Per cinquantasette giorni e cinquantasette notti, Paolo Borsellino visse con la morte sulla spalla. Aveva un’unica via di scampo: il tempo, batterli sul tempo, prendere per la gola i Corleonesi prima che Totò Riina lo uccidesse. Per cinquantasette giorni e per cinquantasette notti, Paolo Borsellino non visse. Morì lentamente, settimana dopo settimana, ora dopo ora. Davanti a tutta Palermo. Che sapeva, presagiva… Il procuratore aggiunto chiudeva un’indagine e ne apriva un’altra, un’altra e un’altra ancora. Volava in Germania per seguire le tracce dei sicari del maresciallo Giuliano Guazzelli, assassinato ad Agrigento tre mesi prima. Partiva per Roma per ascoltare i segreti di un pentito di San Cataldo. Scendeva per ore alla procura generale per spiegare ai magistrati di Caltanissetta quale era la pista da imboccare per Capaci. confessò Paolo Borsellino al suo migliore amico. Era una corsa contro il tempo. Doveva chiudere il cerchio intorno ai Corleonesi. L’uomo che poteva chiudere quel cerchio era arrivato era Mutolo, l’ultimo pentito della Cosa Nostra. Era in grado di aprire un varco nell’organizzazione criminale. Ma bisognava ascoltarlo subito, bisognava verbalizzare le sue dichiarazioni, bisognava prima capire e poi colpire fece sapere Mutolo ai poliziotti e ai magistrati. Il procuratore capo della Repubblica di Palermo si chiamava Pietro Giammanco. Da Palermo partì il procuratore aggiunto Vittorio Aliquò. Quando Mutolo non vide Borsellino ma un altro magistrato, chiuse gli occhi e chiuse la bocca. Si persero giorni. Il tempo passava inesorabilmente. (Attilio Bolzoni – Giuseppe D’Avanzo)
AGNESE BORSELLINO: “Paolo non riesce a trovare il tempo per occuparsi della famiglia. Carte, solo carte. Finisce in ufficio e torna a casa con la borsa piena di documenti da leggere, telefonate da fare, appuntamenti da riordinare. Con me e i miei figli parla solo di notte, quando tutti gli altri dormono. È diventato quasi una macchina. No, nessuno di noi gliene fa una colpa. Se trascura moglie e figli, ha motivi gravissimi, lo sappiamo bene. In gioco ci sono cose troppo importanti. Si è reso conto, pur nella sua umiltà, che in quel momento è l’unico ad avere la capacità e la volontà di lavorare con questi ritmi massacranti.»
La figlia Lucia ricorda lo sforzo di mantenere alto il livello del suo impegno contro la mafia, nonostante i mille ostacoli messi sulla sua strada dal procuratore capo Giammanco. «Pur di continuare il suo lavoro è disposto ad accettare certi limiti che gli pone sempre più spesso Giammanco. Gli costa un sacrificio doppio sapere che per motivi gerarchici è tenuto a raccontare al suo superiore i passi delle sue indagini, senza però ricevere in cambio, ne è convinto, lo stesso flusso di informazioni. Capisce che gli vengono nascoste conoscenze acquisite dall’ufficio, episodi che potrebbero interessarlo, anche fatti gravi.»
I 57 giorni che cambiarono la storia d’Italia – RAI NEWS
23 MAGGIO 1992 – Lungo l’autostrada che da Punta Raisi porta a Palermo, all’altezza dello svincolo per Capaci, esplode una carica di 500 Kg di tritolo al momento del passaggio del giudice Falcone e della scorta. La prima vettura del corteo viene completamente investita dall’esplosione. Gli agenti di scorta Antonino Montinaro, Vito Schifani, Rocco Di Cillo vengono uccisi sul colpo. Sulla seconda vettura del corteo viaggiano Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e l’agente di scorta Giuseppe Costanza. Francesca Morvillo muore pochi ore dopo a causa delle gravi lesioni interne riportate, stessa sorte per Giovanni Falcone che spira tra le braccia di Paolo Borsellino. L’agente di scorta Costanza riporta alcune ferite ed un forte choc ma sopravvive all’attentato. Feriti ma salvi per miracolo anche gli alti tre agenti che viaggiavano sulla terza vettura blindata che chiudeva il corteo di scorta a Falcone: Paolo Capuzzo, 31 anni, Gaspare Cervello, 31 anni e Angelo Corbo, 27 anni. Paolo Borsellino viene informato telefonicamente poco dopo le 18 da un collega dell´attentato che ha coinvolto l´amico Giovanni. In quel momento Borsellino e´ nella bottega del barbiere Paolo Biondo in via Zandonai a Palermo: appena terminata la telefonata prende due banconote da diecimila lire, quasi le lancia Biondo e balza fuori dalla bottega. Si precipita a casa dove informa i figli Manfredi, Lucia e Fiammetta dell´accaduto. La moglie Agnese non e´ al momento a casa. Borsellino si reca subito dopo con la figlia Lucia all´ospedale civico di Palermo dove sono stati portati i feriti della strage: chiede dov´é Falcone, i medici lo riconoscono, lo prendono sotto braccio, lo accompagnano oltre una porta a vetri. Lucia lo aspetta fuori finche´ lui non ricompare dopo diversi lunghi minuti: e´pallido, curvo, smarrito. Il giudice abbraccia la figlia, dice poche parole: “E´ morto cosi´, tra le mie braccia.” [40] I primi membri del governo ad arrivare a Palermo sono i ministri Vincenzo Scotti e Claudio Martelli, giunti in elicottero nel pomeriggio. Rimangono per circa venti minuti nell´istituto di medicina legale. Insieme a loro anche il Presidente della Commissione antimafia Gerardo Chiaromonte, il procuratore Pietro Giammanco, il prefetto Mario Jovine ed il questore Vito Plantone. Nessuno di loro rilascia dichiarazioni all´uscita della camera mortuaria.[41] Molti membri di Cosa Nostra in carcere all´udire la notizia dell´attentato festeggiano. Nel carcere di Spoleto i boss brindano davanti alla televisione e Salvatore Madonia, della famiglia di Resuttana, apre una bottiglia di champagne pronta da tempo: “U sceccu u pigghiaru (l´asino, il ciuccio, l´hanno preso, ndr)”, urlano soddisfatti dandosi pacche sulle spalle.[42]
24 MAGGIO 1992 : Alle 9 del mattino, Nell’atrio del palazzo di giustizia viene allestita la camera ardente. Quando arrivano le bare, tutti i magistrati, con la toga sulle spalle, sfilano in silenzio. Con Borsellino c´e´ tutta la famiglia: Agnese, Manfredi, Lucia e Fiammetta. C´e´ Antonino Caponnetto, bianco in volto, con un fazzoletto stretto tra le mani, arrivato in volo da Firenze dove da poco e´ andato in pensione. Una forte contestazione, al Palazzo di giustizia di Palermo, investe il presidente della Repubblica supplente Giovanni Spadolini ed i due ministri che lo accompagnano: Scotti e Martelli. Quando il corteo entra nel vasto atrio del palazzo, dalle transenne dietro alle quali e´ ammassato un folto pubblico partono fischi e grida: “vergogna”, “fuori”, “andatevene via”, “tornatevene a Roma”. Spadolini ed i ministri riescono comunque a raggiungere la camera ardente dove sono esposte le salme del giudice Falcone e della moglie e dei tre agenti della scorta deceduti al momento dell´attentato.[43] Alla Camera ardente la madre del pugliese Vito Schifani ricorda. “Tante volte tornava a casa all’una alle due di notte. Ora non ricevero’ piu’ la sua telefonata che mi avvertiva del ritardo”. Le e’ accanto l’anziano marito e la nuora Rosaria, ventiquattro anni, minuta, capelli castani. La giovane si abbandona alla disperazione ed e’ sorretta da un parente. Avvicina alla cassa il figlio di quattro mesi, Antonio Emanuele, e gli dice: “Guarda dov’e’ papa’ “. La donna ha voluto vedere per l’ultima volta il corpo straziato del compagno. Inutilmente medici e magistrati hanno tentato di impedirglielo nell’Istituto di medicina legale. “Almeno ho potuto accarezzargli le mani, lo amero’ sempre”. Sabato i coniugi erano stati assieme, fino a tre ore prima dell’agguato della mafia. Sarebbe stato, in quel giorno, l’ultimo turno di servizio per Schifani. Il poliziotto siciliano era molto apprezzato. Spesso gli assegnavano particolari missioni, servizi investigativi speciali contro le cosche. Erano pugliesi gli altri due agenti morti. Accanto alla bara di Rocco Di Cillo, 30 anni, la fidanzata Alba Terrasi piange sommessamente, poi esplode: “Perche’ ti hanno chiamato in turno? Saresti ancora vivo…”. E la madre dell’agente ucciso: “Portami con te. Perche’ l’hanno fatto, eri bellissimo…”. A Treggiano, alle porte di Bari, tutti conoscevano il poliziotto. Di mattina, sotto casa dei genitori, una modesta abitazione vicina alla piazza principale del paese, parenti e amici si raccolgono. La persiana e’ chiusa. Qualcuno sta gia’ mettendo i manifesti segnati a lutto ai lati del portoncino. Rocco era tornato appena due settimane fa a Triggiano. Aveva presentato alla famiglia la fidanzata palermitana. Il giovane aveva deciso: si sarebbe sposato l’anno prossimo. Ed era gia’ pronta la nuova casa nel centro pugliese. Di Cillo aveva chiesto il trasferimento, ma avrebbe dovuto aspettare almeno due anni. Assegnato dall’ 88 al servizio scorte, non aveva detto alla madre che sabato pomeriggio avrebbe accompagnato il magistrato. Per tranquillizzarla, le aveva anzi assicurato di essere da tempo impegnato in un ufficio: nessun motivo di preoccupazione quindi, nessun rischio. “Rocco era il migliore di noi – dice Giuseppe Panfilo, un coetaneo che si e’ arruolato con lui in polizia – era paziente, gentile con tutti. Lo ricordo quando da ragazzi ci si accapigliava: Rocco era alto e forte, incuteva soggezione; ma usava sempre l’arma della convinzione. Credo che per questo decise di fare il poliziotto, aveva un naturale senso della giustizia, detestava i violenti e i prepotenti. Lo sfottevo: gli dicevo che assieme a Falcone faceva anche lui una vita blindata”. “Era venuto anche qui in Comune – dice il vicecomandante dei vigili Nicola Quaranta -. Rocco era orgoglioso della sua ragazza e dell’ Alfa 75 che aveva comprato a Palermo”. Il sindaco di Triggiano, Nicola Pompilio, ha proclamato il lutto cittadino. Ancora dolore tra i familiari di Antonio Montinaro, trent’anni, originario di Calimera, nel Leccese. Era l’uomo piu’ vicino a Falcone: l’agente incaricato delle perquisizioni. Gli amici ricordano il giovane come un tipo allegro, spensierato, con la battuta pronta. A 19 anni era entrato in polizia. La questura di Bergamo era stata la sua prima sede, poi a Taranto e a Bari prima di essere trasferito a Palermo per le scorte durante il maxi processo. In quei mesi conobbe Tina Martines Mauro: dopo le nozze chiese il trasferimento definitivo nel capoluogo siciliano. Lascia due bambini. Montinaro parlava con entusiasmo delle sue esperienze di lavoro. Piu’ di una volta aveva manifestato l’orgoglio di affiancare il giudice Falcone nei suoi spostamenti. Lo diceva anche alle quattro sorelle, raccomandando pero’ di non raccontare nulla alla madre Carmela, sofferente di cuore. Nella camera ardente, uno dei fratelli dell’agente riesce soltanto a dire: “Questo dolore e’ troppo grande”.[44]
Nel pomeriggio Paolo Borsellino torna in procura a Palermo, é come se non riuscisse a staccarsi dall´ufficio, forse per restare piú vicino a Falcone. E si tuffa nelle indagini, iniziando in quello stesso momento la sua marcia di avvicinamento ai misteri di Capaci, alle ragioni per cui Falcone é stato assassinato, e a qulle che, alla fine, cancelleranno anche la sua vita. Parla con i colleghi, legge e rilegge il dossier sull´omicidio di Salvo Lima, assassinato a Mondello due mesi prima. Riprende il rapporto dei carabinieri del ROS su mafia ed appalti, un´inchiesta nata con Falcone procuratore aggiunto e culminata con l´emissione di ordini di cattura firmati dal procuratore capo Pietro Giammanco, a quel tempo al centro di una nuova polemica: é accusato di aver “insabbiato” la parte che chiama in causa alcuni politici nazionali e regionali. Gli stessi personaggi che saranno successivamente indagati od arrrestati in seguito a nuovi accertamenti. [45]
25 MAGGIO 1992 Oscar Luigi Scalfaro viene eletto Presidente della Repubblica. Per arrivare all´elezione di Scalfaro sono stati necessari sedici scrutini a partire da mercoledí 13 maggio.[47]
A Palermo si svolgono i funerali di Falcone, della moglie e della scorta. La tensione è altissima. Gli agenti delle scorte di Palermo formano un cordone attorno alle bare e nessuno può avvicinarsi. Uno di loro grida alle autorità in prima fila: ”Vergognatevi, dovete vergognarvi, dovete andare via, non vi avvicinate a queste bare, questi non sono vostri, questi sono i nostri morti, solo noi abbiamo il diritto di piangerli, voi avete solo il dovere di vergognarvi“. “Mafiosi, io vi perdono, solo dovete mettervi in ginocchio, se avete il coraggio di cambiare, di cambiare, di cambiare, dovete cambiare, cambiare, cambiare radicalmente i progetti di morte che avete.” É l´urlo straziante di Rosaria Costa, ventidue anni, vedova del poliziotto Vito Schifani, uno dei tre agenti di scorta di Falcone, massacrati nell´attentato. Rosaria é una donna minuta, vestita di nero, con il volto segnato dal dolore. Con voce che esprime un´immensa dignitá , ad un tratto sale sull´altare, prende il microfono e lancia il suo sconvolgente appello ai mafiosi, che rimbomba tra le navate della grande chiesa “A nome di tutti coloro che hanno dato la vita per lo stato – scandisce Rosaria – chiedo innanzitutto che venga fatta giustizia. Adesso, rivolgendomi agli uomini della mafia che sono anche qui dentro, certamente non cristiani, sappiate che anche per voi c´é possibilitá di perdono. Io vi perdono.” Rosaria vacilla, é emozionata, stremata, contratta dalle lacrime e dal dolore. Al suo fianco, don Cesare Rattoballi, il cugino sacerdote, che la sostiene quando lei, affranta, sembra venir meno alle sue forze. Nella commozione genrale Rosaria prosegue: “Tornate ad essere cristiani, per questo preghiamo in nome del Signore che ha detto sulla croce: “Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno”.” La giovane donna ha la forza di gridare ancora: “Ti preghiamo per la cittá di Palermo che avete reso una cittá di sangue, di operare anche voi per la pace, la giustizia e la speranza.” Quella di Rosaria é una preghiera laica, animata da due sentimenti contrapposti: la speranza che gli “uomini della morte” ascoltino il suo appello e “cambino vita”, e la dolorosa convinzione che i mafiosi non siano in grado, non vogliano riappropriarsi della loro dignitá di esseri umani. Quasi parlando con se stessa, tra le lacrime, Rosaria Schifani conclude il suo intervento in chiesa mormorando con un filo di voce: “… ma loro non cambiano, non cambiano”.[48] Mentre Rosaria si accascia fra le braccia di don Rattoballi, numerosi agenti addetti alle scorte non reggono alla tensione e spingono i cordoni di sicurezza per avvicinarsi agli uomini delle Istituzioni. I poliziotti avanzano minacciosamente verso Spadolini e Scotti per gridare la propria rabbia e reclamare “giustizia”. La urlano piú volte, questa parola, mentre i colleghi in divisa faticano non poco a trattenerli e calmarli. La tensione sale alle stelle. Il clima di doloroso dissenso si trasmette alla folla che assiepa le navate e che gremisce la piazza antistante alla chiesa di San Domenico: migliaia e migliaia di persone urlano, spingono e contestano con fichi ed insulti l´arrivo dei rappresentnati delle forze politiche ed istituzionali. La ressa é enorme, la gente sembra aver perso la testa, qualcuno sputa; i volti dei politici, anche quelli dei vertici delle forze dell´ordine sono tesi, atterriti. É il momento piú critico di tutta la cerimonia. La contestazione dilaga e l´incolumitá dei vertici dello stato appare in pericolo. Politici, prefetti, ministri, deputati sembrano in balia della folla inferocita, sono terrorizzati. Nonostante gli sputi e gli spintoni, i lanci di monetine e gli insulti, le guardie del corpo riescono ad erigere saldi cordoni, per impedire incidenti e consentire agli “uomini degli apparati” di guadagnare l´uscita sani e salvi. Non ci sono feriti. Le bare vengono portate a braccia fuori dalla chiesa tra urla di proteste, fischi, applausi. Gli applausi sono tutti per i servitori dello stato, per le vittime del terrosrismo mafioso, quattro uomini ed una donna, ormai sigillati in quelle casse di legno avvolte dal tricolore. Le telecamere riprendono tutto, la rabbia della gente, la paura delle istituzioni. É l´immagine di un paese allo sbando.[49] Al palazzo di giustizia di Palermo si svolge una riunione tesissima fra i membri del CSM, Martelli ed i magistrati di Palermo. Dalla cronaca di Andrea Purgatori per il Corriere della Sera: Aula Magna del Palazzo di Giustizia. Ore 13.40. Il guardasigilli Claudio Martelli sta leggendo la decima delle tredici cartelle del suo discorso e, fissando la muta platea dei giudici siciliani, adesso scandisce con voce di pietra: “Quel che tecnici improvvisati, magistrati di parte e politici faziosi non avevano capito lo ha perfettamente capito la mafia. Le critiche maliziose, le insinuazioni subdole, i tentativi di delegittimazione…”. Su quel “subdole” e su quel “delegittimazione”, come una molla, scatta il sostituto procuratore di Sciacca, Lorenzo Matassa: “Come puo’ dire queste cose!”. Poi un coro: “Taci, mascalzone!”. E dal centro della sala, la rabbia che gli gonfia la mascella e gli occhi, il sostituto procuratore di Palermo Gioacchino Scaduto, grida: “Ma come si fa? Usciamo! Andiamocene via!”. Giovanni Spadolini alza lo sguardo, sbalordito. Afferra la campanella, per interrompere il pericoloso circuito di una protesta che, dopo l’omelia della vendetta, dopo gli insulti ai politici sul sagrato di San Domenico, rischia di travolgere anche questa straordinaria seduta del Csm, convocato per commemorare l’ultimo giudice ammazzato nell’ultima strage di mafia. Ma Martelli e’ impassibile. Non perde il controllo dei nervi. Continua a scandire le sue valutazioni, durissime. Conclude: “…la mafia ha scritto la parola fine alle polemiche eliminando fisicamente chi meglio l’aveva saputa combattere, confermando agli occhi dei dubbiosi, dei disonesti e dei rivali invidiosi che Falcone restava per la mafia il pericolo numero uno”. Ritorna il silenzio nell’aula magna. Per poco. Questo Palazzo di Giustizia e Veleni e’ ormai una pentola a pressione con il coperchio saltato. Lo si era capito gia’ domenica, davanti alle bare allineate. Lo conferma la reazione che ai discorsi di Spadolini e di Martelli viene dalla base, dalla truppa sempre sott’ organico dei magistrati siciliani. Sbattuti in prima linea e adesso tirati dentro la polemica sulla “delegittimazione” d’un amico, bocciato dal Csm nella sua corsa alla guida d’una Superprocura antimafia proprio alla vigilia della esecuzione. Dunque, Falcone e’ stato ucciso anche perche’ pubblicamente isolato dai suoi stessi colleghi? Martelli non dice questo. Ma nemmeno tace la sua profonda convinzione. Che “piu’ di un magistrato attivo nelle associazioni di categoria e in questo stesso Consiglio lo contesto’ apertamente e duramente, anche tra coloro che fino a qualche giorno prima egli riteneva gli fossero piu’ vicini”. E tuttavia, aggiunge il ministro di Grazia e Giustizia, “non e’ perduta” la battaglia di Falcone, come perduta non andra’ la sua “lezione di serieta’ , di sobrieta’ , di professionalita’ “. Falcone “vivra’ ” se ci saranno altri magistrati capaci di “raccogliere il suo testimone facendo rivivere la sua energia morale, la prova del suo coraggio e della sua indipendenza”, se “anche superando le nostre incomprensioni, faremo lo Stato piu’ forte contro la mafia, i mafiosi, i loro poteri e protettori, a cominciare da quelli che s’ annidano nella politica e nei pubblici poteri, spazzando via i polveroni, i depistaggi, le dietrologie fuorvianti”, se infine verranno qui in Sicilia e a Palermo “implacabilmente combattuti e vinti” i santuari mafiosi. Pochi applausi, grande tensione. Che nemmeno Spadolini riesce ad allentare, richiamando nel suo discorso d’ apertura il Paese alla scelta di una possibile e unica strada: “Quella della lotta per riaffermare il potere visibile della Repubblica contro tutti i centri di potere occulti, inquinatori della vita pubblica e distruttori della civile convivenza”. Ricorda la strage di via Fani e l’assassinio di Moro e l’esempio eroico di Falcone, ricorda sua moglie, i tre agenti della sua scorta. “Questo e’ il giorno del dolore. E’ il giorno dello sdegno e della esecrazione”, dice. Ma occorre andare avanti, nell’unita’ del Paese: “Occorre far si’ che l’ intera nazione respinga l’attacco che, una volta di piu’, e’ stato portato al cuore delle sue istituzioni democratiche. Dalla vittoria contro la delinquenza dipende l’avvenire della Repubblica”. E invece gli applausi arrivano con forza polemica a sostegno del discorso del vicepresidente del Csm, Giovanni Galloni. Che ricorda i tre agenti della scorta di Falcone, tutti gli agenti di scorta, “i nostri collaboratori di ogni giorno, uomini con i quali condividiamo i rischi, che ci sono di esempio nella loro umilta’ e dedizione al servizio”. Che, rivolto a Martelli, rivendica la liberta’ di giudizio del Csm a proposito della Superprocura e nella valutazione di tutti i candidati “altamente titolati” a guidarla, non solo di Falcone. Che insiste: “Vorrei assicurare il ministro che ci siamo mossi ben al di sopra e al di la’ della babele delle polemiche. Ma quando un organismo deve decidere, deve essere lasciato libero. Non ci possiamo lasciare vincere dalle passioni”. Piove, su Palermo e sul Palazzo di Giustizia e Veleni. “Sono cinquant’anni che il ministero dell’Interno e’ in mano alla Dc. Questo non succede nemmeno nella Repubblica delle banane”, grida Matassa in faccia a Spadolini. E Scaduto, con gli occhi arrossati: “Calunnie, quelle di Martelli. Che ministro spero lo resti ancora per poco. Io non condividevo le idee di Giovanni ma ero suo amico, ero amico di Franca. In un momento di dolore, come si fa a dire queste cose…”.[50] Giuseppe di Lello si alza e si allontana: “Dissento dal tentativo del ministro Martelli di collegare le critiche mosse dai magistrati alle scelte di politica giudiziaria fatte ultimamente da Falcone con il suo assassinio. Se c’e’ stata una delegittimazione questa è venuta da parte del potere politico che ha esposto Giovanni Falcone come unico avversario valido contro il braccio armato della mafia. Senza che la classe di governo mostrasse identica determinazione nel fare pulizia al suo interno.”[51] Andreotti (dimissionario Presidente del Consiglio)dichiara in parlamento: “Il governo non intende in alcun modo deflettere dalla linea perseguita per combattere la piovra mafiosa con gli strumenti dell’ordinamento democratico.” Bossi tuona alla camera sulla “strategia della tensione che non è finita e che riparte dal Palazzo”. Il ministro dell’interno Scotti dichiara che “la mafia punterà su obiettivi sempre più eccellenti e la lotta si farà sempre più cruenta, la mafia vuole destabilizzare lo stato e piegarlo ai propri voleri”. [52] Inoltre ricorda che già all’indomani dell’omicidio aveva lanciato un allarme congiuntamente al Capo della Polizia Parisi basato sulle dichiarazioni della fonte Elio Ciolini e di altre molto più serie ed attendibili fonti.[53] Il capo della polizia Vincenzo Parisi indica i tre possibili moventi della strage di Capaci: fermare l’uomo destinato a guidare la Superprocura, vendetta mafiosa, intimidire il paese.
“Il giorno dopo la strage di Capaci – ricorda quindici anni dopo don Cesare Rattoballi, oggi parroco di Godrano, a due passi da Palermo – Borsellino rimase per quasi tutta la notte a vegliare la salma di Falcone e la cosa che mi colpí fu che portó a spalla tutti i feretri, tranne quello del marito di mia cugina, Rosaria Schifani. A lei si avvicinó abbracciandola e restandole vecino anche nei giorni successivi.”
Prosegue don Rattoballi: “I nostri rapporti si intensificarono da quel giorno. Borsellino era convinto che la lacrime di mia cugina dal pulpito di San Domenico avessero smosso i cuori dei mafiosi. A casa sua, mi disse: Cesare, ho ricevuto segnali dal carcere, anche i piú duri stanno crollando, bisogna insistere.”
Quella cerimonia a San Domenico, finita nel caos della contestazione, viene metabolizzata con difficoltá da Borsellino, come un´esperienza altamente traumatica. Pallido, muto, il procuratore aggiunto resta per tutto il tempo della funzione vicino alla bara di Falcone. Guarda quello spettacolo doloroso con angoscia. La crisi di credibilitá delle Istituzioni, la tremenda crisi che si é manifestata ai suoi occhi tra le navate della chiesa non puó che colpire profondamente un uomo di stato come Borsellino, che per quelle Istituzioni nutre un´autentica venerazione. Gli errori, certo, sono degli uomini, non dei ruoli. Ma quanto la gente onesta di Sicilia, dopo il “botto” di Capaci, é disposta a fare ditinzione tra uomini e ruoli?
La sera, tornando a casa, Borsellino é sconvolto, affranto, rifiuta persino di parlare a suo figlio di quello che ha visto a San Domenico. Ricorda Manfredi: “Mio padre rimase sotto choc per quello che aveva visto in chiesa quella mattina. La contestazione dei palermitani, le urla, il lancio di monetine contro gli esponenti di governo, la rabbia trattenuta a stento dai cittadini, lo avevano turbato profondamente, a tal punto che la sera, tornando a casa, non volle neanche rispondere alle mie domande.” [54]
Enzo Biagi ricorda sul Corriere della Sera il matrimonio di Giovanni Falcone con Francesca Morvillo. “Ero a cena con Giovanni Falcone e con Francesca Morvillo, una sera del 1987, in casa di un amico, Lucio Galluzzo, a Palermo: a mezzanotte andarono a sposarsi. “Come due ladri“, dissero poi, solo quattro testimoni, cosi’ vuole la legge. Uscivano da tristi vicende sentimentali, e si erano ritrovati, con la voglia di andare avanti insieme, fino in fondo, fino alla strada che dall’ aeroporto conduce in citta’. “Perche’ non fate un bambino?” chiesero una volta a Giovanni. “Non si fanno orfani – rispose – si fanno figli”.” [55]
Sul Corriere della Sera compare un ritratto di Francesca Morvillo: Ci sono tre cassetti pieni di foto. Dovrebbero raccontare i viaggi, le brevi fughe, le rapide vacanze, le gite in barca, le domeniche casalinghe di Giovanni e Francesca Falcone ma il mare, i paesaggi, gli sfondi s’intravedono appena e non si capisce mai dove sono scattate queste centinaia di istantanee, tutte centrate sul volto, sul sorriso, sugli occhi di un angelo con la piega dei capelli sempre in ordine, dolce e naturale nei suoi tratti pacati, sereni, concilianti. Partivano e tornavano solo con i primi piani di lei che fingeva di protestare, felice perche’ quelle erano dichiarazioni d’amore. Ed ogni volta le sembrava di rivivere le stesse esplosioni di quella sera del ’79, a casa di amici, quando con uno sguardo comincio’ la loro bellissima storia, adesso tranciata nel sacrificio di un massacro temuto nel tempo, esorcizzato con battute spiritose, rinviato ma quasi atteso con il tormento di chi e’ costretto a convivere giorno e notte con il terrore di un futuro incerto. I loro matrimoni erano falliti e, insieme, cominciavano un’avventura che coincideva con le prime devastanti imprese di una mafia ancora piu’ sanguinaria e spregiudicata di quella agraria. Lei, bella ed elegante, al Tribunale dei minorenni doveva combattere ogni giorno contro la disperazione di ragazzi che non avrebbe mai voluto condannare “perche’ sono stati gia’ condannati dalla vita”, come ripeteva ai colleghi. Lui si trovava di fronte una strada tutta in salita perche’ un’inedita strategia antimafia imponeva di entrare nelle banche siciliane, violare i santuari della finanza, studiare economia, attrezzarsi culturalmente come mai era accaduto prima e come chiedeva il nuovo capo dell’Ufficio istruzione, Rocco Chinnici, l’uomo che scopri’ e difese Falcone anche quando qualche alta toga di questo infido Palazzo palermitano provo’ ad infangare la bellissima storia d’amore indicandola come “una tresca”. Al presidente della Corte di appello, Falcone rispose sprezzante: “Non abbiamo nulla da nascondere e nulla da rimproverarci. Faccia pure cio’ che ritiene di dovere…”. Non accadde nulla ma a Chinnici fu consigliato di riempire “di minuzzaglia”, di tante piccole indagini, quel giovane magistrato che rischiava di “rovinare l’economia di Palermo”, come lo stesso Chinnici annoto’ nei suoi diari. Amarezze. Sgambetti a volte provocati da intese inconfessabili fra potenti della politica e della magistratura, a volte da gelosie e rancori personali. Piccolezze umane che Giovanni e Francesca provavano a tenere fuori dalla porta di casa, al quarto piano di un moderno palazzo di via Notarbartolo, una sorta di bunker in pieno centro con tanto di garritta, autoblindo e uomini armati sul marciapiede. Fra mobili e divani Ottocento, bei tappeti, ricordini d’argento alle vetrine, ricercate collezioni di stilografiche e una gamma in continua evoluzione di Tv color, videoregistratori, stereo, e computer avevano costruito un rifugio con i tavoli sempre coperti di codici, fascicoli processuali, schede e sentenze. Qui si e’ rafforzata un’intesa perfetta che adesso sembra raccontata dalle foto accarezzate dalla mamma di Francesca, la signora Lina Morvillo, una presenza costante perche’ lei abita in un appartamento vicino. In questa bomboniera gia’ ammantata dalla nebbia dei ricordi ci sono ancora i divani coperti dai drappi che Francesca aveva adagiato prima della sua ultima partenza per Roma. Un modo per evitare la polvere. Ma la signora Lina proprio sabato mattina era salita per l’acqua alle piante e, vedendo quei divani coperti, ha avuto un attimo di smarrimento: “Mi fanno impressione”. Solo un soffio leggero al cuore, poi scoppiato la sera davanti al Tg con la notizia sull’attentato che nessuno le aveva comunicato perche’ anche il figlio Alfredo, pure lui magistrato in Procura a Palermo, fremeva in ospedale sperando nel miracolo. Si sono sposati una sera di maggio, cinque anni fa, in municipio, in gran segreto con pochi testimoni e con la complicita’ di Leoluca Orlando, il sindaco allora in sintonia con Falcone. Un atto ufficiale per suggellare il tenero intreccio di due personalita’ distinte ma ormai dipendenti l’una dall’altra. Lui vulcanico, pronto a gite improvvise e ad una cena fra amici dopo 9 ore di interrogatori. Lei riflessiva, capace di trasmettere serenita’ ma attratta da compagnie briose, come ai tempi dell’universita’, quando si laureo’ giovanissima vincendo il concorso in magistratura a 22 anni appena, felice di questo regalo al papa’ magistrato, subito dopo morto sotto i ferri di un medico che per errore gli trancio’ la vena iliaca. Un dolore infinito evocato da Francesca per spiegare perche’ non poteva lasciare Palermo: “Mia madre senza di me muore”. Cosi’, aveva deciso di non seguire il marito a Roma, ma di dividere la sua vita e la settimana: da lunedi’ a mercoledi’ mattina in Corte di appello e subito dopo aereo per Roma con la valigia zeppa di carte processuali. Pur tornando dalla mamma per i weekend, poteva finalmente stare vicino al suo Giovanni, curare quelle due stanzette dell’alloggio ricavato al distretto di polizia, fra il Pantheon e Montecitorio, e rivelare un grande segreto agli amici: “Siamo andati al supermercato e Giovanni ha fatto la spesa con me”. Era la conquista di una normalita’ sempre negata a Palermo dove lei non poteva chiedere nulla al marito, dove si era rassegnata a fare un abbonamento per la prosa del Biondo e per i balletti del Massimo, ad organizzarsi con un paio di amiche per vedere i film piu’ recenti. Fu allora, con la bomba inesplosa nell’89 dell’Addaura, che Francesca tremo’ davvero, incerta del destino ma certa del suo ruolo di compagna di un uomo-simbolo. Lo scongiuro’ solo una volta: “Parti!”. Poi accetto’ di vivere in quella villa di giorno, tornando a Palermo tutte le sere e lasciandolo solo, con la scorta, luci e stereo accesi, perche’ la mafia capisse che non mette paura, che non puo’ vincere.[56]
26 MAGGIO 1992 Scalfaro incontra gli agenti delle scorte di Palermo durante una visita nel capoluogo siciliano e si impegna in prima persona nel sostenerli nella lotta alla criminalità organizzata.
Paolo Borsellino rilascia un’intervista al quotidiano La Repubblica in cui indica la coincidenza tra l’omicidio di Falcone e la notizia appresa a Napoli pochi giorni prima da alcuni colleghi del CSM che si era formata la maggioranza per approvare la candidatura di Falcone alla guida della DNA. Borsellino sostiene inoltre che le puntate a Palermo di Falcone si sarebbero presto diradate perché la moglie aveva ottenuto la nomina a commissario esaminatore per i concorsi in Magistratura presso il ministero di Grazia e Giustizia a Roma. La notizia era ampiamente nota al Palazzo di giustizia di Palermo. L’omicidio viene fatto a Palermo perché è un omicidio di mafia e come tale va fatto dove la mafia controlla il territorio. Il controllo totale del territorio assicura al mafioso l’impunità. Borsellino afferma tra l’altro che “non si può affrontare la potenza mafiosa quando le si fa un regalo come quello che le è stato fatto con i nuovi strumenti processuali adatti ad un paese che non è l’Italia e certamente non la Sicilia. Il nuovo codice, nel suo aspetto dibattimentale, è uno strumento spuntato nelle mani di chi lo deve usare. Ogni volta, ad esempio, si deve ricominciare da capo e dimostrare che Cosa Nostra esiste”. [57]
Paolo Borsellino rilascia un´intervista anche al Corriere della Sera in cui sottolinea come il nome di Giovanni Falcone fosse circolato nei giorni immediatamente precedenti alla strage di Capaci come possibile candidato per il ministero dell´interno in un governo tecnico. “Ma Giovanni Falcone ne aveva nemici? Perché a giudicare dalle reazioni di questi giorni si direbbe di no” chiede il giornalista. “Io so che nel 1988 doveva prendere il posto di Caponnetto come consigliere istruttore e gli preferirono Meli. Poi tentó d’andare al Csm e non ce la fece. Non voglio parlare di nemici, peró le cose sono andate in questo modo. Tragga lei le conseguenze” la secca risposta di Borsellino. Il giornalista chiede poi al procuratore aggiunto di Palermo la sua opinione sui moventi della strage: “Anche se la domanda puó sembrarle superficiale, Giovanni Falcone é stato ammazzato per quello che aveva fatto o per quello che avrebbe potuto fare? Per le sue indagini o per la Superprocura?”. “Per quello che aveva fatto, sicuro – risponde Borsellino – per la sua capacitá , la sua volontá. Sará pure un’ osservazione elementare ma per il momento io proprio non riesco a fare che osservazioni elementari. Certo per le organizzazioni mafiose c’ era anche qualcos’ altro e di estremamente pericoloso che Falcone poteva fare. Lei sa benissimo che si era parlato di lui come candidato alla Superprocura ma era circolata intensamente anche una voce che lo dava candidato in una soluzione tecnica come ministro dell’ Interno”. Paolo Borsellino sottolinea infine la scelta di Cosa Nostra di colpire Giovanni Falcone in Sicilia: “Che lui sia stato la persona piu’ in grado di condurre indagini penetranti nell’ universo mafioso e che quindi per le organizzazioni criminali sia sempre stato un nemico estremamente pericoloso non ci vuole molto a capirlo. E non ci vuole nemmeno molto a capire perche’ lo abbiano ammazzato ora: con il prossimo trasferimento della moglie a Roma, un lungo trasferimento, le sue abitudini palermitane, che poi consistevano nei viaggi del fine settimana, si sarebbero diradate o almeno fortemente alterate.” [58]
Il Procuratore distrettuale di New York Charles Rose dichiara: ”Il massacro è tutto made in Italy. E’ la filiale siciliana di Cosa Nostra che ha voluto, ordinato ed organizzato l’assassinio. La mafia americana, lo so per certo, disapprova. Perché le famiglie americane non avrebbero mai né tollerato né tanto meno ordinato un gesto terroristico così vistoso e simbolico. La mafia non vuole simboli, vuole potere e soldi. Neppure i boss più feroci di Cosa Nostra hanno mai voluto colpire personalità dello Stato così visibili come era Giovanni, perché essi sanno benissimo quali rischi comporta attaccare frontalmente lo Stato. Quell’attentato terroristico è un gesto di paura. In più è un atto di solitudine della mafia siciliana, perché in questo momento nelle centrali americane di Cosa Nostra, nelle ville dei boss colombiani, dovunque la mafia faccia affari, sono in molti a scuotere la testa e a preoccuparsi di quello che la filiale siciliana ha fatto. Se i boss di Sicilia avessero chiesto a quelli americani la loro opinione, qui gli avrebbero chiesto se stessero diventando pazzi. Le varie organizzazioni collaborano strettamente negli affari. I colombiani e gli americani forniscono di cocaina l’Europa, passando per la Spagna, per l’Italia, per l’Olanda. Gli italiani vendono l’eroina agli americani e periodicamente gli emissari si incontrano per discutere forniture, prezzi, riciclaggi di denaro, banche complici, siano esse nelle isole Caiman, nelle Bahamas o nella Svizzera, oggi un po’ sospetta perché i magistrati elvetici collaborano un po’ troppo con le inchieste. Ma quando si tratta di misurarsi con gli Stati e le leggi delle singole nazioni, ognuno deve sbrigarsela da solo. Qualche tempo fa nel corso dell’istruttoria Musso e della famiglia Lucchese abbiamo saputo che Cosa Nostra in Florida aveva chiesto ai colombiani il favore di eliminare una persona scomoda nella stessa Florida. I colombiani hanno subito risposto “no grazie. Noi vi forniamo la roba, i vostri omicidi ve li fate da voi”. Credo che una mafia che si mette a sparare ai simboli come fanno i terroristi, senza più neppure il coraggio di guardare in faccia le sue vittime, una mafia che deve ammazzare con il telecomando, è una mafia che sta perdendo la guerra, che sente l’alito della legge sul collo. E che è condannata a perdere il bene più prezioso per ogni organizzazione criminale di quel tipo, cioè la complicità attiva o passiva della popolazione entro la quale si muove.”[59]
Sul Corriere della Sera compare un´intervista a Tina Montinaro, vedova di Antonio Montinaro, caposcorta di Giovanni Falcone: Quarta panca, un posticino per tutti e tre. Lei, fasciata di nero, bella e sfinita nei suoi 32 anni, e’ l’immagine di una tragedia che la diretta tv fa rimbalzare di casa in casa come una riproduzione della Pieta’. Alta e immobile, un braccio cinge un bimbo di 17 mesi col ciuccio in bocca e una mano sfiora il capo riccioluto di un altro marmocchio di 4 anni mentre i suoi occhi umidi volano sulla folla e s’aggrappano alla bara del marito, Antonio Montinaro, agente scelto, caposcorta di Falcone, ombra perenne del giudice. Scorrono le parole dei salmi, dell’omelia, delle preghiere e Tina, che ascolta sfiduciata, scuote appena il capo quando l’altra giovanissima vedova chiede dal pulpito ai mafiosi di inginocchiarsi in cambio del perdono. “No, loro non si inginocchiano”, commenta Tina con un sussurro carico di diffidenza per questa “citta’ senza amore”, come spiega senza perifrasi col suo accento napoletano, intatto nonostante i sei anni a Palermo accanto al suo Antonio: “Dopo Falcone la giustizia e’ andata a farsi fottere. E quindi non ne chiedero’ perche’ anche se la chiedessi nessuno ne farebbe. Ai mafiosi magari danno 30 anni, ma poi l’anno appresso glieli riducono a 15 e molti sono gia’ liberi dopo qualche mese. La mitraglia ci vorrebbe”. Accarezza i suoi piccoli e promette sottovoce: “Non vi faro’ vivere qui figli miei, non vi faro’ vivere dove hanno ucciso papa’. Dovro’ lasciare il mio negozio di detersivi ma andremo via da Palermo”. I suoi capelli dai riflessi rossi sono raccolti da un cerchietto sopra la fronte alta, su un viso di cera segnato da grandi occhi neri e dal profilo mediterraneo che conquisto’ Antonio a prima vista. Riesce a sorridere e a piangere insieme ricordando l’abbordaggio con quel giovane alto, dinoccolato, riccioluto e anche un po’ fiero e pieno di se’ : “Lascia i tuoi amici e le tue amiche. Non uscire con loro. Non sai che cosa ti perdi. Con me non guarderai solo le stelle”. Gli occhi di Tina brillano con lacrime frenate schiacciando le labbra fra i denti: “Mi disse proprio cosi’. E io andai con lui. Ci sposammo dopo pochi mesi. Ero felice. Avevo trovato il mio uomo per sempre. E invece l’ho perduto, non c’e’ piu’, c’e’ solo il vuoto”. Accadde un pomeriggio nella Palermo del primo maxiprocesso quando Antonio arrivo’ in missione da Bergamo e trovo’ alloggio nelle tre torri, i tre palazzoni affittati dalla Prefettura per i mille uomini di scorta. Era di passaggio e sperava di avvicinarsi presto a Lecce, magari facendo il pendolare con Calimera dove c’era papa’, un pescivendolo, e mamma, una vecchina con i capelli colore dell’argento, anche lei ieri stretta nella quarta panca. Ma Antonio non torno’ piu’ a casa. Anzi brigo’ per restare. Perche’ nella sua nuova citta’ aveva trovato la donna della sua vita, Tina, e un ideale chiamato Giovanni Falcone. “Si’ , Falcone per lui era un Dio. E in effetti era uno dei pochissimi uomini puliti. Antonio ha fatto la morte di cui parlava sempre. Lo ripeteva spesso: “Se devo morire voglio morire con lui”. Un giorno lo sapranno anche loro…”, sospira Tina, dolce nelle carezze per il piccolo Giovanni, riccioli chiari e il ciuccio verde come la tutina con una frase colorata, “Je suis tendre” (sono tenero). Si addormenta sul poggiapiedi Gaetano e lei lo tira su adagiandolo sulla panca, riagganciando con lo sguardo la “sua” bara: “Che mi resta di Antonio? Mi resta il ricordo di venerdi’. Si’ , venerdi’ scorso, il giorno del mio compleanno. Non e’ potuto tornare a pranzo ma poi si e’ fatto perdonare. La sera e’ rientrato prima del solito e siamo stati fino a tardi insieme con i bambini. Una festa. L’ultima. Sabato mattina e’ andato via, un boccone in mensa e poi all’aeroporto per Falcone, il suo ideale, il suo modello”. [60]
Il capogruppo del Psi alla Camera, Salvo Ando’, rilancia la accuse rivolte dal ministro di grazia e giustizia Claudio Martelli ai membri del CSM ed ai colleghi di Giovanni Falcone che ne avevavo criticato la candidatura a Procuratore Nazionale Antimafia. “Quello che hanno fatto al giudice Falcone – ritiene Ando’ – impone una discussione franca, vera, innanzitutto dentro il Csm. Cio’ per capire quanto la fredda, paziente, distruttrice opera di delegittimazione del magistrato siciliano abbia oggettivamente favorito l’azione criminale decisa dalla mafia. Si pone per il Csm una questione morale che nessuno, in questo momento, puo’ illudersi di occultare piangendo “piu’ forte” degli altri”.[62]
Mercoledì 27 maggio 1992 Paolo Borsellino torna a parlare pubblicamente di Falcone, come se non riuscisse a tenere per sé le riflessioni, come se avesse bisogno di condividere con l´opinione pubblica la sua ansia spasmodica di sapere, di capire, di conoscere. E a chi sostiene che Falcone fosse stato delegittimato e lasciato solo, replica: “Non condivido affatto l´opinione che Falcone fosse persona delegittimata”, dichiara al giornalista del Tg1-Linea notte, e di questa intervista il Tg1 delle 20.30 trasmette uno stralcio.
“Falcone – ammette Borsellino – aveva sicuramente degli avversari all’interno della magistratura, ma manteneva tutta la sua legittimazione e voglio dire di piú; ammesso che gli fosse fallito l´intento di essere nominato procuratore nazionale, come tutti sanno, anche recentemente, grossi esponenti politici avrebbero addirittura fatto l´ipotesi che Falcone avrebbe potuto approdare alla carica ancora piú prestigiosa, finanche come ministro degli Interni.” La voce della possibile candidatura di Falcone per un incarico in un governo di tecnici era stata infatti formalizzata dal segretario del Pri Giorgio La Malfa.
A pochi giorni dalla strage, le indagini girano ancora a vuoto, si fatica a ricostruire la dinamica dell´attentato sull´autostrada, ma l´insistenza sulla carica autorevole mantenuta al ministero dia Falcone, rivela la convinzione di Borsellino che questa autorevolezza, insita nel ruolo di favorito al vertice della Superprocura, o addirittura di candidato in pectore per il ruolo di ministro degli Interni, possa in qualche modo aver costituito un movente per gli stragisti decisi a fermare a tutti i costi questa progressione di carriera.[63] Il Presidente del tribunale di Caltanissetta Placido Dall’Orto denuncia le gravi carenze di organico della Procura, destinata ad occuparsi delle indagini sulla strage di Capaci: ”Qui è molto peggio di Fort Apache, siamo allo sbando. In una situazione come la nostra la lotta alla mafia è solo una vuota parola, lo abbiamo detto tante volte al CSM.” [64] Solo il procuratore Celesti ed il sostituto Polino sono titolari dell’indagine sulla strage di Capaci. Tutte le inchieste riguardanti i giudici di Palermo, Trapani ed Agrigento vanno a Caltanissetta per il meccanismo della legittima suspicione (Processi Montalto, Carlo Palermo, Saetta, Addaura, ecc.). Caltanissetta è il terminale più delicato del sistema giudiziario siciliano. Eppure i posti liberi restano senza aspiranti, i concorsi vanno deserti. Per esempio per la carica di Procuratore capo è pendente una sola domanda, quella di Tinebra, già capo della Procura di Nicosia. Durante la trasmissione televisiva L’istruttoria condotta da Giuliano Ferrara su Italia 1 il ministro della giustizia Claudio Martelli dichiara: ”Bisogna riaprire i termini del concorso alla carica di Superprocuratore. Ci sono decine di magistrati validi e capaci che non avevano presentato domanda per concorrere alla carica. Non lo avevano fatto perché davano per scontato che nessuno meglio di Falcone era adatto per quella carica. E’ necessario dare loro la possibilità di concorrere.” [65] Il ministro Martelli invia una lettera al CSM per suggerire la riapertura dei termini del concorso per il capo della DNA. “In seguito alla tragica scomparsa di Giovanni Falcone – scrive Martelli – segnalo l’opportunita’ di riaprire i termini del concorso alla carica di Superprocuratore”. E aggiunge: “Prego considerare che la proposta e’ dettata da spirito costruttivo in relazione all’ esigenza di permettere la partecipazione al concorso” di tutti gli aspiranti. Secondo il ministro, “ci sono decine di magistrati validi e capaci che non avevano presentato domanda per concorrere perche’ davano per scontato che nessuno meglio di Falcone era adatto a quella carica”. La prima reazione ufficiale da parte del CSM é del consigliere Gianfranco Viglietta (Magistratura democratica), il quale mostra un senso di sorpresa davanti all’ iniziativa del ministro. “Nella storia del diritto amministrativo – dice Viglietta – non si é mai vista una cosa del genere. Non ci sono precedenti. Sono molto perplesso. Pero’ preferisco non aggiungere altro, perché con l’aria che tira é meglio stare zitti. Ad ogni modo, c’é una richiesta formale, la valuteremo in Consiglio e poi si vedra’.” [66]
Giovedì 28 maggio 1992 Alla presentazione a Roma del libro “Gli uomini del disonore” di Pino Arlacchi al tavolo siedono Vincenzo Parisi, Pino Arlacchi, Vincenzo Scotti, Paolo Borsellino e Leonardo Mondadori. Al termine della presentazione del libro si parla di Falcone e della superprocura, dal pubblico viene una domanda: “Dottor Borsellino, prenderebbe il posto di Falcone?” Borsellino esita alcuni secondi poi replica: ”No, non ho intenzione…”. A sorpresa interviene il ministro Scotti che dichiara: “Lo candido io. Con il collega Martelli abbiamo chiesto al CSM di riaprire i termini del concorso ed invito formalmente il giudice Borsellino a candidarsi.” Borsellino è imbarazzato ma dal suo viso trapela un’indignazione senza confini: ”Non so … comunque, nel caso dovesse esser proposto il mio nome, sarà necessario procedere alla riapertura dei termini per la presentazione delle candidature.” [67]
Appena rientrato a Palermo Borsellino parla con il suocero Angelo Piraino Leto e gli chiede un consiglio sul modo migliore per respingere la proposta di Scotti. L’improvvida uscita del ministro sconvolge Borsellino, perché né il Ministro degli Interni né altri gli hanno chiesto preventivamente un’opinione. Inoltre esporlo in questo modo equivale a metterlo nel centro del mirino mafioso. Uno dei più probabili scopi della strage di Capaci era infatti stato quello preventivo, cioè la mafia aveva voluto bloccare la nomina di Falcone a Superprocuratore Nazionale Antimafia. Pochi giorni dopo Borsellino commenterà l’uscita di Scotti in un colloquio con il maresciallo Canale con queste parole: “Hanno messo l’osso davanti ai cani”. [68]
Calogero Pulci, collaboratore di giustizia, ha testimoniato che la sera di quello stesso giorno era a tavola con altri associati all’organizzazione Cosa Nostra quando il TG3 trasmise le immagini di una conferenza stampa in cui Scotti e Martelli esposero la richiesta al CSM di riaprire il concorso per la Superprocura facendo esplicitamente il nome di Paolo Borsellino. All’udire queste parole Madonia esclamò: ”E murì Bursellinu”. [69] La proposta di Scotti e Martelli di riaprire i termini per il concorso alla carica di superprocuratore (ufficializzata da una lettera inviata dal ministro Martelli al vice-presidente del CSM Galloni e sostenuta dai repubblicani) è peraltro destinata a morire prima di nascere. Infatti la legge prevede che i termini del concorso possano essere riaperti solo nel caso in cui i candidati proposti dalla commissione per gli incarichi direttivi del CSM siano bocciati dal plenum. Sono pesantemente rafforzate le misure di sicurezza attorno al PM milanese Antonio Di Pietro in seguito ad alcune attendibili minacce ricevute da lui e dalla sua famiglia.
Il CSM nomina Procuratore Capo di Caltanissetta il magistrato Giovanni Tinebra. Domenico Sica, prefetto di Bologna ed ex-alto commissario antimafia, rilascia un´intervista relativa ai suoi rapporti con Giovanni Falcone. “Una delle storie – afferma Sica – che piu’ mi hanno fatto arrabbiare, anche se sarebbe meglio usare una parola piu’ greve, e’ quella che fra me e Falcone ci fosse continuamente un conflitto e qualche breve periodo di pace. Non e’ vero, abbiamo lavorato insieme una ventina d’anni, ognuno facendo la sua parte, in un rapporto di sana dialettica. Se vi erano disaccordi si discuteva, poi a volte qualcuno cambiava idea, perche’ solo gli stupidi non la cambiano mai”. Falcone, per Sica, non era stato solo. “La solitudine – ha spiegato – e’ la condizione obbligata per un giudice che lavora seriamente. Ma nella sua attivita’ ministeriale, che e’ un lavoro di equipe, non poteva essere isolato. Nelle ultime conversazioni non mi era sembrato angosciato anche se ovviamente aveva messo in conto i rischi della professione. Poteva sembrare accigliato, ma in privato si poteva scherzare di tutto, anche di cose orribili, per sdrammatizzare”. Non sa, Sica, se come dicono negli USA l’attentato e’ una prova di debolezza delle cosche, sgradito per giunta a Cosa Nostra. “Voglia Iddio che si tratti di un segno di decadenza. Se e’ un colpo di coda creera’ malumore, e si potrebbe aspettare una serie di morti ammazzati”. Non e’ stata nemmeno necessaria secondo Sica la presenza di una “talpa”: chiunque avrebbe potuto vedere l’elicottero che volava sopra il corteo blindato. Ma contro la mafia il prefetto ha un rimedio: l’infiltrazione nel suo ambiente, la piu’ tradizionale opera di intelligence per sapere in anticipo cio’ che il nemico ha in mente.[70] Domenico Sica cita un elicottero che avrebbe sorvolato lo svincolo su Capaci nell´immediatezza della strage il 23 maggio. La stampa ha infatti dato notizia di un veivolo che sarebbe stato notato il giorno della strage, un Piper, in giro sull’asse dell’autostrada per Palermo proprio alle ore 17.58.[71]
29 MAGGIO 1992 – Paolo Borsellino riguardo alla sua possibile candidatura alla guida della DNA dichiara: ”Nessuno ha chiesto la mia disponibilità.” [72]
I colleghi della Procura di Palermo che gli sono più vicini invitano Borsellino a respingere l’offerta fattagli dal ministro perché lo ritengono cento volte più utile come procuratore aggiunto a Palermo che come Superprocuratore a Roma. Antonio Ingroia e Vittorio Teresi scrivono un documento in cui chiedono formalmente a Borsellino di rimanere. Lo firmano Roberto Scarpinato, Alfredo Morvillo, Gioacchino Scaduto, Leonardo Guarnotta, Gioacchino Natoli. Paolo Borsellino approva inizilamente l’iniziativa, corregge persino alcune frasi che possono sembrare polemiche. “Finalmente l´appello fu partorito e si decise che sarebbe stato dato alla stampa il lunedí, e poi sarebbe seguita la sua adesione” ricorda Antonio Ingroia.[73] Il Ministro Claudio Martelli rilascia una dichiarazione a proposito della candidatura di Borsellino alla guida della DNA: “Non intendo fare nomi. Non mi faccio intrappolare.” [74]
Anche il ministro Enzo Scotti precisa di non aver presentato candidature: “Ma come responsabile dell´ordine e della sicurezza, posso auspicare che la Dna sia messa quanto prima in condizione di operare e nel modo migliore. Ho sollecitato Borsellino a candidarsi, mi sono augurato e mi auguro che lo faccia”. [75]
A palazzo dei Marescialli, sede del CSM, i magistrati assistono con fastidio al balletto delle ingerenze istituzionali sulla Superprocura, tra riaperture dei termini, candidature e smentite. “La gravita´ della situazione impone determinate scelte, ma certe regole vanno rispettate”, avverte Ernesto Stajano, presidente della commissione incarichi direttivi. La candidatura anomala di Borsellino é stroncata. “Se non é certo discutibile il valore dell´uomo, non immagino in quale ordinamento giuridico possa inquadrarsi l´eventuale riapertura del concorso – gli fa eco Giuseppe Gennaro, sostituto procuratore a Catania – inoltre rimangono immutate le perplessitá sull´utilitá di una struttura come la cosiddetta Superprocura.” Si schiera con il governo, invece, il procuratore di Nicosia Giovanni Tinebra, che a breve sostituirá il procuratore Celesti a Caltanissetta: é l´occasione – dice – per non disperdere ed utilizzare al meglio l´esperienza maturata da Borsellino accanto a Giovanni Falcone in piú di un decennio di lotta alla mafia. Il paese chiede una risposta forte e credo che il CSM saprá darla nell´ambito delle sue responsabilitá istituzionali.” [76]
Il collaboratore di giustizia Antonino Calderone rilascia un’intervista al quotidiano La Repubblica: ”La condanna a morte di Falcone era programmata da tempo. E’ stata anche rinviata ad un certo punto. Poi è diventata improrogabile. E questo per due motivi: la decisione della Cassazione a gennaio di confermare gli ergastoli ai capi della cupola (Michele Greco, Salvatore Riina, Francesco Madonia e Pippo Calò) e la quasi certa nomina di Falcone a superprocuratore. Va precisato che una strage come quella di Capaci, così eclatante, così spettacolare, non è mai nell’interesse della mafia. Chi sta in galera e l’ha ordinata non corre rischi, ma a venire assediati dalla reazione dello Stato sono i mafiosi che stanno fuori e questo altera equilibri ed alleanze. Non ho dubbi che dovremo aspettarci altri delitti eccellenti. Potrà toccare ad un magistrato, ad un ministro, ad un poliziotto. Ci sarà la guerra adesso, un terremoto che potrebbe rovesciare il patto di ferro dei vincenti che dura ormai da 15 anni. E adesso ci saranno sicuramente molte azioni diversive nel resto d’Italia per allentare la pressione dello stato su Palermo.” [77]
30 MAGGIO 1992 – In un comunicato diffuso dagli uffici di Via Arenula si afferma che “il Ministro Martelli non ha mai avanzato la candidatura del procuratore Borsellino a capo della DNA. Il guardasigilli ha solo chiesto la riapertura dei termini per il concorso a quell’incarico e si rifiuta categoricamente di fare candidature.” [78]
La Commissione incarichi direttivi del CSM boccia la proposta Scotti-Martelli di riaprire i termini per il concorso alla carica di superprocuratore della DNA. La decisione verrá trasmessa al plenum del CSM che delibererá in maniera definitiva.[79]
31 MAGGIO 1992 In serata Paolo Borsellino telefona ad Antonio Ingroia: “Sai”, dice, “ho ripensato al vostro documento, è meglio non far nulla. Ho parlato con Giammanco, mi ha dato un consiglio che penso vada seguito. Questa vostra lettera potrebbe farmi diventare il parafulmine del contrasto tra il ministro di Grazia e Giustizia ed il CSM sulla scelta del superprocuratore. Il mio no potrebbe essere strumentalizzato nel braccio di ferro tra il CSM e Martelli sul nome di Cordova. La vostra presa di posizione potrebbe dare spunto ad altri per insistere sul mio nome, è un circolo vizioso in cui non voglio entrare.” [80]
Borsellino, dopo essersi consultato con il suocero Angelo Piraino Leto, ex presidente del tribunale, con fama di insigne giurista, scrive una lettera privata al Ministro Scotti in cui rifiuta in modo cortese ma fermo la candidatura a superprocuratore nazionale antimafia. Lascia poi al Ministro la decisione se divulgare oppure no la notizia ed i contenuti della missiva:
Onorevole signor ministro, mi consenta di rispondere all´invito da Lei inaspettatamente rivoltomi nel corso della riunione per la presentazione del libro di Pino Arlacchi. I sentimenti della lunga amicizia che mi hanno legato a Giovanni Falcone mi renderebbero massimamente afflittiva l´eventuale assunzione dell´ufficio al quale non avrei potuto aspirare se egli fosse rimasto in vita. La scomparsa di Giovanni Falcone mi ha reso destinatario di un dolore che mi impedisce, infatti, di rendermi beneficiario di effetti comunque riconducibili a tale luttuoso evento. Le motivazioni addotte da quanti sollecitano la mia candidatura alla Direzione nazionale antimafia mi lusingano, ma non possono tradursi in presunzioni che potrebbero essere contraddette da requisiti posseduti da altri aspiranti a detto ufficio, specialmente se fossero riaperti i termini del concorso. Molti valorissisimi colleghi, invero, non posero domanda perché ritennero Giovanni Falcone il naturale destinatario dell´incarico, ovvero si considerarono non leggittimati a proporla per ragioni poi superate dal Consiglio superiore della magistratura. Per quanto a me attiene, le suesposte riflessioni, cui si accompagnano le affettuose insistenze di molti dei componenti del mio ufficio, mi inducono a continuare a Palermo la mia opera appena iniziata, in una procura della repubblica che é sicuramente quella piú direttamente ed aspramente impegnata nelle indagini sulla criminalitá mafiosa. Lascio ovviamente a Lei, onorevole signor ministro, ogni decisione relativa all´eventuale conoscenza da dare a terzi delle mie deliberazioni e di questa mia lettera. RingraziandoLa sentitamente. Paolo E. Borsellino [81]
La lettera rimarrà riservata. Scotti farà cenno al rifiuto di Borsellino solo dopo la strage di Via D’Amelio in un’intervista a Panorama.
Borsellino ha rifiutato, e nessuno lo sa. Contesta il metodo, ma ora inizia a difendere nel merito quella stessa struttura che, vivo Falcone, aveva criticato insieme con la grande maggioranza dei suoi colleghi. La strage di Capaci é lo spartiacque che ribalta i ragionamenti, scardina le convinzioni piú solide, costringe a guardare in faccia una Cosa Nostra mai vista prima, che con il tritolo punta al cuore dello stato. Borsellino é solo, non c´é piú Falcone con cui scambiare notizie ded impressioni, ma del suo amico, adesso, si sente in dovere di difendere pubblicamente le strategie antimafia. Intervistato dal Gr1 dice: la Superprocura voluta da Giovanni Falcone “avrebbe, anche se per via diversa, ricreato le condizioni in cui operó nel suo periodo migliore il pool antimafia di Palermo.” Borsellino sottolinea la continuitá tra il pool antimafia e la superprocura, nella metodologia di lavoro adottata da Falcone, e ricorda come erano state proprio le conseguenze della gestione “del tutto insoddisfacente” delle rivelazioni del pentito Antonino Calderone, dopo la dissoluzione del pool, ad avere “inciso enormemente sulla decisione di Giovanni Falcone di lasciare la Procura di Palermo, perché si era reso conto che con una visione cosí parcellizzata del fenomeno mafioso (il procedimento che ne scaturí venne diviso in dodici tronconi ndr) da un´unica sede giudiziaria non fosse possibile ripetere quello che era successo nella fase originaria e di sviluppo del maxiprocesso.” [82] Filtrano le prime indiscrezioni su un decreto anticriminalitá che i ministri Vincenzo Scotti e Claudio Martelli dovrebbero presentare in consiglio dei ministri la settimana successiva. In primo luogo, nelle inchieste su fatti di mafia sara’ concesso un tempo piu’ lungo per le indagini preliminari: un anno e non soltanto 6 mesi. Inoltre le forze di polizia avranno la possibilita’ di muoversi con una maggiore autonomia. Attualmente hanno l’obbligo di informare l’autorita’ giudiziaria entro 48 ore, fornendo tutto il materiale raccolto. Invece verra’ loro concesso di operare con piu’ tranquillita’ e informare “senza ritardo” il magistrato. Poi provvedimenti in favore dei pentiti riguardo la sicurezza personale e la possibilita’ di avere una vita al riparo dalle vendette. Infine un rafforzamento degli organici degli agenti di custodia, duemila guardie in piu’.[83]
1 GIUGNO 1992– Alla sera qualcuno suona al campanello della casa di Paolo Borsellino in via Cilea a Palermo. È una processione di carabinieri e poliziotti che vogliono chiedere al giudice una “raccomandazione” per essere annessi alla sua scorta. Ad aprire la porta di casa è Lucia, mentre Borsellino è ancora al lavoro in ufficio. Lucia fa accomodare tutti in salotto. Quando il giudice torna a casa ha però una reazione inaspettata: vede questi estranei in casa, chiama i familiari nella stanza più lontana e comincia a gridare contro di loro perché colpevoli di aver fatto entrare queste persone, non sopporta di vedere gente in casa, è stanchissimo. Solo dopo qualche minuto i familiari riescono a spiegargli il perché di quella inconsueta visita. Borsellino fa in tempo a bloccare il gruppo che, capita l’antifona, sta per andarsene. Il giudice chiede scusa e dà appuntamento per l’indomani in procura: “Parliamone lì ragazzi”, acconsente. «Si parlava di Falcone, delle indagini su Capaci, dei nuovi equilibri dentro Cosa Nostra. Terminiamo di cenare, ed il proprietario del locale si avvicina a Paolo, gli sussurra in un orecchio che il cuoco vorrebbe conoscerlo, nulla di più. Paolo mi sembra imbarazzato dalla insolita richiesta, ma dice di sì. Si alza, va incontro al cuoco, un uomo anziano, dal viso buono. Appena gli stringe la mano, questi si mette a piangere come un bambino. Paolo resta pietrificato per pochi secondi. Poi, commosso, lo abbraccia. I due escono dal ristorante, cominciano a passeggiare parlando fitto fitto, come vecchi amici, in palermitano stretto. “Sai Antonio”, mi racconta in auto mentre rientriamo a Palermo, “stavo per mettermi a piangere anch’io. Ha voluto dirmi che i palermitani onesti, i padri di famiglia, sono al nostro fianco”. Quella cena con i carabinieri, Borsellino, la ricorderà per sempre. La chiamerà “la cena degli onesti”. (Da Capaci a via D’Amelio ricordando i 57 giorni – Venerdì 5 giugno 1992 – Antonio Ingroia racconta che alla sera, durante una cena a Terrasini, organizzata dai carabinieri, il calore delle gente raggiunge Paolo Borsellino in pieno.)
Giovedi´ 4 giugno 1992 Dopo l´uccisione dell´eurodeputato Salvo Lima, per “capire”, per esplorare le informazioni di coloro che all´interno di Cosa Nostra hanno vissuto per anni, la Procura della repubblica di Palermo decide di interrogare negli Stati Uniti i pentiti Tommaso Buscetta e Francesco Marino Mannoia. Giammanco decide che due sostituti procuratori, i cui nomi non vengono resi noti, partiranno alla volta degli USA, dove Buscetta e Mannoia sono sotto regime di protezione da parte delle autorita´ federali. La decisione assunta in procura, finalizzata non soltanto ad un tentativo di lettura del delitto “dall´interno” del sistema di relazioni di Cosa Nostra, ma anche alla ricognizione di come questo sistema si rapporti con la politica, si concretizza dopo la strage di Capaci. Ma poi subisce uno stop improvviso. Borsellino si propone a Giammanco per effettuare personalmente la rogatoria. L´obiettivo e´ superare le reticenze di don Masino sui rapporti tra mafia e politica. Il procuratore di Palermo inizialmente esita: Borsellino, formalmente, ha solo la competenza per indagare sulla mafia di Trapani ed Agrigento. Ma l´aggiunto insiste: e´ convinto che don Msino ha da raccontare molte cose utili sull´uccisione del proconsole di Andreotti in Sicilia. Poi, ad un tratto, Giammanco cede: una mattina di inizio giugno chiama Borsellino, e lo autorizza alla partenza. Lui e´ stupito di aver ottenuto la possibilita´ di partecipare alla rogatoria. Prenota il volo per le prime pre del pomeriggio dell´indomani, fissa la camera in albergo, si prepara per il viaggio. La sera, a casa, riempie una valigia, appronta una serie di appunti, legge, si documenta. Il giorno dopo, pero´, si ferma tutto. Borsellino torna a casa all´ora di pranzo e chiede ad Agnese: “Che si mangia?” Lei resta interdetta: “Ma come? Stai per partire e vuoi sederti a tavola?” E lui, laconico: “Non parto piu´”. Non dice nient´altro, non fornisce spiegazioni. “Mio marito – ricorda Agnese – si sedette a tavola, e guardando il TG che dava gia´ la notizia della sua partenza per gli Stati Uniti, sorrise amareggiato”. La rogatoria negli USA per sentire Buscetta si fara´ molti mesi piu´ tardi, quando Borsellino sara´ gia´ morto, Giammanco non sara´ piu´ procuratore, e a Palermo si sara´ insediato ormai Giancarlo Caselli. Ancora una volta, l´intuizione di Borsellino si rileverá esatta: le nuove dichiarazioni di don Masino verranno considerate “esplosive” ed apriranno uno squarcio sul connubio mafia-politica, dando roigine all´inchiesta giudiziaria su Giulio Andreotti. [6]
Il plenum del CSM boccia definitivamente a larga maggioranza la proposta del ministro dela giustizia Martelli di riaprire i termini per il concorso alla guida della superprocura nazionale antimafia.[7] L´unica strada aperta per il governo rimane quella di un decreto ad hoc che riapra i termini.
Venerdi´ 5 giugno 1992 Sono giorni plumbei, Borsellino li trascorre con il cuore in pena, sempre alla ricerca di tracce che possano portarlo sulla pista piu´ vicina alla verita´ della strage di Capaci. Eppure, di tanto in tanto, qualcosa lo conforta, ed e´ la sensazione che la gente di Sicilia sia dalla sua parte, dalla parte dei giudici onesti, dalla parte di chi cerca, disperatamente, di salvare il paese dalla deriva del terrore, di restituirlo alla legalita´. Racconita Ingroia che uan sera, durante una cena a Terrasini, organizzata dai carabinieri, il calore delle gente lo raggiunge in pieno.
“Si parlava di Falcone, delle indagini su Capaci, dei nuovi equilibri dentro Cosa Nostra. Terminiamo di cenare, ed il proprietario del locale si avvicina a Paolo, gli sussurra in un orecchio che il cuoco vorrebbe conoscerlo, nulla di piu´. Paolo mi sembra imbarazzato dalla insolita richiesta, ma dice di si´. Si alza, va incontro al cuoco, un uomo anziano, dal viso buono. Appena gli stringe la mano, questi si mette a piangere come un bambino. Paolo resta pietrificato per pochi secondi. Poi, commosso, lo abbraccia. I due escono dal ristorante, cominciano a passeggiare parlando fitto fitto, come vecchi amici, in palermitano stretto. “Sai Antonio”, mi racconta in auto mentre rientriamo a Palermo, “stavo per mettermi a piangere anch´io. Ha voluto dirmi che i palermitani onesti, i padri di famiglia, sono al nostro fianco.” Quella cena con i carabinieri, Borsellino, la ricordera´ per sempre. La chiamera´ “la cena degli onesti”. [8]
Il Pds si schiera a favore della proposta del ministro Claudio Martelli di riaprire i termini per il concorso a capo della Dna ed appoggia la candidatura di Paolo Borsellino: “la candidatura di Paolo Borsellino alla guida della Superprocura é seria e potrá diventare attuale se si riapriranno i termini del concorso”. [9]
Durante un´operazione condotta dalla squadra mobile di Milano vengono arrestati nel capoluogo lombardo Vesna Turk e Brisa Basic, 25 e 23 anni, di Belgrado, incensurati e Wilson Palokaj, un albanese di 25 anni con precedenti penali. Nell´abitazione dei tre vengono sequestrati due pani di esplosivo al plastico ed una bomba anticarro, mentre nell´autovettura del Palokaj vengono recuperati 25 candelotti di dinamite. Sempre nell´abitazione viene rinvenuta una piantina in cui sono evidenziati sette luoghi della cittá: tre stazioni ferroviarie (la Centrale, Porta Garibaldi e Porta Vittoria), Piazza Duomo, le sedi della Sip in via Melchiorre Gioia e in via Gallarate, il carcere di San Vittore. Gli inquirenti si mostrano molto cauti nell´avanzare ipotesi e nell´accreditare una voce circolata poco dopo l´operazione secondo la quale uno dei possibili obiettivi avrebbe potuto essere il PM Antonio Di Pietro, che in quei giorni frequentava assiduamente il carcere di San Vittore per condurre degli interrogatori. Fra gli atri documenti sequestrati gli investigatori rinvengono anche un numero telefonico che porta ad una “famiglia” corleonese con base a Milano. Un sottufficiale delle forze dell´ordine si lascia scappare: “Un circolino su piazza Duomo, tre sulle stazioni… Luoghi privilegiati da chi ha in mente una strage”. [10]
5 GIUGNO 1992 – Il procuratore aggiunto Paolo Borsellino partecipa a una cena organizzata dai carabinieri di Palermo in un ristorante di Terrasini, alle porte della città.Vent’anni dopo, quella cena diventerà importante. Molti dei carabinieri che vi parteciparono hanno avuto storie tragiche. Il maresciallo Antonio Lombardo, suicida nella caserma di Terrasini; il tenente Carmelo Canale (cognato di Lombardo, e principale collaboratore di Borsellino) imputato (e assolto) di essere colluso con la mafia; il maggiore Mario Obinu imputato con il generale Mori di collusione con la mafia. La versione che della cena ha dato nel 2011 l’allora maggiore Umberto Sinico, presente, è che questa fu della massima cordialità e che Borsellino alzò il calice per dire: “Brindo agli onesti” (a dimostrazione che il giudice non aveva nessun dubbio sulla lealtà dell’Arma).Antonio Ingroia, allora giovane sostituto procuratore e oggi procuratore aggiunto, anche lui presente alla cena, ha un altro ricordo: “Terminiamo di cenare, e il proprietario del locale si avvicina a Paolo, gli sussurra in un orecchio che il cuoco vorrebbe conoscerlo, nulla di più. Paolo mi sembra imbarazzato dalla insolita richiesta, ma dice di sì. Si alza, va incontro al cuoco, un uomo anziano, dal viso buono. Appena gli stringe la mano, questi si mette a piangere come un bambino. Paolo resta pietrificato per pochi secondi. Poi, commosso, lo abbraccia. I due escono dal ristorante, cominciano a passeggiare parlando fitto fitto, come vecchi amici, in palermitano stretto. Sai Antonio, mi racconta in auto mentre rientriamo a Palermo, ‘stavo per mettermi a piangere anch’io. Ha voluto dirmi che i palermitani onesti, i padri di famiglia, sono al nostro fianco. Quella cena con i carabinieri, Borsellino la ricorderà per sempre. La chiamerà ‘la cena degli onesti’”
Domenica 7 giugno 1992 Ai funerali di Falcone, di Francesca Morvillo e dei tre uomini della scorta c´é stato un grande assente: il presidente del consiglio Giulio Andreotti. Lo fa notare il deputato del Pri Giuseppe Ayala, ex pm di Palermo, nel corso di una cerimonia di commemorazione di Falcone, organizzata a Milano. Il senatore Claudio Vitalone, sottosegretario agli esteri, non perde tempo e lo attacca: “Ayala ha inspiegabilmente dimenticato che proprio quel giorno il presidente Andreotti era impegnato davanti al parlamento per rispondere alle interrogazioni di tutti i gruppi politici sul criminale agguato. Ma quel che piú addolora e sorprende é che proprio Ayala, nell´odiosa sortita, abbia mostrato di dimenticare quanto l´opera di Falcone sia stata sostenuta, incoraggiata e valorizzata dal governo Andreotti che a essa ha legato numerosissime iniziative per la lotta alla criminalité mafiosa, affidando a Falcone nel medesimo ambito compiti e responsabilitá di primario rilievo anche sul piano internazionale.” [12] Sempre il sottosegretario Vitalone, ex magistrato della procura di Roma ed ex vicepresidente della commissione antimafia, si autocandida a sorpresa alla guida della Superprocura. In un´intervista al settimanale Panorama dichiara: “Per dirla tutta la Superprocura l´ho inventata io una decina di anni fa. In un disegno di legge dell´aprile 1981 sulle misure penali e processuali relative al terrosrismo, teorizzavo giá la necessitá e l´urgenza di un unico ufficio giudiziario per dare nuovo impulso e miglior coordinamento all´azione degli organi di polizia. Oggi si tratta di mafia e non di terrorismo ma il principio ispiratore é lo stesso.” [13] Nella notte un attentato intimidatorio viene compiuto contro gli uffici di polizia del quartiere San Lorenzo, il “regno” della famiglia Madonia. Una Citroen “Dyane” rubata poco prima nei pressi della Fiera del Mediterraneo viene incendiata all’ingresso del commissariato. Qualche secondo dopo una telefonata al 113 chiarisce ulteriormente il significato di quell’avvertimento incendiario: “Se non la finite vi diamo pugni in testa”. Gli investigatori sembrano escludere che Cosa Nostra sia l´autrice dell´attentato e puntano l´attenzione verso la piccola criminalitá dello Zen di Palermo, ma la tensione resta comunque alta.[14]
8 giugno 1992 – Il Governo vara il decreto antimafia Scotti-Martelli
Lunedì 8 giugno 1992 La Prima Sezione della Corte di Cassazione presieduta da Carnevale annulla i mandati di cattura per Mario Battaglini e Francesco La Ruffa affermando che l’articolo 416-bisnon è applicabile nel caso un cui sia accertato solo uno scambio di voti fra mafia e politica senza che questo si sia tradotto in un concreto aiuto dei politici per le cosche.
Il Consiglio dei ministri approva il Decreto antimafia Scotti-Martelli:
- Il tempo massimo delle indagini preliminari viene portato ad un anno (prolungabile di altri 12 mesi per le inchieste più complesse) per i delitti di mafia ed i reati connessi.
- Vengono inasprite le pene per chi si rende colpevole di falsa testimonianza di fronte alla AG.
- Vengono introdotte le norme di attuazione di una legge sui pentiti del gennaio 1992 sulla protezione di chi abbandona l’organizzazione criminale. Altre norme del decreto-legge consentono di evitare, salvo che sia assolutamente necessario, ripetute audizioni dello stesso testimone nei vari processi collegati. Saranno acquisiti i verbali di testimoni ascoltati all’ estero e quelli di altri procedimenti.
- Vengono limitati i permessi per i detenuti di mafia.
- La polizia giudiziaria deve riferire senza ritardo all’AG una notizia di reato acquisita e non più entro 48 ore, può accogliere successivamente altri elementi utili alle indagini anche senza l’autorizzazione del PM.
- Non sarà più necessario dimostrare in ogni processo di mafia l’esistenza dell’associazione criminale Cosa Nostra in quanto ci si potrà rifare a sentenze già passate in giudicato che abbiano riconosciuto tale organizzazione.
- Viene introdotto nell´ordinamento penitenziario l´articolo 41bis, il regime di carcere duro riservato ai detenuti per reati di mafia: “Quando ricorrano gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica anche a richiesta del ministro degli interni, il ministro di grazia e giustizia ha altresi´ la facolta´ di sospendere, in tutto od in parte, nei confronti dei detenuti per taluno dei delitti di cui al comma 1 dell´articolo 416 bis, l´applicazione delle regole di trattamento e degli istituti previsti dalla presente legge che possano porsi in concreto contrasto con le esigenze di ordine e di sicurezza.” Ma non solo. Il testo limita notevolmente i diritti dei detenuti protagonisti di atti eversivi. A parte i collaboratori di giustizia, tutti gli altri potranno ottenere i benefici “solo se non vi sono elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con la criminalita´ organizzata o eversiva.” Esclusa ovviamente qualsiasi possibilita´ di concessione delle misure “quando il procuratore nazionale antimafia od il procuratore distrettuale comunica, d´iniziativa o su segnalazione del comitato provinciale per l´ordine e la sicurezza pubblica, l´attualita´ di collegamenti con la criminalita´ organizzata.”
Dopo aver elencato alcune nuove disposizioni in materia di colloqui a fini investigativi con detenuti di ufficiali di polizia giudiziaria, del procuratore nazionale antimafia e di funzionari dell´Alto commissariato per la lotta alla mafia, il decreto stabilisce l´aumento di duemila unitá dell´organico del Corpo di polizia penitenziaria. Con questo provvedimento, che contiene fra l´altro l´aumento di duemila unita´ dell´organico del Corpo di polizia giudiziaria, il governo pone le premesse per un duro giro di vite nelle carceri, che scattera´, tuttavia, solo dopo il sacrificio di Paolo Borsellino.[15]
I primi risultati concreti del decreto governativo non sono incoraggianti: complessivamente vengono ricondotti in carcere 240 soggetti che per la maggior parte godevano dell’istituto della semilibertà (52 in Calabria, 37 in Sicilia, 32 in Sardegna e 39 in Lombardia). Si tratta quasi esclusivamente di “soldati”, nessun boss di spicco compare nella lista.
Il decreto non contiene nulla in merito alla riapertura dei termini per il concorso a Superprocuratore nazionale antimafia, problema che verrá affrontato sotto forma di emendamento al decreto stesso quando sara’ discusso in Parlamento per la conversione in legge. Nel frattempo, il 30 giugno, la Corte costituzionale affrontera’ il conflitto sorto tra Csm e ministro della Giustizia e la soluzione giuridica che verra’ trovata sara’ utilizzata per allargare anche ad altri giudici, oltre a Cordova e Lojacono, la rosa dei candidati alla carica di Superprocuratore antimafia. Il quotidiano Corriere della Sera indica ancora Paolo Borsellino come candidato prescelto dal governo.[16]
Dagli USA arrivano in Italia i riconoscimenti al lavoro di Falcone. Da Washington giugne a Roma il direttore del FBI William Sessions, che incontra il ministro Martelli e poi visita l´ufficio al ministero che fu del direttore generale degli Affari penali assassinato nella strage di Capaci. Il direttore del FBI annuncia che l´amministrazione Bush senior ha deciso di dedicare a Falcone una lapide commemorativa; verra´ sistemata nello stesso ufficio di Washington dove, proprio alla presenza di Falcone, fu istituito il gruppo di cooperazione italoamericano per la lotta alla criminalita´ mafiosa.[17]
Si insedia a Caltanissetta il pool di magistrati che collaborera’ alle indagini sulla strage di Capaci. Si tratta dei sostituti Paolo Giordano e Carmelo Petralia, provenienti dalla Procura della Repubblica di Catania, e di Pietro Vaccaro, che prestava servizio in quella di Messina: affiancheranno il collega Francesco Polino, unico sostituto rimasto a Caltanissetta, sotto le direttive del Procuratore Salvatore Celesti, titolare dell’ inchiesta. Uno dei sostituti sara’ inviato a Palermo per seguire da vicino gli sviluppi dell’ indagine.
Martedì 9 giugno 1992 Paolo Borsellino e´ Roma: in mattinata va alla Dia, e poi all´alto commissariato antimafia, di pomeriggio vede il sociologo Pino Arlacchi. Alla sera, alle 19, rientra a Palermo. Qui, un gruppo di cittadini, organizza una prima resistenza civile antimafia. Nasce il comitato dei lenzuoli, un´associazione di persone che espongono alle finestre ed ai balconi di casa lenzuoli bianchi con scritte antimafia. E´ un movimento sorto spontaneamente dopo la strage di Capaci per evitare “che il tragico evento venga riassorbito nella normalita´ e nell´indifferenza”. Dietro la sua organizzazione c´é Giuliana Saladino, ex giornalista a “L´Ora” in pensione, scritttrice di libri inchiesta, spirito battagliero ed appassionato.Roberto Scarpinato, PM di Palermo, commenta con queste parole il decreto Scotti-Martelli: “Questa è una legge sporca di sangue. Non mi sembra che tutto questo segni un salto di qualità nella lotta alla mafia, sono leggi che noi chiediamo da anni. Come avevamo chiesto la legge La Torre, la legge sui pentiti dopo l’omicidio del giudice Livatino, non è che noi giudici abbiamo cominciato a riflettere su queste cose solo dopo la strage di Capaci. Ecco perché dico che queste leggi sono sporche di sangue, sono profondamente indignato…Condannare o sbattere in galera 30, 40, 50 persone significa che noi cerchiamo di svuotare il mare con un secchiello. Se davanti ad un massacro come quello di Capaci, che rappresenta il punto massimo di tensione che può raggiungere questo paese, questo è il massimo che riusciamo a produrre, allora vi dico che sono scoraggiato. Su un piatto della bilancia c’ è la vita, sull’altro piatto ci deve essere qualcosa che valga il rischio della vita, non vedo in questo pacchetto un impegno straordinario da parte dello Stato, ad esempio non vedo nulla di straordinario sulla caccia e la cattura dei grandi latitanti.” [19] Scarpinato chiede anche la rimozione del questore di Catania che aveva inviato a Palermo il giorno successivo alla strage di Capaci una segnalazione fatta il 21 maggio su un possibile attentato dinamitardo da effettuarsi su un’autostrada siciliana. “La cosa che mi scandalizza di più” dice Scarpinato ”è che questa persona resti al suo posto, qui nessuno paga per qualcosa, ci troviamo di fronte a persone assolutamente incapaci e queste restano al loro posto”. Cicala, presidente dell’ANM, afferma: ”E’ necessaria una sistematica trasformazione degli strumenti repressivi, non è sufficiente la frettolosa elaborazione, dopo ogni omicidio, di un pacchetto di misure da esporre in televisione.” [20] Giuseppe Di Lello, GIP di Palermo: ”Sono provvedimenti incisivi per chi è già detenuto, ma il problema non sta qui. Ci si aspettava non solo modifiche del codice di procedura penale, ma anche qualcosa che incidesse sull’accumulazione mafiosa, sulla trasparenza…abbiamo fallito con il codice Rocco, ma torniamo proprio a quello, si accentua la repressione ma il problema non è la repressione. E dopo l’ondata repressiva quelli sono più forti di prima.” [21] Ma anche il giudizio dell´intera magistratura italiana é negativo. “La positiva valutazione di singole disposizioni contenute nel recente decreto antimafia non puo´ far dimenticare le responsabilita´ di chi ha atteso una strage per assumere iniziative da tempo suggerite dagli operatori del settore” affermano Mario Cicala, Franco Ippolito e Giovannni Tamburrino, rispettivamente presidente, segretario generale e vicepresidente dell´Associazione nazionale magistrati (Anm), in un comunicato diffuso dalla stampa. Secondo la linea del sindacato dei magistrati, il “necessario presupposto di un´efficace lotta alla mafia e´ la rescissione degli intrecci tra settori politici, affari e criminalita´ organizzata.” L´Anm parla sulla base “delle concrete sperienze dei magistrati impegnati in processi di criminalita´organizzata” e sottolineando che “tale giudizio e´ oggi autorevolmente ribadito dal Parlamento europeo”, ricorda che l´Associazione, “sin dalle assemblee seguite all´uccisione di Rosario Livatino e di Antonio Scopelliti, ha elaborato un insieme di puntuali proposte, di cui solo una parte viene oggi recepita nel decreto legge.” [22] La manovalanza criminale, pero´, manifesta gia´ tutto il suo scontento. La falange armata, sigla che gia´ rivendico´ la strage di Capaci, riappare in una misteriosa intimidazione ai direttori delle carceri. Una telefonata anonima giunge alla redazione dell´ANSA di Palermo. Un uomo, con uno spiccato accento catanese, riferendosi ai provvedimenti adottati dal governo, dice: “Quelli della Falange armata, i politici, hanno ottenuto quello che volevano, noi no.” Alla domanda “Noi chi?”, l´anonimo risponde: “E ora lei lo capisce; certe cose non sono state rispettate, percio´ noi non rispetteremo piu´ i loro interessi.” L´anonimo aggiunge che il carcere non si doveva “toccare” e quindi rivolge una minaccia a quattro direttori di carceri. Gli investigatori non attribuiscono particolare importanza alla telefonata. E forse, stavolta, sbagliano. Le restrizioni carcerarie, quelle che non sono ancora operative e che diventeranno (ma solo piu´ avanti) la materia del 41bis, sono, da subito, lo spauracchio che gli strateghi occulti dello stragismo, in combutta con i capi di Cosa Nostra, agitano davanti agli occhi dei manovali mafiosi per manipolarli, farli infuriare e spingerli a portare avanti l´offensiva di sangue.
Ma alcuni interrogativi meritano di essere qui posti: a cosa si riferisce l´anonimo telefonista quando allude alle “cose” che “non sono state rispettate”, ovvero il carcere che non si doveva “toccare”? A quale patto? Siglato tra quali interlocutori? Chi aveva promesso qualcosa? E che cosa? Chi aveva promesso che il carcere non si doveva toccare, e cioe´ che dopo la strage di Capaci non vi sarebbe stato un trattamento piu´ duro per i mafiosi detenuti? E a chi era stata fatta questa promessa? [23] Martelli sollecita il CSM a sospendere il giudice Di Pisa dopo che questi è stato condannato in primo grado come “il corvo” di Palermo. In realtà la data per la discussione del caso al CSM è già stata fissata da tempo.[24] Due auto rubate con a bordo ciascuna tre individui vengono intercettate da un vigile di fronte al palazzo di giustizia di Catania. Quando il vigile si avvicina per un controllo le auto fuggono. Poco prima era entrato il magistrato Felice Lima con la scorta.
Venerdì 12 giugno 1992 Paolo Borsellino incontra il collega Vittorio Aliquo´, anche lui procuratore aggiunto a Palermo, fuori dall´orario di lavoro, alle 20.30, e soprattutto fuori dall´ufficio: lo va a trovare a casa, per una chiaccherata a quattr´occhi. Di cosa parlano? Dice Aliquo´: “Solo di ferie. Si approssimava il periodo delle vacanze e dovevamo metterci d´accordo sui turni. Paolo mi disse: parti tu, e quando torni, vado in ferie io.”
Proprio in quei giorni, intanto, ha annunciato la sua decisione di collaborare Leonardo Messina, l´ex picciotto di San Cataldo, che nei mesi successivi svelera´ ai magistrati il piano di un golpe messo a punto da una cupola di corleonesi, esponenti della massoneria deviata, e uomini dei servizi, per trasformare l´Italia, dopo il crollo dei partiti tradizionali, in una federazione di regioni asservita ai poteri criminali. I due aggiunti vengono incaricati di incontrare il detenuto per raccoglierne le dichiarazioni. Aliquo´ ricorda: “Con Paolo, quella sera, parlammo anche degli imminenti interrogatori del nuovo pentito, cercando di stilare un calendario.” Borsellino segna l´incontro sulla sua agenda .[26] Il Viminale apre un’inchiesta sulla gestione della questura di Catania e toglie al vice-questore Vincenzo Roca l’indagine sul mancato allarme della strage di Capaci affidandola ad un pool di investigatori provenienti da Palermo e da Roma. Vincenzo Calcara conferma le sue accuse alla mafia di Castelvetrano. Descrive una seconda volta il progetto per uccidere Paolo Borsellino con un fucile di precisione o con un’autobomba sull’autostrada Trapani-Palermo. Ed aggiunge: “Le cosche non perdoneranno mai al giudice Borsellino di aver messo in ginocchio una della famiglie piú potenti di Trapani”. Calcara insiste sul pentimento e sugli incontri con il giudice Borsellino: “Ogni volta che me trovo davanti, penso: guarda un po´, proprio io dovevo ucciderlo e ricordo le parole che mi disse quando gli chiesi se non avesse paura. Rispose: é bello morire per ció in cui si crede”. [27]
13 GIUGNO 1992 – PAOLO BORSELLINO INCONTRA A PALERMO L‟EX-PRESIDENTE FRANCESCO COSSIGA che lo invita a candidarsi alla guida della Superprocura. “Glielo dissi chiaro e tondo – ricostruisce oggi Cossiga – è inutile che si agiti: lei è il successore e l’erede di Falcone. Lei e nessun altro”. Ci sapeva fare con i mafiosi pentiti Paolo Borsellino, così come Giovanni Falcone è tanti colleghi col vero senso della giustizia. Alcuni sostengono che una delle cause del delitto sia stata proprio l’essere vicino a scoprire i mandanti e gli esecutori della strage di Capaci. Voleva continuare a difendere Giovanni Falcone come aveva fatto quando l’amico era vivo. In ogni caso, Paolo Borsellino aveva certamente il senso di andare incontro alla sua morte. Avrebbe potuto cambiare strada, ne avrebbe avuto motivo più che in passato. Rimase per fedeltà a un’amicizia. Il 23 giugno del 1992, a Palermo, nella monumentale basilica di san Domenico, Borsellino tenne uno splendido discorso in memoria dell’amico Falcone, le sue parole, rievocate oggi, hanno ancora un timbro umano inconfondibile. Parlando di Giovanni Falcone, Paolo Borsellino ci parlava di se stesso: Perché non è fuggito, perché ha accettato questa tremenda situazione, perché non si è turbato, perché è stato sempre pronto a rispondere a chiunque della speranza che era in lui? Per amore! La sua vita è stata un atto d’amore verso la sua città, verso la terra che lo ha generato. Perché se l’amore è soprattutto ed essenzialmente dare, per lui, e per coloro che gli sono stati accanto in questa meravigliosa avventura, amare Palermo e la sua gente ha avuto e ha il significato di dare a questa terra qualcosa, tutto ciò che era ed è possibile dare delle nostre forze morali, intellettuali e professionali per rendere migliore la patria cui apparteniamo –
Durante il settennato posizioni di Cossiga su magistratura e mafia erano state molto bizzarre. Applaudì per esempio, in nome del garantismo, la decisione del giudice Carnevale di liberare (“per decorso limite della custodia cautelare”) i più importanti mafiosi fatti arrestare da Falcone (in quella occasione la decisione di Carnevale fu impugnata da Martelli e Andreotti, che li fecero rimettere in carcere quarantotto ore dopo). Si scagliò beffardamente contro “i giudici ragazzini”, quando uno di loro, Rosario Livatino, era stato inseguito su un’autostrada e ucciso da Cosa nostra. Difese sempre l’Arma dei carabinieri da qualsiasi sospetto di collusione, invocandone anche una discesa in campo nella politica. Inquietante il ricordo che Agnese Borsellino, la vedova di Paolo, ha raccontato al settimanale “Left” alla fine del 2011: “Mi chiamò l’ex presidente Cossiga un mese prima di morire. In quella telefonata mi disse: ‘La storia di via D’Amelio è da colpo di stato’. Poi chiuse il telefono senza dirmi nient’altro”. Sempre nel 2011 anche il successore di Cossiga al Quirinale, Oscar Luigi Scalfaro (che sarebbe morto di lì a poco), venne intervistato sulla possibile trattativa stato-mafia degli anni 1992-1993. Le sue risposte non furono esaustive: “Temo che non sapremo mai la verità sugli attentati”. E ancora, in un’altra intervista: “A chi insiste sulla vicenda del famoso ‘papello’, sul quale Riina avrebbe scritto le condizioni di Cosa nostra, l’unica risposta possibile deve essere di assoluta cautela”. Marzio Breda sul “Corriere” gli chiedeva: “Ci fu il negoziato?”. Scalfaro: “Bisogna stare attenti a non superare il confine tra vero-verosimile e falso”
Lunedì 15 giugno 1992 Il boss Giovanni Zichittella cade vittima di un agguato mafioso nel centro di Marsala. Un killer a volto scoperto lo uccide con 4 colpi di pistola ed un colpo di grazia alla nuca. Poi si rivolge ai testimoni e grida: ”Avete capito? Qui comandiamo ancora noi!”.[30]
Venerdì 19 giugno 1992 Il generale dei carabinieri Antonio Subranni, comandante del ROS, invia un rapporto al comando generale dei carabinieri in cui si riporta che numerose fonti, mafiose e non, hanno parlato di una decisione di Cosa Nostra di eliminare fisicamente Paolo Borsellino. Altri possibili obiettivi sono il maresciallo Canale, il Ministro della Difesa Andò e l’ex-ministro Calogero Mannino. Il rapporto numero 541 intitolato “Minacce nei confronti di personalità ed inquirenti” afferma che nell’ultimo anno gli organi dello Stato hanno esercitato un’indiscutibile pressione sulla criminalità organizzata, sia in termini di inasprimento normativo, che in termini di positivo impegno investigativo…nelle ultime settimane abbiamo proceduto ad una analisi dei dati disponibili, con l’obiettivo di ottenere un quadro delle strategie operative di Cosa Nostra e di individuare il movente e gli esecutori di eclatanti delitti di mafia riconducibili anche ad una precisa strategia di attacco allo Stato. Il documento cita l’uccisione del maresciallo Guazzelli, di Giovanni Falcone, sua moglie Francesca e degli uomini della scorta, dell’eurodeputato Salvo Lima. Poi il rapporto prosegue delineando un panorama molto preoccupante: le informazioni raccolte sia in ambienti estranei al crimine organizzato sia all’interno di quel mondo hanno consentito di ottenere da più fonti di fiducia notizia sull’esistenza di una volontà dei vertici di Cosa Nostra di opporsi con determinazione all’offensiva dello Stato, agendo contemporaneamente su due fronti. Il primo consiste nel fare pressioni, in forme indirette, su esponenti politici per ridurre l’impegno dello Stato contro la criminalità. Il secondo invece consiste nell’eliminare fisicamente alcuni inquirenti che si sono messi in evidenza nella recente proficua attività di repressione di Cosa Nostra. Poi il rapporto prosegue mettendo in rilievo le caratteristiche dei possibili obiettivi: gli onorevoli Calogero Mannino e Salvo Andò potrebbero essere future vittime di Cosa Nostra…il maresciallo Canale potrebbe correre pericolo per la sua incolumità poiché si è distinto in operazioni antimafia e per avere in particolare contattato alcuni esponenti di spicco della criminalità siciliana successivamente colpiti da provvedimenti della magistratura. Il Cap. Umberto Sinico correrebbe pericolo di vita per l’attività di contrasto di una delle maggiori famiglie mafiose palermitane…il Procuratore aggiunto Paolo Borsellino correrebbe seri pericoli per la sua incolumità a causa delle ultime inchieste sulla mafia trapanese che, colpita dai recenti successi investigativi, ha di molto ridotto la propria credibilità ai vertici di Cosa Nostra. Del contenuto del documento furono subito informati i diretti interessati prima ancora che fosse completato e spedito al comando generale dei carabinieri e da questo alla Procura di Palermo, alla Prefettura, alla Questura ed all’Ufficio dell’Alto Commissariato.[36] Ai due politici fu rafforzata la scorta, il Cap. Sinico ricevette l’invito di lasciare la Sicilia, il maresciallo Canale ricevette un analogo invito ma decise di restare per motivi familiari e professionali e cominciò a girare con un’auto blindata. Borsellino vide raddoppiata la sua scorta.[37]
19 GIUGNO 1992 – Il generale dei carabinieri Antonio Subranni, comandante del Ros, invia il rapporto numero 541 al comando generale dei carabinieri in cui si riporta che “numerose fonti, mafiose e non” hanno parlato di una decisione di Cosa nostra di eliminare fisicamente Paolo Borsellino. Altri possibili obiettivi sono il maresciallo Canale e il maggiore Sinico, il ministro della Difesa Andò e l’ex ministro Calogero Mannino. Il rapporto è intitolato “Minacce nei confronti di personalità ed inquirenti”.Borsellino viene informato del rischio e la sua scorta viene raddoppiata.Dunque i carabinieri disponevano di notizie abbastanza precise. C’erano fonti anche dentro Cosa nostra. C’era una lista. E, per quanto riguarda Borsellino, il rapporto indicava un movente molto preciso: le inchieste del procuratore aggiunto sulla mafia di Castelvetrano, in provincia di Trapani, che avevano decimato la cosca locale; una famiglia che aveva agganci diretti negli uffici dellaCorte di cassazione.
Sabato 20 giugno 1992 Il questore di Catania Bonsignore trasferisce d’ufficio l’ispettore capo Maravigna dalla squadra volanti ad un commissariato periferico. Il Maravigna in qualità di segretario regionale del SIULP aveva di recente denunciato in una lettera aperta le inefficienze dei vertici della questura nel coordinamento della lotta alla mafia. Giuseppe Ayala rivela durante un convegno a Genova che Falcone teneva un diario in cui aveva annotato tutto della sua recente vita professionale a Palermo: “Ho deciso quasi d’impeto, io non voglio alzare polveroni, ma non voglio neanche essere reticente. C’e’ una cosa che forse verrà fuori: Giovanni scriveva tutto. Aveva un diario puntualissimo, del quale ha messo a conoscenza – che io sappia – me ed episodicamente Paolo Borsellino. E’ una cronaca molto dettagliata del Palazzo di Giustizia di Palermo…Conoscerla, se il dischetto verrà fuori, sarebbe un ulteriore modo per rendere giustizia a Giovanni. Io non so se il dischetto è stato trovato, non ho, come è ovvio, nessuna veste per interferire nelle indagini, spero tuttavia che venga trovato e che venga letto. Io mi impegno formalmente a confermare tutte le circostanze che vi sono annotate e con me – ne abbiamo già parlato – ci sono altri magistrati di Palermo pronti a farlo. Se il diario saltasse fuori, la parola di Giovanni non resterebbe isolata perché un dovere morale ci imporrà di dire che Giovanni ha scritto la verità, che quel diario è una cronaca di storia vera, vissuta. Io spero che il dischetto salti fuori.”[38] Dal materiale sequestrato dall’autoritá giudiziaria negli uffici e nella casa di Falcone per ora del diario non vi è ancora traccia. Ma il diario purtroppo non salta fuori. Del dischetto di cui parla Ayala ha ricevuto notizie, subito dopo la strage, il magistrato titolare dell´inchiesta, Salvatore Celesti. Ma le ricerche fatte nell´ufficio di Falcone al ministero, e nelle abitazioni di Palermo e di Roma, nel corso delle perquisizioni formali, non hanno dato alcun risultato.
Tra i collehgi, le parole di Ayala provocano scetticismo: “Non ho mai sentito parlare di questo diario – afferma Gioacchino Natoli, che di Falcone fu collaboratore all´ufficio istruzione – i diari sono sempre fatti privati. Andrei molto cauto nel fare certe affermazioni. A meno che non si vogliano scambiare appunti di carattere professionale per appunti privati.” E Giacomo Conte, che ha lavorato con Falcone a partire dal 1985, aggiunge: “Non sono al corrente dell´esistenza di un diario, se vi fosse potrebbe essere una validissima chiave di lettura delle drammatiche vicende cominciate con la nomina del consigliere istruttore nel 1987 e conclusesi con la strage di Capaci.”
Altri, invece, confermano, aprendo uno scenario di veleni nei rapporti tra Falcone e le forze investigativer palermitane.
“Confermo le dichiarazioni del giudice Ayala sull´esistenza della memoria storica del giudice falcone in cui venivano annotate le percezioni od i segni della sua vita di magostrato e le percezioni ed i segni del malessere esistente nella citta´ di Palermo”, dichiara il senatore Maurizio Calvi (Psi), gia´ vicepresidente della commissione antimafia. “Me lo disse – precisa Calvi – lo stesso Falcone in occasione del viaggio della commissione a Vienna. Mi parlo´ dell´intreccio tra mafia, citta´ di Palermo e pezzi importanti delle istituzioni nel senso che lo stesso non si fidava in alcun modo della questura di Palermo ne´ del comando dei carabinieri di Palermo ne´ tantomeno di alcuni pazzi importanti all´interno della prefettura di Palermo.”
Calvi e´ un fiume in piena: “Gia´ in quell´epoca, prima dell´importante attentato nella sua villa al mare, il giudice Falcone presentiva sensi del suo malessere e della sua morte; di un giudice cioe´ che sarebbe saltato in aria a seguito dell´esistenza di questi intrecci. Falcone asseriva in quell´occasione che qualsiasi operazione nella citta´ di Palermo doveva avvenire all´oscuro di questi apparati e la stessa gestione del pentito Contorno avveniva al di fuori di quell´ambiente”. Calvi sostiene anche che “il giudice Falcone, proprio per la delicatezza ella situazione, ogniqualvolta aveva la necessita´di assumere informazioni andava direttamente presso gli uffici della questura o dei carabinieri a ritirare personalmente fascicoli proprio perche´ non si fidava in alcun modo di questi apparati.”
Il delitto Falcone “e´ potuto avvenire all´interno di questi intrecci e di questo sistema.” “Sono a disposizione – conclude Calvi – per chiarire i termini di queste delicate questioni che possono parire spaccati importanti di verita´, qualora si rintracciasse questo memoriale.”
E Borsellino? per ora non si sbottona: “Non conosco le dichiarazioni di Ayala nei suoi esatti termini, l´eventuale esistenza di appunti riservati di Giovanni Falcone non puo´ in senso assoluto essere oggetto di mie dichiarazioni. Se si trattasse di appunti personali solo i suoi famigliari potrebbero decidere di renderli pubblici. Se si trattasse di appunti utili alle indagini solo l´autorita´ giudiziaria procedente sarebbe arbitra della loro pubblicazione.”
E a Calvi replica cosi´: ” Mi auguro che Calvi e tutti quelli che sono a conoscenza di elementi utili alle indagini vadano a riferirli al procuratore della Repubblica di Caltanissetta Salvatore Celesti, invece di rilasciare dichiarazioni alla stampa.” [39]
Domenica 21 giugno 1992 Scotti è molto indeciso se accettare l’incarico di vice-presidente del consiglio con incarico agli interni ad interim. Questa pare essere la proposta di Amato e dei colleghi DC. Ma Scotti appare indeciso. “Sono convinto, e lo vado ripetendo da mesi, che il calvario non è finito, che la mafia colpirà ancora e colpirà ancora più in alto, tanto più in alto quanto più efficace sarà l’azione dello Stato. Non tutti vogliono capirlo, c’è chi fa orecchie da mercante, chi ha la tentazione di sottovalutare il mio allarme, chi sussurra che la mia apprensione è soltanto allarmismo che nasconde voglia di potere. Bene, a questi signori io ho già detto che io non andrò più a Palermo ad accogliere insulti e monetine al loro posto. Nessuno può pensare che, dinanzi alla guerra che bisogna scatenare alla mafia, di lavarsi pilatescamente le mani. Sia ben chiaro, soltanto con un esecutivo forte, legittimato nei tempi e nei consensi può proseguire il lavoro iniziato da me e da Martelli. E’ una politica che va confermata ed una legittimazione di quella politica passa per la riconferma di entrambi.” [40] I capitoli di questa strategia antimafia comprendono l’istituzione della DIA, della DNA, delle procure distrettuali, le disposizioni anti-riciclaggio, il provvedimento anti-racket, le norme sullo scioglimento dei consigli comunali inquinati dal malaffare, la legge sui collaboratori di giustizia, la riforma di alcuni articoli del codice penale per l’istituzione del cosiddetto doppio binario per processi di mafia ed ordinari. Molte di questi strumenti non sono però a regime: la legge sui pentiti manca di un regolamento attuativo, gli scioglimenti dell’amministrazione locale non hanno ancora toccato i grossi centri del mezzogiorno, la DIA tarda a decollare, la DNA ancora non c’è. Scotti avverte intorno a sé l’indifferenza della maggioranza che si prepara ad appoggiare il governo Amato e lancia un messaggio piuttosto ambiguo ai suoi colleghi di partito che a suo parere non lo sosterrebbero nella lotta alla criminalità organizzata.
Un giorno tra il 22 ed il 28 giugno 1992 Borsellino concede al giornalista Lamberto Sposini l’ultima intervista filmata della sua vita. Afferma tra le altre cose che le misure di sicurezza per lui e per la sua famiglia sono state notevolmente appesantite a causa del grave pericolo che lui corre. Nonostante tutto Borsellinoconferma la sua determinazione nel proseguire il proprio lavoro, anche se ha la certezza che il prezzo da pagare sarà molto alto.
Lunedì 22 giugno 1992 Continuano le indiscrezioni sui diari di Falcone. Sia l’Espresso che La Repubblica riportano episodi che Falcone avrebbe raccolto nel diario. Si tratta della cronaca dettagliata degli ultimi mesi di Falcone al Palazzo di Giustizia di Palermo e dei suoi contrasti con il Procuratore capo Giammanco. Il senatore socialista Maurizio Calvi, ex vicepresidente della commissione antimafia, conferma l’esistenza dei diari di Falcone. Inoltre afferma che Falcone durante un viaggio a Vienna gli parlò dell’intreccio a Palermo tra la mafia e pezzi importanti delle istituzioni, nel senso che Falcone non si sarebbe fidato in alcun modo né della questura di Palermo, né del comando dei carabinieri di Palermo, né tanto meno di alcuni personaggi importanti della prefettura di Palermo.[41] Ayala esprime forti dubbi sulle dichiarazioni di Calvi. Nella polemica interviene anche Scotti con un articolo pubblicato sul Popolo, in cui esprime “tristezza per il diffondersi di veleni allo scopo di confondere ciò che ancora non è chiaro sulla strage di Capaci, quasi ad alimentare, secondo un’antica ed abusata tradizione, immotivatamente e con cattiveria, speculazioni e polemiche sulle Istituzioni dello Stato preposte a combattere la mafia ed ogni forma di crimine organizzato. Mi chiedo a chi e a che cosa tutto questo giovi e se non sia controproducente per l’attività investigativa degli apparati di sicurezza sapere che a loro carico si nutrono sospetti e si gettano ombre in uno scenario nel quale essi si aspetterebbero fiducia, comprensione, stimoli, collaborazione per proseguire nel loro dovere alla ricerca della verità. Fa piacere leggere, secondo le testimonianze di altri, che pure sono stati legati al giudice palermitano da strettissimi e quotidiani rapporti di collaborazione, che Giovanni Falcone era soprattutto un giudice e che tutti i suoi segreti di giudice erano e sono agli atti processuali. Occorre fare come lui, assorbire con il sorriso contrasti e polemiche, ma restare fermi e convinti che occorre continuare a percorrere la strada che, proprio anche grazie a lui, è stata tracciata nella lotta al crimine mafioso e che ora occorre rendere operativa.” [42] Vengono depositate le motivazioni della sentenza della Corte di Cassazione sul maxi-processo. Viene pienamente riconosciuta la struttura unitaria e verticistica di Cosa Nostra. Fra l’altro viene rigettata la richiesta dei difensori che invocavano la nullità della sentenza perché le dichiarazioni dei pentiti dovevano essere confermate da prove concrete: per la Cassazione il riscontro può anche essere costituito da dichiarazioni incrociate di più collaboratori di giustizia. I giudici della prima sezione penale della Cassazione hanno poi messo sullo stesso piano l’appartenenza e la partecipazione all’associazione per delinquere di stampo mafioso. Per la suprema corte “è l’associazione nel suo insieme che deve concretare gli estremi della fattispecie penale, bastando per il partecipe l’appartenenza, con la consapevolezza che l’associazione agisce anche grazie al suo apporto.” Inizia a circolare in ambienti istituzionali palermitani una lettera anonima di otto pagine che avvelena l’aria di Palermo ponendo pesanti domande sull’attività delle forze dello stato nella lotta alla mafia in Sicilia. Il documento spiega che Lima muore per mandare un messaggio ad Andreotti mentre un altro gruppo sta scalando i vertici della politica siciliana. Si descrivono incontri tra big della DC e boss di Cosa Nostra, si afferma che Totò Riina era contrario alla uccisione di Falcone, si mischiano molti elementi palesemente falsi a mezze verità. Il risultato è quello di ammorbare l’aria della città perché si vede che l’autore del documento è comunque qualcuno che conosce attentamente la materia della quale si parla. Il Ministro Martelli rilancia la pista estera per l’indagine sulla strage di Capacidurante una visita in Sudamerica: “Cerco legami tra l’assassinio di Falcone e la mafia americana o la mafia colombiana”.[43]
23 GIUGNO 1992 – A un mese di distanza dalla strage di Capaci, Paolo Borsellino ricorda Giovanni Falcone davanti a circa mille esponenti di associazioni antimafia di Palermo, nel cortile di Casa Professa, centro dei gesuiti palermitani. Il suo discorso – emozionato, senza diplomazie, senza linguaggio giuridico, semplicemente terribile – viene continuamente interrotto da ondate di applausi, irrefrenabili. Nelle parole del giudice incombe la presenza di una tragedia compiuta e di un’altra che sta per esserlo. È l’ultimo intervento pubblico di Borsellino, che indossa giacca e cravatta. È anche detto “il discorso dell’amore”.
Questo il testo:“Giovanni Falcone lavorava con perfetta coscienza che la forza del male, la mafia, lo avrebbe un giorno ucciso. Francesca Morvillo stava accanto al suo uomo con perfetta coscienza che avrebbe condiviso la sua sorte. Gli uomini della scorta proteggevano Falcone con perfetta coscienza che sarebbero stati partecipi della sua sorte. Perché non è fuggito, perché ha accettato questa tremenda situazione, perché non si è turbato, perché è stato sempre pronto a rispondere a chiunque della speranza che era in lui? Per amore!La sua vita è stata un atto d’amore verso questa sua città, verso questa terra che lo ha generato.Perché se l’amore è soprattutto ed essenzialmente dare, per lui, e per coloro che gli sono stati accanto in questa meravigliosa avventura, amare Palermo e la sua gente ha avuto e ha il significato di dare a questa terra qualcosa, tutto ciò che era ed è possibile dare delle nostre forze morali, intellettuali e professionali per rendere migliore questa città e la patria cui essa appartiene. Per lui la lotta alla mafia non doveva essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale, che coinvolgesse tutti specialmente le giovani generazioni, le più adatte a sentire la bellezza del fresco profumo della libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità, e quindi della complicità. Ricordo la felicità di Falcone quando in un breve periodo d’entusiasmo, conseguente ai dirompenti successi originati dalle dichiarazioni di Buscetta, egli mi disse: “La gente fa il tifo per noi”. Qui Borsellino si ferma per quasi due minuti, per gli applausi che lo sommergono. Questa stagione del “tifo per noi” sembrò durare poco, perché ben presto sopravvenne il fastidio e l’insofferenza al prezzo che per la lotta alla mafia doveva essere pagato dalla cittadinanza. Insofferenza alle scorte, insofferenza alle sirene, insofferenza alle indagini, insofferenza che finì per legittimare un garantismo di ritorno, che ha finito per legittimare, che ha finito a sua volta per legittimare provvedimenti legislativi che hanno estremamente ostacolato la lotta alla mafia, il loro codice di procedura penale. E adesso hanno fornito un alibi a chi, dolosamente spesso, colposamente ancor più spesso, di lotta alla mafia non ha più voluto occuparsi. In questa situazione Falcone andò via da Palermo. Non fuggì ma cercò di ricreare altrove le ottimali condizioni per il suo lavoro. Venne accusato di essersi avvicinato troppo al potere politico. Non è vero! Pochi mesi di dipendenza al ministero non possono far dimenticare il lavoro di dieci anni. E Falcone lavorò incessantemente per rientrare in magistratura, in condizioni ottimali. Per fare il magistrato, indipendente come lo era sempre stato. Morì, è morto, insieme a sua moglie e alle sue scorte e ora tutti si accorgono quali dimensioni ha questa perdita, anche coloro che, per averlo denigrato, ostacolato, talora odiato, hanno perso il diritto di parlare. Nessuno tuttavia ha perso il diritto, e anzi il dovere sacrosanto, di continuare questa lotta. La morte di Falcone e la reazione popolare che ne è seguita dimostrano che le coscienze si sono svegliate e possono svegliarsi ancora. Sono morti per noi e abbiamo un grosso debito verso di loro e dobbiamo pagarlo gioiosamente, continuando la loro opera; facendo il nostro dovere, rispettando le leggi, anche quelle che ci impongono sacrifici, rifiutando di trarre dal sistema mafioso anche i benefici che potremmo trarre (anche gli aiuti, le raccomandazioni, i posti di lavoro); collaborando con la giustizia, testimoniando i valori in cui crediamo, anche nelle aule di giustizia: accettando in pieno questa gravosa e bellissima eredità. Dimostrando a noi stessi e al mondo che Falcone è vivo”.
Mercoledì 24 giugno 1992 Il Sole 24 Ore pubblica un articolo a firma di Liana Milella in cui viene riportato il contenuto di alcune pagine del diario di Falcone. Il magistrato gliele consegnò personalmente intorno alla metà di luglio del 1991. Viene citata tutta una serie di episodi che testimoniano le difficoltà che Giammanco aveva creato a Falcone nello svolgimento delle indagini all’interno della procura di Palermo. Sono riportati fatti accaduti tra la fine del 1990 e l’inizio del 1991 (Falcone si trasferisce a Roma nel mese di marzo 1991):
- Primi di dicembre 1990: si è lamentato col maggiore Inzolia di non essere stato avvertito del contrasto fra PS e CC a Corleone su Riina.
- 7 dicembre 1990: ha preteso che Rosario Priore gli telefonasse per incontrarsi con me e gli ha chiesto di venire a Palermo anziché andare io da lui.
- Si è rifiutato di telefonare a Giudiceandrea (Roma) per la Gladio, prendendo pretesto dal fatto che il procedimento non era stato assegnato ancora ad alcun sostituto.
- 10 dicembre 1990: sollecitato la definizione di indagini riguardanti la regione al capitano De Donno (procedimento affidato ad Enza Sabatino), assumendo che altrimenti la Regione avrebbe perso finanziamenti. Ovviamente qualche uomo politico gli ha fatto questa sollecitazione ed è altrettanto ovvio che egli prevede un’archiviazione e che solleciti l’ufficiale dei CC in tale previsione.
- 13 dicembre 1990: nella riunione del pool per la requisitoria Mattarella, mi invita in maniera inurbana a non interrompere i colleghi infastidito per il fatto che io e Lo Forte ci eravamo alzati per andare a fumare una sigaretta, rimprovera aspramente il Lo Forte.
- 18 dicembre 1990: dopo che ieri pomeriggio si è deciso di riunire i processi Reina, Mattarella e La Torre, stamattina gli ho ricordato che vi è l’istanza della parte civile nel processo La Torre (Pci) di svolgere indagini sulla Gladio. Ho suggerito, quindi, di richiedere al G.I. di compiere noi le indagini in questione, incompatibili con il vecchio rito, acquisendo copia dell’istanza in questione. Invece, sia egli, sia Pignatone, insistono per richiedere al G.I. soltanto la riunione riservandosi di adottare una decisione soltanto in sede di requisitoria finale. Un modo come un altro per prendere tempo.
- 19 dicembre 1990: altra riunione con lui, con Schiacchitano e con Pignatone. Insistono nella tesi di rinviare tutto alla requisitoria finale e, nonostante io mi opponga, egli sollecita Pignatone a firmare la richiesta di riunione dei processi nei termini di cui sopra.
- Non ha più telefonato a Giudiceandrea e così viene meno la possibilità di incontrare i colleghi romani che si occupano di Gladio.
- Ho appreso per caso che qualche giorno addietro ha assegnato un anonimo su Partinico, riguardante tra gli altri l’On. Avellone, a Pignatone, Teresi e Lo Voi, a mia insaputa (gli ultimi due non fanno parte del pool).
- 10 gennaio 1991: I quotidiani riportano la notizia del proscioglimento da parte del G.I. Grillo dei giornalisti Bolzoni e Lodato, arrestati per ordine di Curti Giardina tre anni addietro con inputazione di peculato. Il G.I. ha rivelato che poteva trattarsi soltanto di rivelazione di segreti di ufficio e che l’imputazione di peculato era cervellotica. Il PM Pignatone aveva sostenuto invece che l’accusa in origine era fondata ma che le modificazioni del codice penale rendevano il reato di peculato non più configurabile. Trattasi di altra manifestazione di furbizia di certuni che, senza averne informato il pool, hanno creduto, con una “ardita” ricostruzione giuridica, di sottrarsi a censura per un’iniziativa (arresto di due giornalisti) assurda e faziosa di cui non può non esser ritenuto responsabile certamente il solo Curti Giardina, procuratore capo dell’epoca.
- 16 gennaio 1991: apprendo oggi che, durante la mia assenza ha telefonato il collega Moscati, sost. Proc. della Rep. a Spoleto, che avrebbe voluto parlare con me per una vicenda di traffico di sostanze stupefacenti nella quale era necessario procedere ad indagini collegate; non trovandomi, il collega ha parlato col capo che, naturalmente, ha disposto tutto ed ha proceduto all’assegnazione della pratica alla collega Principato, naturalmente senza dirmi nulla. Ho appreso quanto sopra solo casualmente telefonando a Moscati.
- 17 gennaio 1991: solo casualmente, avendo assegnato a Scarpinato il fascicolo relativo a Ciccarelli Sabatino, ho appreso che Sciacchitano aveva proceduto alla sua archiviazione senza dirmi nulla. Ho riferito quanto sopra al capo che naturalmente è caduto dalle nuvole. Sul Ciccarelli, uomo d’onore della famiglia di Napoli, il capo mi ha esternato preoccupazioni derivanti dal fatto che teme di contradddirsi con le precedenti, note, prese di posizione della Procura di Palermo in tema di competenza nei processi riguardanti Cosa Nostra.
- 26 gennaio 1991: apprendo oggi, arrivato in ufficio, da Pignatone, alla presenza del capo, che egli e Lo Forte quella stessa mattina si erano recati dal cardinale Pappalardo per sentirlo in ordine a quanto riferito al processo Mattarella da Lazzarini Nara. Protesto per non esser stato preventivamente informato sia con Pignatone sia con il capo, al quale faccio presente che sono prontissimo a qualsiasi diverso mio impegno ma che, se si vuole mantenermi al coordinamento delle indagini antimafia, questo coordinamento deve essere effettivo. Grandi promesse di collaborazione e lealtà per risposta.
- 6 febbraio 1991: oggi apprendo che Giammanco segue personalmente un’indagine affidata da lui stesso a Vittoria Randazzo e riguardante dei CC di Partinico coinvolti in attività illecite. Uno dei CC è stato arrestato a Trapani e l’indagine sembra abbastanza complessa.[47]
- La prima sezione penale della Cassazione, presieduta da Corrado Carnevale, annulla la sentenza della Corte d’assise d’appello di Palermo che nel ’91 aveva condannato all’ergastolo Paolo Alfano, Salvatore Montalto, Salvatore Rotolo e Vincenzo Sinagra. I quattro erano accusati di aver ucciso nel 1982 durante la guerra di mafia i due boss Cesare Manzella e Ignazio Pedone. Gli imputati comunque rimarranno in carcere perche’ condannati all’ ergastolo in altri processi. I giudici della suprema corte, dopo circa tre ore di camera di consiglio, hanno poi dichiarato inammissibile il ricorso del procuratore generale e quelli di altri sette imputati. I magistrati hanno inoltre respinto i ricorsi di altri diciassette accusati tra cui Salvatore Badalamenti e Giuseppe Gambino.
Il maxi-ter, che ha visto tra gli imputati boss come Michele Greco, Pippo Calo’ e Salvatore Riina, era cominciato il 21 aprile dell’ 88 ed era stato istruito come stralcio del primo processo alla mafia degli anni ‘ 80. Durante il dibattimento i giudici palermitani erano andati piu’ volte negli USA e a Roma per ascoltare i “pentiti” Tommaso Buscetta, Totuccio Contorno e Antonino Calderone. La sentenza della Corte d’assise d’appello, dopo aver inflitto i quattro ergastoli che sono stati annullati oggi, aveva confermato anche l’assoluzione di boss come Michele Greco detto il “Papa”, del fratello Salvatore e di altri presunti appartenenti alla “cupola” come Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Pippo Calo’, Francesco Madonia, Bernardo Brusca e Giovanni Scaduto. La Corte aveva anche confermato la condanna a 22 anni di carcere per il “pentito” Vincenzo Sinagra, omonimo del primo, e ridotto le pene per altri imputati tra cui Vincenzo Milazzo, presunto esponente di spicco della mafia trapanese.
Sempre nell’ambito di uno stralcio del maxiprocesso, ma per fatti legati a un traffico di droga tra USA e Sicilia, la prima sezione presieduta da Carnevale dispone un nuovo dibattimento per Alfredo Bono, condannato in secondo grado a otto anni. I giudici della suprema corte hanno poi annullato, sempre nei confronti del presunto esponente di Cosa Nostra, un’altra sentenza della corte di Assise di Palermo che nell’ 87 lo aveva condannato a diciotto anni e un’ordinanza di rinvio a giudizio che il giudice istruttore della Procura di Palermo aveva spiccato sempre nei suoi confronti nell’ 85.[48]
Caponnetto rilascia un’intervista a La Repubblica in cui afferma che “Giovanni Falcone cominciò a morire il 18 gennaio 1988, quando il CSM gli preferì Meli alla guida dell’ufficio istruzione di Palermo. E non si può negare che c’è stata una campagna, cui hanno partecipato in parte i magistrati, che lo ha delegittimato. Non c’è nulla di più pericoloso per un magistrato che lotta contro la mafia che l’essere isolato…Ed è molto grave che ancora oggi continui ad imperversare la giurisprudenza di Carnevale.” [49] In mattinata una telefonata raggiunge la redazione de L´ESPRESSO: Massimo Ciancimino chiede di poter parlare con il giornalista Giampaolo Pansa al quale dice: “Mio padre ha bisogno di vederla. Vuole chiederle una cosa. Puó andare a trovarlo
Giovedì 25 giugno 1992 Gianpaolo Pansa incontra Vito Ciancimino nella casa romana di quest´ultimo. Ciancimino comunica a Pansa di aver iniziato a scrivere un libro con le sue memorie: “Quando hanno ucciso Falcone, volevo interromperlo. Ma poi ho visto alla tivú il dottore Borsellino che, in una chiesa di Palermo, diceva: chi ha criticato Falcone, oggi non ha piú diritto di parola. Allora mi sono infuriato. Io non avrei piú il diritto di parola? Cosí ho deciso di continuare.” Ciancimino durante il dialogo con Pansa parla degli omicidi di Salvo Lima e Giovanni Falcone e cerca di allontanare le responsabilitá da Cosa Nostra: “Chi ha ucciso l´uno e l´altro si é opposto in qualche modo al progetto dei due padroni d´Italia (Giulio Andreotti e Bettino Craxi ndr). Quei due delitti possono essere stati fatti entrambi dalla mafia. Ma io non credo che sia stata la mafia ad uccidere Lima e Falcone.” Ciancimino passa poi a diffamare Giovanni Falcone: “Il dottore Falcone era soprattutto un uomo di potere. Intelligentissimo, furbissimo, sapeva tutto. E arrivava lá dove nessuno sapeva arrivare. Era un giudice che voleva comandare. Se fosse stato soltanto un magistrato, non si sarebbe fermato a me ed ai cugini Salvo, gli esattori. Sarebbe andato avnti. Invece, quando ha visto che la DC faceva quadrato attorno a Rosario Nicoletti, il segretario regionale, che dopo di noi era il suo obiettivo, allora lui si é fermato. Il dottor Di Pietro, che é solo un magistrato, mica si ferma, no? Falcone voleva il potere. E s´era trasferito a Roma per conquistarlo. Se fosse riuscito a realizzare la superprocura, sarebbe stato anche lui un padrone d´Italia, perché diventava il capo vero di tutti i giudici, piú importante del ministro della giustizia. I ministri passano, ma il superprocuratore resta in carica per quattro anni, quattro anni! E puó essere riconfermato per altri quattro. Adesso la superprocura non la faranno piú. Non avrebbe senso farla, visto che il dottor Falcone é morto.” Ciancimino mostra poi tutto il suo livore contro i rappresentanti dello Stato che hanno affrontato e che combattono Cosa Nostra a viso aperto: “Falcone mi ha martirizzato. Ha fatto di me un capo espiatorio. Lui spasimava di interrogarmi. E, dopo lunghe trattative, alla fine mi trovai di fronte a lui. Falcone mi chiese: “E allora, signor Ciancimino?” Lo fissai e gli dissi: “Non intendo risponderle, dottor Falcone.” Quasi gli venne un colpo.”
“Ed il dottor Borsellino?” prosegue Pansa. “Lui vale meno del dottor Falcone”, borbottó Ciancimino. “Ed il dottor Ayala?”, chiede nuovamente Pansa. “Intelligente, ma debole. Sapeva molte cose. E capiva. Peró non aveva la forza per essere un protagonista.” “E Giammanco?” Ciancimino fece un gesto come per dire: non merita neanche parlarne! “E Caponnetto?” incalza Pansa. “Non contava nulla. Il vero capo é sempre stato Falcone” ribatte il Ciancimino. Infine Ciancimino attacca Tommaso Buscetta: “Gli hanno messo in bocca quello che volevano. È sempre stato soltanto uno degli ultimi, non un capo. Come poteva sapere tutte quelle cose?” Quando Giampaolo Pansa chiede: “Ci saranno altri delitti dopo Lima e Falcone?”, Ciancimino risponde: “E chi puó dirlo? Certo ai due padroni d´Italia gli hanno tagliato le dita, peró…”
Borsellino convoca[51] in una sede segreta (caserma Carini, Palermo) due ufficiali dei carabinieri, il capitano Giuseppe De Donno ed il colonnello Mario Mori, autori di un voluminoso rapporto sul tema mafia-appalti in Sicilia. Questo rapporto essi lo avevano già consegnato al procuratore Giammanco il 20 febbraio 1991, ma gli sviluppi investigativi erano stati scarsi. “La convocazione segreta – ricorda il PM Luca Tescaroli – era dovuta al fatto che il magistrato voleva mantenere il massimo riserbo, ad ulteriore dimostrazione della situazione di disagio e tensione che già caratterizzava i suoi rapporti con Giammanco. Ai due ufficiali Borsellino propose la costituzione presso il ROS di un gruppo coordinato da De Donno, che avrebbe dovuto riferire unicamente a lui.”[52]
De Donno ha nel frattempo avviato un contatto con Massimo Ciancimino, figlio di Vito Ciancimino, ex sindaco di Palermo, condannato a 10 anni per concorso esterno in associazione mafiosa. [53] Lo scopo è quello di indurre Vito Ciancimino a collaborare con la giustizia. Vito Ciancimino é libero ma in attesa di giudizio per associazione a delinquere, abuso d´uffico e truffa.
Mario Mori ha collocato temporalmente il primo contatto tra il cap. Giuseppe De Donno e Massimo Ciancimino nel periodo tra il 23 maggio ed il 25 giugno, cioé prima dell´incontro alla caserma Carini di Palermo con Paolo Borsellino. Dopo il 25 giugno sarebbe arrivata la risposta da parte di Vito Ciancimino che si sarebbe detto disponibile ad aprire un canale di comunicazione. Successivamente il cap. Giuseppe De Donno avrebbe incontrato Vito Ciancimino 2-3 volte nel mese di luglio 1992 nella casa romana di proprietá del Ciancimino.[54]
Il cap. Giuseppe De Donno ha confermato la ricostruzione fatta dal suo superiore Mori, ma ha collocato i 2-3 incontri con Vito Ciancimino nella casa romana di quest´ultimo in un periodo di tempo piú largo, cioé quello compreso fra la strage di Capaci e quella di via D´Amelio.[55]
Di questi colloqui il De Donno parlerà solo con il suo diretto superiore colonnello Mori e questi con il generale Antonio Subranni, non con Paolo Borsellino.
L´incontro alla caserma Carini di Palermo verrá descritto dagli ufficiali Mori e De Donno il 27 marzo 1999 durante un´udienza del processo BORSELLINO TER.
Il magistrato Antonio Ingroia riguardo a tale incontro ha espresso alcune perplessitá.
Il 28 febbraio 1999 Ingroia ha dichiarato al settimanale AVVENIMENTI: “So che Borsellino aveva buoni rapporti investigativi con i carabinieri, ma non mi risulta che attorno a quel rapporto (il rapporto mafia-appalti del ROS di Palermo ndr) sia andato mai oltre incontri ricognitivi e per capire. Non ebbe sul punto, per quanto ne so, incontri investigativi.” “Dunque Borsellino non si occupava di quel rapporto?” chiede l´intervistatore. “Per quanto ne so é cosí. E dunque mi pare improprio che Borsellino si sia convinto di quella pista come del movente della bomba di Capaci. Lo dico per cognizione diretta: negli ultimi giorni prima di morire Borsellino si occupava di altro… Se si fosse occupato di quel rapporto del ROS me lo avrebbe detto. Ed invece quel rapporto e quella veritá sul movente di via D´Aemlio esce fuori adesso. Mi chiedo: perché, se c´era quella veritá giá nel 1992 si é atteso tanto tempo per tirarla fuori? E le mie diffidenze su questa storia aumentano.”
Anche alla luce di un dato inedito: nella pagina dell´agenda grigia di Borsellino, relativa al 25 giugno 1992, quell´incontro non é segnato. C´é su quell´agenda, la radiografia di ogni sua giornata, di ogni suo spostamento e di ogni suo incontro, ma su quella pagina il magistrato annotó un normale pomeriggio in procura, iniziato alle 16 e concluso alle 20 con il rientro a casa. [56]
Gli ufficiali Sinico e Baudo dei carabinieri di Palermo si recano con il collega maresciallo Lombardo al carcere di Fossombrone per interrogare Girolamo D’Adda sulle circostanze inerenti la strage di Capaci ed i possibili sviluppi futuri. Sinico e Baudo non partecipano al colloquio, ma apprendono dal maresciallo Lombardo che “negli ambienti carcerari si dà il Dott. Borsellino per morto”.Non appena rientrato a Palermo il Cap. Sinico riferisce la notizia a Borsellino il quale afferma di essere a conoscenza del progetto di attentato ai suoi danni, ma fa capire che preferisce accentrare su di sé i pericoli per risparmiarli alla propria famiglia.[57]
Il quotidiano L’Unità prendendo spunto da una nota dei diari di Falcone pubblica un’inchiesta sulla mancata cattura di Riina nel 1990 in seguito ad un contrasto nelle indagini tra polizia e carabinieri: questi ultimi stavano raccogliendo notizie sulla rete di favoreggiatori della latitanza di Riina quando la polizia si sarebbe intromessa con un’improvvida indagine patrimoniale che avrebbe allertato il boss di Cosa Nostra, vanificando i risultati raggiunti.
Alla biblioteca comunale di Palermo si svolge in serata un pubblico dibattito organizzato dalla rivitsa MICROMEGA a cui partecipa anche Borsellino:
“Io sono venuto questa sera soprattutto per ascoltare. Purtroppo ragioni di lavoro mi hanno costretto ad arrivare in ritardo e forse mi costringeranno ad allontanarmi prima che questa riunione finisca. Sono venuto soprattutto per ascoltare perché ritengo che mai come in questo momento sia necessario che io ricordi a me stesso e ricordi a voi che sono un magistrato. E poiché sono un magistrato devo essere anche cosciente che il mio primo dovere non è quello di utilizzare le mie opinioni e le mie conoscenze partecipando a convegni e dibattiti ma quello di utilizzare le mie opinioni e le mie conoscenze nel mio lavoro.
In questo momento inoltre, oltre che magistrato, io sono testimone. Sono testimone perché, avendo vissuto a lungo la mia esperienza di lavoro accanto a Giovanni Falcone, avendo raccolto, non voglio dire più di ogni altro, perché non voglio imbarcarmi in questa gara che purtroppo vedo fare in questi giorni per ristabilire chi era più amico di Giovanni Falcone, ma avendo raccolto comunque più o meno di altri, come amico di Giovanni Falcone, tante sue confidenze, prima di parlare in pubblico anche delle opinioni, anche delle convinzioni che io mi sono fatte raccogliendo tali confidenze, questi elementi che io porto dentro di me, debbo per prima cosa assemblarli e riferirli all’autorità giudiziaria, che è l’unica in grado di valutare quanto queste cose che io so possono essere utili alla ricostruzione dell’evento che ha posto fine alla vita di Giovanni Falcone, e che soprattutto, nell’immediatezza di questa tragedia, ha fatto pensare a me, e non soltanto a me, che era finita una parte della mia e della nostra vita.
Quindi io questa sera debbo astenermi rigidamente – e mi dispiace, se deluderò qualcuno di voi – dal riferire circostanze che probabilmente molti di voi si aspettano che io riferisca, a cominciare da quelle che in questi giorni sono arrivate sui giornali e che riguardano i cosiddetti diari di Giovanni Falcone. Per prima cosa ne parlerò all’autorità giudiziaria, poi – se è il caso – ne parlerò in pubblico. Posso dire soltanto, e qui mi fermo affrontando l’argomento, e per evitare che si possano anche su questo punto innestare speculazioni fuorvianti, che questi appunti che sono stati pubblicati dalla stampa, sul “Sole 24 Ore” dalla giornalista – in questo momento non mi ricordo come si chiama… – Milella, li avevo letti in vita di Giovanni Falcone. Sono proprio appunti di Giovanni Falcone, perché non vorrei che su questo un giorno potessero essere avanzati dei dubbi. Ho letto giorni fa, ho ascoltato alla televisione – in questo momento i miei ricordi non sono precisi – un’affermazione di Antonino Caponnetto secondo cui Giovanni Falcone cominciò a morire nel gennaio del 1988. Io condivido questa affermazione di Caponnetto. Con questo non intendo dire che so il perché dell’evento criminoso avvenuto a fine maggio, per quanto io possa sapere qualche elemento che possa aiutare a ricostruirlo, e come ho detto ne riferirò all’autorità giudiziaria; non voglio dire che cominciò a morire nel gennaio del 1988 e che questo, questa strage del 1992, sia il naturale epilogo di questo processo di morte. Però quello che ha detto Antonino Caponnetto è vero, perché oggi che tutti ci rendiamo conto di quale è stata la statura di quest’uomo, ripercorrendo queste vicende della sua vita professionale, ci accorgiamo come in effetti il paese, lo Stato, la magistratura che forse ha più colpe di ogni altro, cominciò proprio a farlo morire il 1° gennaio del 1988, se non forse l’anno prima, in quella data che ha or ora ricordato Leoluca Orlando: cioè quell’articolo di Leonardo Sciascia sul “Corriere della Sera” che bollava me come un professionista dell’antimafia, l’amico Orlando come professionista della politica, dell’antimafia nella politica. Ma nel gennaio del 1988, quando Falcone, solo per continuare il suo lavoro, il Consiglio superiore della magistratura con motivazioni risibili gli preferì il consigliere Antonino Meli. C’eravamo tutti resi conto che c’era questo pericolo e a lungo sperammo che Antonino Caponnetto potesse restare ancora a passare gli ultimi due anni della sua vita professionale a Palermo. Ma quest’uomo, Caponnetto, il quale rischiava, perché anziano, perché conduceva una vita sicuramente non sopportabile da nessuno già da anni, il quale rischiava di morire a Palermo, temevamo che non avrebbe superato lo stress fisico cui da anni si sottoponeva. E a un certo punto fummo noi stessi, Falcone in testa, pure estremamente convinti del pericolo che si correva così convincendolo, lo convincemmo riottoso, molto riottoso, ad allontanarsi da Palermo. Si aprì la corsa alla successione all’ufficio istruzione al tribunale di Palermo. Falcone concorse, qualche Giuda si impegnò subito a prenderlo in giro, e il giorno del mio compleanno il Consiglio superiore della magistratura ci fece questo regalo: preferì Antonino Meli.
Giovanni Falcone, dimostrando l’altissimo senso delle istituzioni che egli aveva e la sua volontà di continuare comunque a fare il lavoro che aveva inventato e nel quale ci aveva tutti trascinato, cominciò a lavorare con Antonino Meli nella convinzione che, nonostante lo schiaffo datogli dal Consiglio superiore della magistratura, egli avrebbe potuto continuare il suo lavoro. E continuò a crederlo nonostante io, che ormai mi trovavo in un osservatorio abbastanza privilegiato, perché ero stato trasferito a Marsala e quindi guardavo abbastanza dall’esterno questa situazione, mi fossi reso conto subito che nel volgere di pochi mesi Giovanni Falcone sarebbe stato distrutto. E ciò che più mi addolorava era il fatto che Giovanni Falcone sarebbe allora morto professionalmente nel silenzio e senza che nessuno se ne accorgesse. Questa fu la ragione per cui io, nel corso della presentazione del libro La mafia d’Agrigento, denunciai quello che stava accadendo a Palermo con un intervento che venne subito commentato da Leoluca Orlando, allora presente, dicendo che quella sera l’aria ci stava pesando addosso per quello che era stato detto. Leoluca Orlando ha ricordato cosa avvenne subito dopo: per aver denunciato questa verità io rischiai conseguenze professionali gravissime, ma quel che è peggio il Consiglio superiore immediatamente scoprì quale era il suo vero obiettivo: proprio approfittando del problema che io avevo sollevato, doveva essere eliminato al più presto Giovanni Falcone. E forse questo io lo avevo pure messo nel conto perché ero convinto che lo avrebbero eliminato comunque; almeno, dissi, se deve essere eliminato, l’opinione pubblica lo deve sapere, lo deve conoscere, il pool antimafia deve morire davanti a tutti, non deve morire in silenzio. L’opinione pubblica fece il miracolo, perché ricordo quella caldissima estate dell’agosto 1988, l’opinione pubblica si mobilitò e costrinse il Consiglio superiore della magistratura a rimangiarsi in parte la sua precedente decisione dei primi di agosto, tant’è che il 15 settembre, se pur zoppicante, il pool antimafia fu rimesso in piedi. La protervia del consigliere istruttore, l’intervento nefasto della Cassazione cominciato allora e continuato fino a ieri (perché, nonostante quello che è successo in Sicilia, la Corte di cassazione continua sostanzialmente ad affermare che la mafia non esiste) continuarono a fare morire Giovanni Falcone. E Giovanni Falcone, uomo che sentì sempre di essere uomo delle istituzioni, con un profondissimo senso dello Stato, nonostante questo, continuò incessantemente a lavorare. Approdò alla procura della Repubblica di Palermo dove, a un certo punto ritenne, e le motivazioni le riservo a quella parte di espressione delle mie convinzioni che deve in questo momento essere indirizzata verso altri ascoltatori, ritenne a un certo momento di non poter più continuare ad operare al meglio. Giovanni Falcone è andato al ministero di Grazia e Giustizia, e questo lo posso dire sì prima di essere ascoltato dal giudice, non perché aspirasse a trovarsi a Roma in un posto privilegiato, non perché si era innamorato dei socialisti, non perché si era innamorato di Claudio Martelli, ma perché a un certo punto della sua vita ritenne, da uomo delle istituzioni, di poter continuare a svolgere a Roma un ruolo importante e nelle sue convinzioni decisivo, con riferimento alla lotta alla criminalità mafiosa. Dopo aver appreso dalla radio della sua nomina a Roma (in quei tempi ci vedevamo un po’ più raramente perché io ero molto impegnato professionalmente a Marsala e venivo raramente a Palermo), una volta Giovanni Falcone alla presenza del collega Leonardo Guarnotta e di Ayala tirò fuori, non so come si chiama, l’ordinamento interno del ministero di Grazia e Giustizia, e scorrendo i singoli punti di non so quale articolo di questo ordinamento cominciò fin da allora, fin dal primo giorno, cominciò ad illustrare quel che lì egli poteva fare e che riteneva di poter fare per la lotta alla criminalità mafiosa. Certo anch’io talvolta ho assistito con un certo disagio a quella che è la vita, o alcune manifestazioni della vita e dell’attività di un magistrato improvvisamente sbalzato in una struttura gerarchica diversa da quelle che sono le strutture, anch’esse gerarchiche ma in altro senso, previste dall’ordinamento giudiziario. Si trattava di un lavoro nuovo, di una situazione nuova, di vicinanze nuove, ma Giovanni Falcone è andato lì solo per questo. Con la mente a Palermo, perché sin dal primo momento mi illustrò quello che riteneva di poter e di voler fare lui per Palermo. E in fin dei conti, se vogliamo fare un bilancio di questa sua permanenza al ministero di Grazia e Giustizia, il bilancio anche se contestato, anche se criticato, è un bilancio che riguarda soprattutto la creazione di strutture che, a torto o a ragione, lui pensava che potessero funzionare specialmente con riferimento alla lotta alla criminalità organizzata e al lavoro che aveva fatto a Palermo. Cercò di ricreare in campo nazionale e con leggi dello Stato quelle esperienze del pool antimafia che erano nate artigianalmente senza che la legge le prevedesse e senza che la legge, anche nei momenti di maggiore successo, le sostenesse. Questo, a torto o a ragione, ma comunque sicuramente nei suoi intenti, era la superprocura, sulla quale anch’io ho espresso nell’immediatezza delle perplessità, firmando la lettera sostanzialmente critica sulla superprocura predisposta dal collega Marcello Maddalena, ma mai neanche un istante ho dubitato che questo strumento sulla cui creazione Giovanni Falcone aveva lavorato servisse nei suoi intenti, nelle sue idee, a torto o a ragione, per ritornare, soprattutto, per consentirgli di ritornare a fare il magistrato, come egli voleva. Il suo intento era questo e l’organizzazione mafiosa – non voglio esprimere opinioni circa il fatto se si è trattato di mafia e soltanto di mafia, ma di mafia si è trattato comunque – e l’organizzazione mafiosa, quando ha preparato ed attuato l’attentato del 23 maggio, l’ha preparato ed attuato proprio nel momento in cui, a mio parere, si erano concretizzate tutte le condizioni perché Giovanni Falcone, nonostante la violenta opposizione di buona parte del Consiglio superiore della magistratura, era ormai a un passo, secondo le notizie che io conoscevo, che gli avevo comunicato e che egli sapeva e che ritengo fossero conosciute anche al di fuori del Consiglio, al di fuori del Palazzo, dico, era ormai a un passo dal diventare il direttore nazionale antimafia. Ecco perché, forse, ripensandoci, quando Caponnetto dice cominciò a morire nel gennaio del 1988 aveva proprio ragione anche con riferimento all’esito di questa lotta che egli fece soprattutto per potere continuare a lavorare. Poi possono essere avanzate tutte le critiche, se avanzate in buona fede e se avanzate riconoscendo questo intento di Giovanni Falcone, si può anche dire che si prestò alla creazione di uno strumento che poteva mettere in pericolo l’indipendenza della magistratura, si può anche dire che per creare questo strumento egli si avvicinò troppo al potere politico, ma quello che non si può contestare è che Giovanni Falcone in questa sua breve, brevissima esperienza ministeriale lavorò soprattutto per potere al più presto tornare a fare il magistrato. Ed è questo che gli è stato impedito, perché è questo che faceva paura.” [58]
Quella sera, nell´atrio della biblioteca comunale, il Procuratore aggiunto di Palermo si definisce apertamente un testimone, e rivela di essere a conoscenza di “alcune cose” che riferira´ direttamente “a chi di competenza”, all´autorita´ giudiziaria. Sono elementi utili a chiarire l´intreccio criminale che in quei giorni minaccia la tenuta delle Istituzioni democratiche in Italia? Non lo sapremo mai. Oggi Rita Borsellino sottolinea come mai, nella sua lunga carriera di magistrato, il fratello Paolo avesse lanciato “un avvertimento cosi´ esplicito”. A chi? E perche´? La moglie Agnese, che da casa segue l´intervento della biblioteca comunale su un´emittente locale, impallidisce e salta sulla sedia: “Ma che dice Paolo?” mormora con un filo di voce: “Se fa cosi´, lo ammazzano…”[59]
Mentre Borsellino parla, il silenzio del pubblico é assoluto. Ma quando il magistrato ricostruisce la vicenda della mancata nomina da parte del CSM a Consigliere Istruttore di Palermo nel 1988 e parla apertamente di un qualche Giuda che si impegnò subito a prendere in giro Falcone un lungo applauso lo interrompe. Il cronista del Corriere della Sera scrive il giorno successivo: “Chi e’ Giuda? La gente, in piedi ad applaudire, lo identifica subito in Vincenzo Geraci, allora componente del Csm”. [60]
Anche il Fbi, come Scotti e al contrario di Charles Rose, crede che la strage sia stata decisa da un grumo di interessi mafiosi non solo siciliani. Lo si apprende nell´ambito della trasferta americana dei pubblici ministeri Carmelo Carrara e Giusto Sciacchitano, volati negli Stati Uniti per interogare il pentito Francesco Marino Mannoia e suo padre Rosario nel quadro dell´indagine in corso per individuare altri forzieri delle cosche siciliane e colombiane, oltre che i loro collegamenti operativi. Gli affari tra mafiosi e colombiani furono disegnati per la prima volta nel 1990 da Giovanni Falcone che raccolse la deposizione di un oriundo siciliano, Joe Cuffaro, di Miami, arrestato dalla Dea e convinto a collaborare. Secondo un´agenzia di stampa, il lavoro di Carrara e Sciacchitano potrebbe avere punti di contatto con le indagini sulla strage di Capaci, che esula pero´ dalle competenze dei giudici palermitani.[61]
25 GIUGNO 1992 – PALERMO –Il maggiore Umberto Sinico e il maresciallo Antonio Lombardo si recano nel carcere di Fossombrone per ascoltare Gerolamo D’Anna, capomafia di Terrasini, storico contatto del maresciallo, suo concittadino e capostazione dei carabinieri locali. Questi, che è “in confidenza” con il maresciallo, gli annuncia che “è arrivato il tritolo per Borsellino”. Sinico riferisce immediatamente la notizia al magistrato che così commenta: “Lasciamogli questo spiraglio, almeno lasciano stare la mia famiglia”.Questa rivelazione è stata fatta nel 2011 nel corso del processo contro il generale Mario Mori e il maggiore Obinu, nel quale Umberto Sinico, oggi colonnello, era testimone per la difesa. Sono state fornite alcune informazioni supplementari. Per esempio che Girolamo D’Anna è un uomo d’onore della vecchia guardia di Cosa nostra, “posato” perché vicino a Tano Badalamenti (caduto in disgrazia dopo l’avvento dei corleonesi), ma ancora di grande carisma e messo al corrente delle decisioni importanti. Si evince quindi che Cosa nostra avviò una vasta consultazione sull’opportunità o meno di uccidere Borsellino, e che D’Anna non si tenne la cosa per sé, anzi mandò a chiamare dal carcere chi poteva impedire l’azione. (Il tutto getta una luce nuova sui rapporti tra stato e mafia, e sul loro funzionamento pratico.) La reazione fatalista di Borsellino, che Sinico apprese con sorpresa dolorosa, viene portata a riprova dell’assoluta fiducia che il giudice aveva nei carabinieri. Con due particolari non spiegati, però: in che cosa consisteva lo spiraglio che il giudice voleva lasciare a Cosa nostra? Voleva forse, in qualche modo, facilitare i suo compito? E, secondo, se la sua angoscia principale non era la propria morte, ma un attentato contro la sua famiglia, perché non vennero prese, a maggior ragione, iniziative di protezione, a partire dall’elementare istituzione della zona di rimozione in via D’Amelio?
25 GIUGNO 1992 – ROMA – Vito Ciancimino, mentre tratta con mafiosi e carabinieri, svolge anche attività di pubbliche relazioni. Riceve nella sua dimora romana il giornalista Gianpaolo Pansa cui dà la sua interpretazione dei fatti. La principale è: “Adesso la superprocura non la faranno più. Non avrebbe senso farla, visto che il dottor Falcone è morto”.
25 GIUGNO 1992 PALERMO – Paolo Borsellino chiede un incontro informale con il colonnello del Ros Mario Mori e con il capitano Giuseppe De Donno. L’incontro avviene in via riservata nei locali della caserma Carini. Borsellino ha chiesto di vederli «fuori dalla procura» per ragioni di riservatezza, stando a quanto essi stessi hanno dichiarato ai magistrati, sei anni dopo l’incontro. Che cosa vuole il procuratore aggiunto di Palermo dai due alti ufficiali del Ros? È già stato messo al corrente della trattativa? Vuole chiedere a Mori e De Donno i dettagli degli abboccamenti di Vito Ciancimino di cui sanno già tutto la Ferraro e Martelli? Mori dice di no. Spiega il generale: «La risposta di Ciancimino [alla richiesta di un primo contatto formulata dal Ros, nda] arrivò dopo l’incontro alla caserma Carini perché altrimenti ne avrei parlato con il procuratore Borsellino. Cosa che invece assolutamente non si è verificata». Secondo Mori, Borsellino lo convoca per parlare di mafia e appalti. Il magistrato è a conoscenza dello scontro tra il procuratore di Palermo Pietro Giammanco e il Ros sul dossier mafia-appalti dei carabinieri, nella parte che individua una serie di politici coinvolti nella spartizione dei lavori in accordo con la mafia. Sul summit alla caserma Carini, Mori è fecondo di dettagli. «L’incontro avvenne nel primo pomeriggio del 25 giugno 1992» racconta l’ufficiale il 29 gennaio 1998 al pm della Procura di Caltanissetta Nino Di Matteo. «Portavoce della volontà di incontrarmi del dottor Borsellino fu il maresciallo Canale, che si è messo in contatto con il maggiore Obinu. Borsellino desiderava incontrarsi con me e desiderava altresì che fosse presente il capitano De Donno. Mi venne detto che desiderava incontrarci in una struttura dei carabinieri e non in procura. Rimasi a parlare quindici-venti minuti a quattr’occhi con il dottor Borsellino, introducendo successivamente, per una decina di minuti, il capitano De Donno. Mi chiese se c’erano novità investigative sull’omicidio di Falcone, subito dopo portò l’argomento su quello che compresi essere il vero oggetto dell’incontro, e cioè la sua volontà di prospettare nuove ipotesi di lavoro in relazione alla vicenda mafia-appalti. Borsellino mi assicurò che delle indagini voleva occuparsi in prima persona, cosa che per lo sviluppo che la vicenda aveva avuto in precedenza costituiva per me un presupposto irrinunciabile per un nuovo impegno operativo del Ros [Mori si riferisce alle polemiche sorte in procura a Palermo dopo la presentazione del suo rapporto su mafia e appalti, nda]. Di questo incontro non parlai con nessuno, non escludo di avere fatto qualche accenno al generale Subranni, solo dopo la strage di via D’Amelio e comunque escludo di avergli anticipato le prospettive operative.» Nove giorni prima, il 20 gennaio 1998, a Caltanissetta, ai pm Di Matteo, Anna Palma e Carmelo Petralia, il capitano De Donno aveva sostanzialmente fornito la stessa versione, aggiungendo un particolare: «Non so, né chiedemmo a Borsellino in che modo pensasse di gestire il tutto, stante la ben nota assegnazione ad altri magistrati. Noi parlavamo con il procuratore aggiunto e non ci ponemmo il problema. Ci chiese di affiancarlo con grande riservatezza e direttamente alle sue dipendenze in questa attività che si prefiggeva di svolgere». Borsellino viene informato della trattativa in corso? Mori dice di no, sostiene di non aver detto nulla a Borsellino di quegli incontri in corso con Ciancimino. Ma se la risposta di don Vito, stando a quanto dice il generale, il 25 giugno non è ancora arrivata, com’è possibile che De Donno due giorni prima sia andato a chiedere alla Ferraro «garanzie» per conto dell’ex sindaco che si è detto disponibile a collaborare? Per questo motivo, gli inquirenti ritengono importante riuscire a datare con certezza l’incontro a Palermo tra il capitano e la direttrice degli Affari penali. Ma l’iniziale sicurezza di Martelli sul 23 giugno, data del trigesimo della strage Falcone, successivamente è sfumata. Incerti sui propri ricordi, l’ex guardasigilli e la Ferraro, dopo un confronto davanti ai pm, hanno concordato che l’incontro tra il capitano del Ros e la direttrice degli Affari penali è avvenuto con certezza tra il 21 e il 28 giugno 1992, ma non sono più riusciti a fissare il giorno preciso. 1 Intervenendo a un convegno promosso dalla rivista «MicroMega» la sera del 25 giugno, solo qualche ora dopo aver incontrato Mori e De Donno, Borsellino, nell’atrio della biblioteca comunale a Palermo, dice apertamente di considerarsi un «testimone» edi attendere una convocazione formale da parte dell’autorità giudiziaria di Caltanissetta, per riferire «tutti gli elementi» in suo possesso sull’uccisione di Falcone. Nei giorni successivi, nessuno da Caltanissetta lo convoca per un interrogatorio formale.
Venerdì 26 giugno 1992 Dopo la denuncia della biblioteca, Paolo Borsellino si rituffa nelle indagini, che per l´area ristretta delle sue competenze sono quelle delle cosche di Trapani ed Agrigento. “In quei giorni accade una cosa mai verificatasi a casa nostra – racconta Agnese Borsellino – Paolo non riesce a trovare il tempo per occuparsi della famiglia. Carte, solo carte. Finisce in ufficio e torna a casa con la borsa piena di documenti da leggere, telefonate da fare, appuntamenti da riordinare. Con me e con i figli parla solo di notte, quando tutti gli altri dormono. E´ diventato quasi una macchina. No, nessuno di noi gliene fa una colpa. Se trascura moglie e figli, ha motivi gravissimi, lo sappiamo bene. Si e´ reso conto, pur nella sua umilta´, che in quel momento e´ l´unico ad avere la capacita´ e la volonta´ di lavorare con questi ritmi massacranti.” Lucia ricorda lo sforzo di mantenere alto il livello del suo impegno contro la mafia, nonostante i mille ostacoli messi sulla sua strada dal procuratore capo Giammanco. “Pur di continuare il suo lavoro e´ disposto ad accettare certi limiti che gli pone sempre piu´ spesso Giammanco. Gli costa un sacrificio doppio sapere che per motivi gerarchici e´ tenuto a raccontare al suo superiore i passi delle sue indagini, senza pero´ ricevere in cambio, ne e´ convinto, lo stesso flusso di informazioni. Capisce che gli vengono nascoste conoscenze acquisite dall´ufficio, episodi che potrebbero interessarlo, anche fatti gravi”. [62]
Borsellino incontra per la prima volta negli uffici della procura di Roma Gaspare Mutolo, il quale fa mettere a verbale la sua decisione di iniziare a collaborare con la giustizia, parlando peró “solo con il giudice Paolo Borsellino, sotto la tutela del dottor Gianni De Gennaro”. Mutolo aveva già espresso il suo desiderio di collaborare il 15 dicembre 1991 chiedendo di parlare con Giovanni Falcone, ma questi gli aveva spiegato di non poter esaudire la sua richiesta in quanto non svolgeva più funzioni inquirenti. Falcone aveva comunque convinto Mutolo a svolgere un colloquio investigativo con l’allora vice-direttore della DIA Gianni De Gennaro. Inoltre aveva informato della decisione di Mutolo i vertici della procura di Palermo. Passano i mesi, c’è la strage di Capaci. Mutolo fa un nome: “Voglio parlare con Paolo Borsellino, mi fido solo di lui.” La segnalazione arriva ai vertici della procura di Palermo mentre Borsellino è in Germania per le indagini su Palma di Montechiaro. Giammanco aveva deciso di assegnare il collaboratore all’aggiunto Aliquò ed ai sostituti Lo Forte e Natoli mettendo a rischio il proseguio del rapporto. Quando Borsellino venne a conoscenza dei fatti vi fu una tesa riunione in procura al termine della quale Giammanco assegnò il fascicolo ad Aliquò, Lo Forte e Natoli con l’impegno di coordinarsi con Borsellino. Mutolo accettò la proposta, ma non fece mai mistero di considerare come vero interlocutore solo Borsellino. Quest’ultimo decide di non uscire allo scoperto e scontrarsi con Giammanco per non aprire un nuovo fronte di polemiche: i pentiti, le indagini in corso non possono aspettare. “Dopo, solo dopo, se sarà il caso, affronteremo di petto Giammanco” confida Borsellino ai colleghi più fidati della procura.[63]
Mutolo comunica a Borsellino che intende verbalizzare le sue dichiarazioni seguendo un percorso ben preciso: prima la descrizione completa delle famiglie mafiose, componente per componente, mandamento per mandamento. Terminata questa prima parte, Mutolo si dice disposto a verbalizzare i nomi dei referenti di Cosa Nostra all´interno delle Istituzioni. “Bisogna prima mettere fuori gioco il corpo armato – dice Mutolo – poi passeró ai nomi dei generali. Non serve che io spari subito le grandi rivelazioni, se c´é un esercito pronto a mettere a tacere me e tutti i giudici che cominceranno ad indagare… É troppo pericoloso scrivere tutto da subito, le aule del Tribunale di Palermo non sono affatto sicure. Le informazioni circolano ed i rischi che arrivino ai diretti interessati sono alti”. [64]
“Sento di dover escludere che Falcone tenesse un diario del tipo di quelli di Chinnici o di Insalaco”. Borsellino, conversando con i giornalisti a margine di un convegno di Magistratura indipendente, che si tiene a Giovinazzo, in provincia di Bari, torna a parlare del diario di Falcone, e di nuovo conferma l´autenticita´ degli scirtti pubblicati dal Sole24ore, anche se precisa che non si tratta di un vero e proprio diario, bensi´ di appunti “con date e riferimenti a fatti di natura processuale o comunque legati al lavoro del suo ufficio.” Il Magistrato ricorda di aver letto quegli appunti in occasione del trasferimento di Falcone al ministero di grazia e giustizia e conclude di non volere esprimere nel merito alcun giudizio “perche´ se dovro´ farlo, lo faro´ all´autorita´ giudiziaria.” [65] Il CSM sospende dalle funzioni e dallo stipendio Alberto Di Pisa, il magistrato condannato in primo grado per essere il Corvo di Palermo.
Venerdì 26 giugno 1992 Dopo la denuncia della biblioteca, Paolo Borsellino si rituffa nelle indagini, che per l´area ristretta delle sue competenze sono quelle delle cosche di Trapani ed Agrigento. “In quei giorni accade una cosa mai verificatasi a casa nostra – racconta Agnese Borsellino – Paolo non riesce a trovare il tempo per occuparsi della famiglia. Carte, solo carte. Finisce in ufficio e torna a casa con la borsa piena di documenti da leggere, telefonate da fare, appuntamenti da riordinare. Con me e con i figli parla solo di notte, quando tutti gli altri dormono. E´ diventato quasi una macchina. No, nessuno di noi gliene fa una colpa. Se trascura moglie e figli, ha motivi gravissimi, lo sappiamo bene. Si e´ reso conto, pur nella sua umilta´, che in quel momento e´ l´unico ad avere la capacita´ e la volonta´ di lavorare con questi ritmi massacranti.” Lucia ricorda lo sforzo di mantenere alto il livello del suo impegno contro la mafia, nonostante i mille ostacoli messi sulla sua strada dal procuratore capo Giammanco. “Pur di continuare il suo lavoro e´ disposto ad accettare certi limiti che gli pone sempre piu´ spesso Giammanco. Gli costa un sacrificio doppio sapere che per motivi gerarchici e´ tenuto a raccontare al suo superiore i passi delle sue indagini, senza pero´ ricevere in cambio, ne e´ convinto, lo stesso flusso di informazioni. Capisce che gli vengono nascoste conoscenze acquisite dall´ufficio, episodi che potrebbero interessarlo, anche fatti gravi”. [62]
Sabato 27 giugno 1992 A Palermo si svolge una grande manifestazione antimafia alla quale partecipano centomila persone. La manifestazione é promossa dai sindacati Cgil, Cisl e Uil. Nella sua cronaca dalla manifestazione Corrado Stajano scrive: É una giornata di sole e sembra persino bella, Palermo, un tempo chiamata Felicissima. Ma guardando e mirando con attenzione il mare e Monte Pellegrino ci si rende conto della gigantesca colata di cemento della speculazione edilizia e della mafia che dalla fine degli anni Cinquanta in avanti ha calcificato e sconciato la citta’ , basta guardare i blocchi delle case oltre via Liberta’ , dalla parte di viale Lazio e giu’ giu’ verso l’ aeroporto. Un cemento impastato di sangue. A ogni nome, a ogni targa stradale corrisponde infatti un morto ammazzato. Non solo morti qualunque – quelli sono centinaia ogni anno – ma morti di rango. Perche’ non c’ e’ citta’ in Europa, neppure nel mondo, forse in Colombia, dove in pochi anni sono stati assassinati tutti, proprio tutti gli uomini dello Stato, il presidente della Regione, il capo dell’opposizione, il consigliere istruttore, il procuratore della Repubblica, il prefetto, il capo della mobile, i magistrati, i commissari, i medici legali, i poliziotti, i carabinieri. Ecco, l’elicottero che lascia la sua ombra proprio sulla via Carini dove dieci anni fa furono uccisi il generale Dalla Chiesa, sua moglie, l’agente di scorta. Ecco l’elicottero che lascia la sua ombra sulla via Cavour dove davanti alla bancarella di libri fu assassinato il procuratore della Repubblica Costa. Una geografia di lapidi, Palermo. [68]
GIUGNO 1992 – Palermo – Il procuratore di Caltanissetta uscente Salvatore Celesti, 14 in partenza per Palermo, non prende iniziative e aspetta l’insediamento del suo successore. Lo stesso Borsellino è consapevole del rischio di impasse investigativa se dopo Capaci si propone propone al Csm chiedendo di assumere un ruolo ufficiale nelle indagini. Il magistrato fa sapere informalmente al Csm di essere pronto a trasferirsi subito a Caltanissetta per fornire il proprio contributo all’inchiesta sulla strage. Già il 28 maggio, cinque giorni dopo il «botto» sull’autostrada, il Csm ha nominato il magistrato Giovanni Tinebra nuovo procuratore capo di Caltanissetta. Borsellino è disposto ad affiancarsi al nuovo procuratore, per buttarsi a capofitto, con un ruolo istituzionalmente riconosciuto, nelle indagini sui macellai di Falcone. Ma il Csm, vicepresidente Giovanni Galloni, manifesta la sua perplessità: valuta la disponibilità di Borsellino e, altrettanto informalmente, gli fa sapere che non è opportuno, per lui, amico fraterno di Falcone, assumere ufficialmente un incarico inquirente nell’indagine. È un momento drammatico, di emergenza nazionale, eppure il Csm non riesce a decidere al di fuori delle rigide logiche formali: da Palazzo dei Marescialli qualcuno comunica «amichevolmente» a Borsellino che per indagare sulla strage di Capaci occorre nominare un pool di magistrati che non sia «coinvolto dal punto di vista emotivo». Si tratta, ovviamente, di una misura da osservare a garanzia della correttezza dell’indagine. Borsellino, magistrato con un altissimo senso delle istituzioni, fa un passo indietro. Non protesta, incassa il rifiuto del Csm e non ne parla con nessuno. Ma è deluso. È lo stesso Csm che, pochi mesi prima, si era violentemente opposto alla nomina di Falcone al vertice della nascente Superprocura e che aveva designato, al suo posto, il procuratore di Palmi Agostino Cordova.
28 GIUGNO 1992 ROMA– Di ritorno da Bari, nella saletta vip di Fiumicino, Borsellino, con la moglie Agnese, incontra il nuovo direttore degli Affari penali Liliana Ferraro. 15 È in questa occasione che quest’ultima racconta diffusamente al magistrato dell’incontro con De Donno, dei contatti di Ciancimino con i carabinieri e delle richieste di «coperture» da parte dell’ex sindaco mafioso per proseguire la collaborazione. Ricorda la Ferraro: «Borsellino mi disse che era solo, ma Agnese, udendo tale frase, si inserì nel discorso chiedendomi più volte di convincere il marito a non andare avanti, perché non voleva che i suoi figli rimanessero orfani. Riferii poi a Borsellino la visita di De Donno. Lui non ebbe nessuna reazione, mostrandosi per nulla sorpreso, e quasi indifferente alla notizia, dicendomi comunque che se ne sarebbe occupato lui». 16 A un tratto, nella saletta vip, arriva anche il nuovo ministro della Difesa Salvo Andò, socialista, che saluta Borsellino, gli si avvicina e gli dice che deve parlargli. Borsellino si allontana e si apparta con Andò; questi gli riferisce preoccupato dell’informativa del Ros, spedita nei giorni precedenti alla Procura di Palermo, che li indica entrambi come possibili bersagli di un attentato mafioso. Un terzo obiettivo indicato dal Ros è il pm di Milano Antonio Di Pietro. Andò gli chiede informazioni ulteriori, pareri, consigli. Borsellino impallidisce, poi va su tutte le furie: non ne sa nulla. È persino imbarazzato, ma deve confessare ad Andò di essere totalmente all’oscuro dell’informativa. Il procuratore di Palermo Pietro Giammanco, destinatario ufficiale della nota riservata del Ros, non gli ha comunicato niente.
29 GIUGNO 1992 PALERMO– Un solo foglio, bianco, con le scritte in stampatello. Fra una riga e l’altra dodici punti. È il documento che Massimo Ciancimino ha custodito per diciotto anni, che per diciotto anni nessuno ha cercato, e che infine il figlio di don Vito consegnerà ai pm di Palermo. È il documento che contiene le richieste di Cosa nostra rivolte allo Stato dopo la strage Falcone e prima della strage Borsellino. Secondo Massimo, il foglio venne consegnato da Cinà il 29 giugno 1992. È la prova della trattativa. Ecco cosa c’è scritto: -Revisione sentenza maxi-processo -Annullamento decreto 41-bis -Revisione legge Rognoni-La Torre -Riforma legge pentiti -Riconoscimento benefici dissociati -Brigate rosse -per condannati di mafia -Arresti domiciliari dopo 70 anni -Chiusura super carceri -Carcerazione vicino le case dei familiari -Niente censura posta familiari -Misure prevenzione -rapporto con familiari -Arresto solo fragranza (sic) reato -Levare tasse carburanti come ad Aosta. Allegato al foglio, vi è un post-it con la scritta: «Consegnato personalmente al colonnello dei carabinieri Mario Mori, dei Ros». Il post-it è vergato personalmente da don Vito.
1° LUGLIO 1992 ROMA– A Roma da un giorno, Borsellino trascorre la mattina all’Holiday Inn e si prepara agli appuntamenti del pomeriggio. Alle tre, nei palazzoni della Dia, lo aspetta il nuovo pentito, il boss di Partanna Mondello Gaspare Mutolo, ex autista di Totò Riina, per il primo interrogatorio ufficiale. La sua storia di aspirante pentito è tormentata: braccio destro e killer di fiducia del boss Saro Riccobono, Mutolo, detto «il barone», è tra i pochissimi sopravvissuti alla mattanza del 30 novembre 1982 che decimò la cosca di don Saro. Gasparino si salvò per la sua vicinanza con Totò Riina, suo compagno di cella, con cui giocava a carte «facendolo vincere», dirà poi ai magistrati. Ma Cosa nostra gli sta stretta, sa perfettamente che, in quanto vicino al boss perdente, il suo destino è segnato. E prima o poi la campana a morto suonerà pure per lui. Per questo gioca d’anticipo, chiedendo, alla fine del 1991, di parlare con il giudice Giovanni Falcone. La richiesta, però, non può essere accolta perché, lavorando al ministero della Giustizia, Falcone è fuori dai ruoli della magistratura, e non può ascoltarlo. Glielo dice lo stesso Falcone, incontrandolo nel carcere di Spoleto il 16 dicembre 1991. Mutolo si ferma, riflette, non fa passi falsi. E dopo la strage di Capaci torna alla carica, scegliendosi, anche questa volta, l’interlocutore: «Voglio Paolo Borsellino. Mi fido solo di lui» detta a verbale al procuratore di Firenze Piero Luigi Vigna andato a interrogarlo nel carcere toscano. Trasmesso a Palermo, quel verbale arriva sul tavolo del procuratore Pietro Giammanco mentre Borsellino si trova in Germania per un’inchiesta sulla mafia di Palma di Montechiaro. Giammanco non ci pensa due volte: non esiste che il pentito si scelga il magistrato con cui parlare, anche se si chiama Paolo Borsellino. Che si occupa, peraltro, delle cosche di Trapani e Agrigento. E non di quelle di Palermo, di cui Mutolo parlerà. La questione è solo di «difesa dell’autonomia della magistratura» anche di fronte ai pentiti? Di rigido rispetto della competenza, delle forme, che pure spesso sono sostanza? O è legata anche al valore della testimonianza di Gasparino della quale ancora, ufficialmente, non si sa nulla? Giammanco va dritto per la sua strada, ignora la volontà di Mutolo e, senza consultare Borsellino, sceglie il rigido criterio burocratico, affidando il fascicolo ad altri magistrati: l’aggiunto Vittorio Aliquò, i sostituti Guido Lo Forte e Gioacchino Natoli. Borsellino, tornato dalla Germania, resta impietrito quando scopre che il procuratore lo ha tenuto fuori, nonostante l’aperta richiesta del «barone» di parlare solo con lui. È sconvolto e amareggiato, si sfoga con il collega Antonio Ingroia: «Ma come può fare questo? Giammanco sostiene che ho la delega solo su Trapani e Agrigento, che non avendo la competenza su Palermo non posso interrogare Mutolo. E se quello non si pente più?». Si apre così uno scontro frontale con il capo dell’ufficio. Borsellino è furioso, Giammanco capisce che la questione è troppo delicata per affidarla a pandette e codicilli e, accogliendo un suggerimento di Aliquò che indossa i panni del mediatore, fa marcia indietro chiedendo a Lo Forte e Natoli di coordinarsi con Borsellino. È una soluzione di compromesso, ma Borsellino non può che accettarla, se vuole incontrare personalmente l’aspirante pentito. «Dovrò convincere Mutolo -dice a Ingroia -a parlare anche con i miei colleghi, spero che vorrà darmi ascolto.» Il pentito accetta di parlare, ma il disagio e gli scontri non si esauriscono. Alla riunione periodica della Direzione distrettuale antimafia, Giammanco chiede ad Aliquò e a Borsellino di riferire il contenuto del primo interrogatorio dei pentiti Mutolo e Messina. Aliquò riferirà di Mutolo, Borsellino di Messina. Una distinzione che Borsellino legge come un’offesa, un voler rimarcare che lui, con Mutolo, in fondo, non c’entra. Il pomeriggio del primo luglio è cruciale. Mutolo annuncia rivelazioni «scottanti»: sono accuse che colpiscono il cuore delle istituzioni «colluse». Mutolo è pronto a farle, ma ha paura e fa sapere che considera Borsellino l’interlocutore principale, l’unico vero destinatario delle sue parole. Quel giorno il pentito gli ha anticipato che farà dichiarazioni esplosive su alcuni esponenti delle istituzioni. Ma prima vuole tracciare la mappa aggiornata della mafia militare. Ancor prima che quelle accuse vengano ufficialmente verbalizzate, Borsellino dunque sa che quel pentito è «roba che scotta», si rende conto che la riservatezza su quelle anticipazioni di fuoco è necessaria e deve essere assoluta. Si muove con passi felpati; è prudente, guardingo, ma è anche amareggiato perché prevede i conflitti istituzionali che quelle accuse faranno esplodere. Alle 15, nello stanzone della Direzione investigativa antimafia, davanti a Paolo Borsellino e Vittorio Aliquò, al tenente colonnello Domenico Di Petrillo e al vicequestore Francesco Gratteri, entrambi della Dia, all’ispettore di polizia Danilo Amore, Mutolo inizia a declinare le proprie generalità, per aprire la verbalizzazione e cominciare il suo racconto nero sulla mafia. Ma, all’improvviso, accade qualcosa di inatteso. Una telefonata. E per «esigenze di ufficio» il verbale viene chiuso alle 17.40 e rinviato alle 19. Ecco la ricostruzione di Rita Borsellino sugli eventi di quel pomeriggio: «A un tratto, durante l’interrogatorio, Paolo riceve una telefonata, chiude il verbale, si precipita al Viminale, accompagnato da Aliquò e dalla scorta, poi ritorna da Mutolo. Il pentito ha raccontato successivamente che, di ritorno dal Viminale, Paolo era talmente nervoso che fumava due sigarette contemporaneamente e decise di non continuare l’interrogatorio». 23 Ancora più dettagliato emerge il ricordo di quel pomeriggio dalle parole dello stesso Mutolo, qualche anno dopo, il 21 febbraio 1996, nell’aula del processo per la strage di via D’Amelio: «Il giudice Borsellino mi viene a trovare, io ci faccio un discorso molto chiaro […] e ci ripeto, diciamo, quello che io sapevo su alcuni giudici e su alcuni funzionari dello Stato molto importanti, però ci dico che non volevo verbalizzare niente se prima non parlavo della mafia, ma diciamo li ho avvisati per dirci: “C’è questo pericolo, insomma, mi sa che questa cosa qui finisce male”. Allora mi ricordo probabilmente […] che il dottor Borsellino la prima volta che mi interroga, interroga, riceve una telefonata, mi dice: “Sai, Gaspare, debbo smettere perché mi ha telefonato il ministro. Va be’ -dice -manco una mezz’oretta e vengo”. Quindi manca qualche ora, quaranta minuti, cioè all’incirca un’ora, e mi ricordo che quando è venuto, è venuto tutto arrabbiato, agitato, preoccupato, ma che addirittura fumava così distrattamente che aveva due sigarette in mano. Io, insomma, non sapendo che cosa… “Dottore, ma che cosa ha?” E lui, molto preoccupato e serio, mi fa che viceversa del ministro, si è incontrato con il dottor Parisi e il dottor Contrada… mi dice di scrivere, di mettere a verbale quello che io gli avevo detto oralmente, cioè che il dottor Contrada, diciamo, era colluso con la mafia, che il giudice Signorino, diciamo, era amico dei mafiosi… amico… insomma che tutto quel che sapeva gli diceva, ci ho detto: “Guardi, noi più di questo non dobbiamo verbalizzare niente, perché -ci dissi io -io… insomma a me mi ammazzano, e quindi a me interessa che prima io verbalizzo tutto quello che concerne l’organigramma mafioso. Io, appena finisco di parlare dei mafiosi, possiamo parlare di qualunque cosa, che a me non mi interessa più”». Sull’incontro al Viminale, sono stati ascoltati al processo sia Aliquò che Mancino. Il primo ricorda che, durante quell’interrogatorio, Mutolo ha accennato a categorie di persone colluse con Cosa nostra, ma non ha fatto nomi. Aliquò conferma di aver incontrato Parisi al Viminale e di aver accompagnato Borsellino sulla soglia dell’ufficio di Mancino, restando fuori; poi, di essere entrato a sua volta per un incontro con il ministro appena insediato, fatto dei consueti convenevoli. Ma non ricorda di aver incontrato Contrada ed esclude che Borsellino possa avergliene parlato. Ricorda che Parisi sapeva che Borsellino stava interrogando Mutolo, ma di questo non si era stupito, dovendo sia lui che Borsellino chiedere la scorta per ogni spostamento, e dunque informando continuamente la polizia della loro attività. Non ricorda, Aliquò, nessuna particolare manifestazione di nervosismo, in Borsellino, successivamente a quell’incontro: «Ma quando mai… a Paolo capitava spesso di accendere la nuova Dunhill con il mozzicone di quella precedente, perché era un grande, accanito fumatore, non perché fosse particolarmente nervoso». E Mancino? L’ex ministro, interrogato su questo argomento, ha detto di non ricordare di aver incontrato Borsellino, ma non ha escluso che l’incontro possa comunque essere avvenuto, considerato che quel primo luglio era il giorno del suo insediamento al ministero, ed erano moltissime le persone che aveva dovuto incontrare. Mancino riferisce: «Non ho precisa memoria di tale circostanza, anche se non posso escluderla… Era il giorno del mio insediamento, mi vennero presentati numerosi funzionari e direttori generali… Non escludo che tra le persone che possono essermi state presentate ci fosse anche il dottor Borsellino. Con lui però non ho avuto alcuno specifico colloquio e perciò non posso ricordare in modo sicuro la circostanza… non sapevo della sua presenza a Roma ed escludo, quindi, di avere io provocato un colloquio dello stesso con me. Non escludo che il capo della polizia possa, di sua inziativa, avere invitato il giudice Borsellino per presentarlo a me». Se Borsellino quel giorno ha incontrato Contrada, non lo ha confidato a nessuno, tranne che a Mutolo. E, forse, ma il ricordo non è troppo preciso, anche al pm Pietro Vaccara, applicato dalla Procura di Caltanissetta per le indagini sulla strage di Capaci. Dice oggi Vaccara: «Ricordo, ma sono passati tanti anni, che Borsellino mi disse di avere visto Contrada che usciva da una porta del ministero, forse la stanza del capo della polizia Parisi, mentre lui entrava. È un ricordo flebile, nel senso che io lo colloco certamente dopo il primo luglio, in una data prossima alle mie ferie, scattate il 15 luglio. Con Borsellino al mio ritorno dovevamo incontrarci a Caltanissetta, ma poi c’è stata la strage…». 24 E Borsellino, dopo quel primo luglio, non è più andato al Viminale.
1 LUGLIO 1992 – PAOLO BORSELLINO SI RECA A ROMA. HA RICEVUTO NOTIZIA CHE IL PENTITO GASPARE MUTOLO HA DELLE RIVELAZIONI IMPORTANTI DA FARE. (1) Vuole parlare direttamente con Borsellino, l’unico giudice di cui si fida e che considera di integrità morale assoluta. L’interrogatorio “segreto” inizia alle ore 15:00 negli uffici della DIA (Direzione Investigativa Antimafia). Mutolo parla a ruota libera delle commistioni tra mafia e istituzioni. In particolare, fa i nomi del giudice Signorino e del numero tre del SISD e Bruno Contrada. Li definisce “avvicinabili”, ovvero pronti ad obbedire docilmente alle richieste di Cosa Nostra. L’interrogatorio prosegue per circa tre ore fino alle 18:00, quando Paolo Borsellino riceve una chiamata dal Ministero. Gli viene fatto sapere che deve recarsi urgentemente negli uffici del neoministro dell’interno Nicola Mancino. L’interrogatorio viene interrotto. L’avvocato generale di Palermo Vittorio Aliquò accompagna Borsellino “fin sulla porta del ministro”. Alle 18:30 il giudice è negli uffici del Ministero. A sorpresa, però, non ci trova Mancino, ma il capo della Polizia Vincenzo Parisi e Bruno Contrada, personaggio citato poco prima dal pentito.Sempre l’agente del Sisde avrebbe riferito al giudice: “Se gli serve qualcosa a Gaspare fammi sapere”. Ma come faceva a sapere dell’incontro, visto che doveva essere segreto? Alla fine, verso le 19:30, finalmente, compare anche Mancino. La conversazione col ministro dura una mezz’ora. Verso le 20:00 Borsellino torna alla DIA per riprendere l’interrogatorio. Mutolo vede il giudice sconvolto, talmente agitato da accendersi due sigarette alla volta. Gli chiede scherzosamente se non è contento di aver visto il ministro. Borsellino risponde adirato: “Ma quale ministro e ministro! Sono andato dal dottor Parisi e dal dottor Contrada!”. Tornato a casa la sera, la moglie ricorderà di averlo visto vomitare: “Sto vedendo la mafia in diretta”.
1° LUGLIO 1992 (2)- Paolo Borsellino si reca a Roma per interrogare Gaspare Mutolo, boss della famiglia di Partanna Mondello, molto vicino a Salvatore Riina. Killer, imprenditore, narcotrafficante, Mutolo si era già incontrato confidenzialmente con Giovanni Falcone non molto tempo prima del suo assassinio. Nel corso della giornata avviene, per lui, qualcosa di sconvolgente. Gaspare Mutolo è l’uomo che fa a Borsellino i nomi di Bruno Contrada, numero tre del Sisde, e di Domenico Signorino, magistrato della procura di Palermo (ha retto insieme ad Ayala l’accusa in Corte d’assise nel famoso maxiprocesso). Mutolo racconta di favori (appartamenti, donne) fatti al poliziotto e al magistrato dalla famiglia mafiosa dei Riccobono, in cambio del loro aiuto. Borsellino, che si ricorda ovviamente di tutte le confidenze di Giovanni Falcone, sta raccogliendo le prove per far arrestare Contrada e Signorino.Durante l’interrogatorio, Borsellino viene avvertito che il nuovo ministro dell’Interno, Nicola Mancino, appena insediato, lo vuole incontrare al Viminale. Borsellino dice a Mutolo:“Sospendiamo, torno fra mezz’ora”. Al Viminale però non incontra il ministro, ma il capo della polizia Vincenzo Parisi e – appunto – Bruno Contrada. Secondo il racconto di Mutolo, Borsellino torna sconvolto. “L’ho visto fumare e accendersi una seconda sigaretta.” Mi ha riferito che Contrada gli ha detto: “Chieda a Mutolo se ha bisogno di qualcosa…”, ma nessuno doveva sapere dell’interrogatorio. I due si lasciano e Borsellino riparte per Palermo.
PRIMI DI LUGLIO 1992 PALERMO– Secondo il pentito Giovanni Brusca, in questi giorni Totò Riina gli rivela di aver redatto un «papello» con alcune richieste da far pervenire allo Stato. Lipari sostiene invece di aver saputo che anche il boss di San Giuseppe Jato partecipò alla redazione della lista.
2 LUGLIO 1992 –Borsellino parla con Vincenzo Calcara, un boss di Trapani che si è pentito e che gli ha raccontato di aver avuto l’ordine di ucciderlo già due anni fa. I due si incontrano per un “colloquio investigativo”. “La Gazzetta del Sud” pubblica un’intervista a Borsellino in cui il magistrato parla, per la prima volta, di dissidi tra Riina e Provenzano, considerati fino ad allora una “coppia di ferro”
4 LUGLIO 1992 – MARSALA: l’addio a Marsala Le massime autorità della provincia di Trapani sono presenti al Tribunale di Marsala in occasione dell’incontro per il commiato definitivo del procuratore della Repubblica Paolo Borsellino, trasferito già da qualche mese a Palermo con il sostituto Antonio Ingroia e il maresciallo dei carabinieri Carmelo Canale, e l’insediamento del nuovo procuratore di Marsala Antonino Silvio Sciuto. Paolo Borsellino parla a braccio, ricorda i sacrifici che i magistrati devono affrontare per assicurare alla nazione il servizio della giustizia, senza mai nominarlo cita il collega Vincenzo Geraci, il quale aveva scritto che a Marsala Borsellino era andato perché voleva una procura con il mare, e riceve una lettera di saluto dai «suoi» sostituti, i giovani pm cresciuti sotto la sua ala protettiva negli anni delle inchieste marsalesi: Giuseppe Salvo, Francesco Parrinello, Luciano Costantini, Lina Tosi, Massimo Russo, Alessandra Camassa. Una lettera che Borsellino incornicerà e appenderà nello studio di casa.Da “L’agenda rossa di Paolo Borsellino”
6 LUGLIO 1992 SICUREZZA ZERO LA VISITA ISTITUZIONALE LASCIA UNA CODA IN PROCURA. PARISI FA IL GIRO DEGLI UFFICI E SCOPREla vulnerabilità di Borsellino. Persino il capo della polizia ne resta sconvolto. Ecco il ricordo di Agnese PirainoLeto, nella sua testimonianza al processo Borsellino ter: «Dieci giorni prima che mio marito morisse, il capo della polizia è arrivato a Palermo, ha fatto un giro in procura e si è accorto che alle spalle di mio marito c’era un vetro normale e allora lui si è lamentato come mai nessuno si fosse accorto che c’era questo vetro, enorme ma un vetro normale, e allora subito ha fatto mettere il vetro blindato nella stanza di mio marito. C’era la scrivania con la poltrona che dava le spalle a questo vetro, dunque era anche quello un punto vulnerabile. E poi, che io sappia, gli addetti ai lavori, il Comitato di sicurezza non lo so che cosa abbiano deciso, questo sarà scritto nei verbali, sotto i miei occhi non ho visto niente di particolare, insomma non si sono prese delle precauzioni e dei provvedimenti che potessero ostacolare il preannunciato progetto criminale. A me non risulta nient’altro, ecco. Soltanto ricordo che mio marito era più sicuro o si sentiva più sicuro quando era fuori la città di Palermo che quando si trovava in città. Era molto preoccupato per la sua incolumità e la nostra. Ed era anche disposto a sottoporsi a qualsiasi sacrificio pur di salvarsi, pur di salvare gli uomini della sua scorta, pur di salvare la nostra famiglia».
7 LUGLIO 1992 – MANNHEIM –Il fortino tedesco Ad attenderli, nella cittadina di Mannheim, Borsellino, Canale e Principato trovano un imponente spiegamento di forze, una scorta armata, un corteo di auto blindate. L’albergo prenotato è stato trasformato in un autentico «fortino», la polizia ha installato un sistema di intercettazioni telefoniche che registra tutte le conversazioni in entrata e in uscita, ogni persona viene passata «ai raggi x». Borsellino si concede un piccolo fuori programma, entra in un negozio, per acquistare un regalo per Massimo, il figlio del suo collega e amico Diego Cavaliero, che domenica prossima sarà battezzato a Salerno. Per il bimbo sceglie un regalo tradizionale, una collanina d’oro. Le teste di cuoio impazziscono. Si precipitano all’interno del negozio, ogni angolo viene ispezionato da cima a fondo, perquisito, bonificato, e solo dopo permettono a Borsellino di entrare per fare il suo acquisto. Il magistrato sorride sotto i baffi, e ironizza: «Proprio come a casa!». Poi si torna al lavoro. Entrati in carcere, i giudici italiani vengono informati da un funzionario della Bka, la polizia tedesca, che un connazionale, tale Egon Schinna, uno spacciatore di piccolo calibro, detenuto nella stessa cella di Schembri, ha cominciato a collaborare, rivelando che il siciliano è uno dei killer del giudice Rosario Livatino. La notizia è importantissima, promette una svolta decisiva nelle indagini su quel delitto ancora insoluto. Borsellino appare galvanizzato, e non perde il suo spirito fanciullesco.
9 LUGLIO 1992– L’autografo a Narduzzo Da Mannheim, Borsellino torna a Roma, per reinterrogare Leonardo Messina, il pentito di San Cataldo (Caltanissetta), che sa tutto della mafia nissena, che aprirà uno squarcio di luce sulle trame segrete della massoneria in combutta con la mafia e l’alta finanza di riciclatori. Borsellino dovrebbe sbarcare a Fiumicino, e lì in aeroporto ha un appuntamento con Fiammetta, sua figlia, che proprio quel giorno parte per Bangkok con l’amico Alfio Lo Presti. Invece, per un disguido, il suo volo atterra a Ciampino, e il magistrato non potrà incontrare la ragazza. La chiama al telefono, le dice: «Mi dispiace». Non si vedranno mai più. Ma quella mattina Borsellino non lo sa: ha una fretta del diavolo, passa da un pentito all’altro, e corre alla palazzina dell’Eur, nei cui sotterranei vengono ospitati i collaboratori, per interrogare Leonardo Messina, in un faccia a faccia che proseguirà il giorno dopo. Con il suo gusto per il paradosso, si paragona scherzando al dottor Tersilli, il protagonista del film con Alberto Sordi, che faceva il medico della mutua e non si fermava mai per racimolare un numero sempre più cospicuo di pazienti. Messina parla di guerre sanguinarie tra i clan, descrive omicidi e sparatorie, agguati e massacri, poi chiede: «Dottore, una cortesia, me lo fa un autografo?». Borsellino resta di stucco: «Un autografo?». «Sì –risponde il pentito –è per i miei figli, me l’hanno chiesto loro, la conoscono, la vedono in tv.» Borsellino, al successivo incontro, si presenta con una cartolina: «In ricordo delle lunghe giornate trascorse con vostro padre. Paolo Borsellino».
9 LUGLIO 1992 – ROMA –Borsellino è di nuovo a Roma per proseguire l’interrogatorio di Gaspare Mutolo.La sera cena all’aperto in trattoria con il tenente Carmelo Canale che lo ha accompagnato. Secondo Canale il giudice è disteso, ama parlare della sua infanzia e adolescenza a Palermo. Il centro della città è sottoposto a grandi misure di sicurezza per il Maurizio Costanzo Show, in trasferta al teatro Politeama, per una serata in onore di Giovanni Falcone. Intorno alla mezzanotte, nella zona del fiume Oreto, Gaspare Spatuzza ruba una vecchia Fiat 126 che dovrà essere utilizzata per uccidere Paolo Borsellino. Questa è, almeno, l’ultima versione che abbiamo, dopo vent’anni, sulla strage di via D’Amelio. Rubano la macchinetta, la ripuliscono di qualsiasi oggetto che la possa far riconoscere, compresa un’immagine di santa Rosalia, ma non dell’etichetta sul blocco motore. Spatuzza testa freni e frizione, e fa cambiare i primi. Sabato 18 luglio imbottiscono la Fiat di tritolo in un’officina di via Villasevaglios “alla presenza di una persona che non avevo mai visto, un elegantone”, che nel 2011 sarà sospettato essere Lorenzo Narracci, vice di Bruno Contrada.
13 LUGLIO 1992 – PALERMO – Bersaglio vivente Di quei giorni, gli ultimi della vita di Borsellino, la moglie Agnese ricorda la fretta, la frenesia di lavorare, la paura di avere poco tempo, la consapevolezza di essere un bersaglio vivente. «Era turbato. Gli facevo tante domande, e lui non mi rispondeva. E io dicevo: “Ma perché non mi rispondi?”. “Non vi voglio esporre –mi ripeteva –e poi: non ho tempo da perdere, devo lavorare, devo lavorare…”. Era turbato, sì, tantissimo.» Agnese ricorda quell’angoscia di correre, di correre contro il tempo, per arrivare alla verità prima di essere fermato. Ma quale verità?Vuole diventare pentito pure lei? Non starà prendendo nota su cosa abbiamo mangiato ieri sera a cena e chi c’era con noi?» La sera precedente, a cena, erano in quattro: con Borsellino e Canale, c’erano Diego Cavaliero e il sostituto procuratore Alfredo Greco. «Carmelo –risponde gelido Borsellino –per me è finito il momento di parlare. Sono successi troppi fatti in questi mesi, anch’io ho le mie cose da scrivere. E qua dentro ce n’è anche per lei.» «Ricordo – racconta Agnese – che Paolo mi ripeteva sempre: “È una corsa contro il tempo quella che io faccio. Sto vedendo la mafia in diretta, devo lavorare tanto, devo lavorare tantissimo”.»
13 LUGLIO 1992 –“Il tritolo per Borsellino è arrivato”: nuovamente il Ros informa il procuratore Giammanco. Il Ros informa la procura. Borsellino lo confida (“È arrivato insieme a un carico di bionde, lo sa la finanza”) a don Cesare Rattoballi, un prete suo amico (è il cugino di Rosaria Schifani, che la accompagnò in cattedrale e la sostenne durante la sua inaudita denuncia: “Mafiosi, vi perdono, ma inginocchiatevi…”. Borsellino chiede a don Rattoballi di confessarsi. La confessione avviene seduta stante, nel suo ufficio al palazzo di giustizia. Una nota. Tutte queste informazioni, praticamente in tempo reale, che il Ros fornisce sul viaggio del tritolo per Borsellino, vengono smentite da Gaspare Spatuzza, che maneggiò personalmente quell’esplosivo (lo triturò nella casa della zia), già nell’aprile del 1992, dopo averlo recuperato – in tre fusti – da un peschereccio. Quindi, che senso avevano quelle informazioni così puntuali? Nel pomeriggio, un poliziotto della scorta guarda Borsellino in volto, lo vede preoccupato, teso, troppo teso, non può fare a meno di chiedergli: «Dottore, cosa c’è? È successo qualcosa?». Borsellino, come se non potesse trattenersi, gli dice di botto: «Sono turbato, sono preoccupato per voi, perché so che è arrivato il tritolo per me e non voglio coinvolgervi». L’agente sbianca, resta senza parole.
14 LUGLIO 1992 – PALERMO – Confessione in procura «Il tritolo è arrivato con un carico di “bionde”, l’ha scoperto la finanza ed è arrivato per me, Orlando e un ufficiale dei carabinieri.» È la rivelazione che Borsellino fa in un giorno di giugno a padre Cesare Rattoballi, dirigente dell’Agesci, l’associazione cattolica degli scout, il sacerdote che è diventato suo confidente nelle ultime settimane. Don Rattoballi è cugino di Rosaria Schifani, è rimasto vicino alla giovane vedova che ha lanciato l’anatema contro i mafiosi, dal pulpito della chiesa di San Domenico, nel giorno dei funerali di Falcone, e delle altre vittime di Capaci. Conosce Borsellino fin dagli anni settanta, gli si è avvicinato in modo particolare in quelle settimane di fuoco, dopo il «botto» sull’autostrada, imparando a leggerne i silenzi, le inquietudini, a rispettarne gli sforzi per scoprire la verità sull’attacco stragista allo Stato. Anche in quei giorni di luglio, mentre la città si va svuotando per le ferie, don Cesare sente il bisogno di andare a far visita all’amico, senza una ragione precisa, guidato dall’affetto o dall’istinto. Il sacerdote è solo, varca il metal detector del Palazzo di giustizia, s’infila nel vecchio ascensore, sale al secondo piano, scivola silenzioso fino in procura. Bussa alla porta di Borsellino. Lo saluta, gli sorride. Si siede di fronte a lui. Non sa ancora che questo sarà il loro ultimo incontro. «Quella mattina, non la dimenticherò mai –ricorda il sacerdote –era un giorno di luglio, me ne andai in procura, non ricordo per quale ragione, bussai alla porta di Borsellino, lo salutai, lui mi accolse con un sorriso, ci mettemmo a chiacchierare. Parlammo di tante cose, era sereno, preoccupato solo per il futuro dei suoi ragazzi. A un tratto mi disse: “Io sono come quello che guarda i quadri, chissà se li potrò più vedere”. Più tardi, quando fui sul punto di andarmene, mi fermò di colpo e mi chiese: “Aspetta, prima di andare via mi devi confessare”. E lì, nel suo ufficio, tra le sue carte, si raccolse e si confessò.» Rattoballi non era il suo confessore abituale. «Paolo –ricostruisce oggi il parroco –sosteneva che il sacramento della riconciliazione si può ottenere da qualsiasi sacerdote, e quindi non aveva un confessore fisso.» Quella mattina, chiacchierando con don Cesare, l’amico, ma soprattutto il sacerdote, Borsellino coglie al volo l’occasione. Si confessa. Vuole essere purificato. Vuole essere pronto.
15 LUGLIO 1992 – ROMA – Superdecreto: vertice con Martelli Il procuratore di Palermo lo ha definito «una delle più importanti innovazioni legislative dopo l’approvazione del nuovo codice» e tutti i ventisei procuratori distrettuali antimafia hanno invitato il ministro Martelli «a non cedere di fronte a pressioni provenienti da più parti e anche dall’Associazione nazionale magistrati». Questa è l’accoglienza riservata al decreto legge anticriminalità dai procuratori distrettuali antimafia, che si incontrano con Martelli per discutere ed esaminare il decreto dell’ 8 giugno. Martelli invita i procuratori a pronunciarsi «su ciò che va mantenuto e su ciò che può essere utilmente modificato». I titolari delle ventisei procure richiedono al ministro di mantenere ferma la struttura portante del decreto limitandosi ad apportare a esso solo modifiche di «chiarificazione o integrazione». «Ampi consensi», secondo una nota del ministero, arrivano dai procuratori soprattutto in riferimento alle parti del decreto relative al potenziamento dell’attività investigativa della polizia giudiziaria e «a questo riguardo è stato anzi sostenuto che proprio questa parte del decreto sta fornendo positivi risultati dando luogo a importanti casi di dissociazione».
15 LUGLIO 1992 PALERMO– Borsellino torna a casa, prende la moglie in disparte, la trascina sul balcone e le confida con voce turbata: «Ho visto la mafia in diretta. Subranni… ho saputo che… è punciuto». Lo racconta Agnese Borsellino, molti anni dopo, ai pm di Caltanissetta. Chi suggerisce a Borsellino che Subranni è coinvolto con la mafia? Perché quella sera il giudice usa la parola «punciuto» e con «colluso»? Sta ripetendo lo stesso termine dialettale ascoltato dalla sua fonte? E qual è la fonte di quell’informazione? Una fonte istituzionale o un pentito? In quei giorni Borsellino ascolta più volte il pentito Schembri, di Agrigento, stessa provincia di provenienza di Subranni, e ha fatto numerose confidenze sull’omicidio del maresciallo Giuliano Guazzelli, rivelando di avere molte conoscenze nell’ambiente dei carabinieri. Schembri, però, ha sempre negato di aver parlato di Subranni con Borsellino.
16 LUGLIO 1992 – ROMA – Ancora minacce di morte Un confidente dei carabinieri di Milano rivela che si sta preparando un attentato a Di Pietro e a Borsellino. La fonte è ritenuta altamente attendibile e il raggruppamento Ros di Milano invia un rapporto alla Procura di Milano e uno a quella di Palermo. L’informativa viene inviata per posta ordinaria e arriverà a Palermo dopo la strage di via D’Amelio. In seguito a questa notizia viene pesantemente rafforzata la scorta a Di Pietro e alla sua famiglia, il pm milanese non dorme neppure a casa sua. Il maresciallo Cava del Ros di Milano tenta anche di mettersi in contatto diretto con la procura palermitana ma senza risultato. Curiosamente la notizia su queste minacce filtra sulla stampa dopo l’attentato di via D’Amelio in modo alquanto strano: viene pubblicata sul «Secolo XIX» del 23 luglio 1992 insieme ad altre due notizie false: un presunto incontro di Falcone e Di Pietro prima della strage di Capaci (incontro subito smentito dallo stesso Di Pietro e dal procuratore di Milano Francesco Saverio Borrelli) e alcune indiscrezioni sulla possibile collaborazione del boss Tanino Fidanzati. Anche questa notizia si rileverà un falso, mentre il rapporto dei Ros verrà confermato.
16 LUGLIO 1992 – PALERMO – Il Palazzo di giustizia è quasi deserto. È il giorno della festa di santa Rosalia. Borsellino incontra Ingroia che sta andando in ferie. Borsellino è silenziosamente contrariato, vorrebbe che il suo braccio destro resti al suo fianco per proseguire il lavoro. Ma Ingroia ha già prenotato una casa per le vacanze e non può rinviare. Lo rassicura: si tratta comunque di una sola settimana da trascorrere al mare, a San Vito Lo Capo, a pochi chilometri da Palermo. Borsellino, che al mattino mantiene un atteggiamento di «silenzioso rimprovero», il pomeriggio incontra di nuovo il pm. «Lo vidi sorridere per l’ultima volta –racconta Ingroia –quando gli dissi che sarei rimasto fuori soltanto per il weekend, promettendogli che sarei tornato in ufficio già lunedì.» Borsellino si è rasserenato. Si alza, abbraccia Ingroia, lo saluta. Il pm va via, ancora un po’ dispiaciuto di lasciarlo solo in quel palazzo deserto.
16 LUGLIO 1992 – MILANO –Il Ros incontra alla procura di Milano Antonio Di Pietro. I carabinieri lo informano che sarà oggetto di un attentato di Cosa nostra insieme a Paolo Borsellino. Gli viene fornita un’auto blindata, il magistrato non dorme a casa. Due appunti: il primo è che Di Pietro ebbe sicuramente più attenzione di Borsellino, in merito alla sua vita. Il secondo è che queste notizie sono state rese note dall’ex magistrato solo diciotto anni dopo, durante una trasmissione televisiva. Il leader dell’Idv aggiunse che il 4 agosto 1992 gli venne consegnato, alla questura di Bergamo, un passaporto falso con il nome di “Mario Canale” e che con questo lui e la moglie andarono per qualche tempo in Costarica. Di Pietro, si è poi venuti a sapere diciotto anni dopo con la pubblicazione di “imbarazzanti fotografie di una cena”, era stato almeno una volta, nel dicembre 1992, commensale di Bruno Contrada.
17 LUGLIO 1992 – ROMA – Borsellino è di nuovo a Roma, per il terzo interrogatorio a Gaspare Mutolo. Finiti gli impegni, con il collega Natoli cenano al ristorante Il moccoletto, insieme a Carlo Vizzini, presidente del Psdi, uno dei politici minacciati di morte da Cosa nostra. Vizzini propone loro di affrontare il grande tema di “mafia e appalti”. L’ultimo verbale Borsellino interroga Gaspare Mutolo. È l’ultimo interrogatorio, dura parecchie ore. Il pentito accetta di verbalizzare le accuse su Contrada e Signorino. Ma oggi non si fa in tempo, se ne riparlerà lunedì prossimo. È tardi. Borsellino chiude il verbale senza neppure una parola, sempre più incupito. Saluta Mutolo, ed è l’ultima volta che lo vede.
17 LUGLIO 1992 – Di ritorno da Punta Raisi, Borsellino fa un salto in procura per mettere i verbali in cassaforte, fare qualche telefonata e salutare i colleghi. Li abbraccia anche, uno per uno. «Loro si meravigliano – racconta Rita Borsellino – perché è una cosa che Paolo non ha mai fatto. Almeno tre o quattro di loro, e tra questi Ignazio De Francisci e Vittorio Teresi, affermano di essere rimasti sconvolti da quell’episodio. Gli chiedono: “Paolo, ma che stai facendo?”. E lui, al solito, scherzando: “E perché vi stupite? Non vi posso salutare?”»
17 LUGLIO 1992 PALERMO – BORSELLINO ARRIVA IN FAMIGLIA NEL TARDO POMERIGGIO, TESO, NERVOSO. A casa, però, trova spazio per un momento di ottimismo. Dice a Manfredi: «Sento che il cerchio attorno a Riina sta per chiudersi, stavolta lo prendiamo». Non fa il nome di Mutolo, non può farlo, ma confida a suo figlio che c’è un nuovo pentito, uno che sa tante cose, che ha fatto rivelazioni su uomini d’onore vicini a Riina. Ma c’è di più, anche se quel di più Manfredi lo verrà a sapere solo dopo: il giorno precedente, Mutolo ha promesso di verbalizzare le accuse su Contrada e Signorino. Ecco perché Borsellino è così nervoso. A un tratto propone ad Agnese: «Andiamo a Villagrazia, ho bisogno di un po’ d’aria, ma senza scorta, da soli». Agnese è stupita. «Da soli? Paolo, cosa c’è? È successo qualcosa?». «Andiamo», ordina. La moglie lo conosce, lo segue. In macchina, in silenzio, mentre cala la sera, Agnese lo guarda, capisce che è tormentato da mille angosce, mille dubbi. Riesce a fargli ammettere che qualcosa è successo: Mutolo ha parlato, ha detto cose gravissime, ha accusato personaggi al di sopra di ogni sospetto. Paolo è sconvolto, confida ad Agnese che alla fine dell’interrogatorio era cosi traumatizzato da avere addirittura vomitato. «Stavo malissimo» dice. Anni dopo, Agnese, sentita come teste nel processo Borsellino ter, ricorda: «Mutolo gli aveva annunciato che avrebbe dovuto parlare di Signorino, però mio marito ha detto pure: “Se ne riparla la prossima settimana, perché è tardi e dobbiamo […] abbiamo chiuso già il verbale, dunque se ne riparlerà lunedì”». La moglie di Borsellino afferma che Paolo quella sera non fa altri nomi. E lei non insiste con le domande, cogliendo il suo profondo turbamento. «Non gli ho fatto altre domande, sapevo che avrebbe significato ferirlo ancora di più. Capivo che dentro di lui provava un dolore immenso». Che ha detto di così sconvolgente Mutolo a Borsellino? Ha parlato solo di Contrada e Signorino? Ha parlato d’altro?
18 LUGLIO 1992 –La Fiat 126 viene “imbottita”, alla presenza dello “sconosciuto”.Borsellino va a trovare la madre in via D’Amelio. Il cardiologo che doveva visitarla non è potuto venire per un guasto alla macchina. Al telefono il magistrato parla con la sorella Rita e le dice che verrà l’indomani, domenica 19, a prenderla e la porterà lui stesso dal cardiologo.
18 LUGLIO 2018 – Tornando a casa, quella sera, Borsellino saluta il suo portiere, don Ciccio, lo abbraccia e lo bacia. Anche in questo caso sono effusioni insolite, atipiche, mai manifestate prima. Il portinaio del palazzone di via Cilea le riferirà, commosso, ai familiari del giudice, nei giorni successivi alla strage.
Domenica 19 luglio 1992 Alle 5 di mattina Borsellino riceve una telefonata dall’altra parte del mondo, sono Fiammetta e l’amico Alfio Lo Presti che gli telefonano per sentire come sta e per parlare con lui. Dopo la telefonata Borsellino scrive una lettera ad una professoressa di Padova che lo aveva invitato per un dibattito. Quell´invito non é mai arrivato a Borsellino, e la docente protesta: essere un giudice famoso e stracarico di lavoro non deve far dimenticare le buone maniere. C´é anche un questionario con dieci domande: Come e perché é diventato Giudice? Cosa sono la Dia e la Dna? Quali le differenze tra mafia, camorra, ´ndrangheta e sacra corona unita? Quali i rapporti tra la mafia italiana e statunitense? Borsellino, con una pazienza davvero infinita, risponde con una lunga lettera alla professoressa risentita, una lettera che oggi sembra quasi un testamento spirituale:
“Gentilissima” professoressa, uso le virgolette perché le ha usate Lei nello scrivermi, non so se per sottolineare qualcosa, e “pentito” mi dichiaro e dispiaciutissimo per il disappunto che ho causato agli studenti del Suo Liceo per la mia mancata presenza all’incontro di Venerdì 24 gennaio. Intanto vorrei assicurarle che non mi sono affatto trincerato dietro un compiacente centralino telefonico (suppongo quello della Procura di Marsala) non foss’altro perché a quell’epoca ero stato già applicato per quasi tutta la settimana alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Palermo, ove da pochi giorni mi sono definitivamente insediato come Procuratore Aggiunto. Se le Sue telefonate sono state dirette a Marsala non mi meraviglio che non mi abbia mai trovato. Comunque il mio numero telefonico presso la Procura di Palermo è (…), utenza alla quale rispondo direttamente. Se ben ricordo, inoltre, in quei giorni mi sono recato per ben due volte a Roma nella stessa settimana e, nell’intervallo, mi sono trattenuto ad Agrigento per le indagini conseguenti alla faida mafiosa di Palma di Montechiaro. Ricordo sicuramente che nel gennaio scorso il dott. Vento del Pungolo di Trapani mi parlò della Vostra iniziativa per assicurarsi la mia disponibilità, che diedi in linea di massima, pur rappresentandogli le tragiche condizioni di lavoro che mi affliggevano. Mi preannunciò che sarei stato contattato da un Preside del quale mi fece anche il nome, che non ricordo, e da allora non ho più sentito nessuno. Il 24 Gennaio poi, essendo ritornato ad Agrigento, colà qualcuno mi disse di aver sentito alla radio che quel giorno ero a Padova e mi domandò quale mezzo avessi usato per rientrare in Sicilia tanto repentinamente. Capii che era stata “comunque” preannunciata la mia presenza al Vostro convegno, ma mi creda, non ebbi proprio il tempo di dolermene perché i miei impegni di lavoro sono tanti e così incalzanti che raramente ci si può occupare di altro. Spero che la prossima volta Lei sarà così gentile da contattarmi personalmente e non affidarsi a intermediari di sorta o telefoni sbagliati. Oggi non è per certo il giorno più adatto per risponderLe perché frattanto la mia città si è di nuovo barbaramente insanguinata ed io non ho più tempo da dedicare neanche ai miei figli, che vedo raramente poiché dormono quando esco da casa ed al mio rientro, quasi sempre in ore notturne, li trovo nuovamente addormentati. Ma è la prima domenica, dopo almeno tre mesi, che mi sono imposto di non lavorare e non ho difficoltà a rispondere, però in modo telegrafico, alle sue domande.
1) Sono diventato giudice perché nutrivo grandissima passione per il diritto civile ed entrai in magistratura con l’idea di diventare un civilista, dedito alle ricerche giuridiche e sollevato dalla necessità di inseguire i compensi dei clienti. La magistratura mi appariva la carriera per me più percorribile per dare sfogo al mio desiderio di ricerca giuridica non appagabile con la carriera universitaria per la quale occorrevano tempo e santi in paradiso. Fui fortunato e divenni magistrato nove mesi dopo la laurea (1964) e fino al 1980 mi occupai soprattutto di cause civili, cui dedicavo il meglio di me stesso. E’ vero che nel 1975, per rientrare a Palermo, ove ha sempre vissuto la mia famiglia, ero approdato all’Ufficio Istruzione Processi Penali, ma ottenni l’applicazione, anche se saltuaria, ad una sezione civile e continuai a dedicarmi soprattutto alle problematiche dei diritti reali, delle (…) legali, delle divisioni ereditarie ecc. Il 4 maggio 1980 uccisero il Capitano Emanuele Basile ed il Cons. Chinnici volle che mi occupassi io dell’istruzione del relativo procedimento. Nel mio stesso ufficio frattanto era approdato, provenendo anche egli dal Civile, il mio amico d’infanzia Giovanni Falcone e sin da allora capii che il mio lavoro doveva essere un altro. Avevo scelto di rimanere in Sicilia ed a questa scelta dovevo dare un senso. I nostri problemi erano quelli dei quali avevo preso ad occuparmi quasi casualmente, ma, se amavo questa terra, di essi dovevo esclusivamente occuparmi. Non ho più lasciato questo lavoro e da quel giorno mi occupo pressoché esclusivamente di criminalità mafiosa. E sono ottimista poiché vedo che verso di essa i giovani, siciliani e no, hanno oggi una attenzione ben diversa da quella colpevole indifferenza che io mantenni sino ai quarant’anni. Quando questi giovani saranno adulti avranno più forza di reagire di quanto io e la mia generazione ne abbiamo avuta.
2) La Dia è un organismo investigativo formato da elementi dei Carabinieri, della Polizia di Stato e della Guardia di Finanza, e la sua istituzione si propone di realizzare il coordinamento fra queste tre strutture investigative che, fino ad ora, con lodevoli ma scarse eccezioni, hanno agito senza assicurare un reciproco scambio di informazioni ed una auspicabile razionale divisione dei compiti loro istituzionalmente affidati in modo promiscuo e non coordinato. La Dna è una nuova struttura giudiziaria che tende ad assicurare soprattutto una circolazione delle informazioni fra i vari organi del Pubblico Ministero distribuiti tra le… circoscrizioni territoriali. Sino ad ora questi organi hanno agito in assoluta indipendenza ed autonomia l’uno dall’altro (indipendenza e autonomia che rimangono nonostante la nuova figura del Superprocuratore) ma anche in condizioni di piena separazione, ignorando nella maggior parte dei casi il lavoro e le risultanze investigative e processuali degli altri organi, anche confinanti, e senza che vi fosse una struttura sovrapposta delegata ad assicurare il necessario coordinamento e ad intervenire tempestivamente con propri mezzi e proprio personale giudiziario nel caso in cui se ne ravvisi la necessità.
3) La mafia (Cosa Nostra) è una organizzazione criminale, unitaria e verticisticamente strutturata, che si contraddistingue da ogni altra per la sua caratteristica di “territorialità”. Essa è suddivisa in “famiglie”, collegate tra loro per la comune dipendenza da una direzione comune (Cupola), che tendono ad esercitare sul territorio la stessa sovranità che su esso esercita, deve esercitare, legittimamente, lo Stato. Ciò comporta che Cosa Nostra tende ad appropriarsi delle ricchezze che si producono o affluiscono sul territorio principalmente con l’imposizione di tangenti (paragonabili alle esazioni fiscali dello Stato) e con l’accaparramento degli appalti pubblici, fornendo al contempo una serie di servizi apparenti rassembrabili a quelli di giustizia, ordine pubblico, lavoro ecc., che dovrebbero essere forniti esclusivamente dallo Stato. E’ naturalmente una fornitura apparente perché a somma algebrica zero, nel senso che ogni esigenza di giustizia è soddisfatta dalla mafia mediante una corrispondente ingiustizia. Nel senso che la tutela dalle altre forme di criminalità (storicamente soprattutto dal terrorismo) è fornita attraverso l’imposizione di altra e più grave forma di criminalità. Nel senso che il lavoro è assicurato ad alcuni (pochi) togliendolo ad altri (molti). La produzione ed il commercio della droga, che pur hanno fornito Cosa Nostra dei mezzi economici prima indispensabili, sono accidenti di questo sistema criminale e non necessari alla sua perpetuazione. Il conflitto inevitabile con lo Stato con cui Cosa Nostra è in sostanziale concorrenza (hanno lo stesso territorio e si attribuiscono le stesse funzioni) è risolto condizionando lo Stato dall’interno, cioè con le infiltrazioni negli organi pubblici che tendono a condizionare la volontà di questi perché venga indirizzata verso il soddisfacimento degli interessi mafiosi e non di quelli di tutta la comunità sociale. Alle altre organizzazioni criminali di tipo mafioso (camorra, ‘ndrangheta, Sacra Corona Unita ecc.) difetta la caratteristica della unitarietà ed esclusività. Sono organizzazioni criminali che agiscono con le stesse caratteristiche di sopraffazione e violenza di Cosa Nostra, ma non ne hanno l’organizzazione verticistica ed unitaria. Usufruiscono inoltre in forma minore del “consenso” di cui Cosa Nostra si avvale per accreditarsi come istituzione alternativa allo Stato, che tuttavia con gli organi di questo tende a confondersi.[69]
Alle 7.00, squilla nuovamente il telefono. A quello´ora, é una chiamata insolita. Agnese si preoccupa, si alza dal letto, raggiunge lo studio, ascolta. La conversazione dura pochi minuti. Agnese sente Paolo replicare infuriato: “No, la partita é aperta.” Poi il rumore della cornetta sbattuta sul telefono.
“Che succede?”
Borsellino alza gli occhi, si accorge di averla svegliata, ma é troppo arrabbiato persino per scusarsi: “Lo sai chi era? Quel… Era Giammanco”
Poi, congestionato per la rabbia, le racconta che il procuratore l´ha chiamato dicendogli che per tutta la notte non ha chiuso occhio, al pensiero di quella delega sulle indagini di mafia a Palermo, al pensiero delle polemiche sugli interrogatori di Mutolo. I tempi sono maturi, gli annuncia Giammanco, perché finalmente questa delega gli venga conferita. Il capo la firmerá domani mattina, in ufficio, e gliela conferirá prima della sua partenza per la Germania. Si, ma perché lo chiama di domenica? A quell´ora?
“Ma perché tanta fretta?” chiede Agnese.
Quella delega la aspetta da mesi. Eppure Borsellino, piuttosto che contento é turbato, arrabbiato. Passeggia, si agita, fa su e giú per il corridoio di casa.
Riferisce alla moglie: “Lo sai che mi ha detto? Cosí la partita é chiusa.”
“La partita? E tu?”
Borsellino alza ancora la voce: “E io? Non l´hai sentito? Gli ho urlato: la partita é aperta.” Altro che chiusa, sono comportamenti di cui Giammanco dovrá rendere conto al momento e nella sede piú opportuna, spiega Borsellino alla moglie. Poi si accorge che nello studio é arrivata pure Lucia.
“Oh Lucia, pure tu ti sei svegliata? Mi dispiace… Senti, gioia, vuoi venire con noi a Villagrazia? Magari riusciró a vederti un po´abbronzata.”
Borsellino ora sorride, programma all´istante la giornata: subito a Villagrazia a prendere il sole, poi insieme a Lucia a prendere la nonna per portarla dal cardiologo, infine ritorno a casa: la ragazza a studiare, lui a lavorare.
Ma Lucia é irremovibile. “Non posso, mi dispiace, lo sai che domani ho un esame.”
Neanche Manfredi, quella domenica, accetta di accompagnare papá al mare, nel villino estivo, in un orario cosí mattiniero. “La sera prima – ricorda il ragazzo – avevo fatto tardi, volevo prendermela comoda, cosí ggli dissi: vai avanti, papá, poi ti raggiungo.”
Né Lucia né Manfredi lo accompagnano. Borsellino é un po´ seccato, ma non cambia i suoi programmi. Agnese esce di casa per prima, quella mattina, si avvia a Villagrazia con un cugino, il marito la raggiungerá verso le dieci. Quando piú tardi anche Manfredi arriva a Villagrazia, sono giá le undici, ed il ragazzo trova davanti al villino gli agenti della scorta.
Lo informano: “Suo padre é uscito in barca, con l´amico Vincenzo Barone, é andato a fare un bagno al largo.” Dopo il bagno, con il motoscafo i due amici vanno a Marina Longa, si intrufolano in un condominio privato in cui si entra dal mare. Lí c´é un risotrante dove Agnese é andata a comprare del pesce, con un´amica. Il giudice spera di incontrarla per tornare in barca, insieme a lei. Ma non la vede. La moglie, infatti, é appena rincasata a piedi. Quando torna a casa, Borsellino si affretta verso il villino di Pippo e Mirella Tricoli, vecchi amici di famiglia, per pranzare con loro.[70] C´é un vassoio di panelle e crocchette, il pesce, i dolci. Il pranzo é disteso, sereno. Eppure Pippo Tricoli, testimonierá che quel giorno, senza farsi sentire dai familiari, Borsellino, preoccupatissimo, gli confida i suoi timori: “É arrivato il tritolo per me.” É l´ultimo segnale di allarme lanciato da un uomo ormai consapevole di essere rimasto solo. All´improvviso squilla il cellulare: é Antonio Manganelli, dirigente del servizio centrale operativo della polizia. Gli comunica i dettagli sulla partenza per la Germania, e Borsellino tira subito fuori l´agenda rossa, per annotare gli spostamenti previsti. Quando il pranzo si conclude Borsellino si sposta davanti alla tv per seguire la sua antica passione, il ciclismo. Quel giorno c´é un´altra tappa del tour de France. Poi saluta gli amici, per un piccolo riposo pomeridiano.
“Vado a dormire un po´”, dice, e torna al suo villino, da solo. Si distende sul letto, ma non chiude occhio. Agnese troverá sul comodino il posacenere pieno di cicche di sigarette. Ne ha fumate cinque in poco piú di un´ora.[71]
Quando Borsellino torna in giardino, Lacoste azzurra, jeans, mocassini leggeri Tod’s, regalo di Lucia, sono le 16.30. Ha con sé la borsa portadocumenti dove ha la sciato scivolare le sue carte, l´inseparabile pacchetto di Dunhill, il costume bianco, ancora un poco umido. E dove ha riposto la sua agenda rossa, fresca degli ultimi appunti della giornata.
Passa dal villino degli amici, affianco al suo, saluta tutti, abbraccia e bacia Pippo Tricoli, con uno slancio inusuale, che lascia stupito l´amico, poi Manfredi e Vincenzo Barone lo accompagnano allo slargo davanti al cancello, dove sostano le auto blindate.
“Ciao a tutti” si congeda. “Vado a prendere mia madre, devo portarla dal dottore.” Apre lo sportello posteriore della Croma blindata, e lí posa la sua borsa. Un ultimo saluto. L´auto parte sgommando verso l´autostrada che conduce a Palermo. Comincia il viaggio, l´ultimo viaggio di Paolo Borsellino.[72]
Manfredi Borsellino ha ricordato il commiato del padre con queste parole: “Il ricordo che piú mi é rimasto impresso di mio padre é quando il 19 luglio ci ha salutati al villino al mare e si é allontanato per andare in via D´Amelio. Mi ricordo che ci ha salutati come se veramente fosse un po´ l´ultimo saluto. Mi ricordo che comunque, nonostante tutto, abbia sorriso fino all´ultimo.”[73] Il corteo composto da tre auto si dirige rapidamente verso Palermo ed arriva in Via D’Amelio dove abita la madre del magistrato. Borsellino scende insieme a 5 agenti di scorta, suona il campanello.
Ore 16.58 e 20 secondi: una carica esplosiva di circa 100 Kg di tritolo brilla all’interno di una FIAT 126 parcheggiata in prossimità dell’ingresso della casa dove abita la famiglia del magistrato. Vengono uccisi Paolo Borsellino e gli agenti Emanuela Loi, Walter Li Muli, Claudio Traina, Agostino Catalano ed Eddy Walter Cosina. Resta ferito l’ultimo agente della scorta, Antonio Vullo, che si salva poiché era l’unico rimasto all’interno di una delle auto blindate.
Ore 17.16 (Ansa): un attentato dinamitardo é avvenuto a Palermo, in via Autonomia Siciliana nei pressi della Fiera del Mediterraneo. Sono rimaste coinvolte numerose automobili. Sono molti i feriti. Sul luogo dell´esplosione, avvertita fino ad alcuni chilometri di distanza, sono confluite velocemente tutte le pattuglie volanti di polizia e carabinieri. Vengono richieste ambulanze da tutti gli ospedali. Secondo le prime indicazioni della polizia, sembra che sia rimasto coinvolto nell´attentato un magistrato. Sul luogo dell´attentato le autoambulanze hanno raccolto decine di feriti per trasportarli negli ospedali della Villa Sofia, del Cervello e del Civico. Tra i feriti vi é anche un agente della polizia di stato che si pensa sia un agente di scorta. Uno dei primi soccorritori ha segnalato di aver trovato per terra una mano. Gli elicotteri di polizia e carabinieri stanno sorvolando l´intera zona. Sul luogo dell´esplosione giacciono a terra i corpi di quattro persone morte.[74] Nell´immediatezza dell´esplosione corre la voce che un possibile bersaglio dell´attentato sarebbe l´ex-giudice Giuseppe Ayala, che abita a pochi metri da Via Autonomia siciliana. [75]
Ore 17.30: il TG4 condotto da Emilio Fede é il primo Tg nazionale a dare la notizia dell´attentato. Seguono il Tg3 alle ore 17.35, il Tg2 alle ore 17.36, il Tg1 alle ore 17.38.[76]
La moglie e due figli (Manfredi e Lucia) di Paolo Borsellino apprendono la notizia di un attentato a Palermo mentre sono alla casa al mare di Villagrazia di Carini in compagnia dell´amico Giuseppe Tricoli, il quale ricorda di aver udito la notizia mezz´ora dopo l´attentato dalla tv: “Quando ho sentito che c´era stata un´esplosione a Palermo – dice Tricoli – mi si é gelato il sangue. Fino all´ultimo ho sperato. Agnese ed i due figli erano in giardino con mia moglie, io non sapevo che fare. Poi é entrata un´amica: “C´é stato un attentato”. Agnese é trasalita, s´é alzata di scatto. Ha chiesto a mia moglie di accompagnarla dalla suocera. Aveva capito tutto.” [77]
Ore 17.33: l´agenzia Reuters, citando l´ANSA, informa dell´attentato ricordando l´uccisione del giudice Falcone.[78]
Ore 17.47 (Ansa): nell’attentato di Palermo è rimasto ferito, secondo le prime notizie fornite dalla polizia, il giudice Paolo Borsellino. Nella violenta esplosione di un’automobile imbottita di tritolo, sono rimaste coinvolte l’autovettura del magistrato e le due blindate della scorta.[79]
Ore 17.48: L´agenzia Afp rilancia la notizia dell´attentato affermando che “un magistrato sarebbe rimasto ferito”. L´agenzia Reuters indica in Paolo Borsellino l´obiettivo dell´esplosione.[80]
Ore 17.53: il Tg5 condotto da Enrico Mentana é il primo telegiornale nazionale a dare come certa la morte di Paolo Borsellino a causa dell´attentato.[81]
Ore 17.57: l´agenzia Afp conferma, citando “fonti di polizia, il ferimento di Borsellino.” [82]
Ore 17.58 (Ansa): l´attentato al giudice Paolo Borsellino ed alla sua scorta é avvenuto in via Mariano D´Amelio. L´esplosione é stata violenta ed oltre all´auto del giudice Borsellino, sono rimaste coinvolte le due auto della scorta ed un´altra decina autovetture posteggiate lungo la strada. Il manto stradale é stato sconvolto per una lunghezza di duecento metri. L´edificio vicino la quale é avvenuta la deflagrazione dell´autobomba é rimasto danneggiato: muri lesionati, alcune parti crollate, infissi di balconi e finestre divelti fino al quinto piano. L´autobomba, una Fiat 600 imbottita presumibilmente di tritolo, era stata parcheggiata davanti al civico 21 di via D´Amelio, dove abitano la madre e la sorella del giudice Borsellino. Nella deflagrazione l´autobomba si é disintegrata ed alcuni rottami, dopo un volo di oltre cinquanta metri, sono andati a finire in un giardino dietro ad un muretto.[83]
Ore 18.00: l´agenzia Reuter rilancia la notizia del ferimento di Paolo Borsellino.[84]
Ore 18.14 (Ansa): Il giudice Paolo Borsellino é rimasto ucciso nell´attentato. Il suo corpo, completamente carbonizzato con il braccio destro troncato di netto, si trova nel cortile del palazzo dove abitano la madre e la sorella. Non é stato ancora riconosciuto ufficialmente, ma alcuni suoi colleghi, fra i primi ad accorrere sul luogo dell´attentato, hanno asserito che é “certamente” lui. Fra le vittime c´é anche una donna, un´agente di polizia che faceva parte della scorta del magistrato. Il suo corpo é stato trovato nel giardino di un appartamento al pianterreno dell´edificio. L´esplosione dell´autobomba ha provocato danni visibili all´edificio fino all´undicesimo piano. Due coniugi, Mauro e Donata Bartolotta, che abitano al pianterreno dell´edificio davanti al quale é avvenuta la strage, hanno reso questa testimonianza: “C´e´ stato un boato terrificante che ci ha sbattuti a terra; sembrava un fortissimo terremoto; non ci siamo resi conto di quello che era accaduto se non subito dopo quando siamo fuggiti da casa. Ci siamo salvati perché in quel momento eravamo in cucina, nella parte retrostante all´appartamento. Abbiamo visto persone che in preda al panico si lanciavano dalle finestre del primo e del secondo piano. Sulla strada c´erano molte automobili in fiamme, c´era un fumo denso, molta confusione, grida, feriti e morti.” Oltre al giudice Borsellino, nella strage sarebbero rimaste uccise altre cinque persone. La notizia é stata data sul luogo dell´attentato da un capitano dei vigili urbani in servizio nella zona per regolare il traffico. Secondo le prime indiscrezioni, i feriti sarebbero quattordici civili, alcuni dei quli in gravi condizioni, e un agente.[85]
Ore 18.16: il Tg1 annuncia la notizia della morte di Paolo Borsellino.[86]
Ore 18.19 (Ansa): fra le vittime c’è anche una donna, un’agente di polizia che faceva parte della scorta del magistrato. Il suo corpo è stato trovato nel giardino di un appartamento al piano terreno dell’edificio.[87]
Ore 18.20: l´agenzia Afp dá la notizia dell´uccisione di Paolo Borsellino citando l´agenzia ANSA come fonte.[88]
Ore 18.22: l´agenzia Reuters dá la notizia dell´uccisione di Paolo Borsellino citando l´agenzia Ansa come fonte.[89]Ore 19.00: il canale televisivo Cnn colloca la notizia dell´attentato senza immagini nei titoli di apertura.
Il radiogiornale Deutschlandfunk ed il secondo canale televisivo Zdf tedeschi danno la notizia dell´attentato.[90]
Ore 19.08 (Ansa): Il ministro degli interni Nicola Mancino, ed il ministro di grazia e giustizia, Caludio Martelli, sono attesi in serata a Palermo. Il figlio del giudice Borsellino, Manfredi, vent´anni, e´stato notato aggirarsi sul luogo della strage, tenendosi a distanza, nel timore di dover apprendere la terribile notizia. Lo ha visto Carmelo Conti, ex presidente della corte di appello, che lo ha stretto al petto senza peró profferire parola. Nessuno ancora gli ha detto la veritá. In via Mariano D´Amelio é anche giunto il suocero di Borsellino, Angelo Piraino Leto, magistrato in pensione che a Palermo é stato presidente della corte d´appello. Lo accompagna, sorreggendolo affettuosamente, il giudice Salvatore Scaduto. L´anziano magistrato cammina lentamente fra le carcasse carbonizzate delle automobili coinvolte nell´esplosione sussurrando: “Voglio andare da Paolo, voglio vedere Paolo, portatemi da Paolo.” La moglie di Borsellino é nella sua casa di via Cilea, in preda a malore. Continua a chiedere a coloro che le stanno vicino notizie di Paolo, ma nessuno finora ha avuto la forza di dirle la veritá.[91]
- Ore 19.21 (Ansa): nella strage, oltre al giudice Paolo Borsellino, sono rimasti uccisi cinque agenti della scorta. Sono: Emanuela Loi, Agostino Catalano, Walter Cosina, Claudio Traina e Vincenzo Li Muli. I feriti sono quindici, uno dei quali é l´agente di polizia Antonio Vullo.[92]
- Ore 19.30: il telegiornale inglese del primo canale della Bbc dá la notizia dell´attentato come seconda fra i titoli della giornata, subito dopo quella della tregua in Bosnia. Viene proiettato un filmato da Palermo e lo speaker attribuisce l´attentato alla mafia.[93]
- Ore 19.58: Con due telefonate alle redazioni Ansa di Torino e Roma, una persona che ha detto di parlare a nome della Falange armata, ha rivendicato la strage di Palermo. L´uomo ha parlato senza la minima inflessione ed ha lasciato un codice di riconoscimento numerico. Ha dichiarato che la Falange armata “rivendica la responsabilitá politica e la paternitá morale di quanto accaduto in via Autonomia siciliana a Palermo, dove é stato ucciso il giudice Paolo Borsellino.”[94]
- Ore 20.05 (Ansa): i feriti ricoverati all´ospedale di Villa Sofia sono finora diciotto. Gran parte di loro sono inquilini dello stabile dal quale Borsellino stava entrando, compreso un agente della scorta del magistrato.
- Questo l´elenco: Maria Teresa Lo Balbo, 43 anni; Antonia Greco, 79; Francesca Nacci, 85; Giuseppe camarda, 34; Elvira Fenech, 27; Gianluca Puleo, 15; Claudio Bellanca, 44; Antonina Mercanti, 51; Filippo Mercanti, 79; Rosalia Mercanti, 83; Gioacchina Garbo, 59; Maria Moscuzza, 62; salvatore Augello, 38; Ivan Trevis, 18; Maria Rosa Cataldo, 65; e l´agente di polizia Antonio Vullo, 32 anni. In molti casi i referti individuali ipotizzano prognosi varianti fra i cinque giorni e gli otto giorni, mentre in altri non c´é alcun parere clinico sul decorso.[95]
- Ore 22.53 (Ansa – riepilogo): La potenza strategica e militare della mafia ha dato oggi a Palermo l’ennesimo saggio di sangue massacrando, con tecnica ormai collaudata, l’esplosione di un’autobomba, il Procuratore aggiunto Paolo Borsellino e cinque agenti della sua scorta, fra cui una donna. L’attentato è stato compiuto alle 17.00 in punto in via Mariano D’Amelio, vicino alla Fiera del Mediterraneo, alle falde del Monte Pellegrino, davanti al civico 19. Quando l’artificiere di Cosa Nostra ha attivato il radiocomando che ha fatto scoppiare l’automobile imbottita di esplosivo, parcheggiata proprio davanti al portone d’ingresso, il magistrato stava andando a visitare l’anziana madre e la sorella. La deflagrazione, di una violenza inaudita, è stata avvertita in gran parte della città. Quando, sull’eco del boato, hanno cominciato a convergere mezzi delle forze dell’ordine, dei vigili del fuoco e autoambulanze, quanti sono arrivati per primi sl posto non hanno creduto ai propri occhi. L’edificio in cui era diretto il magistrato è sventrato alla base e i segni di lesioni consistenti e infissi divelti fino al quinto piano. Una ventina di automobili che bruciavano, cadaveri e resti umani sull’asfalto.
Paolo Borsellino, ritenuto il successore “naturale” di Giovanni Falcone sulla trincea antimafia (il suo nome era stato recentemente proposto al vertice della Superprocura), aveva trascorso le ore precedenti all’attentato con la moglie e i figli, ospiti a Villagrazia di Carini del leader siciliano del Msi avvocato Giuseppe Tricoli, amico del magistrato dagli anni universitari. Alle 16.40 Borsellino aveva avvisato gli agenti della scorta di prepararsi per rientrare a Palermo. Ufficialmente nessuno era a conoscenza degli spostamenti di Borsellino, che solo all’ultimo minuto, come oggi, comunicava ai poliziotti addetti alla vigilanza itinerario e destinazione. La mafia comunque sapeva che Paolo Borsellino, e lo aveva dimostrato in molte occasioni circolando solo per le vie di Palermo, non rinunciava ad un minimo di vita “normale”. La mafia sicuramente sapeva che tra le tappe “obbligate” c’era la vista all’anziana madre. [96] Secondo la testimonianza del collaboratore Giovanni Drago pochi secondi dopo l´esplosione di via D´Amelio il boss Mariano Agate, capomandamento e massone della zona di Trapani, detenuto nel carcere dell´Ucciardone di Palermo, avrebbe commentato il boato avvertito a distanza con queste parole: “Sató macari Paluzzu (saltó pure Paolino)”. [97]
Sera: vengono apposti i sigilli alla stanza del procuratore aggiunto Paolo Borsellino, al secondo piano del palazzo di giustizia di Palermo. Viene sigillata anche la cassaforte dove, secondo i familiari, il magistrato teneva tutte le sue carte di lavoro, soprattutto quelle riservate, coerentmente con la sua volontá di proteggere il piú possibile la moglie ed i figli. Nei giorni successivi, su disposizione della magistratura, la cassaforte verrá aperta per valutarne il contenuto. “Non si trovó nulla di importante” ricorda Agnese Piraino Leto. “L´eliminazione di Paolo é stata congegnata proprio come un delitto perfetto.” [98] In tarda serata si svolge un tesissimo vertice delle forze dell’ordine alla Prefettura di Palermo: sono presenti il Ministro della Difesa Andò, il Ministro della Giustizia Martelli, il Ministro degli Interni Mancino, il Prefetto Jovine, il Questore Plantone, il Procuratore Giammanco ed i vertici della polizia e dei carabinieri. Il ministro della giustizia Claudio Martelli indica espressamente l´alto commissario antimafia, il comandante dei carabinieri, il questore ed il prefetto di Palermo come responsabili dei mancati controlli su un obiettivo prevedibile come l’abitazione della sorella del giudice Paolo Borsellino.[99] Due cortei spontanei che hanno preso le mosse dal centro della città confluiscono a Villa Whitaker: un corteo è formato dagli agenti delle scorte, un altro da cittadini. Giunti di fronte al cancello presidiato da militari della guardia di finanza la situazione si fa tesa, poi alcuni agenti delle scorte riescono a passare lo sbarramento. Vogliono chiedere le dimissioni di tutti i vertici delle forze dell’ordine, compreso il Capo della Polizia Vincenzo Parisi. Al termine della riunione i ministri raggiungono l’uscita molto a fatica, tra le grida e la rabbia di chi si è raccolto di fronte alla Prefettura: “Prefetto assassino, incapace”, “Fuori Giammanco dalla procura”, “Basta con le scorte votate alla morte”. [100]
Sia Giammanco che Parisi vengono fortemente contestati. La riunione dei vertici dell´ordine pubblico in realtá prosegue presso la sede dell´Alto Commissariato per la lotta alla mafia. Sul perché dell´improvviso trasferimento viene fatta circolare la voce che nella sede della prefettura potesse essere presente una “talpa”. I giornalisti che chiedono chiarimenti sul trasferimento alla sede dell´alto Commissariato al capo di gabinetto del prefetto Jovine ricevono questa spiegazione: “C’era stato un problema di energia elettrica. Era mancata la luce nella stanza. Solo questo e’ successo”. [101]
Il Governo approva in tarda serata alcuni provvedimenti urgenti e nella notte 80 pericolosi boss mafiosi vengono trasferiti dal carcere palermitano dell’Ucciardone a quello toscano di Pianosa e l’esercito viene inviato a controllare l’operazione. Contemporaneamente un centinaio di militari di leva del battaglione Genio pionieri “Simeto” e del Terzo gruppo squadroni lancieri “Aosta” viene posti a presidiare le mura esterne dell’Ucciardone perché si teme una reazione di Cosa Nostra all´improvviso trasferimento dei boss. Tuta mimetica, elmetto, maschera antigas, e un vecchio fucile “Fall” a tracolla, l’ immagine che offrono questi giovani militari e’ un tutt’uno con una struttura carceraria fatiscente”. Ci hanno detto che dobbiamo provvedere alla vigilanza esterna – borbottano spaesati – durante la notte siamo stati svegliati. Ci sembrava uno dei soliti allarmi ed invece eccoci qui”. [102]
Numerosi boss di Cosa Nostra vengono dunque trasferiti al carcere di Pianosa dove erano giá stati avviati alcuni lavori di ristrutturazione dopo la strage di Capaci in vista di un possibile utilizzo della struttura carceraria, utilizzo che si era bloccato per una fuga di notizie e per le successive proteste di alcuni amministratori locali preoccupati per l´arrivo nel carcere di detenuti per reati di stampo mafioso. L´arrivo dei boss é testimoniato da alcuni agenti di polizia penitenziaria: “Quando sono arrivati sembravano dei cani bastonati – racconta Francesco, un agente – erano in vestaglia, la testa china, il volto scuro. Qualcuno bestemmiava”. Subito, la prima protesta. Nelle celle ci sono vecchi televisori in bianco e nero. “Noi li vogliamo a colori”, hanno tuonato i boss. Richiesta negata. Michele Greco ha mormorato: “Ma dove siamo, non abita nessuno qui”, poi e’ stato chiuso nell’unica cella singola del carcere. Ha chiesto di poter fare un telegramma. Gli hanno risposto che le cose erano cambiate: “Mi sembrava molto turbato – racconta un altro agente – un boss in ginocchio”. [103]
Ore 16.58
90 chilogrammi di esplosivo al plastico Semtex-H all’interno di un’auto rubata, una Fiat 126 rossa targata PA 878659.“Paolo Borsellino sapeva di essere ormai nel mirino”, disse Antonino Caponnetto in un’intervista con Gianni Minà nel 1996, “soprattutto lo seppe negli ultimi giorni prima della sua morte.”
FONTI: L’Agenda nera – 19luglio1992 – RAI – Ti racconterò tutte le storie che potrò – L’Agenda rossa – Agenda grigia – ANSA
PAOLO BORSELLINO 23 maggio/19 luglio 1992
https://progettosanfrancesco.it/2022/12/25/via-damelio-cronologia-dal-19-luglio-1992-ad-oggi-copia-2-2/