di Roberto Saviano
Lo scrittore sul palco dell’Ariston ricorda i giudici nel trentennale delle stragi di Capaci e Via D’Amelio: «Il coraggio è sempre una scelta»
Sono passati 30 anni dagli attentati ai giudici Falcone e Borsellino . Stasera siamo qui a ricordare, ma ricordare non è un atto passivo: la parola ricordare viene da re-cordari, rimettere nel cuore, riportare al cuore, perché per gli antichi era il cuore la sede della memoria. Ricordando Falcone e Borsellino, non stiamo semplicemente provando nostalgia: riportare al cuore significa rimetterli in vita sentendoli battere in noi, nel profondo. Molti di noi, molte delle persone che sono a casa, o qui in teatro, ancora non c’erano quando vennero uccisi. Eppure la loro storia è parte della nostra memoria collettiva, per tutti noi sono simboli di coraggio.
Di fronte alla necessità di cambiare le cose, si ha la possibilità di scegliere di prendere posizione o lasciar perdere. Ma il non scegliere non significa rimanere neutrali, finisce solo per rendere complice chi vi si rifugia.
La storia di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino è la storia di chi sceglie pur sapendo di rischiare. Sapete, a costruire il metodo investigativo utilizzato da Falcone, Borsellino e tutto il pool antimafia di Palermo, era stato il giudice Rocco Chinnici, che venne ucciso da un’autobomba sotto casa sua nel 1983. Chinnici era arrivato all’Ufficio Istruzione dopo Cesare Terranova, ammazzato nel ‘79. Terranova aveva collaborato con il procuratore capo Pietro Scaglione, ucciso nel ’71. Il giudice che si occupò del processo per l’omicidio di Chinnici, Antonino Saetta, fu ammazzato nell’88.
E ancora sono stati uccisi Gaetano Costa, Giangiacomo Ciaccio Montalto, Alberto Giacomelli, Rosario Livatino, che aveva 37 anni… Sono solo alcuni dei numerosi uomini e donne di giustizia finiti sotto i colpi delle mafie. Ogni volta che le organizzazioni criminali uccidono, contano sul fatto che dopo qualche giorno, già non se ne parlerà più. Silenzio.
Questo era sempre avvenuto prima delle stragi di Capaci e via D’Amelio, e questo la mafia pensava sarebbe accaduto anche in quelle occasioni. E ne era convinta perché Falcone e Borsellino, durante la loro carriera, avevano subìto quello che è il miglior alleato del silenzio: la delegittimazione, ossia screditare una persona ricoprendola di fango.
Oggi vengono celebrati come eroi, ma non era così quando erano in vita. Falcone e i colleghi del Pool venivano accusati di essere esibizionisti in cerca di popolarità, di spettacolarizzare il lavoro del giudice antimafia. Ecco che allora gli agenti della scorta, i giubbotti antiproiettile, le sirene delle auto non erano più visti per quello che erano, cioè essenziali strumenti per proteggerli, ma parte di una messa in scena che generava fastidio e diffidenza nelle 2 persone – colleghi, giornalisti, cittadini comuni. Di Falcone si arrivò addirittura a dire che la borsa con 58 candelotti di esplosivo rinvenuta tra gli scogli davanti a casa sua all’Addaura se l’era messa da solo per inscenare un fallito attentato e fare carriera.
Non c’erano i social, ma c’erano già gli haters, ed erano tanti. Non riuscendo ad essere all’altezza del loro coraggio, del loro talento, della loro forza, si preferiva affossarli attaccandone l’immagine. La delegittimazione non serviva ad aizzare i mafiosi contro di loro, ma serviva a creare diffidenza in chi era dalla loro parte. E la mafia questo lo sapeva e lo ha sfruttato. Il continuo fango li aveva progressivamente isolati e resi facili obiettivi. Ma il fango non è riuscito a sporcare il loro esempio.
La loro azione ha portato molte persone a capire che era possibile, tramite il diritto, fare scelte coraggiose e avere una vita diversa. Durante il Festival di Sanremo del 1992, davanti alla TV c’era anche una ragazza di 17 anni che si chiamava Rita Atria. Era di Partanna, provincia di Trapani, però non guardò il Festival da casa sua in Sicilia, ma in un appartamento di Roma di cui nessuno, nemmeno sua madre, conosceva l’indirizzo. Rita Atria era figlia di un piccolo boss di Partanna, ucciso quando lei era bambina; pochi mesi prima aveva perso anche suo fratello Nicola, che si era messo in testa di vendicare l’omicidio del padre secondo la regola mafiosa, cioè ammazzando i suoi assassini, ma era stato lui il primo a soccombere. Rita aveva compiuto una scelta diversa, coraggiosa, ancor più per una ragazza della sua età: denunciare ciò che sapeva di quella mafia che le aveva ucciso il padre e il fratello, pur sapendo di mettersi contro la sua stessa famiglia, di mettersi contro un’intera comunità. Era diventata la più giovane testimone di giustizia italiana ed era stata messa sotto protezione a Roma, insieme a sua cognata, Piera Aiello, che prima di lei aveva iniziato il percorso da testimone di giustizia e le è stata sempre accanto. Ad accompagnarle in quel percorso c’era il magistrato Paolo Borsellino: per Rita era una guida, le aveva mostrato la possibilità di una vita lontana dal mondo in cui era sempre stata la mafia a decidere come si dovesse vivere e come si dovesse morire. E per la prima volta Rita aveva capito che si poteva sentire libera di scegliere chi amare; libera di curare il proprio corpo (cosa che le era sempre stata negata); libera anche di fare una passeggiata da sola, impensabile per una donna cresciuta nella società mafiosa del tempo. Era felice di essersi liberata del suo passato e non vedeva l’ora di creare il suo futuro. Poi arrivò la strage di via D’Amelio, e 7 giorni dopo Rita Atria si tolse la vita.
La morte di Paolo Borsellino, che per lei era diventato come un padre, la fece cadere nello sconforto, nella disperazione di credere che la mafia le avesse tolto anche questa seconda possibilità di vita. Ma Rita era stata una ragazza piena di energia, aveva compiuto una vera e propria rivoluzione trovando la forza di raccontare quei meccanismi criminali che le erano sempre stati davanti agli occhi. La sua testimonianza descriveva dall’interno ciò che i magistrati potevano vedere solo dal di fuori e portò alla condanna di molti mafiosi.
Pensate, tutto questo, da una ragazza di 17 anni! Il coraggio dei testimoni di giustizia – e stiamo parlando di innocenti, di persone che non hanno commesso reati – è il coraggio di chi sa che scegliendo di denunciare cambierà la propria vita e quella di chi gli sta vicino, spesso rovinandola, distruggendola. Ogni volta che noi non scegliamo, è perché temiamo di essere attaccati, isolati, abbiamo paura, ma poi ci accorgiamo che la neutralità non ci tiene affatto in sicurezza, perché significa rinunciare alla nostra libertà, alla nostra dignità, al diritto di ricercare la nostra felicità. È questo che si fa ogni volta che la società civile, la politica in Italia, in Europa scelgono di non occuparsi degli affari criminali, che sono ovunque, perché questo silenzio finisce per favorire le mafie e lasciare solo chi le contrasta. Mi viene in mente un verso del poeta nicaraguense Ernesto Cardenal: «Credevano di seppellirti. Ma quello che hanno fatto è seppellire un seme».