1 marzo 2024 ‘Ndrangheta stragista, depositate le motivazioni della sentenza

‘Ndrangheta stragista, Filippone e Graviano condannati all’ergastolo

 

‘Ndrangheta stragista, le motivazioni della condanna di Graviano: “Sinergia operativa coi servizi segreti per obiettivi di natura eversiva”

Gli elementi emersi nel processo “delineano un quadro ricostruttivo granitico e convergente in ordine all’implicazione dei più alti livelli ‘ndranghetistici nei delitti in esame ed alla loro interazione con la mafia siciliana, la massoneria e i servizi segreti, nonché sul tema di Falange Armata”. Non c’è solo l’attentato consumato il 18 gennaio 1994 sull’autostrada, all’altezza dello svincolo di Scilla, dove furono trucidati i carabinieri Antonino Fava e Vincenzo Garofalo. È un pezzo di storia dell’Italia quello ricostruito nelle 1400 pagine della sentenza “’Ndrangheta stragista”, scritta dalla Corte d’Assise d’Appello di Reggio Calabria.

Le motivazioni dell’Appello –A distanza di un anno dalla conferma dell’ergastolo inflitto al boss di Brancaccio Giuseppe Graviano e a Rocco Santo Filippone, esponente della cosca Piromalli di Gioia Tauro, in questi giorni sono state depositate le motivazioni della sentenza scritte dal presidente Bruno Muscolo e dal giudice a latere Giuliana Campagna. Per i giudici stato dimostrato il “pieno ed indefettibile coinvolgimento della ‘Ndrangheta in delitti di carattere così eclatante non soltanto per la generalità dei cittadini, ma altresì per le istituzioni tutte dello Stato”. Quindi la Corte d’Assise d’Appello accoglie le richieste della procura generale e dalla Dda di Reggio Calabria, guidate rispettivamente da Gerardo Dominijanni e da Giovanni Bombardieri, e sposa le risultanze dell’inchiesta coordinata dal procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo che, assieme all’aggiunto Walter Ignazitto, ha rappresentato l’accusa anche nel processo di secondo grado. In sostanza, dopo i giudici di primo grado, pure per la Corte d’Appello di Reggio Calabria l’attentato ai carabinieri rientra nelle cosiddette “stragi continentali” che hanno insanguinato l’Italia all’inizio degli anni Novanta. Lo scopo di ‘Ndrangheta e Cosa nostra era quello di colpire al cuore il Paese e le istituzioni per costringerli a trattare. Per farlo era necessario esercitare “una pressione sempre più asfissiante e ad ampio raggio nei confronti dello Stato, in vista del raggiungimento degli obiettivi inerenti l’eliminazione del regime previsto dal 41 bis dell’ordinamento penitenziario e la modifica della legislazione sui pentiti”.

Gli attentati contro i carabinieri –Prima dell’agguato in cui morirono Fava e Garofalo, infatti, a Reggio Calabria ci furono altri due attentati ai danni dei carabinieri. “Non pare certamente frutto di una casualità – si legge nella sentenza – la coincidenza nella scelta degli obiettivi da colpire, individuati sia in Calabria che a Roma negli appartenenti all’Arma dei carabinieri, uomini evidentemente simbolo della difesa dello Stato, che dovevano essere attaccati in momenti pressoché contestuali in punti geografici distanti tra loro, ma con un’unica finalità, ossia ‘piegare’ lo Stato alle richieste di attenuazione e/o eliminazione del carcere duro per mafiosi e ‘ndranghetisti ed alla revisione della legislazione sui collaboratori di giustizia, che rappresentavano entrambi aspetti di particolare rigore per i criminali interessati, impeditivi della realizzazione dei propri interessi”.

I rapporti tra clan e apparati dello Stato –Nella sentenza, inoltre, viene ricostruito il rapporto tra le cosche calabresi e apparati deviati dello Stato. Sono loro, infatti, che hanno suggerito l’utilizzo della sigla “Falange armata” per rivendicare tutti gli attentati rientranti nella strategia stragista: “Non vi è dubbio che gli elementi sin qui riportati non solo confermino ulteriormente la stretta ‘vicinanza’ fra la ‘ndrangheta e i servizi segreti, ma attestino altresì una sinergia operativa fra i due organismi negli specifici episodi criminosi”. E ancora: “Risulta pienamente provato l’utilizzo della sigla Falange Armata ad opera di Cosa Nostra, per finalità di depistaggio”. Ecco perché “la rivendicazione degli attentati ai carabinieri con la medesima sigla è frutto del ‘suggerimento’ dei servizi segreti deviati. Del tutto evidente quindi come, anche sotto tale profilo, si rafforzi la dimostrazione dello strettissimo collegamento sussistente fra ‘Ndrangheta, Cosa Nostra e i servizi segreti nel piano di destabilizzazione dello Stato, per il raggiungimento, ognuno, dei propri obiettivi di natura comunque eversiva”.

La furia di Riina –Al termine dell’istruttoria dibattimentale, per la Corte d’Appello, non c’è “nessun dubbio che, su iniziativa di Totò Riina, Cosa Nostra decise di avviare tra il 1991 ed il 1992 una strategia stragista al fine di sferrare un attacco contro lo Stato, che sarebbe poi dovuto culminare con la strage dei carabinieri allo stadio Olimpico di Roma all’inizio del 1994. Altro esito indubbio che il presente giudizio ha consegnato è costituito dagli accertati intrecci che negli anni si sono dipanati tra organizzazioni criminali e ambienti massonici e politici, in una evidente convergenza e commistione di interessi che mirava al comune intento di destabilizzare lo Stato e sostituire la vecchia classe dirigente che, agli occhi dei predetti, non aveva soddisfatto i loro ‘desiderata’”. Il riferimento è alla Democrazia Cristiana. Quando nel gennaio 1992 furono disattese le speranze di ottenere un annullamento della sentenza del maxi processo fu ucciso Salvo Lima “che si riteneva avesse ‘tradito’ gli impegni assunti”.

Dalla Dc a Forza Italia –Ecco, quindi, che la Dc doveva essere sostituita. In un primo momento dalla Lega Meridionale. Sul punto sono state illuminanti le rivelazioni di decine di pentiti riportate in sentenza dalla Corte d’Assise d’Appello che tira le somme e certifica che quelle dichiarazioni concordi “danno conto dell’elaborazione, in una comunanza di interessi fra massoneria e criminalità organizzata, di un nuovo piano politico a carattere autonomista, che sosteneva temi sul fronte della giustizia, quali la modifica della legislazione antimafia che, con tutta evidenza, incontravano il favore di Cosa Nostra, progetto che poi si arenò all’atto della nascita del nuovo partito Forza Italia”. Nella sentenza, infatti, c’è scritto che, “con tutta evidenza, Cosa Nostra e la ‘Ndrangheta si interessarono al nuovo partito di Forza Italia, per come dichiarato da numerosi collaboratori. Emerge come Cosa Nostra avesse deciso di creare un movimento autonomista, al pari di quanto accadeva nel resto del Sud Italia, ma che in seguito tale progetto era stato abbandonato in favore dell’appoggio al nascente partito di Forza Italia, con alcuni dei cui esponenti i siciliani avevano avviato contatti, tant’è che le stragi cessarono nel corso dell’anno 1994, sussistendo l’aspettativa che il nuovo soggetto politico avrebbe ‘aiutato’ le organizzazioni criminali che l’avevano elettoralmente sostenuto”.

Berlusconi citato 183 volte – Il nome di Silvio Berlusconi compare in 183 passaggi della sentenza, quasi il doppio di quello di Marcello Dell’Utri che, invece, fa capolino per “sole” 79 volte nel provvedimento della Corte d’Assise D’Appello. Per i giudici Muscolo e Campagna, infatti, “non può omettersi poi un riferimento alla figura di Dell’Utri, la cui immanente presenza nel processo, al pari di quella di Berlusconi, emerge dalle propalazioni dei collaboratori e dalle parole dello stesso Graviano, nelle sue esternazioni carcerarie con il compagno di detenzione Adinolfi”. “Devesi segnalare – si legge – come la sentenza palermitana, che riteneva Dell’Utri responsabile del reato di concorso in esterno in associazione mafiosanell’arco temporale 1978-1982, abbia sancito irrevocabilmente che il predetto aveva favorito e determinato la realizzazione di un accordo di reciproco interesse fra i boss mafiosi e l’imprenditore Berlusconi e che l’assunzione di Vittorio Mangano ad Arcore costituiva espressione dell’accordo concluso, in virtù della mediazione di Dell’Utri, tra gli esponenti palermitani di Cosa Nostra e Berlusconi, in quanto funzionale a garantire un presidio mafioso all’interno della villa dell’imprenditore”.

“Risentimento di Graviano per B. e Dell’Utri”-A proposito delle intercettazioni registrate in carcere tra il boss di Brancaccio e Umberto Adinolfi, la Corte osserva come quelle conversazioni “affrontino argomenti certamente non riconducibili agli asseriti rapporti economici fra l’appellante (Graviano, ndr) e Berlusconi, emergendo anzi dai dialoghi i contenuti chiari di un risentimento dell’imputato nei confronti del politico e del ‘compaesano’ Dell’Utri, che avevano tradito gli accordi, non ricambiando, con interventi legislativi, l’aiuto che i siciliani avevano fornito alla nascita del nuovo partito di Forza Italia ed all’elezione dei predetti. I dialoghi vertono altresì su argomenti a contenuto giudiziario, criminale o politico, certamente non si rinviene, come detto, alcun accenno agli asseriti dissidi di carattere economico, per cui del tutto priva di aggancio probatorio con l’oggetto del presente giudizio si appalesa la missiva inviata all’allora ministro della Salute Lorenzin”. I giudici di secondo grado smontano anche la versione del boss di Brancaccio secondo cui le intercettazioni in carcere con Adinolfi sarebbero state trascritte male: “In relazione poi alle contestate espressioni pronunciate da Graviano, si ribadisce come l’ascolto dei files non consenta di rinvenire né il riferimento a Casteldaccia, apprezzandosi invece il termine ‘Calabria’, né tantomeno alla Bolivia, come erroneamente affermato da Graviano”.

L’incontro del bar Doney – Nella sentenza trova spazio anche l’incontro, avvenuto prima del fallito attentato all’Olimpico, al Bar Doney di Roma tra Graviano e il pentito Gaspare Spatuzza che secondo la Corte d’Assise D’Appello è attendibile: “Non soltanto le dichiarazioni di Spatuzza vengono riscontrate dalle celle telefoniche agganciate dal suo cellulare, ma proprio nell’ambito di tale vicenda si registra il noto incontro fra Spatuzza e Graviano al bar Doney, ormai anch’esso accertato in via definitiva”. Incontro nel corso del quale il Graviano ha sollecitato Spatuzza “ad effettuare l’attentato ai carabinieri allo stadio Olimpico, poiché “i calabresi si sono già mossi”. “Si svolsero alcuni sopralluoghi, – è la ricostruzione delle dichiarazioni del pentito fatta dalla Corte d’Assise d’Appello – indi Spatuzza narra dell’incontro al bar Doney con il Graviano che, appresa la notizia della predisposizione dei preparativi, si mostra soddisfatto, dicendo che ‘avevamo portato a buon fine tutto quello che noi speravamo’, facendo riferimento a ‘quello del Canale 5’ e al ‘compaesano’ ed aggiungendo di avere ‘il paese nelle mani’ e che bisognava dare il ‘colpo di grazia’”.

“Deluse le aspettative in Forza Italia” – Se “il colpo di grazia” non c’è stato, perché il telecomando che doveva fare esplodere l’autobomba all’Olimpico si è inceppato, questo almeno quello che ha raccontato Spatuzza. Di sicuro c’è solo che pochi giorni dopo Berlusconi annuncia al Paese la sua discesa in campo. Passano 24 ore e Graviano viene arrestato a Milano. Ed è da detenuto che osserverà Forza Italia vincere le elezioni politiche alla fine di marzo. “Tuttavia, – scrivono i magistrati – come risulta espressamente dalle stesse parole del Graviano intercettate in carcere, le aspettative riposte nei confronti di tale partito erano rimaste deluse in quanto, nonostante l’appoggio politico, non era intervenuta alcuna attenuazione del regime del carcere duro né le altre modifiche auspicate dalle organizzazioni criminali, tant’è che numerosi detenuti lamentavano il mancato adempimento degli impegni assunti”. di Lucio Musolino| 1 Marzo 2024 FQ


Sentenza ‘Ndrangheta stragista: “Strettissimo collegamento tra mafie e servizi segreti”

A distanza di un anno dal verdetto, sono finalmente uscite le motivazioni della sentenza con cui, nel marzo 2023, i giudici della Corte d’Assise d’Appello hanno condannato all’ergastolo il capomafia palermitano Giuseppe Graviano e il boss calabrese Rocco Filippone, ritenuti responsabili come mandanti di una serie di attentati ed omicidi avvenuti tra il dicembre 1993 e il febbraio 1994, tra cui persero la vita gli appuntati Antonino Fava e Vincenzo Garofalo. E le motivazioni sviluppate dai giudici in circa 1.400 pagine sono incredibilmente dirompenti. Si certifica, infatti, che la strategia stragista consumatasi nella prima metà degli anni Novanta, che porta con sé macroscopiche implicazioni politiche, sia frutto delle convergenze tra gli interessi non solo di Cosa Nostra e delle alte sfere della ‘Ndrangheta, ma anche della massoneria coperta e dei servizi segreti deviati. Entità tra loro diverse che, in quella fase storica, unirono il loro impeto eversivo con l’obiettivo di «destabilizzare» lo Stato italiano in vista di un cambio di guardia nella sua classe dirigente. Per poi far tacere le bombe e tornare nell’ombra. La pesantissima sentenza, redatta dal presidente della Corte Bruno Muscolo e dal giudice a latere Giuliana Campagna, riscrive un passaggio fondamentale della storia recente del nostro Paese. Secondo i giudici, che hanno così sposato le risultanze dell’inchiesta coordinata dal procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo, è infatti emerso «un quadro ricostruttivo granitico e convergente in ordine all’implicazione dei più alti livelli ‘ndranghetistici nei delitti in esame ed alla loro interazione con la mafia siciliana, la massoneria e i servizi segreti, nonché sul tema di Falange Armata», ovvero della sigla utilizzata per rivendicare decine di stragi e omicidi «per finalità di depistaggio» che, secondo la Corte, fu il «frutto del ‘suggerimento’ dei servizi segreti deviati». I giudici hanno infatti non solo accertato, in questo quadro, «la stretta ‘vicinanza’ fra la ‘ndrangheta e i servizi segreti», ma anche una vera e propria «sinergia operativa fra i due organismi negli specifici episodi criminosi». La Corte, insomma, si dice certa dello “strettissimo collegamento sussistente fra ‘Ndrangheta, Cosa Nostra e i servizi segreti nel piano di destabilizzazione dello Stato, per il raggiungimento, ognuno, dei propri obiettivi di natura comunque eversiva”. Non vi è solo la criminalità organizzata, dunque, dietro le bombe e il sangue versato da civili e servitori dello Stato nel biennio 1992-1994, ma anche elementi della massoneria e di apparati deviati dello Stato che tramavano nell’ombra. I giudici, all’interno della sentenza, parlano espressamente di «accertati intrecci che negli anni si sono dipanati tra organizzazioni criminali e ambienti massonici e politici, in una evidente convergenza e commistione di interessi che mirava al comune intento di destabilizzare lo Stato e sostituire la vecchia classe dirigente che, agli occhi dei predetti, non aveva soddisfatto i loro ‘desiderata’». Il riferimento è, ovviamente, alla Democrazia Cristiana, «punita» dalle mafie dopo l’inizio del Maxiprocesso – Riina, infatti, ordinò agli uomini di Cosa Nostra di togliere il voto alla “Balena bianca” alle elezioni del 1987 – e subito dopo la sentenza di Cassazione che confermò l’impianto accusatorio di Falcone e Borsellino, attraverso l’uccisione del politico Salvo Lima, braccio destro di Giulio Andreotti in Sicilia. In seguito allo scoppio di Tangentopoli, infatti, Cosa Nostra e ‘Ndrangheta lavorarono alla creazione di «un nuovo piano politico a carattere autonomista», con la nascita di un vero e proprio movimento, che «sosteneva temi sul fronte della giustizia, quali la modifica della legislazione antimafia». Tale progetto, però, fu messo da parte «in favore dell’appoggio al nascente partito di Forza Italia, con alcuni dei cui esponenti i siciliani avevano avviato contatti, tant’è che le stragi cessarono nel corso dell’anno 1994, sussistendo l’aspettativa che il nuovo soggetto politico avrebbe ‘aiutato’ le organizzazioni criminali che l’avevano elettoralmente sostenuto». All’interno delle motivazioni, i giudici fanno espresso riferimento alle figure di Silvio Berlusconi, leader di Forza Italia, e del suo co-fondatore Marcello Dell’Utri, ricordando come quest’ultimo sia stato definitivamente considerato «responsabile del reato di concorso in esterno in associazione mafiosa nell’arco temporale 1978-1982» per avere «favorito e determinato la realizzazione di un accordo di reciproco interesse fra i boss mafiosi e l’imprenditore Berlusconi». A questo proposito la Corte evidenzia come la contestuale assunzione nella villa di Arcore – residenza del Cavaliere – del boss mafioso di Porta Nuova Vittorio Mangano «costituiva espressione dell’accordo concluso, in virtù della mediazione di Dell’Utri, tra gli esponenti palermitani di Cosa Nostra e Berlusconi, in quanto funzionale a garantire un presidio mafioso all’interno della villa dell’imprenditore». I giudici si soffermano poi sui dialoghi intrattenuti da Graviano in carcere con il suo compagno di ora d’aria Umberto Adinolfi, da cui emergono «i contenuti chiari di un risentimento dell’imputato (Graviano, ndr) nei confronti del politico e del ‘compaesano’ Dell’Utri, che avevano tradito gli accordi, non ricambiando, con interventi legislativi, l’aiuto che i siciliani avevano fornito alla nascita del nuovo partito di Forza Italia ed all’elezione dei predetti». L’ultimo tassello della strategia stragista degli anni Novanta avrebbe dovuto concretizzarsi nell’attentato allo Stadio Olimpico di Roma, programmato per la sera del 23 gennaio 1994, ma fortunatamente non andato in porto per il malfunzionamento del telecomando. A tal proposito, i giudici hanno confermato la ricostruzione del pentito Gaspare Spatuzza – esecutore materiale anche della strage di via D’Amelio e dell’omicidio di Padre Pino Puglisi – che aveva raccontato ai pm di un incontro avvenuto poco prima della fallita strage al bar Doney di Roma con Giuseppe Graviano. In quell’occasione, come dichiarato da Spatuzza, il boss di Brancaccio si era dimostrato soddisfatto, dicendo che «avevamo portato a buon fine tutto quello che noi speravamo», facendo riferimento a «quello del Canale 5» ed al «compaesano» ed aggiungendo di avere «il Paese nelle mani» e che bisognava dare il «colpo di grazia». Eppure, in seguito all’annuncio della discesa in campo di Silvio Berlusconi (26 gennaio), all’arresto di Giuseppe Graviano (27 gennaio) e alla vittoria alle elezioni Politiche di Forza Italia (28 marzo), l’attentato non fu più replicato. E Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, massoneria e apparati deviati decisero che era arrivato il momento di inabissarsi nel silenzio. [di Stefano Baudino]


«La massomafia di Cosenza siglò un patto per sostenere Berlusconi», la verità di Fondacaro nella sentenza ’Ndrangheta stragista

 

Nelle motivazioni le nuove testimonianze raccolte nel processo d’appello. Il pentito racconta i rapporti tra i Piromalli e i Mancuso: «Il boss di Limbadi in una loggia deviata di Crotone e Cosenza». L’attenzione delle cosche per la nascita di Forza Italia

Nel processo d’appello ’Ndrangheta stragista sono emerse nuove prove che hanno, per i giudici, contribuito a formare una ricostruzione «granitica» del coinvolgimento nell’eccidio dei carabinieri Antonino Fava e Vincenzo Garofalo «dei più alti livelli ’ndranghetistici».  
Tra gli altri, i verbali del collaboratore Marcello Fondacaro hanno rilanciato il tema dell’interazione tra le cosche calabresi, la mafia siciliana, la massoneria e i servizi segreti. Fondacaro è, per il collegio, portatore di un punto di vista privilegiato: vicino alla cosca Piromalli-Molè, ha anche conoscenze sul versante siciliano di Cosa nostra, visto che una sua ex moglie è discendente di una delle famiglie mafiose di Mazara del Vallo. Grazie a questa duplice appartenenza Fondacaro, che non è nato in una famiglia mafiosa, riesce ad apprendere notizie su ciò che si muove «ai più alti vertici della vita criminale non solo locale me dell’intero Paese».
‘Ndranghetista e massone della loggia romana Giustinianea, il pentito avrebbe appreso da un “grembiulino” cosentino inserito nel Psi a Roma «che gli esponenti calabresi del partito avevano raccolto le istanze dei mafiosi e degli ‘ndranghetistiche lamentavano la “disattenzione” del precedente governo democristiano in relazione all’impegno di alleviare in ambito legislativo le “sofferenze carcerarie” dei detenuti». Si torna sempre lì: al 41 bis e al tentativo di cancellarlo che diventa una vera ossessione per il sistema criminale.

La loggia massonica a Gioia Tauro legata direttamente alla P2

È Fondacaro a rivelare «l’esistenza, a Gioia Tauro, di una loggia massonica, diretta emanazione della P2 di Gelli, il cui “maestro” era Strangi, suocero di “Ninello” Piromalli, figlio di Gioacchino». La sua fonte sarebbe Luigi Sorridenti, familiare dei capi-cosca. Nel suo racconto il collaboratore rivela «il legame personale esistente fra Gelli e Giuseppe Piromalli alias “Mussu Stortu”, che aveva favorito la creazione della loggia massonica in questione, di cui facevano parte oltre al Sorridenti, anche numerosi altri esponenti della cosca Piromalli e Nino Gangemi, personaggio di primo piano del panorama ‘ndranghetistico». Fondacaro si muove su un territorio di confine, sia mafioso che geografico: ha modo di riferire dei contatti avuti con i vertici del clan Mancuso di Limbadi: li avrebbe raggiunti nel loro feudo per parlare loro dell’interesse di un amico del clan vibonese per un terreno di Capo Vaticano che era nella disponibilità del futuro pentito. Conosce bene le dinamiche criminali, sa quanto conti la territorialità e sa come muoversi. Sa anche quanto siano profondi i rapporti tra i “suoi” Piromalli-Molè e i Mancuso e, in un periodo di comune detenzione con Nicolino Grande Aracri, avrebbe saputo «dell’appartenenza del capo del sodalizio Luigi Mancuso a una loggia massonica di Crotone e Cosenza, specificando che non si trattava di logge “regolari”, ma di massoneria “coperta”».

La visita del fratello di Totò Riina nella clinica di Fondacaro

Il solito Sorridenti racconta al collaboratore di giustizia che ’ndrangheta e mafia siciliana sono un’unica entità. L’informazione si traduce in un aneddoto: il fatto accade in Sicilia, quando il fratello di quello che poi apprese essere Totò Riina si sarebbe presentato nella struttura sanitaria di Fondacaro per richiedere una prestazione in favore del boss di Corleone. Vicenda, questa, che i giudici considerano importante, «poiché il germano di Riina si presentò affermando di conoscere le origini del Fondacaro, in quanto, disse: Noi abbiamo amici a Gioia Tauro, sicché ancora una volta è dimostrata l’intensità dei rapporti fra le due organizzazioni criminali, che il collaboratore definisce “un’unica cosa”». Anche il boss di Cetraro Franco Muto avrebbe avuto «rapporti con trapanesi e palermitani», secondo quanto riferito a Fondacaro da Nino Gangemi.

Il cambio dei referenti politici: dalla Dc alle attenzioni per Berlusconi

Sul piano politico, il pentito illustra nel processo la decisione di mutare i presunti referenti adottata dalle «componenti massoniche e mafiose»: fino ai primi anni 80 avrebbero «avuto come interlocutore il partito della Dc, ma a partire dagli anni 1983-1984 si assisteva a una “virata” verso il Partito socialista, che aveva interpretato il malcontento della ‘ndrangheta verso i precedenti referenti politici». È così che alcune candidature eccellenti sarebbero arrivare dopo «precisi accordi con le famiglie di ’ndrangheta».
Spunta, in questo racconto che affonda radici in un’epoca lontana, un termine entrato di recente nel linguaggio mediatico: un amico socialista avrebbe rivelato a Fondacaro che «la masso-mafia di Cosenza (centro che contava il maggior numero di esponenti socialisti) aveva stretto un accordo in ambito nazionale, anche con il tramite di politici reggini, affinché si sostenesse la prossima candidatura di Silvio Berlusconi, fortemente voluta da Bettino Craxi come sua proiezione».

Il nome di Berlusconi compare 183 volte nella sentenza

Si torna a un altro dei passaggi chiave della sentenza e della monumentale ricostruzione operata dalla Dda di Reggio Calabria, guidata dal procuratore Giovanni Bombardieri, e sostenuta sia in primo grado che in appello dal procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo. «Con tutta evidenza – sta scritto nella sentenza – Cosa nostra e la ’Ndrangheta si interessarono al nuovo partito di Forza Italia». Berlusconi non c’è più ma il suo nome compare per 183 volte nelle 1. 400 pagine di motivazioni. Per il presidente della Corte d’Assise d’appello Bruno Muscolo e per il giudice a latere Giuliana Compagna, «non può omettersi un riferimento alla figura di Marcello Dell’Utri, la cui immanente presenza nel processo, al pari di quella di Berlusconi, emerge dalle propalazioni dei collaboratori e dalle parole dello stesso Graviano», il boss di Brancaccio condannato all’ergastolo assieme a Santo Filippone per l’uccisione dei due carabinieri.
Fondacaro dice di aver partecipato, all’Hotel Nazionale di Roma, a un incontro conviviale con esponenti socialisti di Cosenza che annunciarono la candidatura di Berlusconi. Sarebbe stato Sorridenti a a confidargli «che anche Berlusconi era un massone piduista e che  Gelli, come detto legato a Piromalli, aveva sollecitato l’attenzione verso una candidatura di Berlusconi. Successivamente, con la nascita del nuovo partito di Forza Italia, il progetto si trasferì su questa nuova entità politica, che verrà sostenuta sia dalla ‘ndrangheta che dalla mafia, posto che i collegamenti fra le due organizzazioni erano stretti e continui». LACNEWS 4.3.2024


‘Ndrangheta stragista, Corte assise appello Reggio: cosa nostra e ‘ndrine appoggiarono Forza Italia

 

“Altro esito indubbio che il presente giudizio ha consegnato è costituito dagli accertati intrecci che negli anni si sono dipanati tra organizzazioni criminali e ambienti massonici e politici, in una evidente convergenza e commistione di interessi che mirava al comune intento di destabilizzare lo Stato e sostituire la vecchia classe dirigente che, agli occhi dei predetti, non aveva soddisfatto i loro ‘desiderata’”. È quanto c’è scritto nelle 1.400 pagine della sentenza “‘Ndrangheta stragista” depositata dalla Corte d’assise d’appello di Reggio Calabria che, nel marzo 2023, ha confermato l’ergastolo per Giuseppe Graviano e Rocco Santo Filippone accusati dell’attentato in cui il 18 gennaio 1994 morirono i carabinieri Antonino Fava e Vincenzo Garofalo. Quello contestato al boss di Brancaccio e all’esponente della cosca Piromalli è un agguato rientrante nelle cosiddette “stragi continentali” che hanno insanguinato l’Italia all’inizio degli anni Novanta.

A proposito di politica, nella sentenza c’è scritto pure che “con tutta evidenza Cosa Nostra e la ‘Ndrangheta si interessarono al nuovo partito di Forza Italia, per come dichiarato da numerosi collaboratori. Emerge come Cosa Nostra avesse deciso di creare un movimento autonomista, al pari di quanto accadeva nel resto del Sud Italia, ma che in seguito tale progetto era stato abbandonato in favore dell’appoggio al nascente partito di Forza Italia, con alcuni dei cui esponenti i siciliani avevano avviato contatti, tant’è che le stragi cessarono nel corso dell’anno 1994, sussistendo l’aspettativa che il nuovo soggetto politico avrebbe ‘aiutato’ le organizzazioni criminali che l’avevano elettoralmente sostenuto”.
La sentenza della Corte d’assise d’appello ha confermato le richieste della Dda di Reggio Calabria, guidata dal procuratore Giovanni Bombardieri e, in particolare, le risultanze dell’inchiesta coordinata dal procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo che, insieme all’aggiunto Walter Ignazitto, ha rappresentato l’accusa anche nel processo di secondo grado.
Non pare certamente frutto di una casualità – si legge nella sentenza scritta dal presidente Bruno Muscolo e dal giudice a latere Giuliana Campagna – la coincidenza nella scelta degli obiettivi da colpire, individuati sia in Calabria che a Roma negli appartenenti all’Arma dei carabinieri, uomini evidentemente simbolo della difesa dello Stato, che dovevano essere attaccati in momenti pressoché contestuali in punti geografici distanti tra loro, ma con un’unica finalità, ossia ‘piegare’ lo Stato alle richieste di attenuazione e/o eliminazione del carcere duro per mafiosi e ‘ndranghetisti ed alla revisione della legislazione sui collaboratori di giustizia, che rappresentavano entrambi aspetti di particolare rigore per i criminali interessati, impeditivi della realizzazione dei propri interessi”.

“Ritiene la Corte che il copioso materiale probatorio non consenta una fondata ricostruzione alternativa rispetto a quella operata dall’organo di accusa” scrivono ancora i giudici, secondo i quali non c’è “nessun dubbio che, su iniziativa di Totò Riina, Cosa Nostra decise di avviare tra il 1991 ed il 1992 una strategia stragista al fine di sferrare un attacco contro lo Stato, che sarebbe poi dovuto culminare con la strage dei carabinieri allo stadio Olimpico di Roma all’inizio del 1994”.

 

 


 

PROCESSO D’APPELLO 


 

 

 


25.3.2023 La decisione della Corte d’assise d’appello di Reggio Calabria sull’uccisione dei carabinieri Fava e Garofalo nel 1994

Ergastolo per Giuseppe Graviano e Rocco Santo Filippone. Condanne confermate in secondo grado per il boss di Brancaccio e l’esponente della cosca Piromalli di Gioia Tauro, già condannati in primo grado per l’uccisione dei carabinieri Antonino Fava e Vincenzo Garofalo, trucidati il 18 gennaio 1994 in un agguato avvenuto sull’autostrada Salerno-Reggio Calabria nei pressi dello svincolo di Scilla.
Si conclude così il processo “‘Ndrangheta stragista”, celebrato davanti alla Corte d’assise d’appello di Reggio Calabria presieduta da Bruno Muscolo (a latere Giuliana Campagna).
Accolte le richieste fatte dal procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo che nel corso della sua lunga requisitoria aveva definito Graviano e Filippone «colpevoli oltre ogni ragionevole dubbio».
 «Non soltanto una vicenda processuale, ma molto di più», secondo Lombardo, il processo sugli intrecci e i rapporti tra ‘Ndrangheta, Cosa nostra e mondo politico per l’attuazione della strategia stragista negli anni Novanta. «Fatti – aveva detto il procuratore aggiunto – per i quali il tempo non passa e che rappresentano un eterno presente in cui riscontriamo accadimenti che non possiamo non considerare attuali». 

I legami tra ‘ndrangheta e Cosa nostra

La ‘ndrangheta e Cosa nostra come un unico corpo, «una cosa sola». L’organizzazione criminale calabrese, secondo la Procura reggina, «agì, attraverso le sue componenti apicali, d’intesa con quella siciliana» segnando per sempre la storia d’Italia con la strategia stragista. Secondo l’accusa un doppio filo legava alcuni esponenti di spicco di ‘ndrangheta e Cosa nostra. «Un legame strettissimo con l’organizzazione criminale siciliana di cui Graviano è protagonista» rappresentato anche da quelle che il collaboratore di giustizia Girolamo Bruzzese ha definito «doppie affiliazioni», con riferimento a «Paolo De Stefano, Peppe e Mommo Piromalli, Nino Pesce, Pino Mammoliti, Luigi Mancuso, Pino Piromalli, Nino Molè, Nino Gangemi, qualcuno degli Alvaro». «Questi soggetti – ha raccontato Bruzzese nel corso della sua testimonianza – avevano un ruolo di vertice apicale anche nella mafia». «La forza dei Piromalli e dei De Stefano scaturisce dalla vittoria della prima guerra di ‘ndrangheta, del 1974, a Reggio Calabria, contro il boss Mico Tripodo, e trasformano la ‘ndrangheta in quel mostro criminale che è oggi. In tal senso esistono riscontri non solo fattuali, ma storici e logici», ha sottolineato inoltre Lombardo. E c’è un momento in cui la strategia organizzativa della ‘ndrangheta cambia «a seguito del summit di Montalto, in Aspromonte, dell’autunno del 1969, nominando persone di strettissima fiducia al posto loro». Entra dunque in gioco, secondo Lombardo, la figura di Rocco Santo Filippone, che diventa «l’anello di congiunzione tra sodalizi ed esecutori materiali, il perno attorno a cui ruota la strategia stragista».

Gli intrecci con la politica

«La strategia stragista serviva per andare a soddisfare una serie di esigenze», ha spiegato ancora Lombardo riferendosi agli intrecci emersi secondo l’accusa, nel corso delle indagini e del processo in primo grado, tra associazione criminale e politica. Il procuratore aggiunto ha quindi citato l’episodio che vede come protagonista l’ex parlamentare di Forza Italia Giancarlo Pittelli che in una intercettazione, il 20 luglio 2018 , commentando un articolo di giornale sulla trattativa Stato-Mafia, esordì dicendo due volte: «Berlusconi è fottuto». Per poi per spiegare così i passaggi della nascita di Forza Italia: «Io lo so perché Dell’Utri la prima persona che contattò per la formazione di Forza Italia fu Piromalli a Gioia Tauro non so se ci… ragioniamo, tu pensa che ci sono due mafiosi in Calabria, che sono i numeri uno in assoluto, uno è del Vibonese e l’altro è di Gioia Tauro, uno si chiama Giuseppe Piromalli e l’altro si chiama Luigi Mancuso, che è più giovane e forse più potente… Io li difendo dal 1981, cioè sono trentasette anni che questi vivono qua dentro… pazzesco… l’altro giorno ci pensavo, dico trentasette anni». «Frasi pronunciate non da un uomo qualunque», ha sottolineato Lombardo. Un passaggio che il procuratore aggiunto ha rievocato anche in riferimento alle dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia, tra questi Girolamo Bruzzese, che nel corso delle udienze è più volte ritornato sulla figura di Silvio Berlusconi e sul presunto summit avvenuto alla presenza di Bettino Craxi ed esponenti di spicco della ‘ndrangheta. «Quando Silvio Berlusconi arrivò, Peppe Piromalli lo chiamò per nome. Lo conosceva già», aveva dichiarato Bruzzese.

La strategia stragista

«La prosecuzione e il completamento della strategia stragista» sono rappresentati, secondo il procuratore Lombardo, dagli attentati ai danni dei carabinieri eseguiti a Reggio Calabria. «Una prosecuzione che era stata chiesta proprio da Giuseppe Graviano che, nelle intercettazioni in carcere con un altro detenuto, Umberto Adinolfi, e rispondendo alle domande del pubblico ministero di primo grado, dice che una determinata stagione stragista non si doveva fermare perché così gli era stato chiesto». Lombardo ha ricordato anche la frase del pentito Gaspare Spatuzza, al quale Graviano, nel corso di un incontro nel bar Donney di via Veneto, aveva detto: «Abbiamo il Paese nelle mani perché gli accordi che dovevo concludere li ho conclusi. Però dobbiamo accelerare la strage dell’Olimpico perché i calabresi si sono mossi». «Infatti – conclude Lombardo – il 18 gennaio del 1994 i calabresi si erano mossi uccidendo Fava e Garofalo e quell’incontro tra Graviano e Spatuzza certifica che qualcuno ha chiesto un ulteriore colpo, un’ulteriore eclatante azione di violenza anche in questo caso nei confronti di militari appartenenti all’Arma dei carabinieri. Cinquantacinque ne dovevano morire in un colpo solo all’Olimpico. Quando Graviano troverà la forza di dirci chi gli ha chiesto il proseguimento della strategia stragista già in atto, avremo un ulteriore tassello di verità. La certezza che siamo in grado di spendere in questa sede ci consente di dire che qualcuno glielo ha chiesto». (redazione@corrierecal

Processo ‘ndrangheta stragista, ergastolo anche in Appello per i boss Graviano e Filippone. “Nel 1994 fecero uccidere due carabinieri in Calabria”

 

Adesso manca solo la Cassazione per dare giustizia, dopo quasi 30 anni, ad Antonino Fava e Vincenzo Garofalo, i due carabinieri uccisi il 18 gennaio 1994sull’autostrada all’altezza dello svincolo di Scilla, in provincia di Reggio Calabria. Dopo oltre 7 ore di camera di consiglio, la Corte d’Assise d’Appello presieduta da Bruno Muscolo (a latere il giudice Giuliana Campagna), ha confermato la sentenza di primo grado del processo ‘Ndrangheta stragista e ha condannato all’ergastolo il boss di Brancaccio Giuseppe Graviano e Rocco Santo Filippone, ritenuto espressione della cosca Piromalli di Gioia Tauro.

Carcere a vita: così come aveva fatto la Corte d’Assise nel luglio 2020, anche i giudici di piazza Castello hanno sposato l’impianto accusatorio sostenuto in aula dal procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo e dal sostituto Walter Ignazitto secondo cui l’agguato ai carabinieri rientra nelle cosiddette “stragi continentali”. Per la Dda, guidata dal procuratore Giovanni Bombardieri, infatti, quel duplice omicidio e gli altri due attentati ai danni di altrettante pattuglie dell’Arma facevano parte di quella strategia stragista che ha insanguinato l’Italia e che è stata messa in atto da Cosa nostra e ‘Ndrangheta nella prima metà degli anni ‘90. Non è un caso che, nella sentenza di primo grado, si parla di “una strategia unitaria per destabilizzare lo Stato”.

Unitaria perché “la ‘Ndrangheta agì d’intesa con Cosa nostra siciliana”. Affiancato dal sostituto della Dda Walter Ignazitto, il procuratore Lombardo lo ha ripetuto più volte nella requisitoria durante la quale ha lanciato pure un appello al boss di Brancaccio: “Quando Graviano troverà la forza di dirci chi gli ha chiesto il proseguimento della strategia stragista già in atto, avremo un ulteriore tassello di verità”.

Al momento quella forza Graviano non l’ha trovata così come non ha mai spiegato la frase (“Abbiamo il Paese nelle mani. I calabresi si sono mossi”) che, stando alle dichiarazioni del pentito Gaspare Spatuzza, avrebbe detto a quest’ultimo nel famoso incontro al “bar Doney” di via Veneto a Roma.

Secondo i magistrati, tanto gli attentati dei carabinieri in Calabria quanto il progetto della strage all’Olimpico, dove sarebbero dovuti morire 55 militari dell’Arma, rientravano in una “comune strategia eversivo-terrorista”.

Dalla strage di via dei Georgofili a Firenze a quella di via Palestro a Milano, passando per le bombe esplose a Roma in via Fauro e quella del Velabro e di San Giovanni Laterano: per i giudici che hanno scritto la sentenza di primo grado, si tratta di attentati che “hanno costituito uno dei momenti più significativi di un cinico piano di controllo del potere politico (fortunatamente fallito) nel quale sono confluite tendenze eversive anche di segno diverso (servizi segreti deviati) per effetto anche della ‘contaminazione’ o ‘evoluzione’ originata dall’inserimento della mafia siciliana e calabrese all’interno della massoneria”.

È chiaro, stando alla tesi della Procura, che si è trattato di una strategia inquadrata in un preciso contesto politico, l’autunno del 1993, “in cui in Italia – è stata la ricostruzione di Lombardo in aula – dopo moltissimo tempo si corre il rischio di un governo a guida comunista. Perché nell’autunno del 1993 Achille Occhetto vince le elezioni amministrative e inizia a parlare da presidente del Consiglio. È un momento storico decisivo per le sorti di una Nazione che sta vivendo una stagione difficilissima, iniziata in epoca ben antecedente rispetto alla caduta dei blocchi contrapposti nell’autunno del 1989. Quello è un momento storico anche per effetto della forza distruttiva generata dalla vicenda Mani pulite, gestita dalla Procura di Milano, che deflagra su quello che rimane della Democrazia cristiana e del Partito socialista. L’unico interlocutore di sinistra che ha una capacità aggregante è il Pds di Achille Occhetto che ovviamente in quel momento parla come se non avesse avversari. E non ha avversari in realtà. L’avversario verrà formalizzato dopo qualche mese. L’avversario diventerà Forza Italia e abbiamo visto che, per voce unanime delle varie componenti mafiose, il sostegno elettorale doveva essere canalizzato verso quel nuovo movimento politico. Occhetto non si è più ripreso da quella mazzata tant’è vero che ha smesso di fare politica. Erano le elezioni della primavera del 1994 e, visto che sono fatti storici, siamo al primo governo Berlusconi”.

Anche nel processo di secondo grado, il nome dell’ex presidente del Consiglio e quello di Forza Italia sono stati ripetuti più volte in aula. Nelle motivazioni della prima sentenza, che è stata confermata oggi dalla Corte d’Assise d’Appello, i giudici avevano fatto espresso riferimento ai “mandanti politici” delle stragi continentali che, su indicazione dei servizi segreti deviati, venivano rivendicate dalla ‘Ndrangheta e da Cosa nostra con la sigla “Falange Armata”.

Ecco perché nella prima sentenza si legge che le “responsabilità degli imputati” Graviano e Filippone “costituiscono soltanto un primo approdo”: dietro agli attentati è “assai probabile” che oltre alla ‘Ndrangheta e a Cosa nostra vi fossero “dei mandanti politici che attraverso la ‘strategia della tensione’ volevano evitare l’avvento al potere delle sinistre”.

Un concetto ribadito pure nel secondo processo dove il pg Lombardo ha fatto riferimento a “interlocutori politici” che “sono stati individuati, indipendentemente dal fatto che possano esserci responsabilità personali ancora da accertare”.

Una frase che fa il paio con quella che il magistrato ha pronunciato nell’ultima udienza di giovedì quando, replicando agli avvocati, ha sottolineato come siamo di fronte a un processo storico che non si è concluso: “Se poi la storia ci fa paura perché diventa particolarmente significativa a livello giudiziario – ha affermato il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo – non è un problema mio. Questa è la storia. La difesa Filippone dice: ‘Ma dove sono gli altri? Dove sono gli altri mandanti di questo omicidio?’. Certamente per l’inquadramento che si dà a questi accadimenti ci devono essere mandanti ulteriori rispetto a Rocco Santo Filippone. Ebbene sì. È così e questo mi pare che lo abbiamo sempre sostenuto. Ma abbiamo sostenuto che ci siano mandanti ulteriori rispetto a Rocco Santo Filippone con una veste che Rocco Santo Filippone non aveva, proprio perché, nonostante la sua alta collocazione criminale, risultava già evidente da quello che in atti era presente, ancor prima dell’intercettazione Adornato-Ferraro”.

Il riferimento è all’intercettazione ambientale registrata dai carabinieri nell’ambito dell’inchiesta “Hybris” che, nelle settimane scorse, ha portato all’arresto di 49 persone ritenute vicine alla cosca Piromalli. A parlare, il 17 gennaio 2021 era Francesco Adornato, indagato nell’inchiesta della Dda, che ha rivelato a un altro soggetto, Giuseppe Ferraro appunto, alcuni dettagli circa una riunione avvenuta a Nicotera, presso il resort Sayonara, dove le famiglie mafiose calabresi hanno dato la loro disponibilità a Cosa nostra per partecipare alle stragi.

Ritornando al ragionamento del magistrato, le sue parole in un’aula giudiziaria rischiano di far tremare i polsi non solo alla componente mafiosa del sistema criminale. Per Lombardo, infatti, la posizione dell’esponente della cosca Piromalli “non è paragonabile a chi gli stava sopra. Perché Rocco Santo Filippone è il mandato prossimo che è cosa diversa dal mandato remoto. E quindi, in una stratificazione di mandanti, qui lo processiamo in questo ruolo in attesa di processare gli altri. E quelli che stanno sopra di loro e che li hanno messi là. Abbiamo una stratificazione di mandanti da quello che risulta sufficientemente chiaro”.

Un modo come un altro per dire che l’inchiesta non è finita e che il processo “’Ndrangheta stragista” avrà un seguito: se una sentenza d’appello, non definitiva, stasera ha stabilito che i carabinieri Fava e Garofano, uccisi materialmente da Giuseppe Calabrò e Consolato Villani, sono morti perché lo hanno voluto Giuseppe Graviano e Rocco Santo Filippone, dall’altro “sopra di loro” ci sono altri responsabili di un “mandato remoto” che potrebbero essere presto portati alla sbarra.

L’ergastolo inflitto a Graviano e Filippone lascia intendere che la Corte d’Assise d’Appello ha condiviso l’impianto accusatorio della Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria. Per sapere come lo ha condiviso occorrerà aspettare 90 giorni entro i quali verranno depositate le motivazioni della sentenza che poi dovranno essere vagliate dalla Corte di Cassazione dove, senza dubbio, ricorreranno i difensori dei due imputati, gli avvocati Giuseppe Aloisio, Federico Vianelli, Guido Contestabile e Salvatore Staiano.


23.3.2023 ‘Ndrangheta stragista sull’asse Reggio-Palermo: arriva il giorno del verdetto


‘Ndrangheta stragista, «l’intercettazione prova» tra Adornato e Ferraro entra nel processo

La Corte d’assise d’appello di Reggio accoglie l’istanza del pm Lombardo. I due parlano dei rapporti tra Cosa Nostra e ‘ndrine

Acquisita dalla Corte d’assise d’appello di Reggio Calabria, nell’ambito del processo “‘Ndrangheta stragista”, l’intercettazione della conversazione tra Francesco Adornato e Giuseppe Ferraro contenuta nelle carte dell’inchiesta “Hybris” contro la cosca Piromalli: «Un’intercettazione prova». Così il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo aveva definito la conversazione avvenuta il 17 gennaio 2021 in cui Adornato, secondo gli investigatori «navigato esponente della ‘ndrangheta», e Ferraro, indagato nel procedimento, parlavano dei rapporti tra ‘Ndrangheta e Cosa nostra per l’attuazione della strategia stragista. Le stragi, si evince dalle intercettazioni, erano «dirette all’eliminazione del regime di carcere duro», il 41bis, e «si progettava di arrivare ad assassinare un ministro e fare un colpo di Stato».
Contenuti che richiamano quelli del processo che si sta celebrando in appello contro il boss palermitano Giuseppe Graviano e Rocco Santo Filippone, ritenuto espressione della cosca Piromalli di Gioia Tauro, per l’uccisione dei carabinieri Antonino Fava e Vincenzo Garofalo, trucidati il 18 gennaio 1994 in un agguato avvenuto sull’autostrada Salerno-Reggio.

L’intercettazione e la richiesta di acquisizione. «Adornato la voce dal di dentro»

È proprio il 72enne Adornato, condannato in via definitiva per mafia nel 1988, a raccontare a Ferraro che «la commissione si era riunita presso il resort “Sayonara” sito a Nicotera e che era presente Pesce ed era assente Pino Piromalli ma che quest’ultimo aveva conferito a Pesce il mandato a rappresentarlo». «Pesce, in proprio ed in nome e per conto di Piromalli, – ha aggiunto Adornato – aveva votato a favore della partecipazione alle stragi anche da parte della ‘ndrangheta». Un progetto criminale che era stato abbracciato dai Pesce e dai Piromalli, nonostante il parere contrario di Luigi Mancuso. Secondo il racconto di Adornato, infatti, «era presente anche Luigi Mancuso, esponente apicale dell’omonimo clan di Vibo Valentia, il quale, al contrario, aveva votato contro la suddetta partecipazione».
«Siamo parlando di soggetti che vivono le dinamiche di ‘ndrangheta», ha detto nel corso della scorsa udienza il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo, che ha chiesto alla Corte presieduta da Bruno Muscolo l’acquisizione dell’intercettazione, definendola «un’intercettazione prova».
In riferimento alla figura di Adornato, Lombardo ha spiegato: «È uomo di ‘ndrangheta, non parla per sentito dire». «Io ritengo – ha detto ancora il procuratore aggiunto – che non si possa prescindere da questi contenuti».

L’intercettazione Le difese: «Necessario chiarire il ruolo di Adornato»

Si sono opposti all’acquisizione dell’intercettazione gli avvocati Guido Contestabile e Giuseppe Aloisio, legali di Filippone e Graviano. «Credo sia una questione mediatica, solo ed esclusivamente mediatica», ha detto l’avvocato Aloisio, che ha menzionato, mettendo a disposizione della Corte, alcuni articoli di giornale datati 4 giugno 2018 che riportano la testimonianza del boss pentito Franco Pino nell’ambito del processo “‘Ndrangheta stragista” celebrato in primo grado. Pino, nel corso della sua testimonianza, aveva parlato dell’incontro al Villaggio Sayonara di Marina di Nicotera tra esponenti della ‘ndrangheta e di Cosa nostra per “ascoltare” le richieste dei Corleonesi.
«Quello che è stato rappresentato non corrisponde al vero. Non stiamo parlando di un soggetto, Adornato, che è “la voce dal di dentro” rispetto alle “dinamiche di ‘ndrangheta”», ha detto il legale di Graviano riferendosi alle parole utilizzate dal procuratore Lombardo. «Il punto è: chi è Adornato? Non sappiamo quale era il ruolo che gli è stato contestato nell’88 quando è stato condannato. Come fa questo soggetto a sapere di determinate dinamiche all’interno della cosca Piromalli? Credo – ha detto infine – non sia una intercettazione che possa dare qualcosa in più o che può essere strettamente necessaria ai fini della decisione finale».
Stesse osservazioni dall’avvocato Guido Contestabile, legale di Rocco Santo Filippone: «Non conosciamo i contorni della condanna nel 1988, conoscere la posizione di Adornato è necessario, così come è necessaria la trascrizione dell’intercettazione. Adornato dovrebbe dire chi è la propria fonte. Se è vero che è stato condannato per 416bis è anche vero che dall’88 sono passati 35 anni», ha concluso Contestabile. Una circostanza «inammissibile», ha detto Lombardo, quella che «Adornato venga davanti a voi a dire che ha svolto il ruolo di autista di Pino Piromalli».

La decisione della Corte

La Corte ha acquisito l’intercettazione e ha nominato il perito, Vincenzo Ventre, per la trascrizione che avrà inizio domani e verrà depositata il 17 marzo. La Corte, inoltre, si è riservata di decidere circa la possibilità di ascoltare Adornato all’esito dell’attività istruttoria. La prossima udienza si terrà mercoledì 15 marzo e verrà ascoltato il tenente colonnello Massimiliano Galasso che ha redatto l’informativa, depositata venerdì assieme all’intercettazione, da cui emergerebbe un riscontro alle dichiarazioni rese, nel processo di primo grado, dal collaboratore di giustizia Franco Pino. (redazione@corrierecal.it)

 


11.3.2023 L’intercettazione sulle stragi di Stato. «Ora ci dicono di ammazzare un ministro»

10.3.2023  «E chi la vince la guerra con lo Stato…». Le stragi programmate per la cancellazione del 41bis


1.3.2023 Processo d’Appello ‘ndrangheta stragista. La parola alla difesa


28.3.2023  Requisitoria PM Lombardo audio e news 


27.2.2023 – ‘Ndrangheta stragista: le trame segrete dei clan con P2, massoneria deviata ed eversione nera


25.2.2023 ‘𝗡𝗗𝗥𝗔𝗡𝗚𝗛𝗘𝗧𝗔 𝗦𝗧𝗥𝗔𝗚𝗜𝗦𝗧𝗔, 𝗜𝗟 𝗣𝗠: “𝗗𝗜𝗘𝗧𝗥𝗢 𝗟𝗘 𝗕𝗢𝗠𝗕𝗘 𝗗𝗘𝗟 ‘𝟵𝟯 𝗨𝗡 𝗣𝗥𝗢𝗚𝗘𝗧𝗧𝗢 𝗣𝗢𝗟𝗜𝗧𝗜𝗖𝗢 𝗖𝗛𝗘 𝗛𝗔 𝗣𝗢𝗥𝗧𝗔𝗧𝗢 𝗔 𝗙𝗢𝗥𝗭𝗔 𝗜𝗧𝗔𝗟𝗜𝗔”


12.9.2022 – ‘Ndrangheta stragista: il Pm annuncia in appello nuovi verbali

Si arricchisce di ulteriori elementi probatori la tesi dell’accusa nel processo denominato “‘Ndrangheta stragista”, dove sono imputati in appello il boss di Cosa Nostra Giuseppe Graviano e il capobastone di Melicucco (Reggio Calabria), Rocco Santo Filippone, condannati in primo grado all’ergastolo per essere stati i mandanti del duplice omicidio dei carabinieri Vincenzo Fava e Antonino Garofalo, assassinati a colpi di fucile mitragliatore il 18 gennaio del 1994 nei pressi dello svincolo autostradale di Scilla, durante un servizio di controllo. Il Procuratore aggiunto della direzione distrettuale di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo, ha infatti reso noto oggi in aula dei nuovi atti, tre verbali raccolti dalla Dda di Catanzaro dei collaboratori Gerardo d’Urzo (deceduto), Marcello Fondacaro, di Gioia Tauro, e Girolamo Bruzzese. Nei documenti sarebbero citati uomini politici degli anni ’90 che, secondo la valutazione dell’accusa, “meritano la massima attenzione”. Secondo quanto si e’ appreso, i nuovi elementi di accusa saranno portati al vaglio, il prossimo 15 settembre, del Procuratore nazionale antimafia, Giovanni Melillo, e saranno oggetto di valutazione nel corso di una specifica riunione alla presenza dei pubblici ministeri dei Tribunali di Reggio Calabria, Firenze, Caltanissetta e Palermo. Il processo ‘Ndrangheta stragista proseguira’ il prossimo 3 ottobre davanti ai giudici di Appello.
 
 
 

PROCESSO PRIMO GRADO


Video LETTURA della SENTENZA

PM LOMBARDO: “Sentenza storica” – video   – audio


 

«QUANDO ’NDRANGHETA E COSA NOSTRA DICEVANO: “ABBIAMO IL PAESE NELLE MANI”»

 “Non può affatto escludersi, anzi appare piuttosto assai probabile, che dietro tali avvenimenti vi fossero dei mandanti politici che attraverso la ‘strategia della tensione’ volevano evitare l’avvento al potere delle sinistre, temuto anche dalle organizzazioni criminali, che erano riuscite con i precedenti referenti politici a godere di benefici e agevolazioni. Si può, quindi, affermare che in tale circostanza si era venuta a creare una sorta di convergenza di interessi tra vari settori che hanno sostenuto ideologicamente la strategia stragista di Cosa Nostra”.

22.1.2021 

Ndrangheta stragista: sentenza, non esclusi mandanti politici  “Non può affatto escludersi, anzi appare piuttosto assai probabile, che dietro tali avvenimenti vi fossero dei mandanti politici che attraverso la ‘strategia della tensione’ volevano evitare l’avvento al potere delle sinistre, temuto anche dalle organizzazioni criminali, che erano riuscite con i precedenti referenti politici a godere di benefici e agevolazioni. Si può, quindi, affermare che in tale circostanza si era venuta a creare una sorta di convergenza di interessi tra vari settori che hanno sostenuto ideologicamente la strategia stragista di Cosa Nostra”. È quanto si afferma nelle motivazioni della sentenza del processo”’Ndrangheta stragista” con la quale la Corte d’Assise di Reggio Calabria, su richiesta del procuratore Giovanni Bombardieri e dell’aggiunto Giuseppe Lombardo, sono stati condannati all’ergastolo lo scorso 24 luglio il boss siciliano Giuseppe Graviano e Rocco Santo Filippone, considerato dalla Dda il referente della cosca Piromalli. Graviano e Filippone sono ritenuti i mandanti degli attentati ai carabinieri Antonio Fava e Vincenzo Garofalo uccisi il 18 gennaio 1994 sulla Salerno-Reggio Calabria, nei pressi dello svincolo di Scilla. “Le conclusioni cui è pervenuta questa Corte in ordine alla responsabilità degli imputati – è scritto nella sentenza – costituiscono soltanto un primo approdo, dal momento che la complessa istruttoria dibattimentale, ivi comprese le dichiarazioni di Giuseppe Graviano, lascia intravedere il coinvolgimento di ulteriori soggetti che hanno concorso nella ideazione e deliberazione degli eventi in esame. Ciò che si ricava è che dietro tutto ciò non vi sono state soltanto le organizzazioni criminali, ma anche tutta una serie di soggetti provenienti da differenti contesti (politici, massonici, servizi segreti), che hanno agito al fine di destabilizzare lo Stato per ottenere anch’essi vantaggi di vario genere, approfittando anche di un momento di crisi dei partiti tradizionali”. Per questo motivo, “con riferimento alla identificazione di tali soggetti”, la Corte d’Assise di Reggio Calabria ha trasmesso alcuni atti del processo alla Procura della Repubblica perché continui a indagare. (ANSA 22.1.2021).


i giudici: “Mandanti politici dietro agli attentati. C’era una strategia unitaria per destabilizzare lo Stato”. Trasmessi gli atti in procura: “Ora fare luce sulle accuse di Graviano a Berlusconi”

LE MOTIVAZIONI – Nelle 1078  pagine di sentenza del processo, che si è concluso con l’ergastolo per il boss di Brancaccio e per Filippone, la Corte d’Assise di Reggio Calabria scrive che “l’attentato ai danni dei carabinieri” del dicembre ’93 e il duplice omicidio di Fava e Garofalo si collocano “all’interno di una strategia omogenea e unitaria” portata avanti da una serie di soggetti provenienti da differenti contesti (politici, massonici, servizi segreti)”. I giudici ricostruiscono le dinamiche che hanno portato Cosa nostra ad appoggiare prima la Dc e poi Forza Italia. E chiedono di accertare la natura del “risentimento” di Graviano verso l’ex premier

“L’attentato ai danni dei carabinieri avvenuto nella notte tra il 1 e 2 dicembre 1993 e il duplice omicidio del 18 gennaio 1994 sono da considerarsi un antecedente necessario del più eclatante attentato (la fallita strage dell’Olimpico, ndr) che si sarebbe dovuto compiere, nelle intenzioni del Graviano, a distanza di pochi giorni, in un crescendo che si colloca all’interno di una strategia omogenea e unitaria”. È quanto scrive la Corte d’Assise di Reggio Calabria nelle motivazioni della sentenza del processo “’Ndrangheta stragista” che a fine luglio si è concluso con la condanna all’ergastolo per il boss di Brancaccio Giuseppe Graviano e per Rocco Santo Filippone, ritenuto dalla Dda espressione della cosca Piromalli di Gioia Tauro. Per i giudici, però, le “responsabilità degli imputati costituiscono soltanto un primo approdo”: dietro agli attentati è “assai probabile” che oltre alla ‘Ndrangheta e a Cosa nostra vi fossero “dei mandanti politici che attraverso la ‘strategia della tensione’ volevano evitare l’avvento al potere delle sinistre”. La presidente Ornella Pastore, il giudice a latere Vincenza Bellini e i giudici popolari hanno sposato in pieno l’impianto accusatorio del procuratore Giovanni Bombardieri e dell’aggiunto Giuseppe Lombardo. Quest’ultimo è riuscito, “a distanza di circa venticinque anni dai fatti, a fornire una nuova e diversa lettura delle ragioni” che hanno portato alla morte dei carabinieri Antonino Fava e Vincenzo Garofalo, trucidati sulla Salerno-Reggio Calabria all’altezza dello svincolo di Scilla.

“Cinico piano di controllo del potere politico” – Secondo la Corte d’Assise, Graviano e Filippone sono i mandanti di quell’agguato e degli altri due attentati consumati a Reggio Calabria ai danni dei carabinieri. Stragi che rientravano in una “comune strategia eversivo-terrorista” e “hanno costituito uno dei momenti più significativi di un cinico piano di controllo del potere politico (fortunatamente fallito) nel quale sono confluite tendenze eversive anche di segno diverso (servizi segreti deviati) per effetto anche della ‘contaminazione’ o ‘evoluzione’ originata dall’inserimento della mafia siciliana e calabrese all’interno della massoneria”. “Il culmine di tale attacco allo Stato – si legge nella sentenza di primo grado – si sarebbe dovuto raggiungere il 23 gennaio 1994 con l’attentato allo Stadio Olimpico di Roma che, se portato a termine, avrebbe certamente determinato l’uccisione di decine e decine di carabinieri, piegando in maniera definitiva lo Stato, già colpito dalle stragi avvenute negli anni precedenti”. Il tutto si è incastrato “in un momento in cui le organizzazioni erano alla ricerca di nuovi e più affidabili referenti politici, disposti a scendere a patti con la mafia, che furono individuati nel neopartito Forza Italia di Silvio Berlusconi in cui erano confluiti i movimenti separatisti nati in quegli anni come risposta alle spinte autonomistiche in Sicilia e Calabria”.

La corte d’Assise: “Ci sono mandanti politici” – Nonostante il procuratore Lombardo, “con un notevole sforzo investigativo, protrattosi anche nel corso dell’istruttoria dibattimentale”, sia riuscito a fare luce su una delle pagine più buie del nostro Paese, ci sono anche altri responsabili di quella strategia stragista: “Le conclusioni cui è pervenuta questa Corte in ordine alla responsabilità degli imputati – scrive infatti la presidente Pastore – costituiscono soltanto un primo approdo, dal momento che la complessa istruttoria dibattimentale, ivi comprese le dichiarazioni di Giuseppe Graviano, lascia intravedere il coinvolgimento nelle vicende esaminate di ulteriori soggetti che hanno concorso nella ideazione e deliberazione degli eventi in esame”.

E ancora: “Non può affatto escludersi, anzi appare piuttosto assai probabile, che dietro tali avvenimenti vi fossero dei mandanti politici che attraverso la ‘strategia della tensione’ volevano evitare l’avvento al potere delle sinistre, temuto anche dalle organizzazioni criminali, che erano riuscite con i precedenti referenti politici a godere di benefici e agevolazioni. Si può, quindi, affermare che in tale circostanza si era venuta a creare una sorta di convergenza di interessi tra vari settori che hanno sostenuto ideologicamente la strategia stragista di Cosa Nostra”.

I voti di Cosa nostra: dalla Dc a Forza Italia – Nelle 1078 pagine di sentenza, la Corte d’Assise ricostruisce le dinamiche che hanno portato Cosa Nostra ad appoggiare la Democrazia Cristiana fino a quando erano andate in fumo, nel gennaio 1992, le speranze di ottenere un annullamento della sentenza del maxi processo. Dopo l’omicidio Lima, i voti della mafia siciliana “erano stati dirottati sul ‘Partito Socialista’ e anche sul partito Radicale”. Con la crisi dei partiti tradizionali, però, “Cosa Nostra aveva deciso di uniformarsi a ciò che stava accadendo nel resto del sud Italia creando movimenti autonomisti”. Un progetto questo che, presto, non era apparso più conveniente ed “era stato quindi accantonato in favore dell’appoggio al nascente partito politico Forza Italia”. Un cambio di rotta condiviso con la ‘ndrangheta. Lo dimostra ciò che avvenne il 24 febbraio 1994 quando il boss “Giuseppe Piromalli, durante il processo celebrato a Palmi per l’estorsione per i ripetitori Fininvest, prendeva la parola in aula e dalla cella gridava: “Voteremo Berlusconi, voteremo Berlusconi”.

Graviano al bar Doney con Dell’Utri – Nelle motivazioni della sentenza, inoltre, ha trovato spazio il famoso incontro tra il boss Giuseppe Graviano e Marcello Dell’Utri avvenuto in via Veneto a Roma nel gennaio 1994 e “finalizzato a discutere del nuovo partito politico che stava per nascere, Forza Italia”. Nel corso dell’istruttoria dibattimentale è stato sentito il pentito Gaspare Spatuzza a cui il boss di Brancaccio aveva mostrato “la sua felicità per il fatto di essere riuscito ad ottenere ‘tutto quello che cercava’, con ciò facendo riferimento a Berlusconi ‘quello del Canale 5’ e al ‘compaesano’ Dell’Utri”. Al collaboratore di giustizia, infatti, aveva detto di avere “il paese nelle mani” e che bisognava dare il “colpo di grazia” con l’attentato ai carabinieri.

Durante il processo, la Procura ha dimostrato che negli stessi giorni dell’incontro di via Veneto, a poche centinaia di metri all’Hotel Majestic Dell’Utri era impegnato in una serie d’incontri preparatori alla discesa in campo di Berlusconi. Sul punto, la Corte d’Assise non ha dubbi: “Può ragionevolmente ritenersi che il Graviano il 21 gennaio 1994, prima di incontrare lo Spatuzza per discutere degli ultimi dettagli riguardanti l’attentato allo stadio Olimpico, avesse avuto modo di colloquiare con il Dell’Utri che nello stesso giorno si trovava a Roma poco distante dal bar Doney”.

Il boss di Brancaccio rompe il silenzio – A differenza del processo di Firenze quando il boss siciliano si è avvalso della facoltà di non rispondere nel momento in cui gli erano state poste domande su Marcello Dell’Utri, dopo 26 anni in riva allo Stretto Graviano ha rotto il silenzio. Nelle udienze dedicate al suo interrogatorio, ha reso numerose dichiarazioni spontanee e ha risposto pure alle domande del procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo. Per i giudici, “ha inteso a suo modo sciogliere tale riserva riferendo diffusamente, in ordine ai suoi rapporti con Silvio Berlusconi, descrivendone le origini, che ha indicato in ragioni di carattere economico. Ha inoltre spiegato le ragioni del risentimento nei confronti dell’esponente politico che è arrivato persino ad indicare come il mandante del suo arresto”.

Sarà la Procura, a cui la Corte d’Assise ha trasmesso le “copiose dichiarazioni rese dal Graviano”, a fare luce sulle accuse mosse dal boss e a verificare se siano calunnie o verità. Tuttavia, per i magistrati, si tratta di “dichiarazioni di estremo rilievo che, unitamente al contenuto delle conversazioni intercettate presso il carcere di Ascoli Piceno intercorse con l’Adinolfi, confermano l’esistenza di aspettative da parte del Graviano nei confronti del nuovo governo, in quanto a seguito dell’avvicendamento politico venutosi a creare, egli sperava che potessero intervenire modifiche legislative riguardanti il regime detentivo ed altro”. Aspettative rimaste tali e questo “ha determinato nel Graviano rabbia e risentimento, essendo egli peraltro persuaso di essere stato tratto in arresto deliberamente per evitare la formalizzazione del suo accordo economico con Berlusconi”.

Il presunto ruolo strategico che il leader di Forza Italia avrebbe avuto nell’arresto di Graviano riguarderebbe, infatti, una serie di investimenti fatti dal nonno del boss a Milano negli anni ’60 e ’70. Il capocosca di Brancaccio riporta la vicenda pure nel memoriale consegnato alla Corte d’Assise pochi giorni prima di essere condannato all’ergastolo: “L’imputato ribadisce che dall’ascolto delle conversazioni è possibile comprendere la vera natura del rapporto che lo lega al predetto (Berlusconi, ndr), il quale, grazie alla manovre messe in atto da ‘qualcuno’ o più di ‘qualcuno’, avrebbe guadagnato ‘alla fine degli anni 60, la cifra di ben 20 miliardi di lire, che si dovevano tradurre nel 20% degli investimenti fatti negli anni dallo stesso’”. I “rapporti di natura economica” con Berlusconi, secondo i giudici, “risultano totalmente indimostrati essendo sul punto le dichiarazioni del Graviano prive di qualunque riscontro”.

La strage di Via d’Amelio, l’agenda di Borsellino – Come è stato per le udienze in cui ha reso dichiarazioni, anche con il suo memoriale Giuseppe Graviano ha dimostrato di essere un geloso custode del suo “bagaglio di conoscenze”: dall’omicidio del poliziotto Agostino (in cui “sarebbero coinvolti soggetti che si sono resi responsabili dell’omicidio di suo padre”) alla strage di Via D’Amelio (“è stato imbastito – ha detto – un disegno criminoso per tutelare gli interessi di qualcuno o più di qualcuno”), fino alla sparizione dell’agenda rossa di Paolo Borsellino per la quale il boss ha fatto chiaramente intendere di sapere chi l’ha presa dal luogo della strage.

Se non è un invito a collaborare con la giustizia, lo sembra molto quello della Corte d’Assise di Reggio Calabria: “Deve certamente ritenersi – scrive, infatti, la presidente Ornella Pastore – che l’imputato potrebbe fornire un contributo rilevante per fare piena luce, oltre che sui fatti per cui è processo, anche su altri gravi episodi criminosi che hanno insanguinato il nostro Paese all’inizio degli anni ’90, tra cui la strage di via D’Amelio, a meno che, a distanza di quasi 27 anni dal suo arresto, non continui ancora a sperare che possa accadere qualche ‘bella cosa’”. “In ogni caso – si legge sempre nella sentenza – le circostanze riferite dal Graviano meritano certamente di essere valutate ed approfondite nelle sedi competenti nella speranza che possano giovare finalmente a fare completa chiarezza su avvenimenti che hanno segnato e continuano tuttora a segnare la storia dell’Italia”.

Strategia stragista, le indagini della Dda continuano – Quanto emerso dal processo è certamente un tassello importante sui tanti misteri che hanno insanguinato l’Italia nei primi anni novanta con una strategia stragista cercata e voluta da un sistema che il procuratore aggiunto Lombardo ha più volte definito “comitato d’affari che comprende al suo interno ‘Ndrangheta, Mafia siciliana, politica collusa, pezzi di istituzioni e pezzi di servizi segreti”. Da qui le considerazioni della Corte D’Assise che, analizzando quanto emerso nell’istruttoria dibattimentale, ha concluso: “Ciò che si ricava ancora è che dietro tutto ciò non vi sono state soltanto le organizzazioni criminali, ma anche tutta una serie di soggetti provenienti da differenti contesti (politici, massonici, servizi segreti), che hanno agito al fine di destabilizzare lo Stato per ottenere anch’essi vantaggi di vario genere, approfittando anche di un momento di crisi dei partiti tradizionali. Anche con riferimento alla identificazione di tali soggetti, compito certamente non agevole in considerazione altresì del lungo lasso temporale decorso rispetto ai fatti in esame, si impone quindi la trasmissione degli atti alla Procura della Repubblica”. di Lucio Musolino | 22 GENNAIO 2021 FATTO QUOTIDIANO


‘NDRANGHETA STRAGISTA: LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA  “Non può affatto escludersi, anzi appare piuttosto assai probabile, che dietro tali avvenimenti vi fossero dei mandanti politici che attraverso la ‘strategia della tensione’ volevano evitare l’avvento al potere delle sinistre, temuto anche dalle organizzazioni criminali, che erano riuscite con i precedenti referenti politici a godere di benefici e agevolazioni. Si può, quindi, affermare che in tale circostanza si era venuta a creare una sorta di convergenza di interessi tra vari settori che hanno sostenuto ideologicamente la strategia stragista di Cosa Nostra”.

È quanto si afferma nelle motivazioni della sentenza “‘Ndrangheta stragista” con la quale la Corte d’Assise di Reggio Calabria, su richiesta del procuratore Giovanni Bombardieri e dell’aggiunto Giuseppe Lombardo, sono stati condannati all’ergastolo lo scorso 24 luglio il boss siciliano Giuseppe Graviano e Rocco Santo Filippone, considerato dalla Dda il referente della cosca Piromalli. Graviano e Filippone sono ritenuti i mandanti degli attentati ai carabinieri Antonio Fava e Vincenzo Garofalo uccisi il 18 gennaio 1994 sulla Salerno-Reggio Calabria, nei pressi dello svincolo di Scilla. “Le conclusioni cui è pervenuta questa Corte in ordine alla responsabilità degli imputati – è scritto nella sentenza – costituiscono soltanto un primo approdo, dal momento che la complessa istruttoria dibattimentale, ivi comprese le dichiarazioni di Giuseppe Graviano, lascia intravedere il coinvolgimento di ulteriori soggetti che hanno concorso nella ideazione e deliberazione degli eventi in esame.
Ciò che si ricava è che dietro tutto ciò non vi sono state soltanto le organizzazioni criminali, ma anche tutta una serie di soggetti provenienti da differenti contesti (politici, massonici, servizi segreti), che hanno agito al fine di destabilizzare lo Stato per ottenere anch’essi vantaggi di vario genere, approfittando anche di un momento di crisi dei partiti tradizionali”. Per questo motivo, “con riferimento alla identificazione di tali soggetti”, la Corte d’Assise di Reggio Calabria ha trasmesso alcuni atti del processo alla Procura della Repubblica perché continui a indagare.

Con attentati a carabinieri strategia eversiva Rientravano in una “comune strategia eversivo-terrorista” gli attentati ai carabinieri, avvenuti tra il 1993 e il 1994 e per i quali sono stati condannati i boss Giuseppe Graviano e Rocco Santo Filippone. Nelle motivazioni della sentenza, il presidente della Corte d’Assise di Reggio Calabria Ornella Pastore scrive che “di tale strategia, i tre attentati ai carabinieri (fortunatamente non tutti andati a buon fine) hanno costituito uno dei momenti più significativi di un cinico piano di controllo del potere politico (fortunatamente fallito) nel quale sono confluite tendenze eversive anche di segno diverso (servizi segreti deviati) per effetto anche della ‘contaminazione’ o ‘evoluzione’ originata dall’inserimento della mafia siciliana e calabrese all’interno della massoneria”. “Il culmine di tale attacco allo Stato – scrive sempre la Corte d’Assise – si sarebbe dovuto raggiungere il 23 gennaio 1994 con l’attentato allo Stadio Olimpico di Roma che, se portato a termine, avrebbe certamente determinato l’uccisione di decide e decine di carabinieri, piegando in maniera definitiva lo Stato, già colpito dalle stragi avvenute negli anni precedenti”.

“Fi referente organizzazioni” L’attentato ai carabinieri in Calabria e la tentata strage dell’Olimpico sarebbero avvenuti ‘in un momento in cui le organizzazioni erano alla ricerca di nuovi e più affidabili referenti politici, disposti a scendere a patti con la mafia, che furono individuati nel neopartito Forza Italia di Silvio Berlusconi in cui erano confluiti i movimenti separatisti nati in quegli anni come risposta alle spinte autonomistiche in Sicilia e Calabria’”.

È quanto si legge ancora nella sentenza del processo “‘Ndrangheta stragista” in cui sono stati condannati all’ergastolo il boss di Brancaccio Giuseppe Graviano e il referente della cosca Piromalli, Rocco Santo Filippone accusati di essere i mandanti del duplice omicidio in cui persero la vita i carabinieri Antonino Fava e Vincenzo Garofalo. Nelle motivazioni della sentenza di primo grado, la Corte d’Assise di Reggio Calabria affronta pure il tema dell’incontro che, secondo il collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza, sarebbe avvenuto nel gennaio 1994 tra Graviano e Marcello Dell’Utri in via Veneto a Roma.

I due avrebbero discusso “del nuovo partito politico che stava per nascere, Forza Italia”. “Può ragionevolmente ritenersi – scrivono i giudici – che il Graviano il 21 gennaio 1994, prima di incontrare lo Spatuzza per discutere degli ultimi dettagli riguardanti l’attentato allo stadio Olimpico, avesse avuto modo di colloquiare con il Dell’Utri che nello stesso giorno si trovava a Roma poco distante dal bar Doney”. TVLEN 21.1.2021


Ergastolo a Graviano e Filippone Condannati quali mandanti attentati a Cc in strategia tensione La Corte d’assise di Reggio Calabria ha condannato all’ergastolo il boss Giuseppe Graviano e Rocco Santo Filippone, ritenuto espressione della cosca Piromalli di Gioia Tauro. Dopo tre giorni di camera di consiglio, il dispositivo è stato letto dalla presidente della Corte Ornella Pastore che ha accolto le richieste del procuratore Giovanni Bombardieri e dell’aggiunto Giuseppe Lombardo. Si è concluso così il processo “‘Ndrangheta stragista”: Graviano e Filippone sono stati condannati per essere stati i mandanti dell’agguato in cui morirono i due carabinieri Antonino Fava e Vincenzo Garofalo, uccisi nei pressi dello svincolo di Scilla dell’autostrada A3 il 18 gennaio 1994. Difesi dagli avvocati Giuseppe Aloisio, Federico Vianelli, Guido Contestabile e Angelo Sorace, i due imputati sono stati ritenuti colpevoli anche dei due attentati ai danni dei carabinieri avvenuti a Reggio Calabria a cavallo tra il 1993 e il 1994.  Quegli agguati, secondo la Dda, rientravano nella “strategia stragista” attuata da Cosa Nostra e ‘Ndrangheta contro lo Stato. (ANSA).


“‘Ndrangheta stragista”, chiesto l’ergastolo per i boss Graviano e Filippone  E’ giunto alle fasi finali il processo “‘ndrangheta stragista” (iniziato a Reggio Calabria il 30 Ottobre 2017) che vede alla sbarra Giuseppe Graviano e Rocco Santo Filippone.  Dalle stragi di Capaci a via D’Amelio, agli attacchi contro i carabinieri in Calabria culminati con il duplice omicidio del 18 gennaio 1994 sull’autostrada Salerno-Reggio Calabria dei carabinieri Antonio Fava e Giuseppe Garofalo ed i tentati omicidi di altri carabinieri, eseguiti da due giovanissimi killer della cosca di ‘ndrangheta dei ‘Lo Giudice’, Giuseppe Calabrò e Consolato Villani. E’ il quadro ricostruito dalla Dda di Reggio Calabria, che ha portato alla sbarra Giuseppe Graviano, boss del mandamento palermitano di ‘Brancaccio’ e Rocco Filippone, di 77 anni, di Melicucco, indicato dagli inquirenti come colui che, per conto della cosca Piromalli di Gioia Tauro, teneva i rapporti con la destra eversiva e la massoneria occulta. I due sono ritenuti i mandanti degli agguati ai carabinieri in Calabria, da inserire, secondo la Dda reggina, nella strategia stragista messa in atto da Cosa nostra tra il 1993 ed il 1994 con gli attentati a Firenze, Roma e Milano.



  AUDIO UDIENZE 


 

“Anche la ‘Ndrangheta ha firmato le stragi di mafia”, la procura chiede l’ergastolo per i boss pm Lombardo chiede l’ergastolo con 3 anni di isolamento diurno più 24 anni per strage per Rocco Santo Filippone; ergastolo per il boss di Brancaccio, Giuseppe Graviano. Anche la ‘Ndrangheta ha firmato le stragi di mafia. E il boss di Brancaccio Giuseppe Graviano e il mammasantissima di Melicucco Rocco Santo Filippone per questo devono essere condannati “non a pene esemplari, ma a pene giuste previste dal codice. Ergastolo con 3 anni di isolamento diurno più 24 anni per strage per Rocco Santo Filippone; ergastolo per il boss di Brancaccio, Giuseppe Graviano. Per il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo, che ha coordinato l’inchiesta e sostenuto l’accusa a processo, sono loro i mandanti dei tre attentati contro i carabinieri con cui i clan calabresi hanno fornito il loro contributo. E non solo ad una stagione di sangue, ma ad un progetto eversivo portato avanti da un sistema criminale di cui Cosa Nostra e ‘Ndrangheta fanno parte. Le richieste alla Corte d’Assise le avanza il procuratore capo Giovanni Bombardieri, accanto c’è il procuratore capo della Dna Federico Cafiero de Raho, il magistrato di collegamento con la procura nazionale antimafia, Sandro Dolce, il pm Walter Ignazzito, che con Lombardo ha sviluppato parte del dibattimento, i vertici locali delle forze dell’ordine. “Voi siete chiamati a dare giustizia non solo a familiari e amici delle vittime”, dice Bombardieri alla Corte d’assise, “Perché questo è un processo storico e ha ricostruito un quadro probatorio pieno e le responsabilità penali degli attuali imputati”. Ci si è arrivati al termine di un’istruttoria complicata, durata oltre tre anni ma necessaria – ha detto Lombardo nel corso della requisitoria –  per superare “trent’anni di mistificazioni”. Sul ruolo della ‘Ndrangheta nella stagione delle stragi e su come sia riuscita per decenni a nascondersi scaricando l’omicidio dei brigadieri Fava e Garofalo e gli altri due attentati su due picciotti a stento o neanche maggiorenni.  Sul reale significato di quella scia di sangue e sulle ragioni politiche ed economiche che l’hanno ispirata. Su chi davvero l’ha voluta. E non si tratta solo di mafie. “Arrivare a una verità piena è solo una questione di tempo” dice il procuratore aggiunto.“Loro sono là fuori e sanno quello che sta succedendo qui dentro. Che ascoltino quello che stiamo dicendo – ha tuonato in mattinata, con il dito puntato verso i lucernai dell’aula bunker – così sapranno quello che faremo a partire da domani”. Una promessa per alcuni, una minaccia per altri. E una risposta al boss Graviano, che dopo decenni di silenzio ha scelto “’Ndrangheta stragista” per far sentire la propria voce, rispondere alle domande della Corte d’assise e delle parti, mandare messaggi, puntando il dito contro Silvio Berlusconi “che la mia ed altre famiglie siciliane hanno finanziato” e minacciando rivelazioni in seguito mai fatte. E le sue parole sono state prese sul serio, a quelle accuse sono stati cercati (e trovati) riscontri, ma quel fiume in piena di dichiarazioni è servito soprattutto per confermare il quadro estremamente complesso in cui le stragi sono maturate. “Ha ragione Graviano quando dice ‘io pago, ma chi è sopra di me?’– dice Lombardo – E allora ce lo dica lui chi è sopra di lui e poi vediamo se la magistratura non avrà il coraggio di andare fino in fondo”. Di certo, il quadro in cui quelle “menti raffinatissime” si sono mosse è stato ricostruito.  E non si tratta di soggetti esterni, ma di componenti del medesimo sistema criminale di cui ‘Ndrangheta e Cosa Nostra fanno parte. E che come le mafie negli anni Novanta hanno rischiato di perdere tutto alla luce del mutato scenario politico nazionali e delle diverse priorità strategiche internazionali. Il muro di Berlino era caduto, il sistema della democrazia bloccata era stato travolto e con quello i rapporti di forza che all’ombra della cortina di ferro erano maturati. “’Ndrangheta e Cosa Nostra avevano perso i riferimenti politici perché lo scenario politico mutato non consentiva più a quei referenti di fare quello che avevano fatto fino a quel momento. Ecco perché ad esempio Cosa Nostra attende cosa succeda con il maxi per capire come muoversi e alla fine si rende conto che quel processo non si può aggiustare. Capisce – ha ricostruito nel corso della requisitoria il procuratore aggiunto Lombardo –  che non basta rimproverare chi non ha fatto, ma deve preparare il futuro. Coinvolge la ‘Ndrangheta che sapeva perfettamente cosa stesse succedendo, si preparava da tempo e nel momento in cui il suo contributo diventa insostituibile decide di muoversi”. Il punto di non ritorno sono le amministrative del ’93, con la straordinaria affermazione del Pds. E non solo per le mafie sono un campanello d’allarme. “Quelle amministrative hanno dimostrato che il “rischio comunista” non era finito – sottolinea Lombardo – e quando il sistema ha capito che il rischio era alto, tra il novembre e il gennaio di quell’anno la storia politica e partitica si incontra con le esigenze dell’alta mafia, e la storia d’Italia cambia”. Il primo dei tre attentati calabresi avviene poco dopo. Ci sono altri soggetti – pezzi di servizi, ambienti di Gladio, settori della massoneria che a quel progetto sono sempre stati legati – che in quel momento storico rischiano di scoprirsi obsoleti, “se viene giù il blocco sovietico, quegli apparati perdono la loro ragione d’essere e il loro potere acquisito. Strutture che vedevano come protagonista assoluto Gelli. E non a caso sono componenti gelliane che non a caso tutelavano – lo dice la commissione Anselmi – le mafie e le componenti riservate che con quel mondo avevano rapporti”. E che tali componenti abbiano avuto un ruolo lo dicono i collaboratori di giustizia, lo denunciavano decenni fa soggetti come il Gran Maestro del Goi Giuliano Di Bernardo o l’ex ambasciatore e capo del Cesis, Francesco Fulci, il primo a collegare la Settima sezione del Sismi alla Falange Armata che in quegli anni lo minacciava. E lo dice anche la cronologia delle rivendicazioni firmate da quella sigla “che raggiungono il loro picco nel 93-94, scompaiono per 19 anni per ricomparire nel 2013” quando, intercettato in carcere, Riina si fa sfuggire qualche parola di troppo. “Rivendicare ‘Falange armata’ era comunicare con certi ambienti, con cui le mafie si erano già relazionate e che si identificavano con i vertici dello Stato” dice LombardoE anche questo dimostra – sottolinea –  che quella stagione “è riferibile ad un sistema criminale che va oltre le mafie”. E che con quelle stragi forgia l’interlocutore politico che a quella stagione di sangue mette fine. “La finalità della stagione stragista era altamente e squisitamente politica, non intesa in senso ideologico, ma come espressione di una inaccettabile e vomitevole lotta per il potere. Questo è. Non c’è altro perché le mafie sono componenti di questo sistema di potere”. Non l’ho ringraziato formalmente Graviano ufficialmente per quello che ci ha detto nel corso dell’esame? – dice Lombardo – Mi pare di si, perché ci ha spiegato che quel momento storico è un momento in cui la sua storia, la storia di Cosa Nostra, la storia della ‘ndrangheta, procede di pari passo con la storia del movimento politico che verrà annunciato il 26 gennaio del 1994, Forza Italia”. di ALESSIA CANDITO 10 luglio 2020 LA REPUBBLICA


‘NDRANGHETA STRAGISTA, LOMBARDO: ”GRAVIANO E FILIPPONE ‘SOGGETTI DI MEZZO’ DI UN SISTEMA DI MENTI RAFFINATISSIME’Cosa nostra e ‘Ndrangheta sono le componenti mafiose di un sistema piu ampio che in prima persona portava avanti un progetto politico per ripristinare gli equilibri che si erano persi e che in modo rassicurante potesse superare le liste autonomiste che avevano evidenti limiti”. E’ questa l’immagine sempre più evidente che emerge seguendo il terzo giorno della requisitoria del procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo, che vede imputati davanti alla Corte d’AssiseGiuseppe Graviano, boss di Brancaccio e Rocco Santo Filippone, esponente della cosca Piromalli, accusati di essere i mandanti degli attentati ai carabinieri in cui morirono anche i due appuntati Fava e Garofalo.
Di fronte ad uno scenario politico nazionale ed intenrazione in evoluzione, dove il rischio per le due mafie era quello di tornare ad essere delle semplici organizzazioni criminali, entrano in gioco le “menti raffinatissime” che, spiega Lombardo “stavano al di sopra e stanno ancora oggi al di sopra dei gradi apicali di quelle componenti mafiose. Usando il linguaggio che utilizza Carminati in ‘Mafia Capitale’ sono quei soggetti che conoscono solo loro il sopramondo e il sotto mondo; dei soggetti di mezzo”. “L’immagine è quella di una clessidra o di una doppia piramide capovolta – ha aggiunto – I grandi capimafia del livello di Graviano e Filippone sono tra i pochissimi che sanno come sono organizzate le grandi mafie verso il basso, ma sanno anche come è composto il sovramondo, di cui solo loro sono parte integrante e che diventa mafioso proprio per effetto dell’a loro presenza”.
Nella ricostruzione del magistrato è proprio il sovramondo a spingere in un primo momento la visione autonomisa. Poi, per effetto delle amministrative del 1993, lo scenario cambia. Per questo motivo si sposta l’attenzione su “un’attività in corso da tempo, finalizzata ad un movimento politico che possa ricollocarsi in quel centrismo che aveva permesso alla Dc di esssere il baricentro di un sistema”.Quel “cambio di cavallo”, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, non era frutto di una scoperta improvvisa ma, come ricordato dal pentito Tullio Cannella, era figlio di un “progetto parallelo a quello ricondotto ai livelli medio bassi di Cosa nostra e affidato a lui da Leoluca Bagarella. Un progetto ricondotto a Bernardo Provenzano”. “E’ quella la ‘falsa politica’ che è stata sempre utilizzata per proteggere fino in fondo gli obiettivi reali – ha aggiunto Lombardo – E questo è il discorso che si porta avanti e bisogna far credere a tutti: spingere verso i movimenti autonomisti, le leghe meridionali e Licio Gelli (una dele menti raffinatissime)”. In realtà, però, la direzione presa era quella che avrebbe portato a Forza Italia, un progetto di cui, lo ha detto anche Giuseppe Graviano nel suo “flusso di coscienza”, girava voce ben prima del dicembre 1993.

Dentro Sistemi criminali Rivisitando l’indagine “Sistemi criminali” (chiusa con un’archiviazione, ndr) Lombardo ha evidenziato quegli elementi che facevano emergere l’esistenza di un “piano di ‘eversione dell’ordine costituito’ messo in atto da un’associazione risalente agli anni 1990-1991 nella quale erano confluite diverse entità criminali: Cosa Nostra con lo schieramento corleonese, uomini della massoneria ‘deviata’ e dell’eversione nera a loro volta legati a Cosa Nostra e altre consorterie mafiose come la ‘Ndrangheta, e pezzi delle istituzioni che ruotavano attorno agli apparati di sicurezza”.

Il mondo che cambia Per questo motivo, nel corso della requisitoria, Lombardo ha voluto ricostruire tutte le fasi del progetto separatista, con la nascita delle Leghe che vedeva una massima condivisione tra varie componenti criminali.
Tra i primi a parlare di quel progetto vi era Leonardo Messina, il quale, in un verbale del 4 febbraio 1993, ha raccontato di quanto gli fu riferito da Aldo Miccichè, ovvero “che la Lega Nord, non tanto grazie a Bossi che era un pupo, quanto per Miglio che era il vero ideologo, era in realtà una costola della Dc dietro cui era celato Andreotti e forze imprenditoriali del Nord che erano interessate alla divisione dell’Italia in più Stati”. “Saranno quelle stesse forze imprenditoriali del Nord di cui parla Graviano? – si è chiesto provocatoriamente Lombardo mentre il capomafia prendeva appunti dal carcere di Terni – Certo era che Andreotti non si era dato per perso. Aveva capito che il brand della Dc e dello scudo crociato era bruciato. Con santa pace dei sostegni che a quel movimento politico erano stati garantiti dal Vaticano”. E sarebbe quello il motivo per cui si sarebbe reso disponibile a perlustrare nuovi percorsi, fino a valutare quella divisione in tre macroaree che Miglio portava avanti con convinzione.
“L’ipotesi a Gelli piace, Miglio per Andreotti è un uomo con cui possiamo parlare. Racconterà in un’intervista a Il Giornale di quella discussione di fronte ad un camino spento per capire che ruolo potesse avere la lega Nord”. In quell’intervista, incredibilmente, Miglio arriverà persino ad aprire ad una sorta di costituzionalizzazione del ruolo delle mafie e nello specifico diceva di essere per il “mantenimento anche della mafia e della ‘ndrangheta”. “Cosa significa? Si voleva dar loro il controllo del territorio, la gestione degli appalti?” si è chiesto con ironia Lombardo. E poi ancora: “O le elenchi tutte o dici genericamente mafie. Questo significa che i riferimenti erano specifici e non generici”.

Non solo le riunioni di Enna Sempre Messina ha riferito di quanto apprese nell’agosto del ’91, ovvero “che nella provincia di Enna erano riuniti Riina, Madonia, Santapaola e Provenzano. Si trattennero nella zona di Enna non continuativamente fino al febbraio ’92, dopo l’esisto del maxiprocesso. L’obiettivo era la discussione di un progetto politico che puntava alla creazione in Sicilia di uno stato indipendente; il progetto era stato costituito dalla massoneria. Voglio specificare – diceva al tempo il collaboratore di giustizia – che Cosa nostra, ‘Ndrangheta e massoneria facevano parte di un sistema criminale integrato”. E delle riunioni nelle camapgne di Enna ha parlato anche Filippo Malvagna, ex uomo d’onore della famiglia catanese Pulvirenti-Santapaola, che raccontò di quella famosa frase che il Capo dei capi, Totò Riina, dirà: “Bisogna fare la guerra per poi fare la pace”.
Un progetto che dalla ‘Ndrangheta era perfettamente condiviso. A raccontarlo è un altro soggetto sentito nel corso del processo, Pasquale Nucera. Già nei primi anni Novanta ai magistrati aveva raccontato di una riunione avvenuta a Polsi nel settembre 1991 a cui avrebbero partecipato anche il boss Francesco Nirta, Giovanni De Stefano “che era un amico di Milosevic” disse anche che c’erano altre persone, altri politici e che in quell’occasione si parlò di fondare un “Partito degli Uomini” che doveva “sostituire la Dc”.
Che il 1991 sia il momento chiave in cui inquadrare l’intera campagna stragista e politica si evince anche da altri elementi come ad esempio, l’omicidio del giudice Antonio Scopelliti. “Per comprendere il periodo bisogna fare una lettura molto più ampia e articolata – ha proseguito Lombardo – Il dato storico è che nell’ottbre 1991 Cosa nostra sa già che il Maxi processo andrà male. E così sarà il 30 gennaio 1992. La sostituzione della vecchia classe politica non è facile. E’ un momento storico dove si rischia di tornare ad essere una banda criminale che non è più apparato e non è in grado di incidere e condizionare la vita della Nazione. Prima di fare scelte definitive, dunque, bisognava avere fortissime rassicurazioni e certezze che arriveranno alla fine del 1993 fino ad arrivare quelle dichiarazioni di Spatuzza su quel Graviano che ha fretta di consumare il ‘colpo di grazia’”.
La requisitoria del pm Lombardo è proseguita ripercorrendo le dichiarazioni di svariati collaboraotri di giustizia, ccome i pugliesi Salvatore Annacondia, Gianfrnaco Modeo e Marino Pulito che hanno introdotto ulteirori argomenti sul circuito che ruotava attorno a Gelli (sempre lui) ed i soggetti vicini al Venerabile, con tanto di “contatti diretti finalizzati ad aggiustare processi e gestire pacchetti di voti da destinare a quegli schieramenti funzionali, o ritenuti tali, per un più ampio progetto politico”.
Per spiegare come componenti politiche estra parlamentare siano state in qualche maniera “collante, al di fuori del controllo partitico” e di cui “la destra eversiva è stata componente principale” Lombardo ha anche ricordato sentenze passate in giudicato come quelle sulla strage di Bologna richiamando anche quegli elementi che in qualche maniera portano ad un vero e proprio parallelsimo tra il piano stragista-poliutico che avrà luogo tra il 1990 ed il 1994 e quel programma già vissuto in certi ambienti negli anni precedenti. Dall’allargamento dell’ideologia politica verso un interesse più economico alla minaccia della conquista del potere da parte del partico comunista italiano, fino all’attacco nei confronti delle forze dell’ordine e la necessità di coltivare rapporti con lo Stato italiano.
Quel che è certo è che ad un certo punto le stragi passeranno da una fase di accelerazione ad una di “attesa”. Segno che un nuovo equilibrio era stato raggiunto?
Svariati collaboratori di giustizia hanno raccontato quel che avvenne con Cosa nostra e ‘Ndrangheta che porteranno avanti una strategia comune. Un asse che, secondo la ricostruzione dell’accusa, vedrà muoversi in particolar modo i Graviano. E, sul fronte calabrese, quell’ala strettamente vicina alla famiglia dei Molé-Piromalli che, assieme ai De Stefano, aveva vinto la guerra di mafia. Due famiglie centrali per quel direttorio di sette che disse “Sì” alla strategia del terrore e di attacco frontale allo Stato. O, per dirla con le parole di Riina, per “fare la guerra per poi fare la pace”.  antimafia duemila 07 Luglio 2020 di Aaron Pettinari


‘Ndrangheta stragista, nella requisitoria del pm la vera storia della Seconda Repubblica I veri attori che hanno comandato ed eseguito le stragi. La ridefinizione sanguinosa degli equilibri dopo il crollo del muro di Berlino. E ancora: il ruolo di pezzi di servizi, della massoneria e della politica fino a Forza Italia, servita per trovare la quadra. Gli ultimi 30 anni nell’esposizione del procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo  di Alessia Candito 30 giugno 2020  «Se oggi io vado sul corso Garibaldi e chiedo ad una qualsiasi persona che sta passeggiando se la ‘ndrangheta abbia partecipato alle stragi, chiunque mi dirà di no. Questo è il terrorismo mafioso, questa è la falsa politica della ‘ndrangheta». Quella che ha permesso ai clan calabresi di scrivere la storia d’Italia da protagonisti, addomesticare il passato e disegnare un futuro che dagli anni Novanta si accartoccia su un «eterno presente» nascondendosi  Le verità con lo sconto sugli attentati calabresi Sono passati quasi trent’anni dagli attentati calabresi contro i carabinieri che fra il dicembre del ’93 e il febbraio ’94 sono costati la vita ai brigadieri Fava e Garofalo e gravi ferite ad altri quattro militari. Gli esecutori materiali, Consolato Villani e Giuseppe Calabrò, figli di ‘ndrangheta uno neanche maggiorenne e l’altro che 18enne lo era a stento, sono stati presi e condannati quasi subito. Raccontati come picciotti, criminali nati, in cerca di armi e di gloria e presto dimenticati. Nel frattempo la ‘Ndrangheta è riuscita a rimanere l’unica delle mafie storiche raccontata con l’iniziale minuscola. Una strategia studiata per mimetizzarsi, sminuirsi, raccontando di sé verità parziali. Al ribasso. Comode. Quelle “visioni” che hanno indotto Graviano a parlare «Trent’anni di mistificazioni» dice il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo, che oggi ha dato il via alla requisitoria che tira i fili di tre anni e 127 udienze di dibattimento. «Visionario» lo hanno bollato per anni i suoi detrattori. «Cacciatore di fantasmi e di teoremi». Eppure, l’inchiesta che Lombardo ha costruito sui reali mandanti di quelle stragi, il boss di Brancaccio, Giuseppe Graviano, e il mammasantissima calabrese Rocco Santo Filippone, espressione cristallina dello storico casato dei Piromalli, non solo è arrivata indenne al processo, ma in dibattimento ha convinto Graviano a parlare. E – magari inconsapevolmente – a confermare i pilastri di quell’indagine che non solo rende giustizia alle vittime, ma anche alla storia della Repubblica. Le più belle Masserie della Puglia da affittare vicino al mare Le verità mancate che condannano all’eterno presente «Il concetto di tempo – afferma il procuratore – è uno degli interrogativi che l’uomo porta con sé da sempre: la percezione del tempo è soggettiva o oggettiva? E come si misura? L’unità di misura internazionale del tempo è il secondo. Ragionando in secondi, dal primo gennaio del 1994 che è l’ultimo episodio su cui ci troviamo ad occuparci in questa sede, abbiamo aspettando la verità da 819milioni933mila secondi». Il prezzo? Un «eterno presente» in cui un Paese intero è stato costretto a vivere perché «con le stragi per noi il tempo si è fermato e questo eterno presente diventerà altro solo quando tutto quello che va ricostruito, sarà ricostruito fino in fondo» dice Lombardo. La storia calabrese delle stragi di mafia gli attentati calabresi ai carabinieri fanno parte di diritto della storia delle stragi mafiose che hanno mutilato la democrazia e la Repubblica in Italia. Sono state il prezzo della sua evoluzione addomesticata ad un gattopardesco ripetersi di un presente sempre uguale, in cui cambiano i nomi degli attori ma non le regole. Si chiama «falsa politica», si declina nell’arte delle «carrette» e delle «tragedie» e della ‘ndrangheta è sempre stata l’arma più sofisticata.  Usata con perizia all’interno e all’esterno dell’organizzazione, per lasciare a pochi – «il coso di 7» evocato da Filippo Chirico intercettato in Gotha, i 7 del direttorio di cui ha parlato in dibattimento il collaboratore catanese Di Giacomo – le decisioni importanti e le strategie di massima, per anni è stata l’assicurazione sulla vita dell’élite dei clan calabresi. All’esterno raccontati al ribasso, all’interno protetti da una cortina di riservatezza che non ha permesso a truppa, colonnelli e persino generali di sentirsi ingannati o esclusi. Perché di certi affari – per norma e condizioni – non arrivano neanche a sentirne l’odore. E le stragi sono state uno di questi. L’élite che ha votato per bombe, sangue e potere A deciderle – è emerso nel dibattimento – sono stati in pochi. Inclusi alcuni che non sono imputati in questo processo, ma è comunque «tema di prova che deve essere esplorato e portato all’attenzione della Corte» per restituire un quadro completo di quanto successo in quegli anni. Poi si vedrà. Perché anche durante il processo, come dimostrano le innumerevoli integrazioni investigative e qualche accenno che Lombardo si è lasciato scappare, non si sono mai fermate. E di certo c’è, la procura lo sa e ci sta lavorando, che le date dalla stagione stragista vanno aggiornate. L’omicidio Scopelliti e la nuova cronologia delle stragi Quella scia di sangue non inizia con l’omicidio Lima nel marzo ’92, ma nel giugno del ’91. Pochi mesi prima dell’agguato costato la vita al giudice Scopelliti, in quei mesi impegnato nella preparazione dell’accusa per il maxi-processo, arrivato alle porte del giudizio in Cassazione. Un filone su cui da tempo – lo si sa da quando è stato ritrovato il fucile secondo le ipotesi usato per l’agguato e sono stati notificati gli avvisi di garanzia a pezzi da novanta di ‘Ndrangheta e Cosa Nostra – la procura esplora. Ma sono tessere che ancora devono essere inserite nel mosaico. Le grandi famiglie che hanno detto sì Per adesso si sa – perché è emerso in modo chiaro in dibattimento – che a dire “presente” alla proposta di Cosa Nostra di partecipare alle stragi e alle trattative che quel sangue, quelle bombe e quegli omicidi volevano innescare, sono stati i De Stefano. E lo ha spiegato il collaboratore Nino Fiume – sottolinea Lombardo – nel raccontare la reale decisione assunta nella riunione di Nicotera, allargata ai grandi capi della ‘ndrangheta, e a quelle successive durante la quale si è detto “ni” per dire “sì”. E con gli arcoti, c’erano i Piromalli, che sul fronte hanno schierato uno dei loro fedelissimi, Rocco Santo Filippone, internamente riconosciuto – «era lui il responsabile delle copiate dei massimi livelli» dicono i pentiti – ma tenuto al riparo da affari comuni ed eventuali inchieste. Sono stati loro a farsi carico della questione quando i reggini mettevano insieme i cocci della seconda guerra di ‘ndrangheta di intelocutori riconosciuti Due famiglie, che i siciliani – e lo hanno detto tutti i pentiti dell’altro lato dello Stretto sfilati davanti alla Corte – hanno riconosciuto come unici interlocutori. Famiglie che di diritto fanno parte dell’élite dell’organizzazione tutta, forgiata al fuoco della prima guerra che ha seppellito la ‘ndrangheta storica di Mico Tripodo e ‘Ntoni Macrì. Due famiglie che fanno parte di una cerchia ristrettissima, ma che mai – e anche questo è emerso in maniera chiara in tre anni di processo – hanno escluso, né avrebbero avuto agio di farlo le grandi famiglie della Jonica. È il mandamento di Peppe Morabito “Tiradritto” che, dice fra gli altri Di Giacomo, «era anziano quindi veniva tenuto un po’ a lato, ma aveva un’autorità» e che a Milano esprimeva i Papalia, platioti che consideravano «Peppe De Stefano un fratello» dice Nino Fiume, e hanno giocato un ruolo fondamentale tanto nel riciclaggio dei soldi della ‘ndrangheta tutta, tanto nei rapporti con gli apparati di intelligence. E probabilmente non solo quelli italiani. Non a caso – ricorda Lombardo – è il capo assoluto dell’epoca Mico Papalia, oltre allo stretto nucleo familiare, l’unico a cui Nino Gioè chieda scusa per essersi fatto intercettare in via Ughetti, prima di morire, a quanto pare per un suicidio a cui molti stentano a credere. Una gattopardesca storia di soldi e potere  Ed è questo il nodo fondamentale del processo “’Ndrangheta stragista” arrivato oggi alla requisitoria e delle stagione delle stragi del Novanta e delle trattative ad esse connesse. Una storia di potere, soldi, influenza che una serie di “forze”, con cui la ‘ndrangheta per decenni ha interloquito e collaborato da pari, non avevano intenzione di perdere quando il muro di Berlino è crollato, portando con sé anche i rapporti di forza, le strategie, le priorità strategiche e le rendite di posizione che all’ombra della cortina di ferro si sono consolidate. E non solo la ‘ndrangheta, ma le élite di tutte le mafie – che come Leonardo Messina spiega ai loro massimi vertici sono “Cosa Unica” – hanno avuto necessità di ricollocarsi. Di forgiare nuovi interlocutori politici e referenti istituzionali. E con loro tutta una serie di “poteri” occulti solo a chi stava fuori dai grandi giochi. La vera partita degli anni Novanta «Le mafie – spiega Lombardo – avevano capito che, modificandosi lo scenario a livello internazionale, anche per merito di Mani pulite, bisognava muoversi per tempo, individuando nuovi referenti politici». un’opera di ristrutturazione del potere che lo mantenesse identico a se stesso ed era «servente ad una strategia più alta». Di cui facevano parte pezzi dell’intelligence legate a Gladio e alle operazioni Stay Behind, pezzi di massoneria legati alla P2 per anni pasciuti come ultima carta (eversiva) da giocare, pezzi di imprenditoria, di politica e di istituzioni, che nel Paese con il partito comunista più grande dell’Europa occidentale per decenni hanno trovato ragione e ruolo nella lotta all’Unione sovietica. E quando il muro è crollato hanno dovuto trovare un’altra leva di pressione. Tessere del mosaico È questo lo scenario che ricostruisce il processo ‘Ndrangheta stragista, che non a caso nella gigantesca mole di atti che ha figliato conta con documenti su Gladio e l’operazione Stay Behind, con atti sulla P2 e testimonianze «sulla vera lista» che Gelli ha offerto in cambio di un reintegro in quel Goi che il Gran Maestro Di Bernardo ha scoperto contaminato dai clan, in modo preponderante in Sicilia, in maniera irredimibile in Calabria, dove 28 su 32 logge erano in mano alla ‘ndrangheta. Una situazione ben nota anche al capo della massoneria mondiale, il duca di Kent, che – ha raccontato Di Bernardo in aula – «era già stato informato di tutto dall’Mi5», i servizi segreti inglesi. E poi le innumerevoli testimonianze, atti e rivendicazioni sulla Falange Armata, misteriosa sigla con cui attentati, bombe, omicidi – inclusi quelli di mafia – lettere e comunicazioni pseudopolitiche sono state firmate, secondo una strategia di depistaggio – oggi svelano i pentiti suggerita da settori dei servizi lunga anni e 1500 episodi. Una strategia politica, economica, imprenditoriale ma sempre eversiva.  L’ombra dei Piromalli sull’impero di Fininvest non a caso agli atti del processo sono finite anche le risultanze del processo Tirreno, che in tempi non sospetti ha raccontato come Sorrenti, «un imprenditore dei Piromalli e non un imprenditore estorto dai Piromalli» sia stato portato alla corte di Fininvest e coinvolto nel processo di costruzione del per lungo tempo monopolistico polo privato della tv nazionale. Perché è su Forza Italia e sul prodotto politico che da quasi 30 anni ha in Silvio Berlusconi il referente unico, che ha trovato la quadra quella stagione di sangue e trattative, di bombe e abboccamenti, di tentativi, sperimentazioni, di una classe politica spaccata «tra chi cercava contatti con gli amici di Enna» e «chi non voleva fermare le stragi». E questo lo ha confermato Graviano. I messaggi in codice di Madre Natura È da lui – spiega Lombardo – che arrivano innumerevoli conferme dell’impianto dell’inchiesta. Dopo decenni di silenzio, interrotto solo da sporadiche proteste e dichiarazioni, solo a Reggio Calabria ha accettato di sottoporsi all’esame. E per quattro udienze ha detto e non detto, ha lanciato messaggi, ha parlato di Berlusconi come socio infedele che la sua e altre famiglie siciliane hanno finanziato, della sua “discesa in campo” che il boss di Brancaccio conosceva con largo anticipo, di un impero del padre padrone di Forza Italia «e altri imprenditori milanesi» costruito con i soldi delle mafie come potrebbe provare una scrittura privata che i Graviano hanno e cui fa eco «il libretto che potrebbe provocare un terremoto» di cui ha parlato l’autista storico di Leoluca Bagarella, Toni Calvaruso. E le verità minacciate Per quattro udienze, Graviano ha anche accennato ai servizi coinvolti nel protocollo Farfalla che dava loro mano libera nelle carceri – gli stessi di cui parlano i pentiti che hanno avuto a che fare con Mico Papalia – con cui lui afferma di non aver mai avuto contatti ma di cui sa, alle verità mancate e che lui – ha assicurato – potrebbe rivelare sull’agenda rossa sparita di Paolo Borsellino, sull’omicidio del poliziotto Nino Agostino. Poi – improvvisamente, dopo un lungo tira e molla su sue intercettazioni che diceva impossibili da ascoltare e imprescindibili per poter deporre – ha deciso di tacere. Scacco matto della procura Magari ha pensato di aver recapitato messaggi a sufficienza. Il problema – per lui e forse per altri – è che anche la procura li ha recepiti. E alle sue parole ha cercato e trovato riscontri. Come tabulati, intercettazioni e testimonianze che negli anni delle stragi lo collocano in Sardegna, nei pressi della villa di Berlusconi, o al bar Doney, in via Veneto, dove Spatuzza e Graviano si incontravano per progettare il fallito attentato all’Olimpico, a pochi passi dall’albergo in cui, esattamente negli stessi giorni, Forza Italia ultimava la “discesa in campo” ufficiale di Berlusconi e Marcello Dell’Utri – dicono recentissime testimonianze raccolte – «incontrava calabresi e siciliani interessati al nuovo progetto politico». E forse per questo oggi Graviano sta attento, in aula non perde una parola, a volte si alza nervoso. E prende appunti. Magari per la memoria che ha già preannunciato.  LACNEWS24