Il decreto sul martirio di Rosario Livatino

 

 

Esempio che la Chiesa addita ai giuristi per la vera comprensione del diritto

 

1. La promulgazione del Decreto sul martirio. – Il 21 dicembre 2020 il Santo Padre Francesco ha autorizzato la Congregazione delle Cause dei Santi a promulgare il Decreto riguardante il martirio del Servo di Dio Rosario Angelo Livatino, Fedele Laico;  nato il 3 ottobre 1952 a Canicattì e ucciso, in odio alla Fede, sulla strada che conduce da Canicattì ad Agrigento, il 21 dicembre 1990.

2. I tratti salienti della vita professionale. – La motivazione del Decreto ripercorre i tratti salienti dell’esistenza di Rosario Livatino: i) la laurea conseguita nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Palermo, il 9 luglio 1975, con il massimo dei voti, ii) la partecipazione attiva all’Azione Cattolica e alla vita della propria comunità parrocchiale; iii) l’ingresso in Magistratura come Uditore giudiziario il 18 luglio 1978; iv) l’esercizio delle funzioni di Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Agrigento, meritando la lode del Consiglio Superiore della Magistratura per la sua intensa laboriosità; v) l’assunzione il 21 agosto 1989 delle funzioni di Magistrato del Tribunale di Agrigento, ove ebbe a svolgere le funzioni di Giudice della Sezione Penale; vi) il conseguimento con lode del Diploma della Scuola biennale di formazione in diritto pubblico regionale nell’Università di Palermo.

3. L’omicidio e la sua causa. – Il Decreto ricorda l’agguato in cui Livatino venne ucciso il 21 settembre 1990 sulla strada statale n. 640 che conduce da Canicattì ad Agrigento, mentre viaggiava da solo, in automobile, per recarsi al lavoro presso il Tribunale; ricorda che la dinamica dell’omicidio si caratterizzò per la ferocia degli esecutori e per la mitezza della vittima. In fin di vita, infatti, prima del colpo di grazia esploso in pieno volto, Rosario si rivolse agli assassini con mitezza, domandando loro, in un appello estremo al ravvedimento: “Picciò [picciotti, ragazzi] che cosa vi ho fatto?”; ricorda che la causa dell’omicidio, accertata con sentenza passata in giudicato, fu la “dirittura morale” del Magistrato “per quanto riguarda l’esercizio della giustizia radicata nella fede”; ricorda infine che durante il processo penale emerse che il capo di uno dei gruppi mafiosi dominanti nel territorio dell’agrigentino “lo definiva con spregio santocchio per la sua frequentazione della Chiesa”, soggiungendo che l’agguato era stato in un primo momento pianificato addirittura dinanzi alla chiesa in cui quotidianamente egli faceva la visita al Santissimo Sacramento.

4. Il martirio formale ex parte victimae. – Il Decreto definisce che Rosario Livatino “era consapevole dei rischi che correva” e che continuò a esercitare il suo ministero di Magistrato con rettitudine giungendo “ad accettare la possibilità del martirio attraverso un percorso di maturazione nella fede”, divenuta con il trascorrere del tempo sempre più consapevole e viva, ricordando che egli volle ricevere il sacramento della Cresima a trentacinque anni. il Decreto proclama che la sua testimonianza cristiana fu intessuta dalla partecipazione ai sacramenti e dalla preghiera assidua e che egli rifiutò la scorta per non esporre a pericoli altre persone, preferendo accettare il rischio per la sua vita piuttosto che pregiudicare l’esistenza di persone la cui morte avrebbe lasciato “vedove e orfani”. Conclude, infine, ricordando che Rosario si affidava nei momenti di scoraggiamento al Signore e che egli viveva costantemente confidando nella protezione di Dio, come è attestato documentalmente dalle sue agende personali ove appare sistematicamente la sigla S.T.D., a significare “Sub Tutela Dei”.

5. La gioia per la promulgazione del Decreto. – La notizia della promulgazione del Decreto ha ricevuto un’accoglienza nella società e specialmente nell’ambiente dei giuristi che costituisce per tutti un motivo di gioia. In un mondo segnato dal dolore e dalla sofferenza e che troppo spesso si compiace di eventi privi di valore, ovvero che insiste indiscretamente sui vizi che caratterizzano la vita di molti, è bello che, una volta tanto, molti abbiano prestato attenzione alle virtù di un uomo che si è sacrificato per la giustizia e il bene comune della società. Ciò rivela il tesoro di bene nascosto che è ancora presente nella coscienza profonda del popolo. La santa Chiesa ha sempre raccolto e consegnato alla memoria comune i percorsi di vita dei santi proprio allo scopo di suscitare in tutti l’imitazione delle azioni buone da loro compiute.

Molti hanno giustamente sottolineato il coraggio e la determinazione che Rosario Livatino mostrò nel contrastare sul piano della legalità le prevaricazioni della mafia. Altri commentatori hanno evidenziato  la sua austerità di vita, impermeabile alle lusinghe del potere e indisponibile a essere “avvicinato” da persone mosse da intenzioni torbide e oblique. Altri hanno messo in luce l’alto senso che egli aveva della dignità della sua funzione, tale da indurlo all’assoluto riserbo in ordine alle varie occorrenze della vita professionale. Don Giuseppe Livatino, suo omonimo, già postulatore della causa per il martirio, ha dichiarato al riguardo: “Livatino fu estremamente riservato e schivo a ogni palcoscenico. Non volle mai far parte di gruppi, associazioni o club-service. Pochissime le foto ritrovate. Non c’è una sua intervista in 12 anni da magistrato. Mai dalla sua bocca uscì una sola indiscrezione sulle indagini che andavano svolte nel riserbo cercando prove e riscontri[1]. Altri hanno sottolineato la sua diligenza e laboriosità; altri il suo rispetto verso gli accusati e, in particolare, verso le persone deboli e vulnerabili; altri la personale umiltà che lo preservava dalla superbia e dall’arroganza; altri l’anelito a raggiungere la verità nel processo, sempre ricercata con l’aiuto di Dio e come compito arduo e ineludibile del suo ministero; altri il suo amore per la giustizia, come costante e perpetua “volontà di attribuire a ciascuno ciò che gli spetta”[2].

6. Il significato del diritto nel pensiero e nell’opera di Livatino. –  Desidero in questa nota gettare un po’ di luce sul tratto che, in relazione alla nostra qualità di giuristi, possiede un interesse specifico come viatico per il compimento del nostro dovere, vuoi di magistrati, vuoi di avvocati, vuoi di studiosi e di docenti di diritto nella formazione delle giovani generazioni. Mi sembra che Rosario Livatino abbia testimoniato in modo eccelso la verità del diritto, tanto sotto il profilo del suo valore pratico, quanto sotto quello del suo concetto teorico.

Una tendenza, che è divenuta nell’epoca del positivismo giuridico dottrina incontestata e incontestabile, tendenza che si è resa ancor più ferrea nell’attuale stagione della secolarizzazione, ha inteso separare completamente la sfera del diritto dalla sfera della moralità.

Livatino ha imboccato una via diversa, conforme alla tradizione classica del diritto e alla sua verità intrinseca.

Il diritto è distinto, ma non separato dalla morale. Il diritto è una parte della morale, quella parte che riguarda la giustizia delle relazioni di ciascuno con gli altri e con la società nel suo insieme. Il diritto è costituito infatti essenzialmente da una relatio ad alterum. Se manca questa relazione il contegno della persona resta nella sfera soggettiva. Ciò non avviene quando la condotta dell’uomo interferisce con il bene degli altri e dell’intera società. Il diritto si inscrive in una sfera di diametro ampiamente minore rispetto al diametro dell’illecito morale. Il fine del diritto è, però, in ogni caso, la realizzazione del bene comune, quel bene che attiene fondamentalmente alla sfera delle relazioni giuridiche.

7. Alcune parole forti di Livatino sul rapporto tra il diritto, la morale e la fede. – In una relazione, intitolata Fede e Diritto, svolta a Canicattì il 30 aprile 1986, Livatino, riconoscendo la relativa autonomia del fine temporale dell’uomo, rimarcava però che tale fine va connesso a quello trascendente e soprannaturale della felicità eterna. La legge, pertanto, deve essere giusta, in quanto strumento necessario al bene comune della società. Accentrando l’attenzione sull’uomo concreto che, perseguendo in società il bene temporale insieme con gli altri uomini, Livatino rilevava che questi, in quanto creato a immagine e somiglianza di Dio e vocato all’unione con Lui, ha il diritto fondamentale a non essere ostacolato dalle leggi e dalle istituzioni a raggiungere il fine più alto, trascendente il fine temporale.

In conseguenza di ciò non vi può essere indifferenza, né assoluta separazione tra la comunità politica e la fede, bensì “giusto rapporto[3].

Richiamava al riguardo le parole pronunciate da S. Giovani Paolo II nel discorso ai Giuristi Cattolici nel 1982, in cui il Pontefice aveva sottolineato la necessità di compiere ogni sforzo per attualizzare l’ “[…] etica cristiana nella scienza giuridica, nell’attività legislativa, giudiziaria, amministrativa, in tutta la vita pubblica[4]. Se, infatti, occorre dare, secondo le parole di Gesù, a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio, è anche vero che Cesare è, in qualche misura, di Dio, nel senso che l’autorità  gli è stata conferita per il bene del popolo, e non per se stesso o per la soddisfazione del suo potere[5].

Con il richiamo al magistero della Chiesa, Livatino riguadagnava così le fonti purissime del diritto secondo la tradizione cattolica, ricercando la risposta ai problemi di quell’ora storica nella ragione e nella tradizione del diritto naturale. La sua risposta sul piano teorico si sarebbe fatta sostanza viva della ragione pratica negli anni seguenti, quando egli oppose, con la laboriosità indefessa, con i provvedimenti ineccepibili e con le sentenze giuste, un argine insormontabile all’attacco mosso dalla prevaricazione e dalla violenza della criminalità organizzata alle libere istituzioni e ai diritti dei cittadini.

8. Un nuovo punto di partenza per il concetto e l’attuazione pratica del diritto. – Le parole di Livatino, “fedele laico” e operatore di giustizia, additato dalla Chiesa a esempio per i giuristi, debbono indurci a ritornare alle fonti della tradizione cattolica del diritto naturale.

S. Tommaso d’Aquino dice cosa sia il diritto in alcuni enunciati luminosi. Nel Commentario all’Etica, Tommaso scrive: “ciò che i giuristi denominano ius è lo stesso che Aristotele denomina giusto”[6]. Nella Somma Teologica Tommaso definisce il diritto con formula icastica: “Si dice giusto ciò che, realizzando la rettitudine della giustizia è l’oggetto terminativo dell’azione giusta[7]. Il diritto in atto è l’oggetto terminativo della condotta giusta. Tommaso ricollega strettamente il diritto all’azione giusta della persona che realizza la giustizia. In altri termini: “il diritto consiste nella realizzazione concreta della giustizia nell’uomo[8].

La definizione tomista è imperniata sul vincolo tra la res oggettiva – il giusto – e la condotta virtuosa dell’uomo: vincolo scoperto in origine dal pensiero greco e romano e rimasto fino a nostri giorni nella coscienza sociale dell’umanità. Si tratta di una convinzione universale, che si rivela semanticamente nelle definizioni come “Corti di giustizia” degli organi giurisdizionali che hanno per compito l’applicazione della legge e la dichiarazione del diritto.

Questa identificazione semantica universale “[…] esprime una realtà essenziale dei fenomeni giuridici, le cui radici si trovano nella natura stessa dell’uomo e della vita morale, sociale e politica[9]. Le Corti si chiamano “di giustizia” non per una convenzione nominalistica, bensì perché giudicano della qualità morale di una condotta umana che ha per oggetto terminativo una qualità morale e sociale di un altro soggetto, che è titolare di tale qualità in quanto ha una ratiomeriti (o demeriti) obiettiva.

I “fatti” giuridici, come fatti pratici della persona umana, non sono neutrali rispetto al “valore”. Essi incarnano i fini della persona che ne è il supporto ontico, sostanziale e operativo. Invero, qualsiasi fatto o fenomeno giuridico è sempre connotato in relazione al soggetto, quindi è sempre, in misura maggiore o minore, immediatamente o mediatamente, un fatto o un fenomeno personale[10]. Quindi, in definitiva, i fatti giuridici non sono svincolati dal bene – vero o apparente – che costituisce il fine per cui ciascun uomo esiste e opera.

9. Conclusione. – La secolarizzazione del diritto ha condotto a dimenticare il suo carattere intrinsecamente morale. Questo processo – tipico della modernità e reso ancor più radicale dalla post-modernità dei cosiddetti diritti fondamentali, svincolati dall’idea del bene che costituisce il fine inscritto dalla natura umana in ciascuno di noi – è stato fonte di innumerevoli equivoci, il primo dei quali è la svalutazione del diritto e la sua riduzione a mera tecnica utilitaristica manipolabile ad arbitrio vuoi del legislatore, vuoi del giudice, vuoi dell’avvocato e, prima e peggio ancora, dello studioso del diritto.

L’unione in Rosario Livatino del diritto con la virtù della giustizia, praticata fino alla prova del martirio, costituisce il punto di partenza per un nuovo inizio, poiché la sua vita ha smentito teoreticamente la separazione tra morale e diritto e ha confermato praticamente che l’esperienza empirica della giustizia va ricondotta all’idea universale dell’unità analogica tra il vero, il giusto e il buono.

Mauro Ronco


[1] don Giuseppe Livatino, Corriere della Sera, 23 dicembre 2020, intervista di Felice Cavallaro.

[2] Dig. I, 1 (De iustitia et iure), 10.

[3] R. Livatino, Fede e Diritto, in I. Abate, Il piccolo giudice. fede e giustizia in Rosario Livatino, Roma, 2005, 116.

[4] Giovanni Paolo II, Discorso ai membri dell’Unione Giuristi Cattolici Italiani, 4.12. 1982,http://w2.vatican.va/content/johnpaulii/it/speeches/1982/december/documents/hf_jp-ii_spe_19821204_unione-giuristi.html.

[5] Mt 22, 15-22; Mc 12, 13-17; Lc 20, 20-26.

[6] S. Tommaso d’Aquino, In Ethicorum, V, 1016: “Idem enim nominant – iuristae – ius, quod Aristoteles iustum nominat”.

[7] Id., Summa Theologiae, II-IIᴭ, q.57, a.1, respondeo: “ Sic igitur iustum dicitur aliquid, quasi habens rectitudinem iustitiae, ad quod terminatur actio iustitiae, etiam non considerato qualiter ab agente fiat. Sed in aliis virtutibus non determinatur aliquid rectum nisi secundum quod aliqualiter fit ab agente. Et propter hoc specialiter iustitiae prae aliis virtutibus determinatur secundum se obiectum, quod vocatur iustum. Et hoc quidem est ius. Unde manifestum est quod ius est obiectum iustitiae”.

[8] F.A. Lamas, Dialéctica y Concreción del Derecho, Instituto de Estudios Filosóficos “Santo Tomás de Aquino”, Buenos Aires, 2020, 129.

[9] Ibidem.