subito dopo – a un ufficiale dei Carabinieri che nemmeno conosceva, per poi recarsi a Mondello a rassicurare i propri figli, dal momento che il giornalista Felice Cavallaro gli raccontava della diffusione della falsa notizia che fosse proprio lui la vittima dell’attentato. Si insiste molto su questo punto, perché la logica vuole che la sparizione dell’agenda dalla borsa potesse essere avvenuta nei primi minuti, possibilmente senza la presenza di troppe persone. Ragionamenti deduttivi, ovviamente. E l’ex ministro Carlo Vizzini, ascoltato come teste al processo sulla Trattativa Stato- mafia, ricordò via D’Amelio. che tre giorni prima dell’attentato di via D’Amelio, cenò a Roma con Paolo Borsellino, che era nella capitale con i colleghi Guido Lo Forte e Gioacchino Natoli. Nel corso della cena, secondo riferito da Vizzini, si parlò dell’indagine Mafia- Appalti. «Un argomento – aveva precisato Vizzini – che mi interessava fin dal 1988, quando avevo denunciato il sistema di spartizione dei lavori pubblici e gli interessi che legavano Cosa Nostra a grandi aziende nazionali. Già allora io avevo parlato dei mediatori che favorivano le grosse imprese e del ruolo che la mafia rivendicava negli appalti. Cose che furono dimostrate quando Angelo Siino cominciò a collaborare con la giustizia». Borsellino sarebbe stato molto interessato al tema, tanto che pensò di rivedere Vizzini «nelle sedi opportune», ha detto il teste, riferendosi agli uffici del palazzo di giustizia, ignaro che la procura di Palermo avesse richiesto, il 13 luglio, l’archiviazione dell’indagine Mafia- Appalti. Era il 16 luglio e tre giorni dopo Paolo Borsellino venne ucciso, insieme con gli agenti della sua scorta, Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina.


3.7.2018 – La figlia di Borsellino: «Ora indagate sui pm!»  Fiammetta Borsellino attacca, facendo nomi e cognomi e chiede l’intervento del presidente della Repubblica e del Csm, perchè si accertino le responsabilità Chiede l’intervento del presidente della Repubblica e del Csm, Fiammetta Borsellino, facendo nomi e cognomi. All’indomani delle motivazioni della sentenza Borsellino quater sulla strage di via D’Amelio che costò la vita al padre, in cui i giudici hanno scritto che l’indagine fu inquinata da «uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana», la famiglia Borsellino alza la voce, con un’intervista su Repubblica. «Queste motivazioni non sono un punto d’arrivo, ma di partenza. Bisogna andare avanti processualmente per accertare le responsabilità di chi ha commesso i reati, ma anche dei magistrati che controllavano e coordinavano le indagini», ha detto Fiammetta, scandendo i nomi di quei magistrati che 26 anni fa avallarono il falso pentito Vincenzo Scarantino: «Anna Palma è avvocato generale di Palermo, Carmelo Petralia è procuratore aggiunto a Catania». Si rivolge poi anche a Ilda Boccassini, che nel 1992 era a Caltanissetta e «autorizzò dieci colloqui investigativi dell’allora capo della Mobile La Barbera proprio con Scarantino», e al magistrato Giuseppe Ayala, parlamentare all’epoca della strage che «fornì sette versioni diverse dei momenti successivi alla strage, in cui si trovò tra i primi in via D’Amelio a tenere in mano la borsa di papà». Proprio la borsa che conteneva la famosa agenda rossa, sparita misteriosamente e a cui – secondo i giudici d’appello di Caltanissetta – è legato anche Scarantino. Fiammetta Borsellino non parla di ipotesi di reato a carico degli inquirenti ma di «lacune gravissime e inaudite, sicuramente funzionali a quello che è successo». Per questo chiama in causa il Csm, chiedendosi il perchè del «reiterato silenzio sui magistrati che hanno avallato il falso pentito Scarantino», e lo stesso Mattarella, in qualità di presidente del Csm, perchè faccia da «garante che questo ( il Csm ndr) assolva i propri compiti istituzionali, cosa che fino a oggi non ha fatto». La richiesta è chiara: «Il fascicolo che a settembre era stato aperto sui magistrati non può restare vuoto. Bisogna fare chiarezza sulle gravi lacune procedurali che configurano addebiti di carattere disciplinare, messe in risalto dalle motivazioni del Borsellino quater». A rispondere positivamente alla fi- glia del magistrato è intervenuto il togato di Area al Csm, Antonello Addituro, il quale ha chiesto al Comitato di presidenza di «aprire una pratica in Sesta Commissione, competente anche sulla materia antimafia, relativa a quanto emerso dalla sentenza della Corte d’assise di Caltanissetta nel processo Borsellino quater». Ardituro ha anche sollecitato l’acquisizione formale da parte di Palazzo dei Marescialli della sentenza in cui si parla di «gravi depistaggi» nelle indagini sulla strage di via D’Amelio. Intanto, la procura nissena ha chiesto il rinvio a giudizo per concorso in calunnia dei poliziotti infedeli Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, sottoposti dell’allora capo della Mobile di Palermo Arnaldo La Barbera, morto 15 anni fa e pesantemente implicato in molti dei misteri che ancora si affollano intorno all’indagine sulla strage di via D’Amelio. La chiamata in causa della magistratura inquirente da parte della figlia di Borsellino è stata immediatamente raccolta dal Partito Democratico e da Liberi e Uguali, on il deputato dem Carmelo Miceli che ha chiesto che «il Parlamento vari entro il prossimo 19 luglio, anniversario della morte di Paolo Borsellino, la Commissione antimafia e questa, come primo atto, convochi in audizione la figlia Fiammetta». Anche Erasmo Palazzotto (Leu) ha chiesto che la Commissione parlamentare antimafia «si occupi di ricostruire questa pagina oscura della storia d’Italia». Fortificata dalla sentenza di Caltanissetta, Fiammetta Borsellino ha ribadito che insisterà per incontrare di nuovo in carcere i fratelli Graviano nonostante qualche magistrato, al momento del primo incontro, avesse ipotizzato il rischio di inquinamento delle prove: «Non sono un magistrato, in carcere non parlo di indagini. Vedo solo una grande speranza negata». Una speranza che, forse, potrebbe essere meno flebile, ora che i magistrati nisseni hanno per la prima volta squarciato il velo di silenzio sui depistaggi della strage. “Sessanta milioni di euro, per danno all’immagine”. Il ministero dell’Interno rompe gli indugi e chiede il risarcimento dei danni ai tre poliziotti accusati di avere avuto un ruolo determinante nel depistaggio delle indagini attorno alla strage Borsellino. Prima udienza del processo a sorpresa, perché fino ad oggi il ministero dell’Interno è stato solo dichiarato “responsabile civile” per il danno causato dai tre imputati. Ma ora il Viminale prova a smarcarsi, con un intervento dell’Avvocatura dello Stato, che ha anche presentato la richiesta di parte civile del ministero della Giustizia, “per il danno subito dal reato di calunnia commesso dagli imputati”. Chiedono di costituirsi parte civile pure i familiari dei poliziotti uccisi con Paolo Borsellino, il superstite della strage, Antonino Vullo, e il Comune di Palermo. Il collegio del tribunale, presieduto da Francesco D’Arrigo, deciderà sulle questioni preliminari il 26 novembre. Un rinvio lungo, che non è piaciuto a Fiammetta Borsellino, la figlia del giudice Paolo, che è parte civile nel processo con i suoi fratelli: “Abbiamo già aspettato tanto – dice – vigileremo su questo processo, perché tante persone ancora non vogliono cercarla la verità”.

Cosa pensa Di Matteo del depistaggio su Borsellino?  C’è un non detto – o un detto molto poco – nel ricco e rinnovato dibattito sul depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio. Uno dei magistrati responsabili dell’inchiesta “farlocca”, come la chiama oggi pure Attilio Bolzoni su Repubblica, è Nino Di Matteo: allora era assai poco conosciuto, stava a Caltanissetta nella procura guidata da Giovanni Tinebra; oggi è diventato molto famoso, per certe sue posizioni pubbliche vivaci, per l’adesione all’accusa su una trattativa “stato-mafia” nel processo relativo, per l’impegno in molte inchieste relative alla mafia e le minacce ricevute, per un’inclinazione (non rara tra i magistrati) all’autopromozione personale, per una rivendicata vicinanza al M5S che lo ha reso persino possibile candidato al Ministero della Giustizia. Oggi Di Matteo è un imbarazzo, per molti articoli e resoconti sul depistaggio: diversi giornalisti e commentatori che ne scrivono sono o sono stati suoi sostenitori o ammiratori, o appartengono all’ancora radicata e tenace fazione dei giornalisti che pensano che la difesa del ruolo della magistratura passi per la difesa omissiva di ogni suo atto e ogni suo esponente, e si autocensurano di ogni critica. O a quella che semplicemente pensa che nessun magistrato che lavori in Sicilia debba essere disturbato.  Il risultato è che il più noto e importante (Grasso, meno coinvolto, disse qualcosa al Postl’anno scorso; Boccassini fu la più precoce critica di quell’inchiesta) tra i viventi (Tinebra è morto, Vigna è morto, La Barbera è morto) che ebbero consapevolezza da subito dell’esistenza di due piste in conflitto (la versione di Spatuzza, provata; la versione di Scarantino, falsa ed estorta) in questi mesi non viene mai interpellato, e solo ieri Fiammetta Borsellino ha invece voluto ricordarlo, il suo nome: negli anni qualcuno lo ha giustificato dicendo che era giovane, qualcuno che non ebbe un ruolo così importante. Ma i fatti e la storia dicono che lo ebbe (lui stesso anni fa rivendicò in aula la correttezza delle sue scelte), e che lo ebbe rilevantissimo nella difesa della versione “farlocca”, contestando in più occasioni i legittimi e seri dubbi che venivano espressi, e rifiutando di prenderli in considerazione. «La ritrattazione dello Scarantino ha finito per avvalorare ancor di più le sue precedenti dichiarazioni», disse una volta, con un’acrobazia logica di cui molti pubblici ministeri si sono serviti nella storia dei disastri giudiziari italiani. «Dietro questa ritrattazione c’è la mafia», disse invece la sua collega Palma, che oggi è intervistata da Repubblica, con risposte assai sfuggenti e insoddisfacenti. E invece a Di Matteo nessuno oggi chiede niente di un depistaggio acclarato, entrato in una sentenza, in buona parte raccontato nella sua genesi ma misterioso nella sua conservazione, così assidua e vincente da arrivare a ottenere le condanne definitive di innocenti. Nessuno gli chiede, e lui non ne parla, di quali fattori lo spinsero ad affezionarsi così tenacemente a un’accusa demolita in tante occasioni e così indifendibile che la sua collega Ilda Boccassini la raccontò così. Quando arrivai a Caltanissetta da parte di tutti c’erano perplessità rispetto alla caratura del personaggio Vincenzo Scarantino – dichiara Boccassini -. Ricordo perfettamente che si trattava di dubbi nutriti non solo dai magistrati ma anche dagli investigatori Per me la prova regina che Scarantino era un mentitore si è avuta proprio quando ha cominciato a collaborare. La sua collaborazione mi ha convinto che eravamo davanti a uno che raccontava ‘fregnacce’ pericolose perché coinvolgeva anche importanti collaboratori di giustizia Dissi che andava sospeso tutto – ha aggiunto – che dovevamo verificare, avvisare i colleghi di Palermo, fare i confronti e ricominciare con saggezza umiltà ed equilibrio, doti che dovrebbero avere i magistrati E rispetto alle responsabilità di quei procuratori, Boccassini la pensava così. Di chi fu allora la colpa per quel depistaggio che compromise le indagini, di Arnaldo La Barbera e i suoi investigatori? Il magistrato [Boccassini, ndr] lo esclude e più volte ribadisce che “è il pubblico ministero il dominus delle indagini”, “quindi se si è andati avanti per quella strada – ha concluso – gli altri colleghi avranno ritenuto di farlo, sono i pm che a fronte di quelle cose hanno deciso di andare avanti”. Questa valutazione è stata ora fatta propria anche dalla sentenza su quel depistaggio, con qualche prudenza e qualche giro di parole, ma indubbiamente. Questo insieme di fattori avrebbe logicamente consigliato un atteggiamento di particolare cautela e rigore nella valutazione delle dichiarazioni dello Scarantino, con una minuziosa ricerca di tutti gli elementi di riscontro, positivi o negativi che fossero, secondo le migliori esperienze maturate nel contrasto alla criminalità organizzata incentrate su quello che veniva, giustamente, definito il metodo Falcone I magistrati di Caltanissetta di allora non ebbero “un atteggiamento di particolare cautela e rigore”, per usare questa indulgente formulazione, e collaborarono decisamente e deliberatamente al depistaggio, piuttosto che ostacolarlo o scongiurarlo. I magistrati di Caltanissetta di allora si sentirono dire per anni da avvocati e da colleghi che quelle accuse erano incredibili e probabilmente false, e decisero di continuare a sostenerle. I magistrati di Caltanissetta di allora furono informati di un’altra versione – quella vera – e assistettero al suo rendersi anno dopo anno più vera e credibile, e non si fecero domande, non decisero di rivedere le loro convinzioni, non rivelarono a nessuno le proprie riflessioni su una smentita così clamorosa del loro lavoro, sul fallimento di quelle certezze, su cosa diavolo pensassero di quello che era successo, sull’essere stati collaboratori del “più grande depistaggio della storia della Repubblica“, limitandosi al massimo – come anche oggi Palma – a cercare argomenti per difendere se stessi e il proprio errore. Il più importante tra loro oggi è Nino Di Matteo, il quale non ne parla, e nessuno gliene chiede.  Luca Sofri 19.7.2018 POST


FIAMMETTA BORSELLINO: «La mafia uccise mio padre. Lo Stato ha depistato e insabbiato i dossier» Fiammetta Borsellino denuncia i depistaggi che hanno impedito di scoprire chi e perché ha ucciso suo padre


FIAMMETTA BORSELLINO: «Incredibile che il Viminale non sia parte civile al processo depistaggi»«Ritengo assolutamente incredibile che il Viminale non sia parte civile di questo processo…  LEGGI TUTTO


FIAMMETTA BORSELLINO:  “Il silenzio degli uomini delle istituzioni peggio dell’omertà dei mafiosi.  Perché tanta omertà? E dov’erano i magistrati quando i poliziotti istruivano Scarantino?”  “La verità si saprà soltanto se chi sa parlerà e uscirà dall’omertà”. Così Fiammetta Borsellino, figlia del magistrato ucciso in via D’Amelio ha commentato la decisione del gip di Caltanissetta di rinviare a giudizio per calunnia aggravata i tre poliziotti implicati nel depistaggio delle indagini sull’attentato al padre. Fiammetta Borsellino e i suoi due fratelli si sono costituiti parte civile.


FIAMMETTA BORSELLINO: “La verità verrà fuori se parlano loro” Al termine dell’udienza preliminare e in seguito al rinvio a giudizio dei tre poliziotti, Fiammetta Borsellino, figlia di Paolo, ha dichiarato: “La verità verrà fuori solo se loro parlano e rompono questo muro di omertà. Questo è un inizio, nella consapevolezza che ci sono grossi pezzi dello Stato implicati in questa vicenda. Lo stesso Pm Stefano Luciani lo ha ribadito, scandalizzato, chiedendosi come queste persone ricoprano ancora incarichi e non siano state sospese dal servizio. Gli illeciti sono evidenti”. Poi, riferendosi ai magistrati che presero per buona la ricostruzione dell’eccidio poi rivelatasi falsa e costata la condanna di sette innocenti, la figlia del giudice ha aggiunto: “Com’è possibile che i magistrati non si siano accorti di quello che stava accadendo? Le tesi investigative proposte sono state accettate da schiere di magistrati, sia giudicanti che inquirenti. Questi ultimi, peraltro, avendo il coordinamento delle indagini, avrebbero dovuto coordinare e controllare il lavoro delle forze dell’ordine”.


PROCESSO AI POLIZIOTTI ACCUSATI DI DEPISTAGGIO.  Fiammetta Borsellino a Caltanisetta – Presso il tribunale di Caltanisetta, lunedì 20 Settembre è stata avviata la procedura l’udienza preliminare riguardante  i tre poliziotti rinviati a giudizio per depistaggio nelle indagini su Via D’Amelio. Presenti  il giornalista Salvo Palazzolo, recentemente denunciato, indagato e perquisito e  Fiammetta Borsellino, che da tempo chiede a gran voce che sia fatta piena luce su mandanti, esecutori e condotta delle Forze dell’Ordine e della magistratura inquirente incaricati dell’inchiesta. 


RINVIATA AL  28 SETTEMBRE, l’udienza preliminare nei confronti di tre poliziotti accusati del depistaggio delle indagini sulla strage di via d’Amelio. Davanti al Gup sono comparsi il funzionario Mario Bo e i poliziotti Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei, accusati di calunnia in concorso. Per i tre, la procura nissena, ha contestato l’aggravante secondo la quale, con la loro condotta avrebbero favorito Cosa nostra. 


FIAMMETTA AVVICINA DUE IMPUTATI. LA FIGLIA MAGISTRATO APPROFITTA DI UNA PAUSA DELL’UDIENZA CALTANISSETTA   In una pausa dell’udienza preliminare a Caltanissetta per il depistaggio nelle indagini sulla strage di via D’Amelio, Fiammetta Borsellino si è avvicinata a due dei tre imputati accusati dalla Procura di concorso in calunnia Fabrizio Mattei, ex ispettore di polizia ora in pensione, e Mario Bo, ex funzionario o oggi dirigente della polizia a Gorizia. Tra Fiammetta e i due c’è stato un dialogo. La figlia del magistrato, assieme ai fratelli Manfredi e Lucia, è parte civile, così come Salvatore, fratello di Paolo Borsellino, e i figli di Adele, l’altra sorella del magistrato. (ANSA) 20.9.2018″Ai due poliziotti ho chiesto di dare un contributo di onestà considerata l’evidenza delle loro posizioni e che sono stati sicuramente dei protagonisti fondamentali di questa amara vicenda”. Lo dice Fiammetta Borsellino al termine dell’udienza preliminare a Caltanissetta nel processo in cui sono accusati di calunnia tre poliziotti, nell’ambito delle indagini sulla strage di via D’Amelio. Durante una pausa, Fiammetta ha avvicinato due dei tre poliziotti, scambiando qualche parola con loro. “In questa storia ognuno di noi c’è dentro fino al collo – aggiunge la figlia di Paolo Borsellino – e quindi l’auspicio è poter dare un contributo di onestà per spiegare veramente cosa cosa è successo, quale era il clima, da chi probabilmente hanno ricevuto gli ordini”. LIVE SICILIA 20.9.2018


VIA D’AMELIO, I FIGLI DI BORSELLINO PARTE CIVILE CONTRO I TRE POLIZIOTTI ACCUSATI DEL DEPISTAGGIO L’atto d’accusa di Fiammetta: “Lo Stato non c’è, non si è costituito contro gli imputati”. Al via l’udienza preliminare al tribunale di Caltanissetta  Fiammetta Borsellino, la figlia di Paolo e Agnese, arriva di buon mattino al tribunale di Caltanissetta. Nell’aula intitolata a “Gilda Loforti” – una giudice coraggiosa stroncata da un brutto male – non c’è ancora nessuno. Fiammetta si siede su una panca e aspetta paziente. Da 26 anni, lei e i suoi fratelli Manfredi e Lucia aspettano pazienti di sapere chi ha tenuto lontana la verità sulla morte del loro papà, Paolo Borsellino, il procuratore aggiunto di Palermo che voleva scoprire gli assassini del suo amico Giovanni Falcone. Ma fermarono anche lui, 57 giorni dopo. E poi venne costruita una montagna di menzogne attorno alla strage del 19 luglio 1992, attraverso il falso pentito Vincenzo Scarantino, un balordo di borgata fatto passare per novello Buscetta. Ora, per la prima volta, tre uomini dello Stato sono chiamati in causa dalla procura di Caltanissetta per quel “colossale depistaggio”, come l’ha definito la sentenza dell’ultimo processo per la strage Borsellino: il funzionario Mario Bo’, gli ispettori Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo sono accusati di concorso in calunnia. I figli di Paolo Borsellino chiedono di costituirsi parte civile contro di loro. “Seguiremo ogni sviluppo processuale della vicenda  – dice Fiammetta Borsellino – saremo impegnati in prima persona per dare un contributo all’accertamento della verità. Ma siamo qui anche per solidarizzare con chi, come la procura di Caltanissetta e non altri, sta cercando con ostinata pervicacia di venire a capo di questa matassa, che purtroppo rimane gravemente compromessa proprio a causa del depistaggio”. Fa una pausa, Fiammetta. E dice: “Oggi, in questa aula lo Stato non c’è. Né la presidenza del Consiglio, né il ministero dell’Interno o della Giustizia hanno chiesto di costituirsi parte civile contro chi ha tradito le istituzioni. E questo mi amareggia molto”. Chiedono di costituirsi parte civile anche Salvatore Borsellino, il fratello di Paolo, e i figli di Adele, la sorella del magistrato. Il giudice li ammette nel processo. Chiedono tutti verità sul depistaggio. La chiede anche il presidente della Commissione regionale antimafia Claudio Fava, che questa mattina è arrivato pure lui al palazzo di giustizia di Caltanissetta: “Con la commissione sto conducendo un’indagine sul depistaggio istituzionale, è importante essere qui: 26 anni dopo, finalmente, il primo atto giudiziario su una vicenda scandalosa”. Il depistaggio fu organizzato sul campo dall’allora capo del gruppo investigativo sulle stragi, Arnaldo La Barbera, lui fu il principale suggeritore di Scarantino.Ma cosa lo spingeva? Su indicazione di chi agì? E’ morto nel 2002. Dalle indagini è emerso che La Barbera era anche un collaboratore dei servizi segreti. Per quale missione da compiere? Qualcuno sa e non parla. Gli imputati sono in aula.  Cosa sanno Ribaudo e Bo’ dei misteri di Arnaldo La Barbera? Domande su domande che adesso scandiscono l’udienza preliminare che si apre oggi al tribunale di Caltanissetta, davanti al gip Graziella Luparello. Il sostituto procuratore Stefano Luciani e il procuratore aggiunto Gabriele Paci chiedono che i tre poliziotti vengano rinviati a giudizio. Contro Bo’, Mattei e Ribaudo si sono costituiti parte civile anche i mafiosi accusati ingiustamente per la strage di via D’Amelio: Cosimo Vernengo, Giuseppe La Mattina, Gaetano Murana, Gaetano Scotto e Natale Gambino, assistiti dagli avvocati Rosalba Di Gregorio, Pino Scozzola e Giuseppe D’Acquì. Hanno anche citato in giudizio, come “responsabili civili”, la presidenza del Consiglio dei ministri e il ministero dell’Interno. A loro chiedono un maxi risarcimento, 50 milioni di euro. Spiega l’avvocato Di Gregorio: “L’udienza preliminare è un primo importante passaggio, ma come dice la sentenza del Borsellino quater, dietro Scarantino non ci fu un mero errore giudiziario, bisogna piuttosto scoprire le ragioni del depistaggio”. La Repubblica 20.9.2018 SALVO PALAZZOLO


FIAMMETTA BORSELLINO, SOLIDALE CON LA PROCURA. La figlia del magistrato: “Difficile verità ma barlumi di luce. Sono qui in segno di solidarietà nei confronti di una Procura che si sta impegnando con tenacia a sciogliere un nodo enorme sulla mancata verità che riguarda la strage di via D’Amelio, un nodo compromesso quasi definitivamente dalle attività depistatorie”. Così Fiammetta Borsellino, figlia del magistrato Paolo, presente in Tribunale a Caltanissetta all’udienza preliminare con tre poliziotti accusati di avere imbeccato il falso pentito Vincenzo Scarantino. “Questa Procura a distanza di molti anni con enormi difficoltà sta cercando di fare luce su cose fatte da pm precedenti, perché questi poliziotti non hanno agito da soli, ma sotto la direzione, il controllo e la supervisione di magistrati e di pubblici ministeri”. “Ho fiducia – ha aggiunto – raggiungere una verità è difficile, ma sono convinta del percorso che può portare anche a fare barlumi di luce. E’ importante il segnale che si continui a lottare per esercitare un diritto sancito all’articolo 2 della Costituzione, il diritto alla verità”. ANSA 


FIAMMETTA BORSELLINO PARLA CON GLI IMPUTATI: “SIATE ONESTI” Alla sbarra tre poliziotti, il funzionario Mario Bo’ e gli ispettori Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, accusati di avere imbeccato il falso pentito Vincenzo Scarantino. La figlia del giudice: “Si spieghi cosa cosa è successo, quale era il clima, da chi probabilmente hanno ricevuto gli ordini”

DEPISTAGGIO VIA D’AMELIO. IL COMUNE DI PALERMO SARÀ PARTE CIVILE Il sindaco Leoluca Orlando ha dato mandato all’avvocatura comunale di procedere alla costituzione di Parte Civile nel processo che a Caltanissetta vede imputati alcuni agenti e funzionari di Polizia per il presunto depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio del luglio del 1992.


22.4.2018  Trattativa Stato-mafia, intervista a Fiammetta Borsellino.Trattativa Stato-mafia: “Possibile movente dell’accelerazione dell’omicidio di Borsellino” A sostenerlo è la figlia del giudice, Fiammetta Borsellino, nel corso di un’intervista rilasciata al Fatto quotidiano: “Non sono solo io a pensarlo. C’è un intero capitolo del processo Borsellino quater dedicato alla Trattativa”

Trattativa, Fiammetta Borsellino: “Soggetti dello Stato hanno esposto mio padre alla mafia come bersaglio da eliminare”. Il primo pensiero di Fiammetta Borsellino, dopo aver saputo delle condanne per il generale Antonio Subranni e per gli altri, è stato per la madre Agnese Piraino, scomparsa nel 2013 dopo una lunga malattia.

Sua madre riferì ai pm quel che suo padre le aveva detto poco prima di morire sul comandante del Ros Angelo Subranni: che era punciuto, cioè in qualche modo legato alla mafia. Allora fu attaccata duramente e poi Subranni fu prosciolto a Caltanissetta per concorso esterno in associazione mafiosa. Ora è stato condannato per la Trattativa a 12 anni. Mia madre raccontò ai magistrati solo quello che mio padre le aveva detto. Fece il suo dovere ma fu attaccata duramente. Mi fa fatica anche ricordare. Il generale Subranni, 80 anni, nel 1992 era il capo del Ros. Venerdì scorso è stato considerato colpevole di avere veicolato con il generale Mario Mori e il colonnello Giuseppe De Donno, la minaccia della mafia allo Stato. Sua madre potrebbe essere stata ritenuta attendibile? Bisogna aspettare le motivazioni però ricordo le parole di Subranni. Disse che mia madre era malata di alzheimer e non era vero. Né lui né gli avvocati né alcuni commentatori ebbero la minima forma di rispetto verso di lei.

Questa sentenza è importante? Certo che è importante. Attesta il coinvolgimento a un altissimo livello di soggetti dello Stato con comportamenti che hanno esposto mio padre davanti alla mafia quale bersaglio da eliminare.

Pensa che ci possa essere stata una relazione tra la trattativa avviata dal Ros dei carabinieri dopo la strage di Capaci e la strage di via D’Amelio il 19 luglio 1992? C’è un intero capitolo del processo Borsellino quater dedicato alla Trattativa come possibile movente dell’accelerazione dell’uccisione di papà. Non sono solo io a pensarlo.

Pensa che suo padre sia stato eliminato perché era un ostacolo per il dialogo tra pezzi dello Stato e la mafia? Certamente Totò Riina era determinato a uccidere mio padre, ma penso che l’accelerazione sia stata utile anche per altri apparati non appartenenti a Cosa Nostra che avevano interesse a eliminarlo. Il depistaggio, che è ormai acclarato, delle indagini sulla strage di via D’Amelio, potrebbe essere letto come la continuazione di un modo di operare che si intravede già nella Trattativa. E poi rimane il grande dubbio sulla sparizione dell’agenda rossa. Non dimentichiamo che a prendere la borsa di mio padre, il 19 luglio in via D’Amelio, sono state sempre persone appartenenti ai carabinieri.

La Procura di Caltanissetta sta valutando se sia il caso di riaprire le indagini sulle stragi del 1992 e sui “mandanti esterni” alla mafia. Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi sono già indagati a Firenze per le intercettazioni in carcere del boss Graviano. Secondo i pm e la Dia di Palermo, Graviano in carcere parlerebbe di qualcuno che gli ha chiesto una “cortesia” e in quel contesto nominerebbe Berlusconi. La condanna di Dell’Utri potrebbe spingere a riaprire l’inchiesta anche a Caltanissetta? La sentenza sulla Trattativa condanna Dell’Utri perché avrebbe avuto un ruolo nei riguardi del governo Berlusconi nel 1994 e anche io ho letto le intercettazioni in carcere di Giuseppe Graviano che sembra fare riferimenti a Dell’Utri e Berlusconi. Anche su questo punto penso che debbano essere fatte tutte le verifiche del caso. Penso che dopo tanto tempo è stato sistemato solo un primo tassello. È importante ma deve essere letto insieme agli altri per comprendere il quadro complessivo. Certo una cosa è sicura: lo Stato esce a pezzi da questa sentenza.

La sentenza fotografa uno Stato che ha trattato con la mafia, però a fare la foto oggi c’è uno Stato che ha avuto il coraggio di fare un processo difficile… C’è uno Stato che ha fatto il proprio dovere. Questo processo non è una cosa strana. In uno Stato normale, fondato sul principio di legalità, questa sentenza dovrebbe essere considerata normale.

Un grande esperto di diritto penale come il professor Fiandaca ha sostenuto che i carabinieri del Ros, anche se avessero cercato il contatto con la mafia per far cessare le stragi, potrebbero avere agito nell’ambito del lecito se non addirittura del “doveroso”. Lei che ne pensa? Non credo affatto che questo modo di porsi rispetto alla mafia sia lecito. Uomini come mio padre ritenevano di doversi opporre alla mafia fermamente. Non avrebbe mai accettato una cosa simile.

Dopo la lettura del verdetto, il procuratore Vittorio Teresi ha dedicato questa sentenza a Paolo Borsellino e a Giovanni Falcone. Sono morti per il loro alto senso di fedeltà allo Stato, si meritavano questo e altro. Però questa sentenza è un punto di partenza, non di arrivo. Mi auguro che i magistrati continuino a lavorare per giungere a una verità non solo storica ma anche giudiziaria. Non ci voleva una sentenza per capire che questi comportamenti erano riprovevoli moralmente. Questa sentenza è il primo passo per stabilire che sono anche reati gravi.di MARCO LILLO | 22 APRILE 2018 IL FATTO QUOTIDIANO 


GIUSEPPE GRAVIANO CITA BERLUSCONI NEL COLLOQUIO IN CARCERE CON FIAMMETTA BORSELLINOdi F. Q. | 19 MAGGIO 2018  Berlusconi, Brusca: “Messina Denaro disse che Graviano lo incontrava. Al polso dell’ex premier orologio da 500 milioni”  Giuseppe Graviano ha citato Silvio Berlusconi nel suo colloquio con Fiammetta Borsellino, mentre parlava del periodo della sua latitanza a Milano nel ’93 insieme al fratello Filippo. Il boss, condannato all’ergastolo proprio con il fratello Filippo per le stragi del 1992 e 1993, ha fatto questa affermazione (tutta da interpretare e da riscontrare) nel corso del colloquio straordinario nel carcere di Terni, avvenuto con la figlia minore del magistrato ucciso dal suo gruppo di fuoco nel luglio 1992.

A questa storia è dedicata la prima puntata dello ‘Speciale Trattativa Sekret” dal titolo I Gravianos che si potrà vedere su Iloft.it. a partire dal 23 maggio prossimo. La serie condotta e scritta da Marco Lillo ricostruirà senza tabù e senza preconcetti quello che è emerso nei processi ma anche le piste che le investigazioni giudiziarie hanno tralasciato. La serie si avvale infatti di intercettazioni e carte processuali ma anche di testimonianze e documenti non processuali ma utili per ricostruire quello che è successo in Italia nel periodo che va dalle stragi del 1992 alle stragi del 1993 fino alla pax mafiosa iniziata nel 1994. La figlia minore del magistrato ucciso il 19 luglio 1992 ha incontrato quel giorno nel carcere di L’Aquila anche il fratello Filippo, anche lui condannato per le stragi del 1992 e 1993. Filippo non ha accennato a Berlusconi. Entrambi i colloqui sono stati videoregistrati.

La frase di Graviano su Berlusconi è esplosiva ma scivolosa. Il boss infatti lancia il sasso e tira indietro la mano. Le registrazioni di entrambi i colloqui della figlia della vittima della strage di via D’Amelio con i boss sono state trasmesse a tutte le procure che indagano sulle stragi del 1992, 1993 e 1994 e sulla Trattativa Stato-mafia per una valutazione della loro rilevanza. Il boss, dopo aver detto che in quel periodo a Milano e nel nord Italia era latitante ma vedeva persone rispettabili e non appartenenti alla mafia, butta lì: “lo dicono tutti che frequentavo Berlusconi” e poi subito aggiunge: “Più che io era mio cugino che lo frequentava’. Il boss di Brancaccio in 24 anni di reclusione non ha mai parlato nei processi di questi argomenti. L’avvocato Niccolò Ghedini al Fatto dice: “Nessuno ci ha mostrato questa conversazione. Se esistesse bisognerebbe ascoltarla per verificare le reali parole di Graviano. Comunque lui sapeva di essere registrato e potrebbe avere depistato. A me non risulta nessun incontro di Berlusconi con Graviano o con qualcuno legato direttamente o indirettamente a lui. Tanto meno con un suo cugino noto”.

Fiammetta ha incontrato in carcere Giuseppe e Filippo Graviano il 12 dicembre scorso grazie a un decreto straordinario del ministro della giustizia Andrea Orlando. Oggi la figlia del magistrato ha fatto pubblicare una lettera su Repubblica nella quale spiega la ragione della sua richiesta di incontrare i boss. “La necessità di esprimere un dolore profondo inflitto non solo alla mia famiglia ma alla società intera. La richiesta di incontro – scrive Fiammetta – è un fatto strettamente personale e chiedo che tale debba rimanere”. Fiammetta chiede ai boss “un contributo di onestà” e gli ricorda che “soltanto contribuendo alla ricerca della verità i figli potranno essere orgogliosi dei padri”.

Nessuno sa perché Graviano dica quella frase su Berlusconi a Fiammetta. Nessuno sa se voglia depistare o ricattare. Nessuno sa chi sia il cugino. Solo lui può sciogliere i dubbi. La trascrizione del colloquio con Fiammetta è stata spedita alla Procura di Firenze che ha iscritto nei mesi scorsi Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi per concorso in strage a seguito delle conversazioni intercettate (tra il 2016 e il marzo 2017) nel carcere tra Graviano e il detenuto Umberto Adinolfi nelle quali il boss di Brancaccio – per la Dia – parla di Berlusconi e Dell’Utri. Gli audio dei due colloqui con i Graviano sono giunte anche ai pm di Palermo che indagano sulla trattativa e a quelli di Caltanissetta che indagano sulle stragi del 1992 e che in passato ha indagato e poi però archiviato la posizione di Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi. Le registrazioni dei due colloqui sono state inviate anche alla Direzione Nazionale Antimafia e alla Procura di Reggio Calabria, che sta processando Graviano per l’uccisione dei carabinieri Antonino Fava e Vincenzo

Fiammetta Borsellino potrebbe essere chiamata presto a deporre sul colloquio con Giuseppe Graviano.  Lei non è minimamente interessata alla frase di Graviano su Berlusconi. Nel carcere di Terni quel giorno cambia discorso e ora vorrebbe tornare a parlare solo con Filippo Graviano, non con Giuseppe. La richiesta del colloquio pende però da mesi. Tutte le Procure interessate hanno sconsigliato di autorizzare una nuova visita. Fiammetta nella sua lettera però insiste: “Ora è importante che io possa continuare quel dialogo che è stato interrotto, con enorme dispiacere registro la mancanza di una risposta ufficiale da parte delle istituzioni”.

Sekret – Speciale Trattativa Stato-mafia è una video-inchiesta giornalistica esclusiva firmata da Marco Lillo per la piattaforma Loft. Quella che vedete in questo articolo è l’anticipazione della prima puntata della serie dedicata al patto scellerato tra pezzi delle istituzioni e Cosa nostra. Documenti, ricostruzioni, immagini e audio inediti e, soprattutto, scoop che gli abbonati alla App Loft potranno seguire nel lavoro capillare del vicedirettore de Il Fatto Quotidiano


9.10.2018 – Qualche Pm risponderà a Fiammetta Borsellino?   Fiammetta Borsellino, seppure in modo molto sobrio ed educato, ha rivolto domande un po’ imbarazzanti a diversi magistrati siciliani a proposito del depistaggio delle indagini sull’uccisione di suo padre e dei motivi di questa uccisione e poi di quel depistaggio

Venerdì abbiamo pubblicato un’ampia intervista a Fiammetta Borsellino, figlia di Paolo, ucciso dalla mafia nel luglio del 92 e considerato da tutti – chi con sincerità chi ipocritamente – un vero e proprio eroe nazionale. La signora Borsellino, in questa intervista, seppure in modo molto sobrio ed educato, ha rivolto domande un po’ imbarazzanti a diversi magistrati siciliani a proposito del depistaggio delle indagini sull’uccisione di suo padre e dei motivi di questa uccisione e poi di quel depistaggio. Ha nominato solo alcuni magistrati ( tra i quali Annamaria Palma e Nino Di Matteo) ma ne ha chiamati in causa altri, e i nomi di diversi di loro sono evidenti. Per esempio Guido Lo Forte, per esempio Roberto Scarpinato. Come mai – mi chiedo – nessuno di loro ha preso la parola per difendersi o chiarire? Possibile che pur essendo magistrati che hanno una fortissima consuetudine con giornali e Tv ( che assai spesso frequentano) non si sentano in dovere di spiegare alcune circostanze di grandissima importanza nella storia d’Italia? Se non altro per fugare i dubbi sulla loro professionalità. Riassumo i fatti in tre capitoli.

Capitolo uno. Dopo l’uccisione di Borsellino furono avviate le indagini, subito indirizzate dalle dichiarazioni di un pentito, un certo Scarantino, pochissimo credibile ma credutissimo. Sulla base di queste dichiarazioni del pentito si svolse un processo che si concluse con diversi ergastoli. Alle persone sbagliate. Le dichiarazioni di Scarantino erano un depistaggio. Quando ci si accorse del depistaggio, probabilmente, era troppo tardi. Oggi non sappiamo chi ha ucciso Borsellino. Sappiamo – e lo abbiamo letto in una sentenza – che non è plausibile che Scarantino abbia agito da solo. E’ stato indotto a mentire. Da chi? Da qualcuno degli investigatori che lavorano sul caso. Molto probabilmente dal questore Arnaldo La Barbera, ma la figlia di Borsellino si chiede: possibile che La Barbera decidesse tutto da solo? E avanza l’ipotesi che dietro il depistaggio ci sia anche qualche magistrato.

Capitolo due. Alla domanda di Damiano Aliprandi sul dossier “mafia e appalti” e sulla possibilità che in quel dossier si possa trovare qualche risposta sulle stragi di mafia del 92, Fiammetta Borsellino risponde testualmente: «Sono con- vinta che nel dossier mafia- appalti ci siano le risposte, e non capisco perché sia stata chiusa l’indagine. Capisco però che ci sono persone che allora dovevano assumersi lo stesso impegno che si erano assunti mio padre e Falcone e tanti altri, per cercare la verità, e invece questa verità l’hanno occultata, archiviando l’indagine. L’unico mio sapere è questo… Noi siamo stati ingannati dalle persone amiche o che si professano tali, colleghi e quant’altro».

Capitolo tre. Fiammetta Borsellino spiega che molti ex colleghi di suo padre – e fa i nomi di Di Matteo e della Palma – continuarono a frequentare casa Borsellino finché non si è saputo del depistaggio. Poi sono scomparsi senza dare alcuna spiegazione. Conclusi questi tre capitoli, forniamo qualche informazione, per capire chi sono le persone coinvolte nella polemica. Il dossier “mafia e appalti” era nelle mani di Falcone. Quando Falcone andò a Roma chiese che fosse affidato a Borsellino. Ma così non fu per molti mesi. Poi il 19 luglio del 92, alle 7 di mattina, il Procuratore Giammanco telefonò a Borsellino e gli disse che gli avrebbe assegnato il dossier. Poche ore dopo però Borsellino fu ucciso. Più tardi si è saputo che i Pm che avevano in mano il dossier Roberto Scarpinato e Guido Lo Forte – pochi giorni prima dell’uccisione di Borsellino avevano chiesto l’archiviazione. Che fu firmata dal procuratore Giammanco con qualche urgenza qualche settimana dopo: il 14 agosto. Quanto al Pm Di Matteo, c’è solo da sapere che partecipò alle indagini sul delitto Borsellino. Era molto giovane. Come altri, credette al pentito Scarantino e continuò a credergli anche dopo la ritrattazione. Ora vi ho dato tutte le informazioni necessarie. A questo punto mi limito a chiedere a Scarpinato – che oggi è procuratore generale di Palermo – e a Lo Forte: ci spiegate, per favore, cosa è successo, e cosa c’era scritto nel dossier considerato molto attendibile da Falcone, e perché lo avete archiviato? E a Di Matteo vorrei chiedere invece perché non ha dato a Fiammetta Borsellino delle spiegazioni sul suo errore. E perché non ha indagato poi sull’archiviazione del dossier, e anche se non teme che il processo sulla trattativa stato- mafia sia un errore simile a quello sul processo a Scarantino, e cioè un nuovo depistaggio di qualcuno che non vuole che si mettano le mani su quel dossier? ( È una pura congettura, naturalmente, anche se piuttosto logica: più o meno come sono congetture quelle che hanno portato alle condanne al processo stato mafia). di Piero Sansonetti MARTEDÌ 9 OTTOBRE 2018 IL DUBBIO


Fiammetta Borsellino: «La mafia uccise mio padre. Lo Stato ha depistato e insabbiato i dossier» Fiammetta Borsellino in questa intervista denuncia i depistaggi che hanno impedito di scoprire chi e perché ha ucciso suo padre  Fiammetta Borsellino, la figlia del giudice ucciso in Via D’Amelio, racconta a Il Dubbio il suo stupore di fronte al fatto che nessuno si sia accorto di quello che succedeva sotto i propri occhi, e cioè uno dei più “grandi depistaggi della storia giudiziaria italiana”, così come è stato definito dalle motivazioni della sentenza del Borsellino Quater. Fiammetta non si capacita soprattutto dei magistrati di allora che non solo credettero all’auto- accusa indotta di Vincenzo Scarantino, ma in seguito non presero atto della sua ritrattazione.

In questi anni la figlia di Paolo Borsellino, assieme alla sua famiglia, ha lottato per la verità, non perdendo mai la lucidità, anche se il dolore per la perdita di un padre, ucciso barbaramente assieme alla sua scorta, è sempre più logorante con il passar del tempo. Il dolore aumenta soprattutto quando ci si accorge che alcuni ex colleghi del padre tradirono la sua fiducia.

Però c’è una Procura, quella di Caltanissetta, che vuole andare fino in fondo. Non a caso, dopo la sentenza del Borsellino Quater, la Procura nissena ha rinviato a giudizio i tre poliziotti che avrebbero avuto un ruolo per il depistaggio. Tutti accusati di concorso in calunnia. I tre facevano parte del gruppo “Falcone-Borsellino”, creato dopo le stragi per fare luce su quanto accaduto nel 1992. Per l’accusa, i tre poliziotti avrebbero agito con l’aggravante di avere agevolato Cosa nostra. Il 5 novembre ci sarà la prima udienza preliminare. Fiammetta Borsellino si augura che sia una occasione per non limitarsi solo a stabilire le responsabilità di loro tre, ma per capire chi c’era dietro. Magari anche attraverso le testimonianze dei magistrati di allora. Quelli che sarebbero stati fatti “fessi” da La Barbera, il funzionario di polizia che coordinò le indagini sull’attentato, poi morto di tumore nel 2002.

Parliamo della sentenza Borsellino quater, dove dalle motivazioni emerge il depistaggio ( e non vengono salvati neppure gli inquirenti), tant’è vero che giudica le incongruenze, le oscillazioni e le ritrattazioni delle dichiarazioni di Scarantino, come elementi tutti che avrebbero dovuto consigliare un atteggiamento di particolare cautela. Si attendevano le motivazioni della sentenza, ma già il dibattimento aveva reso chiaro che Scarantino è stato indotto alla calunnia da coloro che lo gestivano. Oggi, il rinvio a giudizio dei tre investigatori, che parteciparono alle indagini sotto la direzione di La Barbera, non è che la naturale conseguenza di quello che era emerso durante il processo Borsellino quater. Ora in questo momento mi faccio solo una domanda: come questi investigatori, mandati a giudizio, possono aver fatto tutto da soli? Non finirò mai di farmi questa domanda. Anche il Csm, se da un lato ha fatto le audizioni, dall’altro ha messo le mani avanti, dicendo che non ha poteri. Mi sono chiesta se si potesse dare inizio ad un’audizione dicendo “scusate” al magistrato che si sta per sentire. Mi chiedo: chi ha potere per stanare certe verità?

Che cosa si aspetta da questo processo che partirà nei confronti dei tre investigatori? Mi aspetto che le persone chiamate a giudizio non dicano i soliti “non ricordo”. Ma non solo: io mi auguro che tra i testimoni che verranno citati ci siano anche i magistrati, e che in veste di testimoni diano dei chiarimenti esaustivi. Diversamente, ci dovremo rassegnare a non avere più una risposta alle domande sull’attentato che uccise mio padre.

Ma questo è un processo contro i tre poliziotti, e peraltro il loro superiore è morto. Sì, ma non è una scusante la circostanza di essere dei poliziotti e di aver eseguito solo degli ordini. Il problema è anche un altro: hanno fatto passare 27 anni, era prevedibile il rischio che certe persone potessero morire con tutti i loro segreti. In più, è vero anche che La Barbera era un dirigente del gruppo “Falcone- Borsellino”, ma a questi livelli non si può tacere che le persone del suo ruolo agiscano sotto l’impulso di vertici superiori, anche di magistrati. Mi auguro, da figlia e da cittadina, che non si rinunci a intraprendere questo percorso verso la verità: non so dove ci porterà, ma che sia la strada della giustizia. Non si può tacere che c’è un punto di rottura tra la famiglia e le istituzioni, non tutte naturalmente: se da un lato si è arrivati a intraprendere certi percorsi verso la verità grazie ad una Procura che sta lavorando in questa direzione, e nella quale noi riponiamo fiducia, è anche vero che questa stessa Procura non può fare tutto da sola: ha bisogno della collaborazione delle persone che saranno chiamate in causa.

Nelle motivazioni del Borsellino quater si cerca di affrontare non solo il discorso del depistaggio, ma anche la causa dell’attentato di Capaci richiamandosi all’indagine “mafia- appalti”, di cui recentemente noi de Il Dubbio ci siamo occupati molto. Sono convinta che nel dossier “mafia- appalti” ci siano le risposte: e non capisco perché sia stata chiusa l’indagine. Capisco però che ci sono persone che allora dovevano assumersi lo stesso impegno che si erano assunti mio padre, Falcone e tanti altri, per cercare la verità e invece questa verità l’hanno occultata, archiviando l’indagine. L’unico mio sapere è questo. Avrebbero dovuto fare qualcosa fin da subito, invece noi siamo stati ingannati dalle persone amiche o che si professavano tali, colleghi e quant’altro, che per lunghi anni – cosa che abbiamo capito dopo – ci hanno tenuti a bada e mai ci hanno informato di nulla. Siamo stati traditi a tutti i livelli, dai magistrati agli avvocati, in un momento in cui non potevamo fare nulla, perché a distanza di anni nulla si può fare se non sopravvivere a qualcosa di inimmaginabile. Mi domando, cosa avremmo potuto fare noi: forse i controllori dell’operato dei colleghi di mio padre, amici che entravano e uscivano da casa nostra? Del resto, anche oggi nessuno di loro Annamaria Palma o Nino Di Matteo sono gli unici che oggi posso citare – ha pensato di avvicinarsi a noi per darci delle spiegazioni.

Lei si è data molto da fare. È riuscita anche ad andare a trovare i fratelli Graviano che sono al 41 bis da anni. Ha avuto modo di parlare con loro? Che sensazione ha avuto? Ho avuto molti incontri che sono durati ore, ma devo dire con sincerità che non possono essere qui sintetizzati in poche parole, perché sono di una vastità enorme. Posso dire che queste sono situazioni che in pochi capiscono; solo chi ha fatto percorsi di questo tipo può intenderne a pieno il significato. Sono entrata in carcere grazie ai pareri delle Procure competenti, che erano almeno quattro perché i Graviano avevano processi pendenti. Io andavo a fare loro visita per capire, non certo per fare indagini. Né ci poteva essere pericolo di una specie di depistaggio, come invece fu detto dalle Procure che ad un certo punto, senza motivo, mi vietarono di proseguire gli incontri. Questa mia scelta non l’hanno capita. Probabilmente fa più paura agli altri che a me, perché per me invece è una sconfitta averli interrotti. Alla luce di questo vuoto che c’è attorno a questa storia dell’attentato, pensare che le persone che probabilmente sanno, siano state confinate in un regime così tremendo, è per me una sconfitta. Sono cosciente che hanno dato pure l’alibi a queste persone per non parlare, del resto nemmeno loro sanno con chi parlare: con il depistatore, con i magistrati di Caltanissetta dell’epoca, con chi? In più c’è da dire che l’informazione non dà risalto alle Procure che si stanno occupando di indagare sulla verità, dando invece accondiscendenza a un circuito mediatico che mette in evi- denza altro. L’esito dei processi è stato emblematico: l’orrore stava a monte, già nell’individuazione del pool: cosa hanno dedicato a mio padre? Tinebra, notoriamente vicino alla massoneria; Palma, una che è andata a fare il Capo di Gabinetto del signor Pisani; Carmelo Petralia che nel Borsellino Quater ha dichiarato di non essersi mai occupato di mafia prima di allora, come scusante; e infine Di Matteo, che all’epoca era alle prime armi, e che ha negato di aver partecipato alle indagini, pur avendo condotto almeno 5 interrogatori. Mi chiedo: erano tutti nelle mani di Scarantino, fatti fessi da La Barbera, ignari e inconsapevoli? di Damiano Aliprandi   VENERDÌ 5 OTTOBRE 2018 IL DUBBIO


28.9.2018 – “Via D’Amelio, depistaggio di Stato per favorire i boss”. Processo per i tre poliziotti che costruirono il falso pentito  Il gip dispone il rinvio a giudizio. Fiammetta Borsellino: “Il silenzio degli uomini delle istituzioni peggio dell’omertà dei mafiosi” Non fu per ansia di trovare un colpevole che il superpoliziotto Arnaldo La Barbera e i suoi collaboratori costruirono il falso pentito Scarantino. Il depistaggio delle indagini sulla strage Borsellino fu architettato per favorire una parte di Cosa nostra. Un depistaggio di Stato. Si farà presto un processo, sul banco degli imputati gli ispettori Fabrizio Mattei, Michele Ribaudo e il funzionario Mario Bo, accusati di concorso in calunnia. Così ha deciso il giudice delle indagini preliminari di Caltanissetta Graziella Luparello, che ha disposto il rinvio a giudizio per i tre componenti del gruppo d’inchiesta della polizia incaricati di fare luce sulle stragi del 1992, avrebbero invece costruito un castello di menzogne che ha tenuto lontana la verità per tanti, troppi anni. A Scarantino venivano passati anche degli appunti prima delle audizioni in aula, appunti oggi agli atti.

 Il processo che inizierà il 5 novembre è senza precedenti. Un pezzo dello Stato alla sbarra mentre un gruppo di mafiosi è parte civile, paradosso di una Sicilia ancora senza verità. Ma questo è accaduto. Sei mafiosi accusati ingiustamente della strage Borsellino sono rimasti in carcere più del dovuto, e adesso sono “parte offesa” del reato di calunnia commesso dai poliziotti. Gaetano Scotto (attualmente indagato per l’omicidio dell’agente Nino Agostino e di sua moglie) Cosimo Vernengo, Giuseppe La Mattina, Natale Gambino, Giuseppe Urso e Gaetano Murana chiedono 50 milioni di euro di risarcimento al ministero dell’Interno e alla presidenza del consiglio dei ministri, in questo processo chiamati in causa come “responsabile civile”. 

Un pezzo di Stato sul banco degli imputati, per non aver cercato la verità. Anzi, di più – questa è l’accusa del procuratore di Caltanissetta Amedeo Bertone e del sostituto Stefano Luciani oggi in aula – per aver protetto i veri assassini di Paolo Borsellino. Si preannuncia un processo pieno di colpi di scena, mentre gli imputati respongono ogni accusa. “Seguiremo tutti i passaggi di questa vicenda – dice Fiammetta Borsellino uscendo dall’aula dove anche lei è parte civile con i suoi fratelli – La ricerca della verità non può fermarsi. Il silenzio degli imputati su quanto accaduto è davvero sconvolgente: il silenzio di questi poliziotti è peggio dell’omertà dei mafiosi”. In aula, ci sono Mattei e Ribaudo, con il loro avvocato, Giuseppe Seminara.  “Dite la verità, fatelo per i vostri figli, per la vostra famiglia, per i colleghi morti”, è l’appello agli imputati lanciato dall’avvocato Giuseppe Scozzola, legale dei mafiosi parte civile assieme ai colleghi Rosalba Di Gregorio, Giuseppe Dacquì e Ornella Butera. Fiammetta Borsellino commenta ancora: “Perché tanta omertà? E dov’erano i magistrati quando i poliziotti istruivano Scarantino?”

Ombre sui servi segreti Misteri su misteri. Perché le parole suggerite al falso pentito Scarantino non erano del tutto false. Ad esempio, è vero che l’autobomba di via D’Amelio era una Fiat 126 modificata in un dato modo. Solo che a rubarla non era stato Scarantino, ma il boss Gaspare Spatuzza, come lui stesso ha confessato nel 2008. E, allora, la domanda cruciale, visto che i poliziotti non erano veggenti: chi suggerì ai suggeritori? Un indizio l’hanno indicato i giudici dell’ultimo processo per la strage Borsellino. Il superpoliziotto Arnaldo La Barbera era anche uomo del Sisde, il servizio segreto civile, come svelato di recente dai nuovi vertici dell’Intelligence ai magistrati di Caltanissetta. Nome in codice “Rutilius”, il nome di un militare. Quale missione doveva compiere Arnaldo La Barbera? Quale verità si doveva nascondere in via D’Amelio? “Il depistaggio e la sparizione dell’agenda rossa del magistrato sono un unico mistero”, hanno scritto anche questo i giudici del Borsellino quater.  In udienza, il Comune di Palermo e i figli di Rita Borsellino avevano chiesto di costituirsi parte civile contro i poliziotti, ma il giudice ha ritenuto “tardive” le istanze, che potranno comunque essere ribadite alla prima udienza del processo. 28 SETTEMBRE 2018 la repubblica salvo palazzolo


Via d’Amelio e la strage di Stato. Fiammetta Borsellino: ”Perché?”

Un pò di chiarezza sul ruolo del pm Di Matteo nella ricerca della verità
di Giorgio Bongiovanni
Quasi ventisei anni sono passati dalla strage di via d’Amelio. Dopo quattro processi, svariate sentenze, indagini archiviate ed altre riaperte, quel che appare evidente è che la verità completa sull’attentato del 19 luglio 1992, in cui persero la vita il giudice Paolo Borsellino e gli agenti di scorta Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Emanuela Loi, Claudio Traina e Vincenzo Li Muli, ancora non è stata rivelata. Basti pensare che non si conosce ancora il nome del soggetto che alle 16.58 premette il pulsante che fece scoppiare la Fiat 126. Ventisei anni dopo, al netto di una verità negata, è lecito provare rabbia ed avere sete di giustizia. Ne ha tanta Fiammetta Borsellino ed ha ragione a chiedere, assieme alla sua famiglia, che sia fatta piena luce su quella che legittimamente può essere definita come una strage di Stato.
Il suo intervento in un incontro con gli studenti nella seconda giornata di “Una Marina di libri”, a Palermo, intervistata dai giornalisti Piero Melati e Salvatore Cusimano, è accorato.
Ha raccontato il “senso di solitudine” avvertito dai familiari e ha denunciato il “silenzio istituzionale” negli anni successivi all’attentato. Quindi ha ricordato quel che avvenne nei 57 giorni che passarono tra la strage di Capaci e quella di via D’Amelio citando anche le parole del padre. “Mafia e politica o si fanno la guerra o si mettono d’accordo. In quei giorni – ha detto Fiammetta –evidentemente si misero d’accordo mentre tutti sussurravano a mio padre che il tritolo per lui era già arrivato. Lo sapeva anche il procuratore Pietro Giammanco che però non lo avvertì. E nessuno ha mai sentito il bisogno di sentirlo”.
Tanti gli interrogativi di cui si cercano ancora le risposte. “Perché ci sono state gravi anomalie nei processi per la strage di via d’Amelio? Perché la ricerca della verità è stata disattesa? Perché i primi magistrati che si occuparono del caso, la signora Palma, i signori Petralia e Tinebra, non verbalizzarono il sopralluogo con il falso pentito Scarantino nel garage dove si diceva che sarebbe avvenuto il furto dell’autobomba? Perché il magistrato Giuseppe Ayala ha fornito tante versioni sul maneggiamento della borsa di mio padre, considerato che fu il primo ad arrivare in via d’Amelio?”.
Domande assolutamente legittime e che anche noi condividiamo, ritenendo più che mai necessario far luce sul depistaggio che è stato messo in atto con le prime indagini.
Nel porre i suoi interrogativi la figlia di Borsellino è anche tornata sulla vicenda del confronto tra i collaboratori di giustizia, Cancemi e Di Matteo, con il falso pentito Vincenzo Scarantino. “Perché i magistrati Palma, Giordano, Petralia e Di Matteo non depositarono al processo i verbali dei confronti?”. In realtà questa vicenda è stata abbondantemente chiarita in più occasioni. Come è noto il deposito posticipato di quegli atti al processo “Borsellino bis” era costata una denuncia da parte dei tre legali nei confronti dei pm Annamaria Palma, Carmelo Petralia e Nino Di Matteo per “comportamento omissivo”. A loro volta i magistrati avevano denunciato per calunnia i tre avvocati. Il 25 febbraio 1998 il Gip di Catania aveva definitivamente archiviato l’inchiesta sui sostituti procuratori di Caltanissetta in quanto priva di alcun “comportamento omissivo”. Inoltre, il 14 ottobre ’97, al Borsellino Bis, proprio il pm chiese l’acquisizione del verbale di confronto tra Cancemi e Scarantino alla stessa udienza in cui era chiamato Cancemi. Di questi episodi lo stesso pm Nino Di Matteo ha riferito sia di fronte alla Commissione parlamentare antimafiache al processo Borsellino quater.
Di Matteo, oggi sostituto procuratore nazionale antimafia, si occupò solo marginalmente delle indagini poi scaturite nel cosiddetto “Borsellino bis”, dove entrò a dibattimento già avviato, mentre istruì completamente il cosiddetto “Borsellino ter”, il troncone dedicato all’accertamento delle responsabilità interne ed esterne a Cosa Nostra.
Un processo che ha portato alla definitiva condanna di boss del calibro di Giuseppe Calò, Raffaele Ganci, Michelangelo La Barbera, Cristoforo Cannella, Filippo Graviano, Domenico Ganci, Salvatore Biondo (classe ’55) e Salvatore Biondo (classe ’56). Nella sentenza di primo grado la corte scriveva: “Risulta quanto meno provato che la morte di Paolo Borsellino non era stata voluta solo per finalità di vendetta e di cautela preventiva, bensì anche per esercitare” una “forte pressione sulla compagine governativa che aveva attuato una linea politica di contrasto alla mafia più intensa che in passato ed indurre coloro che si fossero mostrati disponibili tra i possibili referenti a farsi avanti per trattare un mutamento di quella linea politica”. Ricostruzioni basate sui pentiti Pulvirenti, Malvagna, Avola e, non da ultimo, Cancemi, il quale, si legge nella sentenza di primo grado, ha dichiarato come “Riina era solito ripetere che con quelle azioni criminose avrebbero messo in ginocchio lo Stato e mostrato la loro maggiore forza. E proprio per agevolare la creazione di nuovi contatti politici occorreva eliminare chi come Borsellino avrebbe scoraggiato qualsiasi tentativo di approccio con Cosa nostra e di arretramento nell’attività di contrasto alla mafia”. Cancemi disse anche che Riina era stato “accompagnato per la manina” nell’organizzazione di quelle stragi.
Ciò che viene accertato anche nelle sentenze definitive è che c’è stata un’accelerazione anomala dell’esecuzione della strage di via d’Amelio.
Ed è proprio la ricerca dei mandanti esterni per le stragi del 1992 ad aver impegnato il pm Nino Di Matteo, assieme al collega Luca Tescaroli, negli anni successivi. Basta ricordare le indagini sulla presenza di Bruno Contradaper concorso in strage o quelle su “Alfa e Beta” (ovvero Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri). E in quelle attività furono in qualche maniera ostacolati e stoppati. Parlano le inchieste e le carte processuali.
Alla luce di questi fatti è evidente la differenza tra chi ha cercato di ricostruire la verità su quegli anni e chi, diversamente, anche semplicemente facendo finta di non vedere, si è adeguato al silenzio di Stato.
Quel silenzio che la stessa Fiammetta Borsellino ha denunciato ieri: “Non si può delegare la ricerca della verità solo ai magistrati (…) Questo è un paese che ha avuto molto da nascondere, soprattutto a se stesso (…) Il contributo di onestà devono darlo non solo i mafiosi, ma anche le persone delle istituzioni che sanno”. E poi ancora: “Le procure vogliono andare a fondo. C’è stato anche il processo per la Trattativa, un momento importante che però arriva dopo 25 anni. Non mi piace fare il tifo da stadio ma certe persone andavano cercate molto prima”.
Certo è che la sentenza dello scorso 20 aprile segna un momento storico. Ed è da qui che si deve ripartire per continuare a chiedere la verità, per proseguire la ricerca di quei mandanti dal volto coperto che hanno voluto e permesso stragi e depistaggio. E’ necessario l’impegno di tutti, ricordando i fatti, senza pregiudizi, e dicendo, con chiarezza, come stanno le cose.


28.9.2018 Paolo Borsellino, a giudizio per calunnia aggravata tre poliziotti. Pm: “Depistarono le indagini su strage via D’Amelio” Il giudice per l’udienza preliminare Graziella Luparello ha rinviato a giudizio gli imputati; la prima udienza sarò il 5 novembre. “La verità si saprà soltanto se chi sa parlerà e uscirà dall’omertà” dice Fiammetta Borsellino che insieme ai suoi due fratelli si sono costituiti parte civile

Calunnia aggravata. Vanno a processo per questo reato i poliziotti Fabrizio Mattei, Mario Bo, e Michele Ribaudo, accusati del depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio in cui persero la vita il giudice Paolo Borsellino e i cinque agenti della sua scorta, Agostino CatalanoEmanuela LoiVincenzo Li MuliWalter Eddie Cosina e Claudio Traina. Il giudice per l’udienza preliminare Graziella Luparello ha rinviato a giudizio gli imputati; la prima udienza sarò il 5 novembre. “La verità si saprà soltanto se chi sa parlerà e uscirà dall’omertà” dice Fiammetta Borsellino che insieme ai suoi due fratelli si sono costituiti parte civile.  “Le tesi investigative proposte sono state accettate da schiere di magistrati, sia giudicanti che inquirenti. Questi ultimi, peraltro, avendo il coordinamento delle indagini, avrebbero dovuto coordinare e controllare il lavoro delle forze dell’ordine. Non si capisce come mai non si siano accorti di nulla” riferendosi ai magistrati che presero per buona la ricostruzione dell’eccidio poi rivelatasi falsa e costata la condanna di sette innocenti. Il giudice ha respinto la richiesta di costituzione di parte civile dei nipoti del giudice del comune di Palermo perché considerata tardiva. Alla scorsa udienza si sono costituiti parte civile i figli del giudice Borsellino e della sorella del magistrato, deceduta, Adele, e cinque degli accusati ingiustamente dai falsi pentiti e il fratello del magistrato.I   loro legali hanno citato in giudizio come responsabile civile la presidenza del consiglio dei ministri e il ministero dell’Interno.

L’indagine, per pm confezionata una verità di comodo  L’indagine era stata chiusa l’8 marzo scorso. Per l’accusa i poliziotti – Bo era stato già indagato e archiviato – avrebbero confezionato una verità di comodo sulla fase preparatoria dell’attentato e costretto il falso pentito Vincenzo Scarantino a fare nomi e cognomi di persone innocenti. Un piano dal movente non definito, con un regista ormai morto: l‘ex capo della task force investigativa Arnaldo La Barbera, comprimari come Bo e “esecutori” come Ribaudo e Mattei. Un piano costato la condanna all’ergastolo a sette innocenti scagionati, una volta smascherate le menzogne, dal processo di revisione che si è celebrato e consluo a Catania il 13 luglio 2017.  La svolta nell’inchiesta della Procura di Caltanissetta, che dopo anni di inchieste e grazie alle rivelazioni del pentito Gaspare Spatuzza, è riuscita ad individuare i veri artefici della fase preparatoria della strage, era arrivata a ridosso dal deposito della sentenza emessa nel corso dell’ultimo processo per l’eccidio di Via D’Amelio e le cui motivazioni sono state depositate il 1 luglio scorso. 

Nel provvedimento di chiusura indagine, sette pagine, la procura nissena aveva ricostruito il presunto ruolo di Bo, Mattei e Ribaudo nel depistaggio. Bo, prima che Scarantino mostrasse la volontà di collaborare con la giustizia, seguita poi da mille ritrattazioni, gli avrebbe suggerito, anche mostrando le foto dei personaggi da accusare, cosa riferire all’autorità giudiziaria. E avrebbe fatto pressioni imbeccando Scarantino in modo che riconoscesse alcuni indagati, istruendolo sulla verità da fornire e facendogli superare le contraddizioni con le  versioni rese da altri due pentiti: Salvatore Candura e Francesco Andriotta. Un piano che, nonostante la palese inattendibilità di  Scarantino protagonista di mille ritrattazioni anche in sedi giudiziarie, aveva retto fino alla Cassazione e aveva  portato alla condanna ingiusta al carcere a vita di Salvatore Profeta, Gaetano Scotto, Cosimo Vernengo, Natale Gambino, Giuseppe La Mattina, Gaetano Murana  e Giuseppe Urso. Poi tutti scagionati. A Mattei e Ribaudo che curavano la sicurezza di Scarantino dopo il falso pentimento i pm contestano di averlo imbeccato “studiando” insieme a lui le dichiarazioni che avrebbe dovuto rendere nel primo dei processi sulla strage per evitargli incongruenze e di averlo indotto a non ritrattare le menzogne già affermate. Bo avrebbe “diretto” le operazioni  di condizionamento del pentito.

La corte d’Assise di Caltanissetta, presieduta da Antonio Balsamo, condannò all’ergastolo i boss Salvo Madonia e Vittorio Tutino, imputati di strage e a 10 anni i “falsi pentiti” Francesco Andriotta e Calogero Pulci, accusati di calunnia. I giudici dichiararono estinto per prescrizione il reato contestato a Vincenzo Scarantino pure lui imputato di calunnia. Resta ancora oscuro, pero’, almeno in questa fase il movente del depistaggio. I pm sostennero di non avere elementi idonei per sostenere il giudizio a carico di Bo e di due altri funzionari Salvo La Barbera e Vincenzo Ricciardi e il caso venne chiuso. Dopo l’archiviazione le indagini, però, sono ripartite e si sono arricchite di nuove dichiarazioni di Scarantino e della moglie. Entrambi hanno raccontato le pressioni e le violenze subite dal falso pentito da parte dei poliziotti che pretendevano confermasse le loro versioni. Nel nuovo fascicolo è finita anche parte dell’attività istruttoria svolta nel corso dell’ultimo processo per la strage in cui Bo venne sentito come teste non potendosi più avvalere, dopo la archiviazione della sua posizione, della facoltà di non rispondere.

I giudici: “Uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana”  Nelle motivazioni della sentenza di assoluzione degli innocenti condannati i giudici della corte d’Assise avevano scritto che quello sulla strage di via d’Amelio è stato “uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana”. “È lecito interrogarsi sulle finalità realmente perseguite dai soggetti, inseriti negli apparati dello Stato, che si resero protagonisti di tale disegno criminoso, con specifico riferimento ad alcuni elementi”, scrive la corte quando parla di “soggetti inseriti nei suoi apparati” che indussero Vincenzo Scarantino a rendere false dichiarazioni. Gli uomini dello Stato chiamati in causa sono alcuni investigatori del gruppo Falcone e Borsellino guidati dall’allora capo della squadra mobile di Palermo Arnaldo La Barbera: dovevano scoprire i responsabili delle bombe, invece costruirono a tavolino alcuni falsi pentiti.

Ma quali erano le finalità di uno dei più clamoroso depistaggi della storia giudiziaria del Paese? si erano chiesti  giudici. La corte tenta di avanzare delle ipotesi: come la copertura della presenza di fonti rimaste occulte, “che viene evidenziata – scrivono i magistrati – dalla trasmissione ai finti collaboratori di giustizia di informazioni estranee al loro patrimonio conoscitivo ed in seguito rivelatesi oggettivamente rispondenti alla realtà”, e, sospetto ancor più inquietante, “l’occultamento della responsabilità di altri soggetti per la strage, nel quadro di una convergenza di interessi tra Cosa Nostra e altri centri di potere che percepivano come un pericolo l’opera del magistrato”. I magistrati avevabo dedicato, poi, parte della motivazione all’agenda rossa del giudice Paolo Borsellino, il diario che il magistrato custodiva nella borsa, sparito dal luogo dell’attentato. La Barbera, secondo la corte, ebbe un “ruolo fondamentale nella costruzione delle false collaborazioni con la giustizia ed è stato altresì intensamente coinvolto nella sparizione dell’agenda rossa, come è evidenziato dalla sua reazione, connotata da una inaudita aggressività, nei confronti di Lucia Borsellino, impegnata in una coraggiosa opera di ricerca della verità sulla morte del padre”. FATTO QUOTIDIANO


28.12.2018 Via D’Amelio, tre agenti a processo per depistaggio inchiesta. La figlia di Borsellino: «Chi sa parli» I poliziotti, che facevano parte del pool investigativo che indagò sulle stragi mafiose del ‘92 sono accusati di calunnia aggravata: avrebbero costruito a tavolino «falsi pentiti»

Il gip di Caltanissetta Graziella Luparello ha rinviato a giudizio per calunnia aggravata i poliziotti Fabrizio Mattei, Mario Bo, e Michele Ribaudo, accusati del depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio in cui persero la vita il giudice Paolo Borsellino e i cinque agenti della sua scorta.

I «falsi» pentiti

I tre poliziotti facevano parte del pool investigativo che indagò sulle stragi mafiose del ‘92 di via D’Amelio e di Capaci. Il pool era coordinato da Arnaldo La Barbera (morto nel 2002). Gli investigatori, secondo l’accusa, avrebbero costruito a tavolino «falsi pentiti» come Vincenzo Scarantino e, anche con minacce, li avrebbero indotti a mentire e a incolpare dell’eccidio persone innocenti. Da qui l’accusa per tutti e tre di calunnia in concorso coi finiti collaboratori di giustizia ai danni di chi venne tirato in ballo ingiustamente nell’indagine. In sette vennero condannati all’ergastolo sulla base delle dichiarazioni dei pentiti creati a tavolino dal pool di inquirenti. Solo le nuove indagini aperte dalla Procura di Caltanissetta grazie alla collaborazione del boss Gaspare Spatuzza hanno consentito di riscrivere il capitolo della fase esecutiva dell’attentato inquinato dalle false ricostruzioni. I sette condannati sono stati assolti nel giudizio di revisione e oggi, come parti offese della calunnia, sono parte civile nel procedimento ai tre investigatori. Ai poliziotti la Procura di Caltanissetta – le indagini sono state coordinate dal pm Stefano Luciani – ha contestato anche l?aggravante dell’avere favorito Cosa nostra. Il depistaggio dell’inchiesta avrebbe di fatto consentito a esponenti mafiosi realmente implicati nell’attentato di restare fuori dall’indagine e avrebbe rafforzato l’intera organizzazione criminale. Il gip ha fissato la data del processo ai tre poliziotti che si troveranno davanti al tribunale il 5 novembre.

La figlia di Borsellino: «La verità solo se chi sa parlerà»

«La verità si saprà soltanto se chi sa parlerà e uscirà dall’omertà», ha commentato Fiammetta Borsellino, figlia del magistrato ucciso. Lei e i suoi due fratelli si sono costituiti parte civile nell’udienza preliminare appena conclusa. «Le tesi investigative proposte sono state accettate da schiere di magistrati, sia giudicanti che inquirenti. Questi ultimi, peraltro, avendo il coordinamento delle indagini, avrebbero dovuto coordinare e controllare il lavoro delle forze dell’ordine. Non si capisce come mai non si siano accorti di nulla», ha poi aggiunto Fiammetta Borsellino, riferendosi ai magistrati che presero per buona la ricostruzione dell’eccidiio poi rivelatasi falsa e costata la condanna di sette innocenti.


27.12.2018 – L’ex giudice Morici: Le domande di Fiammetta Borsellino ancora senza risposte LA STRAGE E I DEPISTAGGI Importante, chiarissimo il pensiero del Presidente della Repubblica nel giorno del 26esimo anniversario della strage di via D’Amelio.Onorare la memoria del giudice Borsellino e delle persone che lo scortavano significa anche non smettere di cercare la veritá su quella strage.

Il 18 luglio del 2018 Adnkronos, richiamando la lettera pubblicata su Repubblica, riportava le 13 domande che Fiammetta Borsellino, con semplicità e fermezza, poneva a tutti. Ad alcuni in particolare, chiamati in causa a ragione di loro conoscenze e/o competenze specifiche.

Mi ritengo di parte perché ho avuto modo di conoscere Paolo e so anche cosa significa condividere rischi con le colleghe, i colleghi, le collaboratrici i collaboratori, le donne e gli uomini delle scorte.

Tutti quelli che negli anni 80 iniziarono a combattere le mafie con metodi di contrasto nuovi, tutti a Palermo, come a Palmi o a Trapani o a Reggio Calabria e in molti altri centri a notevole densità mafiosa, avevano messo in conto la possibilità di essere uccisi, il dolore e le difficoltà delle famiglie. Nessuno avrebbe mai potuto immaginare la sorte fin qui toccata ai caduti di via D’Amelio.

Intendo sorte “processuale”, per una una vicenda costellata di fallimenti ed ancora priva di verità giudiziaria completa. Pensavo che da subito ci potessero essere risposte alle domande di Fiammetta. Sono necessarie anche risposte pubbliche, o quantomeno assicurazioni pubbliche che le risposte saranno fornite all’autorità giudiziaria competente.

La verità giudiziaria ha bisogno del processo e la attenderemo. La verità storica appartiene alle famiglie, al paese, alla memoria di Paolo Borsellino e di Agostino Catalano, di Emanuela Loi, di Vincenzo Li Muli, di Walter Eddie Cosina e di Claudio Traina. Nessuno può tirarsi indietro.

Se è vero che vi furono depistaggi di spessore non indifferente che inquinarono il primo processo, è anche vero che rispondere alle domande poste può essere un buon punto di partenza per capire la ragione dei depistaggi. Il disimpegno nel rispondere alle domande sarà colpevole, e sarà anche colpevole il volgere la testa altrove, il considerare le domande come lo sfogo di familiari incapaci di accettare un fallimento giudiziario ed un destino di silenzio a fronte di rituali, di celebrazioni ridondanti di retorica.

Che senso ha plaudire al richiamo del Capo dello Stato alla ricerca della verità se poi non seguono comportamenti concludenti? Tutti quelli che ancora ci sono, tutti hanno il dovere di rispondere, magari per dire cose già dette e che possono essere sfuggite al dolore dei familiari, certamente per fugare perplessità e forse, e perché no, per trasformare un errore anche incolpevole e la sua spiegazione in un momento di impulso investigativo nuovo.

Per chi ha avuto un ruolo istituzionale è un imperativo morale, a maggior ragione se collega o amico di chi è caduto per tutti noi.

Per chi ha oggi un ruolo istituzionale è un dovere intervenire, rimuovendo qualsiasi ostacolo alla ricerca della verità storica.

La commissione regionale antimafia della Regione Sicilia è intervenuta. Dai primi riferimenti giornalistici si ha la conferma di un quadro complessivo inquietante. Proviamo dunque a rispondere e solo così potremo presentarci a tutti i prossimi 19 luglio senza vergogna.

Proviamo a rispondere a tutte le domande, anche se mi permetto di cambiare l’ordine o di accorparle.

La prima riguarda le misure di sicurezza adottate per proteggere Paolo, le donne e gli uomini che con lui condividevano i rischi di quei giorni. Credo che alla Prefettura di Palermo ed alla competente direzione o al competente ufficio centrale del Ministero dell’Interno debba esistere la documentazione inerente la protezione di Paolo. A questa domanda possono rispondere dunque il Prefetto di Palermo pro tempore e il Ministro per l’Interno pro tempore. E potranno essere anche ascoltati o riascoltati i colleghi dei poliziotti caduti per riferire tutto ciò che può essere utile per ricostruire quei giorni terribili.

Si può rispondere anche alla domanda su quello che può definirsi il primo accesso sui luoghi.  Dal verbale di sopralluogo dovrebbero emergere i nomi di coloro che coordinarono il primo accesso. Immagino vi fossero il Procuratore di Palermo, aggiunti, sostituti e forse ci sarà stato anche il Procuratore di Caltanissetta. E tra gli intervenuti, i cui nomi dovrebbero emergere dal verbale presente negli atti processuali, alcuni saranno ancora vivi. Rispondano dunque alla domanda.

Giuseppe Ayala potrà dare una risposta in relazione alla specificità della domanda di Fiammetta. È stato PM al processo istruito dal pool di Palermo. Ha vissuto una carriera intensa come magistrato e come politico.

Altre risposte ci aspettiamo dai componenti della Procura di Caltanissetta. Forse erano giovani e inesperti all’epoca, ma oggi sono certamente in grado di valutare, alla luce dell’esperienza acquisita, eventuali disfunzioni, errori, pressioni, sensazioni. Devono rivisitare il vissuto, ripartire da zero, individuare eventuali errori o escluderli. Il depistaggio fin qui accertato non può essere un alibi che coinvolge la nazione intera.

Il Ministero della Giustizia è dotato di un Ispettorato composto da magistrati in grado di condurre ispezioni amministrative ed inchieste, nel rispetto dell’autonomia dei giudici con riferimento alle valutazioni di merito. IL Ministro della Giustizia pro tempore potrebbe dunque promuovere un’inchiesta per ricostruire con la lettura degli atti e l’audizione dei protagonisti di allora, magistrati, investigatori, cancellieri etc., le condotte poste in essere nel corso delle investigazioni, la loro corrispondenza alle regole processuali ed eventuali condotte inadeguate.

Perchè non fu sentito Pietro Giammanco sulle circostanze indicate nella domanda specifica? Ci aspettiamo anche di sapere perché non fu convocato Paolo Borsellino che pubblicamente aveva detto di avere cose importanti da riferire. Perchè?

A questa domanda ciascuno dei componenti di allora delle Procure di Caltanissetta e di Palermo può dare una risposta. Si può pensare che Paolo volesse lanciare un messaggio generale e pubblico al quale fare seguire la sua verità processuale. E si può anche legittimamente pensare che fosse stato costretto a rendere pubblica la sua richiesta perchè quella avanzata in forma riservata non era stata accolta.

Paolo Borsellino negli anni 90 era un magistrato professionalmente preparato e forgiato alla scuola della legalità e della prova. La sua vita professionale lo testimonia. Era un magistrato maturo, consapevole che al di fuori della prova legittimamente acquisita c’è il nulla, il vuoto processuale, se si vuole l’inutile teorema. Dunque nella richiesta d’essere ascoltato c’era sicuramente la consapevolezza che solo un atto formale, una deposizione verbalizzata poteva dare concretezza processuale ai suoi pensieri.

Perché dunque non fu convocato? Possono essere date risposte alle altre domande specifiche rivolte ai magistrati che all’epoca condussero le indagini. Ma anche poliziotti, carabinieri, cancellieri che vissero quegli anni, tutti oggi devono sentire il dovere di una rivisitazione degli eventi. Importante è stato il lavoro della Commissione regionale antimafia della Regione Sicilia. In questo senso un contributo rilevante possono offrirlo anche il Presidente del Consiglio e il Ministro dell’Interno pro tempore. E’ in loro potere chiarire se ci sono o se non ci sono atti utili per nuove investigazioni negli archivi del Ministero dell’Interno o dei servizi di sicurezza e, nell’ipotesi affermativa, rimuovere eventuali ostacoli alla loro conoscenza pubblica o riservata all’autorita’ giudiziaria procedente. Offrano con sensibilità istituzionale un ulteriore passaggio importante nella ricerca della verità, nella lotta alla mafia.

Fiammetta Borsellino non è sola. I moltissimi giovani che negli anni hanno capito cosa è la mafia e cosa è la vera antimafia saranno sempre con lei. Confrontarsi con il passato è ineludibile. I ruoli istituzionali svolti e quelli in essere impongono doveri istituzionali. Non confrontarsi ha il valore della diserzione. Muovendo dalle risposte alle domande poste potremo muovere passi decisivi verso una verità che i congiunti di Agostino, Claudio, Emanuela, Vincenzo,Paolo e Walter e tutti noi attendiamo.

Nino Di Matteo, nell’audizione pubblica il 17 settembre davanti alla Commissione del C.S.M., ha ripercorso alcuni momenti del suo impegno nei vari processi, e pur rappresentando preoccupazioni per possibili strumentalizzazioni delle legittime istanze di verità, ha sostanzialmente indicato con le sue riposte e i suoi chiarimenti la strada che anche altri potranno percorrere per la ricerca della verità. Speriamo che sia pubblicata integralmente sui media la relazione della Commissione regionale antimafia della Regione Sicilia in modo che diventi patrimonio di conoscenza integrale per tutti. Credo che milioni di Italiani, soprattutto giovani, continueranno ad alimentare in modo sempre più pressante la richiesta di risposte e di verità affinché i prossimi 19 luglio possano essere giorni di resurrezione civile per il paese intero. Non credo ci si possa sottrarre. Ernesto Morici | giovedì 27 Dicembre 2018 TEMPO STRETTO


IL DUBBIO – Archivio interventi e interviste 


VIDEO e RASSEGNA STAMPA

 

 

 

FIAMMETTA BORSELLINO: RASSEGNA STAMPA in occasione di INCONTRI pubblici

 

 

 

 

11 DICEMBRE 2018 – SIRACUSA – DOPO 61 ANNI RIAPRE IL TEATRO COMUNALE 

24 NOVEMBRE 2018 – CAPO D’ORLANDO – V EDIZIONE DEL PREMIO ANTIMAFIA AL FEMMINILE “FRANCESCA SERIO” a Fiammetta Borsellino Quest’anno l’ambito riconoscimento, promosso dal Circolo Socialista Nebroideo Indipendente “Italo Carcione”, conferito a FIAMMETTA BORSELLINO.

16 NOVEMBRE 2018 – Fiammetta Borsellino: «Papà non era un eroe, ma aveva coraggio e senso dello stato»  

8 NOVEMBRE 2018 – PARMA – Memoria, Verità e Giustizia  Fiammetta Borsellino, Margherita Asta e Vincenza Rando a Parma 

FIAMMETTA BORSELLINO IN CARCERE DAI GRAVIANO ALLA RICERCA DI VERITÀ

di FIAMMETTA BORSELLINO

L’incontro in carcere con Giuseppe e Filippo Graviano è stato guidato unicamente da un lungo, complesso percorso personale e dettato da una forte e urgente esigenza emotiva. Ho sentito la necessità, in quanto figlia di un uomo che ha sacrificato la propria vita per i valori in cui ha creduto e per amore della sua terra, di dovere attraversare questo ulteriore passaggio importante per il mio percorso umano e per l’elaborazione di un faticoso lutto. Un incontro che ha assunto come unico motore la necessità di esprimere un dolore profondo inflitto non solo alla mia famiglia, ma alla società intera. La richiesta di incontro con Giuseppe e Filippo Graviano nasce dunque come fatto strettamente personale. E chiedo che tale debba rimanere.

Sono andata da Giuseppe e Filippo Graviano con l’idea che può vivere e morire con dignità non soltanto il magistrato che sacrifica la propria vita, ma anche chi pur avendo fatto del male è capace di riconoscere il grave male che ha inflitto alle famiglie e alla società, è capace di chiedere perdono e di riparare il danno. Riparare il danno per me vuol dire non passare il resto della propria vita all’interno di un carcere, ma dare un contributo concreto per la ricerca della verità. Si tratta di un contributo di onestà che gli uomini della criminalità organizzata devono dare principalmente a loro stessi, perché chi uccide, uccide la parte migliore di sé. E poi soltanto contribuendo alla ricerca della verità, i figli potranno essere orgogliosi dei padri.

Ora è importante che io possa continuare quel dialogo che è stato interrotto, con enorme dispiacere registro la mancanza di una risposta ufficiale da parte delle istituzioni preposte a fronte di una mia richiesta reiterata alcuni mesi fa.

E voglio fare un’altra considerazione. Pur nell’ambito del profondo rispetto che nutro per le istituzioni, e pur cosciente della complessità del percorso che deve portare i giudici della corte d’assise di Caltanissetta alla stesura delle motivazioni della sentenza del Borsellino Quater, da figlia ritengo che il passaggio di più di oltre un anno per il deposito del provvedimento sia un tempo troppo lungo. Anche dal deposito di quelle motivazioni dipende un ulteriore prosieguo dell’attività giudiziaria, della procura di Caltanissetta e del silente Consiglio superiore della magistratura, per far luce su ruoli e responsabilità di coloro che hanno determinato il falso pentito Scarantino alla calunnia. A causa di questo depistaggio, sono passati infruttuosamente 25 anni.

 

 

 

 Il no dei pm a Fiammetta Borsellino ad un secondo incontro: ”Dai Graviano possibili depistaggi