a cura di Manfredi Borsellino
Paolo Borsellino nasce a Palermo il 19 gennaio del 1940 in via Vetriera, nei pressi di Piazza Magione nel quartiere “Kalsa”. Il 19 è un numero che ricorrerà più di una volta nella sua vita perché morirà in seguito ad un attentato di matrice terroristitico-mafiosa il 19 luglio del 1992 davanti il civico numero 19 di via Mariano D’Amelio, la via dove abitava la sua mamma, Maria Pia Lepanto, e dove si era recato quel giorno per portarla dal dottore.
Da piccolo era un bambino particolarmente vivace e sveglio, frequentava le strade del suo quartiere giocando anche con bambini che da adulti avrebbero preso una strada molto diversa dalla sua attentando anche alla sua vita.
Tra i suoi piccoli amici vi era un altro bambino, vivace e intraprendente come lui, di nome Giovanni, con cui tanti anni dopo avrebbe intrapreso una lotta contro il male più terribile della nostra amata terra, la “mafia”, che purtroppo avrebbe ucciso entrambi molti anni dopo a pochissime settimane di distanza l’uno dall’altro.
Frequenta la scuola elementare “Ferrara” e poi, dopo le “medie”, il liceo classico “Meli”, eccellendo soprattutto nelle materie umanistiche; fu in quel periodo che iniziò ad amare i poeti trecenteschi, Dante Petrarca e Boccaccio, e del primo iniziò ad imparare a memoria tutti i versi del “Paradiso”, uno dei tre cantici della Divina Commedia, l’opera letteraria italiana forse più famosa.
Dopo il liceo decide di iscriversi alla facoltà di Giurisprudenza ed è in quegli anni di studi intensi e frenetici che matura l’idea di fare il magistrato lottando contro tutte quelle ingiustizie e sopraffazioni a cui era costretto ad assistere sin da quando era piccolino nel quartiere popolare in cui era nato.
Dopo avere conseguito la laurea con il massimo dei voti e ad appena 23 anni, l’anno dopo, al primo tentativo vince il concorso per uditore giudiziario diventando quell’anno, era il 1964, il magistrato più giovane d’Italia.
I primi incarichi sono ad Enna, Mazara del Vallo e Monreale, dove svolge le funzioni di Pretore, ma è di ritorno a Palermo, dove sul finire degli anni ‘70 arriva all’Ufficio Istruzione allora guidato da un altro martire della giustizia, Rocco Chinnici, che la sua vita cambia del tutto e inizia a occuparsi, pressoché esclusivamente, di Cosa Nostra, la potente e feroce organizzazione criminale che in quegli anni aveva già assassinato suoi colleghi come i giudici Costa e Terranova, e brillanti investigatori come il Commissario Boris Giuliano e il Capitano Emanuele Basile.
La morte di quest’ultimo lo colpì e lo segnò forse più di chiunque altro perché lo aveva avuto come il più stretto collaboratore ai tempi in cui faceva il Pretore a Monreale e perché era stato ucciso senza pietà malgrado la sera dell’assassinio tenesse in braccio la sua cara figlioletta, Emanuela.
Intanto, in quegli anni, conosce e si fidanza con una donna minuta, apparentemente fragile ma molto forte, che rappresenterà fino agli ultimi giorni della sua vita il suo più grande sostegno, Agnese Piraino, figlia dell’allora Presidente del Tribunale di Palermo, Angelo Piraino Leto.
Questa donna, che condividerà con il giudice Paolo Borsellino tanti momenti belli e spensierati ma anche tante tragedie, gli darà tre figli, Lucia, Manfredi e Fiammetta.
Ma ritorniamo alla vita di questo giovane magistrato che dopo l’assassinio nei primi giorni di maggio del 1980 del suo fidato Capitano dei Carabinieri Basile vede cadere uno dopo l’altro negli anni successivi sotto i colpi dei più feroci killer della mafia tanti suoi colleghi e collaboratori, alcuni dei quali diventati amici fraterni.
Nonostante tutto non si perde d’animo e insieme ad altri magistrati tra cui quel Giovanni cresciuto insieme a lui sulle strade e sulle piazze del quartiere “Kalsa”, imbastisce il più grande processo mai celebrato contro la Mafia, il c.d. “Maxiprocesso”, che porterà alla sbarra centinaia di mafiosi e alla loro condanna a decine di anni di reclusione.
Ma la vita del giudice Paolo Borsellino per via del suo incessante e delicato lavoro lo mette sempre più a rischio e mette sempre più a rischio i suoi più stretti familiari, tanto da costringerlo suo malgrado ad una vita “blindata” dentro e fuori gli uffici giudiziari.
Anche i figli e la moglie devono adeguarsi a questo insolito regime di vita, ma tutta la famiglia è al suo fianco perché acquisisce la consapevolezza che solo continuando il suo lavoro lui e gli altri magistrati del c.d. “Pool Antimafia” potevano liberare la Sicilia e l’Italia intera dal cancro della mafia.
Nel 1986 Paolo Borsellino assume la guida della Procura della Repubblica di Marsala dove prosegue il lavoro che stava svolgendo a Palermo in una terra diventata molto difficile perché popolata da altre agguerrite famiglie mafiose tra cui quella di colui che diversi anni dopo diventerà il più pericoloso latitante ancora in circolazione, Matteo Messina Denaro.
In quegli anni a Marsala, tuttavia, vive anni felici e in qualche modo spensierato regalando ai suoi figli e alla moglie un periodo più tranquillo durante il quale spesso e volentieri si concedeva delle “libertà” come uscire in barca, girare con la vespa e il casco senza farsi riconoscere oppure trascorrere i pochi giorni di vacanza insieme ai suoi adorati figli e alla sua amata moglie nella villa dei suoceri, a Villagrazia di Carini, a pochi passi da quel mare che tanto amava.
Questo breve ma intenso periodo purtroppo viene improvvisamente interrotto dall’assassinio di un giovanissimo giudice, il “giudice ragazzino” Rosario Livatino, braccato ed ucciso nelle campagne agrigentine da quella mafia di provincia, denominata “Stidda”, che aveva tanto valorosamente e coraggiosamente combattuto senza mezzi e senza protezione da parte dello Stato.
Paolo Borsellino, al pari della morte del “suo” Capitano Basile di circa un decennio prima, rimase profondamente scosso da quell’omicidio e dall’efferatezza con il quale era stato commesso, così da gettarsi a capofitto sulle indagini per cercare ed arrestare coloro che lo avevano eseguito con tanta crudeltà e malvagità.
In quel tempo si affida pressoché totalmente a questo giudice tanto determinato quanto paterno una ragazza di Partanna, una cittadina del trapanese, Rita Atria, cui la mafia aveva ucciso il padre e il fratello.
Rita è poco più che una bambina, ma con una forza e un coraggio tali che le consentono nel giro di pochi mesi di aiutare il giudice a debellare tutte le famiglie mafiose del suo paese, dal quale si allontana per sempre per trovare rifugio a Roma dove il giudice, oramai divenuto per lei come un padre, le aveva trovato un appartamento per iniziare una nuova vita e mettersi alle spalle quella fatta di odio e di violenze che l’aveva accompagnata sin da quando era piccola.
Purtroppo proprio da quell’appartamento Rita Atria si getterà nel vuoto pochi giorni dopo l’assassinio del “suo” giudice Paolo, lasciando un biglietto in cui emerge tutto il senso di vuoto che in quel momento provava per avere perso l’unica persona in cui nutriva la speranza in un mondo migliore e più pulito.
Nel 1991 il giudice Paolo Borsellino ritorna a Palermo mentre il suo amico e collega Giovanni Falcone assume a Roma la direzione di un importante ufficio del Ministero della Giustizia; lui Procuratore a Palermo e Falcone a Roma rappresentano oramai un pericolo troppo grande per la mafia ma, forse, rappresentano un pericolo anche per quello Stato che negli anni passati era sceso a patti con la mafia e che probabilmente era pronto a stipulare nuovi patti con la stessa o a rinnovare quelli precedenti.
Nel gennaio del ‘92 il Maxiprocesso alla mafia iniziato sette anni prima si conclude con diverse condanne definitive di boss e gregari della mafia e a marzo di quello stesso anno viene ucciso l’europarlamentare Salvo Lima, un politico che per molti anni era stato sospettato di intrattenere rapporti ambigui con la mafia e che molti mafiosi accusavano di non avere fatto abbastanza per “salvarli” dal carcere.
Chi, tanti anni prima, aveva condannato a morte i due giudici, Paolo Borsellino e Giovanni Falcone,decide a questo punto che non si può più attendere, l’uno dopo l’altro devono essere eliminati con ogni mezzo perché l’organizzazione mafiosa non scompaia e, soprattutto, i “patti” che ha stipulato con pezzi infedeli delle istituzioni non saltino.
Il 23 maggio del ‘92 Giovanni Falcone insieme alla dolcissima moglie, Francesca Morvillo, e tre dei loro agenti di scorta salta in aria sull’autostrada che dall’aeroporto porta a Palermo; appena cinquantasette giorni dopo, il 19 luglio, sotto la casa della sua cara mamma sono accomunati dallo stesso destino Paolo Borsellino e cinque dei suoi sei agenti di scorta, tutti barbaramente uccisi con una autobomba nella via D’Amelio, dove oggi sorge un albero di ulivo, simbolo di pace.
Il giudice Paolo Borsellino, a detta della figlia più grande, è morto con il sorriso, quel sorriso ironico che lo aveva accompagnato per gran parte della sua vita e che ci ha voluto lasciare perché, come amava dire, “è bello morire per gli ideali in cui si crede”.
Manfredi Borsellino
Fonte: Io Non Dimentico 1 – Falcone & Borsellino
Parlare di mio padre per me è estremamente difficile, mi sono anche risposto del perché fosse così difficile. L’unica vera ragione per la quale non riesco, dopo 22 anni, a parlare di lui è che non riesco materialmente a coniugare il suo verbo al passato. Vorrei che tutti sapessero che per me la bomba esplosa in via D’Amelio è troppo vicina, nonostante siano trascorsi 22 anni – ha detto – come se mio padre fosse morto l’altro ieri, non si può pretendere il ricordo di un figlio quando ancora il cadavere è caldo, e siccome avverto ancora forte la presenza di mio padre non riesco a parlarne con distacco.
“Sin dai primi giorni successivi alla sua morte, infatti, circolava la voce che egli fosse andato incontro ‘rassegnato’ a questo infausto destino. Bene, ciò non corrispondeva affatto a verità: mio padre amava in modo viscerale la vita e le tante piccole o grandi sorprese che questa riserva, sì da apparirmi inverosimile che egli andasse incontro alla morte ritenendola in quel momento un evento ineluttabile” Penso che mio padre debba essere ricordato soprattutto per la sua bontà d’animo, essendo egli una persona fondamentalmente buona e carica di una sconfinata umanità. La sua generosità era senza limiti: avevo quindici anni quando mi chiese di regalare il mio motorino al figlio di una vedova il cui marito era morto in una strage di mafia in quanto gli necessitava per recarsi in una borgata di Palermo ove svolgeva l’attività di panettiere. A un collaboratore di giustizia, lo stesso che tra il ‘91 e il ‘92 gli rivelò di essere stato incaricato dalle famiglie del Trapanese di organizzare ed eseguire il suo assassinio, forniva personalmente le lamette, la schiuma da barba e le sigarette, in un periodo storico in cui, è importante evidenziarlo, mancavano del tutto le agevolazioni di cui oggi essi fruiscono. Nonostante gli impegni di lavoro trovava sempre il tempo di stare in famiglia, di seguire personalmente le nostre attività, fossero esse di studio o ludiche. È indelebile il ricordo dell’amore e del trasporto con cui mi fece ripetere le mie prime due materie universitarie – analogamente accadde con mia sorella Fiammetta – dedicandomi intere serate prima degli esami. Era premuroso, sempre presente non solo per i familiari, ma anche per i tanti cugini e parenti collaterali. Di fatto egli cresceva e seguiva come fossero suoi i sette figli della sorella più grande, rimasta vedova prematuramente e non economicamente in grado di sostenere una così numerosa famiglia. Io e le mie due sorelle non siamo stati mai né viziati né agevolati, piuttosto “responsabilizzati” di fronte a situazioni molto più grandi di noi, sì che al momento della sua morte può dirsi che eravamo a nostro modo “preparati”, preparati da un padre che tutto avrebbe potuto desiderare fuorché lasciarci orfani così giovani. Sin dai primi giorni successivi alla sua morte, infatti, circolava la voce che egli fosse andato incontro “rassegnato” a questo infausto destino. Bene, ciò non corrispondeva affatto a verità: mio padre amava in modo viscerale la vita e le tante piccole o grandi sorprese che questa riserva, sì da apparirmi inverosimile che egli andasse incontro alla morte ritenendola in quel momento un evento ineluttabile. In verità abbiamo assistito alla morte di un uomo lasciato solo in un momento storico in cui occorreva massima coesione e distribuzione della responsabilità, anche all’interno degli uffici giudiziari. Tuttavia noi non abbiamo alcun rammarico, poiché se la morte di mio padre, unitamente a quella di tanti altri servitori dello Stato, è servita a svegliare dal torpore tante coscienze, ciò ci ripaga della sua assenza. Dopo tutti questi anni ciò che forse manca maggiormente del Paolo Borsellino uomo, padre e marito sono la bontà d’animo e generosità di spirito che lo contraddistinguevano. Ci ha lasciato un grandissimo patrimonio morale e ci ha insegnato ad essere umili i meriti erano sempre degli altri, non si atteggiava mai a protagonista ed era privo di qualsiasi ambizione, a tal punto da non manifestare alcun interesse a ricoprire quell’incarico di super procuratore antimafia che, subdolamente, rappresentanti del governo di allora gli avevano proposto, rimanendo prioritaria per lui la vicinanza alla sua famiglia e alla sua Palermo. È evidente quanto sia stato forte il desiderio di avere un padre così al nostro fianco nei momenti in cui ci siamo trovati a fronteggiare situazioni molto più grandi di noi, nel momento in cui abbiamo scelto ciascuno di servire, seppur in amministrazioni diverse, lo Stato, quello Stato che non seppe essere in grado di difendere e proteggere uno dei suoi figli migliori ma che mio padre ha sempre rispettato e onorato e ci ha sempre insegnato a rispettare e onorare, nel momento in cui avremmo avuto bisogno di un suo consiglio o anche solo di uno sguardo. Sono tuttavia convinto che io, le mie sorelle e mia madre, abbiamo seguito la strada che lui ci aveva tracciato. La nostra fede ci rende sicuri del fatto che un giorno lo rivedremo, bello e sorridente, come lo ricordiamo sempre.
La mia vita, come d’altra parte quella delle mie sorelle e di mia madre, è certamente cambiata dopo quel 19 luglio, siamo cresciuti tutti molto in fretta ed abbiamo capito, da subito, che dovevamo sottrarci senza “se” e senza “ma” a qualsivoglia sollecitazione ci pervenisse dal mondo esterno e da quello mediatico in particolare. Sapevamo che mio padre non avrebbe gradito che noi ci trasformassimo in “familiari superstiti di una vittima della mafia”, che noi vivessimo come figli o moglie desiderava che noi proseguissimo i nostri studi, ci realizzassimo nel lavoro e nella vita, e gli dessimo quei nipoti che lui tanto desiderava. A me in particolare mi chiedeva “Paolino” sin da quando avevo le prime fidanzate, non oso immaginare la sua gioia se fosse stato con noi il 20 dicembre 2007, quando è nato Paolo Borsellino, il suo primo e, per il momento, unico nipote maschio.
Oggi vorrei dire a mio padre che la nostra vita è sì cambiata dopo che ci ha lasciati ma non nel senso che lui temeva: siamo rimasti gli stessi che eravamo e che lui ben conosceva, abbiamo percorso le nostre strade senza “farci largo” con il nostro cognome, divenuto “pesante” in tutti i sensi, abbiamo costruito le nostre famiglie cui sono rivolte la maggior parte delle nostre attenzioni come lui ci ha insegnato, non ci siamo “montati la testa”, rischio purtroppo ricorrente quando si ha la fortuna e l’onore di avere un padre come lui, insomma siamo rimasti con i piedi per terra. E vorrei anche dirgli che la mamma dopo essere stata il suo principale sostegno è stata in questi lunghi anni la nostra forza, senza di lei tutto sarebbe stato più difficile e molto probabilmente nessuno di noi tre ce l’avrebbe fatta.
Mi piace pensare che oggi sono quello che sono, ossia un dirigente di polizia appassionato del suo lavoro che nel suo piccolo serve lo Stato ed i propri concittadini come, in una dimensione ben più grande ed importante, faceva suo padre, indipendentemente dall’evento drammatico che mi sono trovato a vivere.
D’altra parte è certo quello che non sarei mai voluto diventare dopo la morte di mio padre, una persona che in un modo o nell’altro avrebbe “sfruttato” questo rapporto di sangue, avrebbe “cavalcato” l’evento traendone vantaggi personali non dovuti, avrebbe ricoperto cariche o assunto incarichi in quanto figlio di …. o perché di cognome fa Borsellino. A tal proposito ho ben presente l’insegnamento di mio padre, per il quale nulla si doveva chiedere che non fosse già dovuto o che non si potesse ottenere con le sole proprie forze. Diceva mio padre che chiedere un favore o una raccomandazione significa mettersi nelle condizioni di dovere essere debitore nei riguardi di chi elargisce il favore o la raccomandazione, quindi non essere più liberi ma condizionati, sotto il ricatto, fino a quando non si restituisce il favore o la raccomandazione ricevuta.
Penso che mio padre debba essere ricordato soprattutto per la sua bontà d’animo, essendo egli una persona fondamentalmente buona e carica di una sconfinata umanità. Era premuroso, sempre presente non solo per i familiari, ma anche per i tanti cugini e parenti collaterali. Di fatto egli cresceva e seguiva come fossero suoi i sette figli della sorella più grande, rimasta vedova prematuramente e non economicamente in grado di sostenere una così numerosa famiglia. Io e le mie due sorelle non siamo stati mai né viziati né agevolati, piuttosto “responsabilizzati” di fronte a situazioni molto più grandi di noi, sì che al momento della sua morte può dirsi che eravamo a nostro modo “preparati”, preparati da un padre che tutto avrebbe potuto desiderare fuorché lasciarci orfani così giovani.
Mio padre era un uomo aperto e leale. Però era anche preoccupato di proteggere i collaboratori e i familiari». E infatti in famiglia non aprì bocca per non accendere ancora un clima infuocato dalla strage di Capaci in cui era morto Falcone. «Una sola cosa posso comunque dire con assoluta chiarezza: mio padre non avrebbe mai accettato, tanto meno avallato, una trattativa di quel genere. Si sarebbe attivato perché non andasse avanti. Non avrebbe guardato in faccia nessuno: né chi la stava conducendo né il garante politico che la stava coprendo. Lo avrebbe anzi ritenuto complice di una deviazione facendo esplodere il caso». Forse non fece in tempo ma aveva lanciato segnali di irrequietezza e di apprensione. “Sono stato tradito”, aveva detto, in quei giorni che precedettero la strage». Da “Lo Stato Nascosto
LA SUA LA MORTE PIU’ ANNUNCIATA” ha reagito ”ma non abbastanza” all’ uccisione di Borsellino, ”forse quella più annunciata” tra le molte volute dalla mafia, i suoi funerali, però, avranno forma privata per rispettare la volontà del giudice ucciso, non per polemica contro lo Stato. Lo dice Manfredi Borsellino, figlio ventenne del magistrato, in un’intervista pubblicata oggi sull’ ”Osservatore romano” nella quale invita anche a ”non gettare la spugna”. ”Abbiamo rinviato i funerali – dice il figlio di Borsellino – non solo per aspettare mia sorella Fiammetta, ma anche perchè non volevamo che mio padre fosse sottoposto a una ‘cerimonia’ come quella riservata a Giovanni Falcone, alla moglie e alle vittime della sua scorta. Quel giorno – racconta Manfredi Borsellino – papà rimase profondamente scosso dal chiasso, dalle urla, dall’ atmosfera nella quale si celebrava un rito per i defunti”. ”Non è vero – dice ancora il figlio del giudice ucciso – quanto abbiamo letto, visto e sentito attraverso giornali, radio e tv, che noi siamo in polemica con le istituzioni. Non abbiamo recriminazioni, anzi, dopo la strage di Capaci mio padre ebbe una protezione persino superiore a quella di Falcone. I funerali privati sono una scelta nostra che rispetta il suo desiderio, la sua schiettezza, la sua religiosità”’. ANSA 23-LUG-92
La scelta dei funerali in forma privata, dice il figlio di Borsellino, ”non ha niente a che vedere con le vicende che da magistrato mio padre affrontò. Lui si è sempre ritenuto, era ed agiva da uomo di Stato. Quanto ai suoi contrasti, alle difficoltà o alle sue posizioni, mio padre stesso ha gia’ detto tutto quello che aveva da dire, apertamente, quando era in vita”. Palermo, infine. ”Mio padre – dice Manfredi Borsellino – amava questa città, la nostra terra fatta di una stragrande maggioranza di persone oneste; non avrebbe potuto vivere altrove era legatissimo alla Sicilia, e proprio questi legami, l’attaccamento alla sua gente, gli davano la spinta per andare avanti, per combattere questa minoranza di criminali che soffocano milioni di persone, che ci aggrediscono. Ma noi, malgrado tutto, non possiamo e non dobbiamo lanciare la spugna”. ”Purtroppo però – conclude il figlio di Borsellino – da noi c’ e’ il rischio dell’apatia, della resa. Palermo ha reagito, è vero, a queste ultime due stragi. Ma non abbastanza, non come si doveva di fronte ad avvenimenti di questa portata”. CITTA’ DEL VATICANO
a cura di Claudio Ramaccini Direttore Centro Studi Sociali contro la mafia – Progetto San Francesco