L’altra faccia dell’antimafia…

 

ANTIMAFIA
L’uscita de “L’INGANNO” di Alessandro Barbano ha riaperto il dibattito sul tema.
Un presidente emerito della Corte Costituzionale e un procuratore nazionale si dividono su un libro che mette sotto accusa l’Antimafia, descrivendola come un apparato burocratico, giudiziario, politico e affaristico cresciuto a dismisura e fuori da ogni controllo di legalità e di merito.
Il primo, Giuliano Amato, sposa le ragioni del libro, il secondo, Giovanni Melillo, le contesta altrettanto apertamente.

 

L’inganno, l’ANTIMAFIA non serve affatto a combattere la criminalità organizzata e rovescia lo Stato di diritto

 

Un apparato burocratico, giudiziario, politico e affaristico cresciuto a dismisura e fuori da ogni controllo di legalità e di merito. Ecco come Alessandro Barbano definisce la delega che una politica miope ha fatto alla magistratura

 

Il percorso compiuto fin qui conduce a una conclusione impegnativa: l’Antimafia, intesa nella sua complessa realtà istituzionale e simbolica, nella sua operatività e nel suo racconto, è un inganno. Uso questa parola in senso politico e non morale. Cioè al netto della buona fede e dell’impegno di quanti si dedicano a combattere il crimine, l’Antimafia ha tradito il compito che le è stato assegnato dalla democrazia. L’inganno politico sta nell’idea che l’intera macchina dell’eccezione, raccontata in queste pagine, serva a combattere la mafia. Che l’arbitrio delle confische e la ferocia delle condanne servano a ripagare le vittime. Ma l’inganno si mostra anche al contrario: non è vero che chi critica la legislazione d’emergenza e invoca pene compatibili con i principi costituzionali fa il gioco della mafia e offende le vittime.
Si tratta di un teorema che non ha fondamento. Perché le vittime, e cioè i caduti e le loro famiglie, non sono risarcibili con la vendetta. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino non sono morti per consegnare alle generazioni future l’idea che la mafia sia irredimibile, quindi invincibile. Che l’emergenza sia la cifra permanente delle relazioni tra lo Stato e i cittadini.
Che la lingua del sospetto sia il racconto del paese. Il loro sacrificio vale molto di più. Chi ha pagato il prezzo più alto nella lotta alla criminalità organizzata – cioè i congiunti di quei magistrati, poliziotti, politici, imprenditori, sindacalisti e giornalisti assassinati –, non può trovare consolazione al proprio dolore in una guerra eternata. Che può solo amplificare lo strazio di un martirio vano.
Se questo è vero sul piano morale, lo è ancora di più su quello razionale. Una pena che non redime trascina con sé il rancore tra le generazioni. Senza il ravvedimento dei padri, per lungo, doloroso e rischioso che sia, il destino dei figli è segnato. Uno Stato incapace di superare l’emergenza divide la società in fazioni. Una giustizia che pensa e parla con la lingua del sospetto alza una coltre di fumo sulla vita pubblica, nella quale «mafia» è, allo stesso tempo, tutto e niente.
I falsi protettori di Abele tirano per la giacca gli eroi dell’Antimafia per nascondere la loro cecità ideologica e proteggere le posizioni di potere costruite fin qui. Ma Abele è morto e nessuno di loro può resuscitarlo. Nessuno può restituire alla comunità la dedizione, il rigore, l’ispirazione spirituale di un magistrato come Rosario Livatino, ucciso il 21 settembre 1990 sulla provinciale Caltanissetta-Agrigento, mentre si recava, senza scorta, in tribunale.
Commemorando la sua morte trent’anni dopo, il cugino di questo eroe involontario, don Giuseppe Livatino, rivolge parole impegnative a uno degli assassini, con il quale intrattiene da anni una corrispondenza privata: «Un abbraccio particolare a Gaetano Puzzangaro. Insieme possiamo costruire un volto nuovo di questa terra bellissima e disgraziata, come la definì Paolo Borsellino». Puzzangaro aveva ventun anni quando, insieme ad altri complici, speronò l’auto del giudice, per poi colpirlo a morte. Ha trascorso tre decenni in carcere, gran parte dei quali al 41bis. Ha studiato, si è ravveduto e, grazie al coraggio di una magistrata di sorveglianza, ha ottenuto la semilibertà.
La sua redenzione è stata al centro della causa. Ci vuole coraggio. Il coraggio di scartare per sempre le scorciatoie, che sporcano le democrazie con l’illusione che ci sia un fine in grado di giustificare tutti i mezzi. Ci vuole il coraggio di magistrati illuminati, e politicamente influenti, che pure riconoscono la traiettoria deviante imboccata dalla giustizia dei cattivi nel nostro paese. Ma che hanno commesso l’errore di pensare che l’eccezione sia ancora sostenibile, se maneggiata da coscienze responsabili e sagge. Non è così: non basta ridurre gli errori e limitare gli abusi, da sempre due variabili nell’esercizio della giurisdizione.
Perché una cosa è abusare con strumenti ordinari, un’altra è farlo con una bomba atomica. Bisogna avere il coraggio di disarmare le testate nucleari installate nel sistema democratico da una logica di potenza che è cresciuta negli anni senza alcun contrappeso istituzionale. L’Antimafia in Italia è una macchina fuori controllo, dotata di mezzi letali; lo sconfinamento dell’azione penale sugli altri poteri, che essa persegue, coincide con un deragliamento della democrazia.
Per questo l’eccezione va dismessa, smontata e rottamata per sempre. Non c’è salvezza per la giustizia italiana senza un riscatto profondo dello Stato di diritto. Vuol dire tornare a un diritto penale ordinario fondato su fatti, prove e convincimenti oltre ogni ragionevole dubbio. Vuol dire riportare le confische, i sequestri e tutte le misure di prevenzione all’interno del processo, ancorandole all’accertamento di un reato e limitandole alla lotta alla mafia. Vuol dire definire per legge il confine tra l’illecito e il lecito, tipizzare in maniera tassativa fattispecie come il concorso esterno. Vuol dire abiurare il paradigma del sospetto e del disdoro, separando il diritto dalla morale nella giurisprudenza e nella cultura giuridica e civile del paese. Vuol dire dare un tempo preciso e breve alle misure emergenziali, come il 41bis, nella prospettiva di tornare all’ordinario prima possibile. Vuol dire restituire una funzione di redenzione alla pena, rendendola certa nella misura e flessibile nell’esercizio, cancellando per sempre la vergogna dell’ergastolo ostativo. Vuol dire considerare come sanzioni, di beatificazione di Rosario Livatino: più volte l’ergastolano è stato chiamato a testimoniare il suo percorso interiore davanti al postulatore del Vaticano.
Ci vuole coraggio. Il coraggio di scartare per sempre le scorciatoie, che sporcano le democrazie con l’illusione che ci sia un fine in grado di giustificare tutti i mezzi. Ci vuole il coraggio di magistrati illuminati, e politicamente influenti, che pure riconoscono la traiettoria deviante imboccata dalla giustizia dei cattivi nel nostro paese. Ma che hanno commesso l’errore di pensare che l’eccezione sia ancora sostenibile, se maneggiata da coscienze responsabili e sagge. Non è così: non basta ridurre gli errori e limitare gli abusi, da sempre due variabili nell’esercizio della giurisdizione. Perché una cosa è abusare con strumenti ordinari, un’altra è farlo con una bomba atomica. Bisogna avere il coraggio di disarmare le testate nucleari installate nel sistema democratico da una logica di potenza che è cresciuta negli anni senza alcun contrappeso istituzionale. L’Antimafia in Italia è una macchina fuori controllo, dotata di mezzi letali; lo sconfinamento dell’azione penale sugli altri poteri, che essa persegue, coincide con un deragliamento della democrazia.
Per questo l’eccezione va dismessa, smontata e rottamata per sempre. Non c’è salvezza per la giustizia italiana senza un riscatto profondo dello Stato di diritto. Vuol dire tornare a un diritto penale ordinario fondato su fatti, prove e convincimenti oltre ogni ragionevole dubbio. Vuol dire riportare le confische, i sequestri e tutte le misure di prevenzione all’interno del processo, ancorandole all’accertamento di un reato e limitandole alla lotta alla mafia. Vuol dire definire per legge il confine tra l’illecito e il lecito, tipizzare in maniera tassativa fattispecie come il concorso esterno. Vuol dire abiurare il paradigma del sospetto e del disdoro, separando il diritto dalla morale nella giurisprudenza e nella cultura giuridica e civile del paese.
Vuol dire dare un tempo preciso e breve alle misure emergenziali, come il 41bis, nella prospettiva di tornare all’ordinario prima possibile. Vuol dire restituire una funzione di redenzione alla pena, rendendola certa nella misura e flessibile nell’esercizio, cancellando per sempre la vergogna dell’ergastolo ostativo. Vuol dire considerare come sanzioni, e assisterle con le garanzie del processo penale, tutte le misure amministrative che comportino un’afflittività e una limitazione della libertà per i destinatari, come le interdittive antimafia. Vuol dire promuovere nel paese un dibattito sulla crisi e sulla difesa dello Stato di diritto, che impegni al massimo livello le Commissioni giustizia delle due Camere.
Vuol dire, da ultimo, diradare il polverone di sospetti, accostamenti superficiali, pregiudizi cognitivi e morali, rappresentazioni ideologiche con cui l’Antimafia racconta la società, sgombrare il campo dai fantasmi di una mafia che non risparmierebbe nessun territorio e nessun ambito civile del paese, e tornare a studiarla per quello che è oggi.Non abbiamo della mafia nessuna rappresentazione attuale e attendibile. La macchina dell’investigazione giudiziaria è un’arma spuntata e autoreferenziale, sconnessa dai processi di territorio. Insegue una verità sempre più storica, tra le delazioni di pentiti pronti a tutto pur di garantirsi privilegi e immunità.
Assume l’enorme mole di intercettazioni di cui dispone come unica fonte di prova, in assenza di riscontri efficaci. Cede alle congetture di una polizia giudiziaria che non risponde, come del resto il pm, della raccolta e della proposizione di illazioni inconsistenti. Senza un’iniezione di responsabilità non si ferma la deriva, fuori controllo, del sistema investigativo. Né si ottiene, da una simile articolazione organizzativa e operativa, alcun fotogramma realistico della realtà criminale. Quello che passa nell’opinione pubblica è un racconto irrealistico, distorto dalla necessità di costruire consenso attorno a un’Antimafia che ha assunto, nell’assetto istituzionale, un ruolo politico.
E che utilizza l’allarmismo come cassa di risonanza della propria propaganda. Questo non vuol dire che la minaccia della mafia nel paese sia scongiurata o fittizia. Né che, dopo i colpi subiti negli anni seguenti le stragi e dopo la sconfitta dei corleonesi, non possa rialzare la testa in forma diverse. I soli ventotto omicidi del 2020, contro gli ottocento o mille di trent’anni fa, non bastano per dire che la mafia è morta. Ma neanche per sostenere il contrario, e cioè che la mafia non uccide più perché non ne ha bisogno, essendosi infiltrata in ogni dove.
La mafia non è solo figlia di una condizione primigenia del potere, ma è sopravvissuta, in centocinquant’anni, ai cambiamenti sociali e alle strutture della modernità, trapiantandosi in due mondi e cogliendo ogni occasione di profitto e di potere. Nessuno ci garantisce che lo sviluppo tecnologico, i cambiamenti culturali, il controllo dello Stato e l’evoluzione della democrazia siano in grado di assorbire per sempre il fenomeno. E tuttavia sappiamo che il suo radicamento pesa su due fattori: la concentrazione del potere in forme occulte e l’arretratezza sociale del suo bacino di affiliazione. La trasparenza amministrativa e un clima civile di fiducia nelle relazioni pubbliche sono rimedi antimafiosi, assai più delle retate e dei maxi processi destinati a finire parzialmente in fumo.
Allo stesso modo lo sono le occasioni di lavoro e di socialità e la lotta alla dispersione scolastica che, in alcune aree del Sud, riguarda uno studente su quattro. Sono i ghetti culturali e civili i bacini di incubazione della mafia. Nessuna guerra li ha mai cancellati, nessuna legge speciale li ha mai arginati. Semmai li hanno resi più impenetrabili. La stagione dell’eccezione perciò deve chiudersi. Alle condizioni date, e qui raccontate, la delega della politica all’Antimafia offende il diritto e la civiltà, è inutile, di più, è un danno per la democrazia. Prima cessa e meglio è. È ora di svelare l’inganno.

LINKIESTA 5.12.2022


Una storia giudiziaria del nostro paese, in un’indagine senza sconti che solleva il velo sulle contraddizioni della lotta alla mafia, tra sprechi, pregiudizi dannosi ed errori clamorosi. Un viaggio drammatico al cuore di un sistema invasivo e dispotico, che si è insinuato nella democrazia in nome di una retorica dell’emergenza, cancellando le differenze tra eccezione e ordinario, tra rispetto delle istituzioni e abuso di potere.

«Il Codice antimafia è il grimaldello per scardinare la porta già traballante dello Stato di diritto e mettere l’intera società sotto tutela giudiziaria» 
Una potente macchina di dolore umano non giustificato e non giustificabile, che adopera un diritto dei cattivi introdotto «dopo l’Unità d’Italia per combattere i briganti, usato a piene mani dal fascismo per perseguitare i dissidenti, ignorato dai repubblicani» e riportato in auge dai moderni paladini della giustizia. È questa oggi l’Antimafia, un sistema dove l’eccezione diventa regola e l’emergenza permanente è l’altare sul quale sacrificare la libertà in nome della lotta al crimine. Così confische e sequestri colpiscono migliaia di cittadini e imprenditori mai processati, o piuttosto assolti. Così sentenze anticipano leggi, pene crescono al diminuire dei reati e una falsa retorica professa l’idea che il rovesciamento dello Stato di diritto sia necessario alla vittoria sulla malavita. È un’illusione o, peggio ancora, un inganno, sostiene Alessandro Barbano, che in questo libro svela «gli abusi, gli sprechi, i lutti e l’inquinamento civile perpetrati da un apparato burocratico, giudiziario, politico e affaristico cresciuto a dismisura e fuori da ogni controllo di legalità e di merito». Come un virus che infetta ogni cellula, la menzogna di una legislazione antimafia che tutti i paesi del mondo vorrebbero imitare e l’intimidazione nei confronti di chi si azzarda a criticarla dilagano incontrastate. Per indebolire questo potere senza freni, che ha tradito il compito assegnatogli dalla democrazia, bisogna revocare la delega che una politica miope ha fatto alla magistratura e che alcune procure hanno trasformato in una leva per mettere la società sotto tutela. Oggi più che mai è necessario tornare a un diritto penale basato su fatti e prove, estirpare il peccato originale del sospetto, definire univocamente il confine fra lecito e illecito. Solo così si può capire che cos’è la mafia. E combatterla davvero.

 


 


Barbano “La mafia va combattuta col diritto, senza scorciatoie”

“Sciascia aveva visto giusto perchè oggi l’Antimafia è una macchina dell’emergenza, che rischia di servire se stessa”. Così il giornalista Alessandro Barbano, intervistato da Claudio Brachino per la rubrica Primo Piano dell’agenzia Italpress, nella quale ha presentato il suo ultimo libro “L’inganno. Antimafia. Usi e soprusi dei professionisti del bene”.
“Io sono partito da una riflessione – ha detto Barbano -: questo è un Paese in cui nello stesso giorno un cittadino può essere assolto e i suoi beni confiscati. Sei innocente ma ti tolgo tutto. Tutto questo nel sistema penale italiano è giusto, è consequenziale. Questa coerenza giuridica se la si mette al confronto con la vita, con l’impatto che ha, diventa un assurdo. In questo libro sono partito da questo divorzio tra la giustizia e la vita. L’Antimafia – ha aggiunto – è un sistema culturale, la deriva dei professionisti che Sciascia aveva capito: se tu crei una macchina dell’emergenza, questa macchina finirà di rispondere a se stessa. Io dico disarmiamo le testate atomiche dell’emergenza, disarmiamo il pentitismo a go go. Perchè se noi eterniamo la guerra eterniamo anche la mafia”.
“La trattativa Stato-mafia? Nasce da una interpretazione storicistica del rapporto tra mafia e potere sin dagli anni della monarchia, dove si struttura l’idea che la mafia potesse convivere con lo Stato. Noi siamo – ha poi proseguito Barbano – l’unico Paese che ha processato e poi condannato alla discriminazione culturale l’unica persona che ci ha permesso di sconfiggere Totò Riina, come il generale Mori, che ha pagato processi lunghissimi, ha subito l’umiliazione, mentre avremmo dovuto fargli una statua”.
“L’antimafia ha tradito la delega che lo Stato gli ha riconosciuto – ha spiegato il giornalista -. L’ha tradita perchè non ha risposto correttamente a questa delega. E’ un inganno che noi abbiamo la legislazione antimafia più bella del mondo, e che quella legislazione serve a combattere davvero la mafia. Non è vero. E’ vero il contrario. E’ non è vero che chi critica l’antimafia fa il gioco della mafia. Io non voglio fare il gioco della mafia delegittimando l’Antimafia, io la mafia la voglio combattere con tutti i mezzi leciti. Però ho il diritto-dovere di spiegare che questo sistema, oggi, serve a se stesso. E questo è l’inganno”, conclude Barbano. 30.11.2022 (ITALPRESS)

Amato e Melillo duellano sull’Antimafia. Cosa si è detto intorno al libro di Barbano

Luigi Romano


“Confische incostituzionali”, Amato demolisce l’Antimafia che ha distrutto vite e aziende

IL RIFORMISTA 5.12.2022 Paolo Comi


L’altra faccia dell’Antimafia. Se l’emergenza diventa sistema

L’altra faccia dell’Antimafia. Alessandro Barbano, oggi condirettore del Corriere dello sport, riprende i temi della campagna garantista condotta ai tempi della direzione del Mattino, quando si discuteva (2017) “se equiparare i corrotti ai mafiosi”, estendendo il “Codice antimafia“ ai reati contro la pubblica amministrazione. Per Barbano “un’aberrazione”. “Il Codice antimafia – scrive nelle pagine iniziali – mi pare il grimaldello per scardinare la porta già traballante dello Stato di diritto e mettere l’intera società sotto tutela giudiziaria”. Barbano indica i pericoli delle norme d’emergenza pensate per combattere le mafie e prende di mira – fra gli altri aspetti – lo strumento della confisca dei beni, una misura di prevenzione che non va di pari passo con i procedimenti penali, per cui può capitare d’essere assolti ma d’essere comunque privati del proprio patrimonio.
Il pamphlet denuncia la deriva “illiberale e autoritaria” dell’Antimafia. “L’attacco alle garanzie liberali è in atto da tempo nel paese – scrive Barbano, allargando lo sguardo all’intero sistema politico-giudiziario – Viene da un’alleanza tra una parte della magistratura inquirente, rappresentata dalle procure antimafia, le forze politiche della sinistra e dei Cinquestelle in concorrenza fra loro, una parte della burocrazia prefettizia, settori dell’ordine pubblico guidati da un’ispirazione securitaria, liberi professionisti e associazioni di volontariato animati da interessi di lucro”. La logica Antimafia, conclude, è un inganno inutile e dannoso: “Prima cessa e meglio è”.

QUOTIDIANO NAZIONALE 5.12.2022

 


Teoremi accusatori, prevenzione, pene: l’antimafia da ripensare

“L’inganno” di Alessandro Barbano, un saggio lucido e coraggioso su “usi e soprusi dei professionisti del bene” che tenta di esportare l’analisi critica fuori dai recinti accademici per renderla viva nello spazio pubblicoChi osa criticare, anche con buone ragioni, l’antimafia più repressiva e integralista suscita subito il sospetto di essere un filomafioso, o un garantista peloso che nasconde intenzioni ignobili e interessi oscuri. Ne ho fatto esperienza nel sottoporre a critiche sin dall’origine, anche su questo giornale, il processo sulla cosiddetta trattativa stato-mafia (cfr. il Foglio, 1 giugno 2013), attirandomi l’accusa di essere un “negazionista” o “giustificazionista” di turpi patti politico-mafiosi. Più di recente, ha vissuto una esperienza analoga ad esempio il giornalista Alessandro Barbano (noto per il suo impegno “garantista”), incorrendo nel rimprovero di avere tradito lo spirito di Pio La Torre per avere espresso, sul palco della Leopolda 2022, opinioni negative su alcune parti della legislazione antimafia vigente. Lo racconta egli stesso in un saggio freschissimo di stampa, dall’eloquente titolo L’inganno – Antimafia. Usi e soprusi dei professionisti del bene (Marsilio, 2022). È di questo saggio lucido e coraggioso che intendo qui parlare, apprezzandone innanzitutto l’obiettivo di denunciare effetti dannosi o distorsivi delle attuali strategie di contrasto delle mafie che sfuggono, per lo più, all’ampia platea dei “non addetti ai lavori”. Tanto più che le critiche prospettate, lungi dall’essere puramente demolitrici, mirano a sollecitare un ripensamento complessivo dell’azione antimafia per migliorarne i modelli operativi e i risultati pratici (anche se non mancano qua e là nel libro rilievi influenzati, a mio giudizio, da un eccesso di garantismo ideologico, o formulati con una certa enfasi drammatizzatrice).
Non privo di infarinatura tecnico-giuridica, e accettando il rischio di qualche imprecisione (che può peraltro essergli perdonata), Barbano affronta con stile vivace e pugnace più punti nevralgici, ponendo nel contempo sotto osservazione meccanismi normativi e approcci giudiziari. Sicché l’analisi prende in considerazione sia i risalenti e persistenti deficit di tassatività e precisione delle norme scritte, che determinano come effetto una notevole dilatazione della discrezionalità interpretativo-applicativa dei giudici, sia prassi giudiziali censurabili in quanto a vario titolo contrastanti con esigenze di garanzia o col principio della divisione dei poteri. Si tratta, beninteso, di questioni problematiche tutt’altro che nuove: ma nuovo o rinnovato è lo sforzo di esportare l’analisi critica fuori dai recinti accademici, dove è consolidata ormai da non pochi decenni, per farne appunto oggetto di una discussione più ampia nello spazio pubblico.
Non è possibile accennare a tutti i profili problematici considerati e alle svariate esemplificazioni casistiche che conferiscono concretezza al saggio, rendendone più intrigante la lettura. Tra questi profili, un posto centrale spetta senz’altro alla questione di fondo relativa al ruolo dell’antimafia a un tempo politica, giudiziaria e giornalistica nel complessivo orizzonte democratico (si veda in particolare il capitolo 9). Si allude cioè alle tendenze ricorrenti a porre la democrazia sotto tutela giudiziaria, a utilizzare l’indagine e il processo penale come strumenti di condizionamento o rinnovamento politico e di moralizzazione collettiva (trasformando procure e tribunali in autorità deputate a emettere censure etico-politiche di fatti anche privi di rilevanza penale), a riscrivere la storia d’Italia o a interpretare le dinamiche politiche in prevalente chiave criminale (andando alla caccia ossessiva del “grande vecchio” di turno da additare a regista o capo di complotti politico-delittuosi), a scrivere articoli giornalistici e persino libri (ad opera anche di magistrati protagonisti delle indagini) che divulgano come verità giudiziariamente accertate ipotesi accusatorie frutto di teoremismi, immettendo così nella comunicazione pubblica virus destinati a distorcere l’interpretazione degli accadimenti, ecc. Che questi sin qui sintetizzati siano effetti più che discutibili di un certo modo diffuso di fare antimafia, è indubbio e Barbano ha fatto bene a stigmatizzarli con vigore e ampi riscontri esemplificativi.
Più complesso e articolato, anche sotto un profilo tecnico, è invece il discorso rispetto al radicale e pressoché totalizzante attacco che l’autore muove al sistema della prevenzione antimafia, rivisitato in più capitoli del saggio. Le misure di prevenzione – vale forse la pena ricordarlo – sono state in Italia introdotte, nel secondo Ottocento, come “stampelle” di una attività repressiva che non riusciva a contrastare la endemica criminalità meridionale con gli strumenti della normale giurisdizione penale (il loro meccanismo applicativo, in quanto incentrato su elementi indiziari di cosiddetta pericolosità sociale, prescinde dalla prova della commissione di reati veri e propri): non a caso, la dottrina giuridica di orientamento liberale le ha sempre guardate con prevalente avversione e diffidenza, bollando in particolare le tradizionali misure personali (come la sorveglianza speciale di pubblica sicurezza) come “pene del sospetto” o “pene senza delitto”.
Ma non bisogna trascurare che, nel corso del tempo, il ventaglio delle misure preventive è andato arricchendosi e ammodernandosi, per cui i vecchi arnesi del passato non ne rappresentano ormai la parte più significativa e potrebbero anche essere eliminati. Ben maggiore rilievo, in termini di attualità e almeno potenziale efficacia, assumono invece le misure patrimoniali del sequestro e della confisca dei patrimoni di origine illecita o delle aziende in mano mafiosa, introdotte nel 1982 e successivamente più volte riformate (in un primo tempo, rendendole applicabili anche senza le misure personali, e infine – in particolare durante l’ubriacatura populista del governo cosiddetto gialloverde – estendendole indebitamente a forme di criminalità diverse da quella mafiosa); nonché, a mio avviso, soprattutto le ancora più innovative misure non ablative, ma – per dir così – “terapeutiche” dell’amministrazione giudiziaria e del controllo giudiziario (quest’ultimo previsto più di recente anche in sede amministrativo-prefettizia), volte a bonificare quelle aziende che, pur infiltrate da organizzazioni criminali, appaiono comunque suscettibili di essere recuperate a un futuro funzionamento esente da influenze o pressioni mafiose. È proprio questa orientazione recuperatoria che rende questi ultimi strumenti, in atto in corso di sperimentazione applicativa, assai promettenti.    
Se è certo che le suddette misure con finalità di bonifica non hanno un carattere punitivo, non è però neppure sicuro che possa continuare oggi a essere considerata come una “pena mascherata” la stessa confisca dei patrimoni illeciti. Piuttosto, è plausibile ravvisarne la attuale finalità in una ottica che ha poco a che fare con una sostanziale punitività occultata, e che riflette piuttosto una esigenza di controllo pubblico sull’origine e formazione delle ricchezze patrimoniali: in questo senso, la confisca diventa una misura compensatorio-ripristinatoria volta a riportare la situazione patrimoniale allo stato antecedente alla commissione dell’illecito, in quanto la ragione che la giustifica finisce appunto col basarsi sul principio che  la condotta illecita non può costituire titolo legittimo di arricchimento (cfr. sent. costituzionale n. 24/2019). Ciò non equivale, beninteso, a disconoscere che una confisca pur così concepita necessiti di essere posta su basi normative da riformare, essendo ancora quelle vigenti sotto diversi aspetti difettose sul piano delle garanzie individuali. Come pure sono senz’altro da criticare certe prassi giudiziarie troppo spericolate, disinvolte o comunque eccessivamente discrezionali nel decidere la confiscabilità di ricchezze o aziende lambite da sospetti assai labili di origine o compromissione mafiosa (specie nei casi in cui il procedimento di prevenzione prosegua, come l’ordinamento vigente consente, nei confronti di persone assolte in un processo penale già concluso). E altresì Barbano ha ragione nell’annoverare, tra i guasti maggiori dell’attuale gestione del sistema preventivo, il frequentissimo destino infausto cui vanno incontro i beni o le aziende già confiscati, che nella maggior parte dei casi finiscono col deteriorarsi o col cessare ogni attività.
Considerato che le luci e le ombre della prevenzione antimafia in ogni caso oggi coesistono mescolandosi insieme in una sorta di zona grigia, che non sempre consente distinzioni nette tra aspetti positivi e negativi, sarebbe difficile contestare l’esigenza di un ripensamento dell’intero settore, in vista di una sua complessiva riforma: da un lato per renderlo più razionale e organico e  potenziarne l’efficacia e, dall’altro, per rafforzare sensibilmente il livello delle garanzie (come da tempo, del resto, auspicano la dottrina accademica e l’avvocatura). E sarebbe anche necessario, più in generale, aprire un confronto pubblico su come curare le diverse patologie che in atto affliggono l’antimafia intesa nel senso più comprensivo, come il libro di Barbano appunto opportunamente suggerisce. Ma siamo capaci, nel nostro paese, di impegnarci in dibattiti e confronti autentici su un tema così divisivo?

3.12.2022 IL FOGLIO


L’inganno del sistema dell’antimafia che è diventato eccezione democratica

Il paradosso della giustizia che si è trasformata in una macchina del dolore ingiustificabile. Il muro della menzogna di una legislazione speciale che tutti ci invidiano ma che, stranamente, nessuno imita
Raccontare la giustizia da dentro, con gli occhi di fuori. Vuol dire riconnettere la coerenza delle sue condanne, o piuttosto delle sue confische, alla realtà. E scoprire, per esempio, che Riccardo Greco, l’imprenditore di Gela che denunciò i mafiosi a cui pagava il pizzo da anni, e che per anni fu perseguitato dallo stato, non aveva altra scelta che quella di togliersi la vita, per sottrarre la sua stessa vita, e quella dei suoi famigliari, alla ferocia kafkiana di un processo capace di inseguirlo per ogni dove. E per ogni tempo. Con “L’inganno”, in uscita stamane in libreria, voglio spiegare il paradosso civile di una giustizia trasformatasi in una potente macchina del dolore non giustificato e non giustificabile.
Ho due obiettivi: confutare l’idea che la crisi della giustizia si esaurisca nel rapporto tra la magistratura e la politica, e quindi si risolva, come pure si dice in questi giorni, modificando il reato di abuso d’ufficio o piuttosto abolendo la legge Severino; e dimostrare invece che tutto origina dallo sconfinamento dell’intero sistema nell’eccezione. Dove ciò che, visto da fuori, sarebbe “arbitrio”, “abuso” e “assurdo”, qui è legittimato da una logica dell’emergenza che prevale su ogni altra ragione. È il diritto dei cattivi, introdotto “dopo l’Unità d’Italia per combattere i briganti, usato a piene mani dal fascismo per perseguitare i dissidenti, ignorato dai repubblicani” e riportato in auge dai moderni paladini della giustizia. È l’antimafia, un universo che fa della deroga la regola, e dell’emergenza permanente l’altare sul quale sacrificare la libertà in nome della lotta al crimine. Un universo fatto di leggi speciali. Di sentenze che anticipano leggi e poi diventano leggi. Di pene che aumentano a dispetto del diminuire dei reati. Di procure che hanno accresciuto il loro potere fino ad assumere un ruolo politico e ad assegnarsi il compito di bonificare la democrazia. Di confische e sequestri con cui lo stato espropria enormi patrimoni privati a cittadini spesso mai processati o, addirittura, assolti. Di imprenditori interdetti nella loro attività in nome di un sospetto, che si diffonde per contagio, come un virus. Di prefetti, amministratori giudiziari e associazioni di volontariato, la cui funzione o il cui profitto dipendono, a vario titolo, dalla crescita continua del sistema stesso. E, infine, di una retorica che accompagna l’avanzare dell’antimafia nella democrazia.
Mi chiedo se questa enorme sovrastruttura fosse indispensabile per sconfiggere la mafia, se e in che misura ha adempiuto al suo compito, perché è cresciuta oltre ogni previsione, qual è oggi la sua funzione e quali effetti collaterali produce per la società, chi la promuove e perché, che rapporto ha con la crisi della giustizia italiana e quali sono i vantaggi, o piuttosto gli abusi, i lutti e l’inquinamento civile perpetrati fuori da ogni autentico controllo di legalità e di merito. E da ultimo quali sono i rischi di una sua ulteriore espansione in Italia, dove sempre più spesso con i rimedi dell’antimafia si affronta e si reprime ciò che mafia non è.
Ma più di tutto mi interessa mettere a confronto la coerenza logica di dentro con quella di fuori, e dimostrare il divorzio insanabile che si è prodotto tra la giustizia e la vita. Nella prima si può allo stesso tempo assolvere un cittadino perché il fatto non sussiste, e confiscargli tutti i beni, l’azienda, i conti correnti, la casa, le auto e perfino i regali ricevuti dai figli per la prima comunione. Si può fare e dire che le due azioni, assolvere e confiscare, sono possibili, compatibili, coerenti e, in certi casi, consequenziali. Nella vita l’idea di un’azione così violenta e così afflittiva dello stato suona invece come la più atroce delle sopraffazioni. Se tra la logica della giustizia e quella della vita si è aperto un cratere così ampio, vuol dire che la prima non è più funzione della seconda, ma esiste per se stessa.
C’è un disegno di potere, visibile, che si traduce nell’idea di mettere la società sotto tutela, grazie a una delega che la magistratura ha ricevuto dallo stato e che ha la genesi nella lotta all’emergenza mafiosa. Se ne parla e se ne discute da anni, ma questo disegno non esaurisce e non spiega da solo il deragliamento della giustizia. C’è di più. C’è un progetto ideologico di matrice rivoluzionaria, che si assegna il compito di redistribuire la ricchezza, perseguendo quella che si ritiene prodotta ingiustamente. L’obiettivo di questa crociata sono i beni illeciti. I colpevoli sono tali in quanto possessori di patrimoni che si presumono acquisiti ingiustamente, quindi non solo gli autori di reati, ma anche i terzi coinvolti nella proiezione della pericolosità dei beni, e perfino le vittime della mafia, come gli imprenditori che pagano il pizzo. La qualificazione della colpevolezza sfuma nell’idea che chiunque si trovi, per qualunque ragione, ad aver beneficiato di un ingiustificato possesso di ricchezza debba risponderne penalmente. Nella giustizia del riscatto sociale non esistono più i colpevoli, in quanto autori del fatto, ma piuttosto i coinvolti. Per questo mafiosi e corruttori stanno sullo stesso piano, in quanto beneficiari di ricchezze ingiuste. La loro responsabilità non è verso lo stato o verso la comunità, e neanche verso le vittime dei reati commessi, ma prima di tutto verso la storia.
Questo paradigma ha una serie di conseguenze per la giustizia. La più grave è una torsione illiberale dell’azione penale, per cui nel suo radar il reo sostituisce il reato, il sospetto la prova, il risultato le garanzie, la morale il diritto. Di questa sostituzione si coglie un’eco nel rapporto tra il diritto penale ordinario e il diritto speciale dell’antimafia. Non a caso il primo pone il limite a premessa della potestà punitiva: “Nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come reato dalla legge”, recita l’articolo 1 del Codice penale. Il secondo invece non assegna vincoli alla volontà. “I provvedimenti del presente capo si applicano a coloro che debbano ritenersi, sulla base di elementi di fatto, abitualmente dediti a traffici delittuosi”, recita l’articolo 1 del Codice delle misure di prevenzione. Dove prima era il limite, ora c’è l’obiettivo. Il programma culturale moderno del diritto penale parte dalla protezione dell’innocente. Quello delle misure di prevenzione, all’esatto opposto, parte dalla definizione del bersaglio della potestà punitiva.
Nel racconto de “L’inganno”, l’antimafia mostra la sua evoluzione in una concrezione insieme ideologica, politica, burocratica e affaristica, protetta da un muro di cinta e da un fossato, come nella tradizione di ogni architettura di potere feudale. Il muro è la menzogna di una legislazione speciale che tutti i paesi del mondo vorrebbero imitare. Nelle pagine di questo libro ho provato a scavalcarlo, dando una risposta alla seguente domanda: perché, se tutti ci invidiano i rimedi delle norme eccezionali, nessuno li adotta? Il fossato è la gogna in cui rischia di cadere chiunque osi criticare il sistema, da Leonardo Sciascia ai giorni nostri.
Non a caso, nell’anno di gestazione del libro, mi sono imbattuto in consigli per così dire scoraggianti, del tipo “ma chi te lo fa fare”, o piuttosto semplicemente in apprezzamenti che, a rigor di logica, risultano immotivati. Come quelli che fanno dire a taluno: “Che coraggio hai avuto a scrivere un libro così”. Ma coraggioso sarebbe raccontare una guerra o, al limite, smascherare un’organizzazione criminale, sfidare per esempio la mafia. Perché dovrebbe essere coraggioso, invece, sfidare l’antimafia, cioè criticare un apparato di contrasto pubblico e legale, fondato su leggi, istituzioni e autorità legittimate? Senza alcun autocompiacimento rilevo che una buona parte delle persone che, per motivi diversi, hanno avuto l’occasione di leggere le bozze de “L’inganno”, mi hanno espresso questo pensiero. Credo che anche in questa percezione diffusa ci sia la prova di uno slittamento civile che coincide con un’anomalia della nostra democrazia. Su cui riflettere.
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La mafia non è finita, ma anche l’Antimafia va totalmente ripensata

Quello che passa nell’opinione pubblica è un racconto irrealistico, distorto dalla necessità di costruire consenso attorno a un’Antimafia che ha assunto, nell’assetto istituzionale, un ruolo politico
Non c’è salvezza per la giustizia italiana senza un riscatto profondo dello Stato di diritto. Vuol dire tornare a un diritto penale ordinario fondato su fatti, prove e convincimenti oltre ogni ragionevole dubbio. Vuol dire riportare le confische, i sequestri e tutte le misure di prevenzione all’interno del processo, ancorandole all’accertamento di un reato e limitandole alla lotta alla mafia. Vuol dire definire per legge il confine tra l’illecito e il lecito, tipizzare in maniera tassativa fattispecie… 


Musacchio: “Si pensi ad una Commissione Antimafia diversa dalle precedenti”

La Commissione Antimafia così come è attualmente concepita serve a poco. Sistemerà il solito parlamentare (scelto tra color che son sospesi) nella casella di Presidente e i vari componenti che, una volta eletti, avranno un titolo di cui fregiarsi.
Nella realtà si tratta di un organo con funzione essenzialmente auditiva di magistrati e forze dell’ordine e che in concreto così come è concepita oggi apporterà ben pochi vantaggi alla lotta contro le mafie. Avremmo bisogno di un ripensamento della stessa  e di un suo adeguamento alle continue metamorfosi mafiose.
Negli ultimi trent’anni non ricordo una Commissione che abbia inferto alla mafia colpi degni di menzione speciale e non ricordo grandi relazioni che abbiano fatto evolvere gli studi e le conoscenze scientifiche sul fenomeno mafioso. Agli iniziali reboanti proclami sulla lotta alla criminalità fanno seguito poi le classiche audizioni che purtroppo raramente apportano qualcosa di effettivamente nuovo.
La nuova Commissione Antimafia dovrebbe, a mio avviso, tener conto di tre esigenze: 1) essere presidio statale in grado di assumere funzioni anche gestionali; 2) garantire un’adeguata partecipazione di veri esperti e dell’ associazionismo civico; 3) assicurare unitarietà, scientificità, organicità e tempestività degli interventi in materia.
La nuova Commissione dovrà approfondire la conoscenza del fenomeno mafioso con studi scientifici e documentazione di livello internazionale soprattutto in quelle nuove aree d’interesse che rivestono una particolare importanza nel contrasto alla criminalità organizzata transnazionale. Dovrebbe occuparsi di individuare nuovi metodi e moderne strategie di lotta preventiva e repressiva. Elaborare un’efficace politica antimafia volta a incidere sulla capacità d’infiltrazione della criminalità nel tessuto economico legale. Sarà così? 

Vincenzo Musacchio, criminologo forense, giurista, associato al Rutgers Institute on Anti-Corruption Studies (RIACS) di Newark (USA). È ricercatore indipendente e membro dell’Alta Scuola di Studi Strategici sulla Criminalità Organizzata del Royal United Services Institute di Londra. Nella sua carriera è stato allievo di Giuliano Vassalli, amico e collaboratore di Antonino Caponnetto, magistrato italiano conosciuto per aver guidato il Pool antimafia con Falcone e Borsellino nella seconda metà degli anni ottanta. 

02/12/2022 FAI INFORMAZIONE

 


Non tutta l’antimafia è a posto

I fratelli Cavallotti, incarcerati, assolti e poi distrutti

Giornalista di lungo corso, con un curriculum importante (tra l’altro la vicedirezione de Il Messaggero e, per 6 anni, la direzione de Il Mattino) Alessandro Barbano torna in libreria con «L’inganno -Antimafia. Usi e soprusi dei professionisti del bene», Marsilio editore, Venezia, euro 18,00, una sorta di Bibbia dello stato di diritto, dello stato liberaldemocratico e del rispetto della Costituzione italiana. Il «beef», peraltro, ve lo do subito, tanto per mettere le cose in chiaro: una quarantina d’anni di leggi speciali, di antimafia militante e operante negli uffici giudiziari e nella società, a parte il Maxiprocesso di Falcone e Borsellino, non ci hanno dato nessuna vittoria storica rispetto al fenomeno mafioso che, radicato ormai in tutto il territorio nazionale, prospera come sempre, anche se ha smesso di assassinare gli uomini dello Stato.
Ciò che colpisce di più in questo lavoro non è tanto l’antinomia tra antimafia e garantismo, quanto l’ampia, approfondita descrizione di tutte le manifestazioni concrete nelle quali si manifesta l’antimafia, quella giudiziaria e quella dell’associazionismo. Scorrendo queste pagine, non posso dimenticare ciò che mi disse un alto ufficiale dell’Arma sul finire degli anni ’80 a Palermo: «Non credere a una separazione netta, col coltello: nei cortei antimafia si infiltrano e sfilano anche uomini della mafia come per dire: «non vi illudete, ci siamo anche noi».» Un messaggio subliminale che colpiva il messaggio che intendevano inviare coloro che dei cortei erano gli organizzatori e animatori.
La grande deviazione dalla Costituzione e dallo Stato di diritto è stata rappresentata dall’introduzione nell’ordinamento del procedimento di prevenzione: esso «esiste per le emergenze. I suoi rimedi sono spicci, ma sono stati i cardini di una quarantennale lotta alla mafia …»
Ne esprime l’enormità giuridica ed etica il racconto del caso dei fratelli Cavallotti. Un esempio estremamente istruttivo che intendo porgervi integralmente. Una notte i carabinieri vanno a prendere gli amici di Bernardo Provenzano. Quarantasette. Per ciascuno di loro c’è un mandato di perquisizione e di arresto. Quello spiccato contro i tre fratelli Cavallotti li accusa di concorso esterno in associazione mafiosa e turbativa d’asta. I tre sono figli di un operaio che due decenni prima si è messo in proprio. Tra una generazione e l’altro la ditta è cresciuta, si è sdoppiata in alcune società a responsabilità limitata, ha moltiplicato il fatturato. Adesso i tre fratelli danno lavoro a qualche centinaio di ex braccianti agricoli di Belmonte Mezzagno trasformati in operai. Da operai i Cavallotti vivono.
Li accusa un «pizzino». L’ha consegnato due anni prima il capomafia della provincia di Caltanissetta, Luigi Ilardo, al colonnello dei carabinieri Michele Riccio, poco prima di essere ucciso. È scritto di suo pugno da Provenzano e recita «Bisogna mettere a posto i Cavallotti» «Mettere a posto» vuol dire, nel gergo, riscuotere e anche proteggere. Quindi le aziende dei Cavallotti sono nel libro paga della mafia. Bisogna perciò andare a fondo e indagare sugli appalti nei territori controllati dalla cupola. E c’è un pentito, Angelo Siino, che dice di conoscere i Cavallotti e di sapere che essi fanno parte dell’«accordo provincia» che regola la spartizione degli appalti.
Se i Cavallotti hanno visto prosperare i loro affari lo devono a questa intesa: è un’accusa che meriterebbe altre conferme, ma la parola di un pentito vale il carcere. Anche se dietro quella parola c’è la confusione, l’ambiguità, il non ricordo, o addirittura la contraddizione palese. Anche se, alla prova dei fatti, si scopre che gli appalti di cui si parla se li sono aggiudicati altri, non i Cavallotti. Lo si scopre dopo. Intanto i tre fratelli sono in carcere per due anni e mezzo. Il polverone sollevato dal pentito si dissolve nel processo. Anzi nei processi che si concludono nel 2010. Scrive la sentenza finale: «Mancano prove indicative di controprestazioni, di determinate istituzioni di rapporti societari o fiduciari, di specifici conferimenti societari anche occulti, di intestazioni fittizie. Neppure tali prove sono offerte dal convergente apporto, nel presente procedimento, di investigazioni patrimoniali o societarie, al fine di integrare il generico patrimonio cognitivo dei collaboratori.» L’aulico linguaggio significa che i collaboratori hanno consegnato aria fritta. Ma questo è niente di fronte al dopo assoluzione (perché il fatto non sussiste). Cinque anni dopo, infatti, il tribunale di prevenzione spoglia definitivamente i Cavallotti di ogni bene, siano le aziende o la casa di famiglia, le auto o i conti correnti. E qui si apre un altro calvario, una specie di caccia al tesoro volto a trasformare in corpo del reato qualunque soggetto abbia avuto a che fare con i Cavallotti assolti. Viene inquisita persino l’Italgas, per la quale hanno eseguito alcuni lavori.
L’«operazione Cavallotti» incrocia poi la dottoressa Silvana Saguto, giudice incaricato dell’amministrazione dei beni sequestrati il cui percorso professionale, accusato di inammissibili devianze, è stato da tempo illustrato dalla stampa e affrontato dagli uffici giudiziari palermitani.
Tra i rilievi approfonditi di Barbano, va menzionata la ‘riqualificazione’ dei reati contro la pubblica amministrazione -e tra essi la concussione- mediante una equiparazione ai reati di mafia. Con le conseguenze paradossali che si possono immaginare. E qui mi fermo.
Barbano ha scritto un libro da leggere e meditare anche perché traccia un discrimine tra il mondo normale, quello delle cose normali, e il mondo dei professionisti dell’antimafia che vivono prosperano e addirittura fanno politica trasformando una doverosa funzione dello Stato in una personale opportunità.
Non perdetevelo.  www.cacopardo.it 6.12.2022

 


Antimafia sociale e affari

 

“L’antimafia non può non essere disinteressata, non può mirare al potere e non può diventare essa stessa potere”

FIAMMETTA BORSELLINO

 


Il movimento dell’antimafia sociale: l’analisi della Commissione antimafia


Nell’ambito della relazione conclusiva della Commissione qui di seguito riassunta, viene dedicata una specifica attenzione alle deviazioni di settori del movimento civile dell’antimafia, utilizzato talora  come mezzo per il perseguimento di interessi personali e di avanzamento di carriera di appartenenti al mondo politico e delle professioni; in alcuni casi è stata la stessa mafia ad infiltrarsi nel movimento antimafia per accreditarsi con le pubbliche amministrazioni in vista dell’aggiudicazione degli appalti.

L’“inquinamento morale” del movimento antimafia. La relazione ricorda alcuni inquietanti episodi che hanno coinvolto amministratori locali, giornalisti, esponenti del movimento antiracket (inclusi imprenditori aderenti a Confindustria) e addirittura il presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo, punto di riferimento in tema di riutilizzo dei beni confiscati: tutti personaggi molto noti e considerati simboli della lotta alle mafie. Sono emersi anche casi di gestione anomala di fondi pubblici o di utilizzo improprio di servizi di scorta. Tutti elementi che possono minare la credibilità dell’intero campo dell’antimafia e hanno spinto le stesse associazioni ad adottare forme di controllo interno più stringente.

Ciò ha indotto la Commissione ad effettuare un’approfondita disamina della situazione (vedi le audizioni compiute nel corso della legislatura) per “verificare quali fossero gli strumenti culturali, sociali, associativi e istituzionali che potevano garantire un effettivo presidio contro i condizionamenti criminali”.

Il ruolo dell’antimafia sociale. Un movimento espressione di una sana ribellione della società civile contro la ferocia di Cosa Nostra, che dalla Sicilia si è esteso in tutta Italia, significativamente anche in quelle regioni del Centro – Nord dove invece si è negata a lungo l’esistenza stessa di una presenza mafiosa; sviluppatosi forse in modo troppo rapido e in difficoltà nel leggere l’evoluzione del metodo mafioso e i nuovi fenomeni criminali rispetto alla fase stragista. Risulta però essenziale “salvaguardare e rilanciare un ricco patrimonio di esperienze e prassi di contrasto dei poteri mafiosi che ha dato un grande contributo in ambito sia locale che nazionale” sia nella sensibilizzazione dell’opinione pubblica (in particolare tra i giovani), nella difesa delle vittime delle mafie e nello stimolo nei confronti delle Istituzioni per l’adozione di più rigorose misure di contrasto: un ruolo talora di vera e propria supplenza nei confronti dello Stato.

L’Italia oggi è “più mafiosa”?  Questa l’affermazione provocatoria della Commissione nel descrivere la situazione attuale: da un lato, un sistema normativo di contrasto delle mafie all’avanguardia e alcuni centri di eccellenza nella magistratura e nelle forze dell’ordine; dall’altro, il permanere di situazioni di scarsa consapevolezza ed inadeguata formazione in determinati contesti, che facilita la penetrazione dei gruppi criminali nelle istituzioni e nell’economia. E settori della società civile che stringono alleanze con i clan mafiosi per ottenere determinati reciproci vantaggi, e in tal modo consentono ai gruppi criminali di compensare i pesanti colpi inferti dall’azione repressiva dello Stato. In questo contesto aumenta l’area delle illegalità: “la corruzione sistemica ha regalato forza alle organizzazioni mafiose, tanto da avere incoraggiato il convincimento, un po’ azzardato in realtà, che la mafia odierna non abbia più bisogno di ricorrere ad alcuna forma di violenza perché in grado di piegare ogni volontà ostile con il puro impiego della corruzione… La corruzione è l’autostrada sulla quale le organizzazioni mafiose recuperano continuamente il terreno perduto trovando come provvidenziale alleato un diffuso spirito pubblico, costruito sulla centralità ideologica del denaro e del successo”. Proprio da tale analisi nasce il bisogno di rilanciare le buone ragioni dell’antimafia e di un fattivo contributo delle associazioni che ne fanno parte nella lotta per l’affermarsi del principio di legalità.

AVVISO PUBBLICO

 


 

 


La mafia ha capito che l’antimafia è un affare

Franco La Torre, figlio di Pio La Torre, a Radio 24: Per il Parlamento non è una priorità il pacchetto di norme per modificare la gestione dei beni confiscati “La mafia ha capito che l’antimafia è un affare. Io se fossi un mafioso farei l’antimafioso”. Cosi afferma Franco La Torre, figlio di Pio La Torre, politico autore dell’art. 416-bis c.p. ucciso dalla mafia il 30 aprile 1982, in un’intervista a Raffaella Calandra a Storiacce in onda sabato 19 marzo alle 21.30 su Radio 24 dopo il suo recente abbandono dall’associazione antimafia Libera.
Ci sono “segnali di dialogo tra me e Libera – ha aggiunto Franco La Torre a Radio 24 – In organizzazioni dove c’è un leader fortemente autorevole, si confida sulla capacità della guida di risolvere. Libera ha bisogno di maggiore democrazia che consenta anche la formazione e la selezione della classe dirigente di Libera di domani”.
Franco La Torre, intervistato da Raffealla Calandra a Storiacce in onda sabato 19 marzo alle 21.30 su Radio 24, si è anche espresso in merito al caso di Silvana Saguto, l’ex Presidente delle Misure di prevenzione del tribunale di Palermo che gestiva i beni confiscati: “Se ci fossero state quelle norme che adesso sono in discussione al Parlamento e che speriamo vengano approvate al più presto, anche se, mi spiace dirlo, sembra che non siano una priorità, (la Saguto, ndr) avrebbe avuto molti meno margini. Secondo me – ha concluso Franco La Torre – l’elemento di maggiore fragilità sta nella parte dell’antimafia politica e istituzionale”. E’ questa l’ultima operazione messa a segno dal Nucleo di Polizia Tributaria della Guardia di Finanza di Rieti, conclusasi con un sequestro di beni mobili ed immobili pari a 875.000 Euro nei confronti di un soggetto che, pur avendo svolto attività produttive di reddito, risultava completamente sconosciuto all’erario. I finanzieri reatini, nel corso di alcuni interventi eseguiti a tutela degli interessi erariali, avevano fra gli altri individuato un soggetto che si era iscritto all’AIRE, ovvero al Registro dei cittadini italiani residenti all’Estero e che da quel momento in poi aveva omesso di presentare le dichiarazioni fiscali in Italia. Apparentemente quindi nulla di strano, ma da un’attenta analisi delle oltre 40 banche dati ed applicativi disponibili, qualcosa di inconsueto era apparso agli investigatori. Il controllo economico del territorio ha fatto il resto. L’imprenditore, operante nel settore delle prestazioni di servizio informatiche e dell’automazione telematica, aveva soltanto simulata la interruzione della propria attività, in realtà proseguendola senza soluzione di continuità. Lunga e laboriosa è stata l’indagine dei finanzieri reatini, i quali, in assenza di ogni benché minima forma di contabilità ufficiale, si erano messi a ricercare fatture e documentazione contabile in ogni dove, inviando decine e decine di questionari ad altri contribuenti per individuare i rapporti commerciali occultati, non trascurando di passare al setaccio tutti i conti correnti ed i rapporti finanziari del soggetto d’imposta. A fine anno 2015, l’evasore era stato quindi segnalato alla locale Agenzia delle Entrate per il recupero a tassazione di un imponibile pari a circa 4 milioni di Euro, ed era anche stato deferito alla Procura della Repubblica di Rieti per i reati di omessa dichiarazione e occultamento o distruzione di documenti contabili. Ed è recentissimo il provvedimento emesso dall’Autorità Giudiziaria di Rieti, con il quale le fiamme gialle hanno messo i sigilli? a immobili, titoli, quote societarie, conti correnti e ad auto d’ingente valore, tutti nelle disponibilità dell’indagato, per un valore complessivo pari a 875.000 euro. Tra i beni sequestrati, un’abitazione in Rieti, due pregiate autovetture d’epoca tipo TRIUMPH TR4A, AUSTIN 3000 MK III ed una autovettura di grossa cilindrata tipo LAND ROVER LIMITED per un valore commerciale di oltre 93.000 euro, oltre 50.000 azioni di tre società con sede in Roma e Rieti per un valore pari a circa 200.000 euro, i saldi attivi di due conti correnti e titoli per circa 360.000 euro. Stretta è la sinergia sviluppata dalle Autorità preposte per contrastare i reati economico- finanziari, ed è con l’aggressione dei patrimoni che si cerca di restituire alla collettività le risorse illecitamente sottratte dalle grandi evasioni e frodi, fenomeni questi che minano il tessuto economico del paese, producendo effetti negativi in danno dell’equità sociale e dei diritti al libero esercizio dell’impresa e del lavoro.

19 Marzo 19, 2016 IGNPRESS


Maresco racconta l’antimafia fasulla “Il mio viaggio amaro nella città”

Se “Belluscone” testimoniava che la coscienza antimafia non abita nei quartieri popolari, il nuovo film di Franco Maresco si annuncia assai più pessimista sulla Palermo di oggi. Il regista sta ultimando “La mafia non è più quella di una volta”, seguito ideale di “Belluscone”, prodotto da Rai Cinema e Ila Palma col contributo della Film commission, scritto con Claudia Uzzo e forte di una scena ad alto tasso di surrealtà: la serata-omaggio per Falcone e Borsellino allo Zen con i cantanti neomelodici reclutati dall’ormai celebre organizzatore Ciccio Mira, in contemporanea con le celebrazioni, quelle vere, di via D’Amelio. «Il titolo ovviamente ha una valenza ironica trattandosi della continuazione di “Belluscone” ma al tempo stesso è più apocalittico — dice Maresco — La mafia è il fil rouge e prosegue il discorso avviato dal mio film precedente. Lo spunto narrativo del film è relativamente semplice: un percorso dal 23 maggio 2018 al 23 maggio 2019. Io vado in giro per fare un documentario e raccontare questi 25 anni dalle stragi di mafia in un Palermo nella quale non frega niente a nessuno di questa ricorrenza. Chiedo a Letizia Battaglia di fare da testimone in questo viaggio nella città in qualità di ultima protagonista di un’antimafia ormai annacquata. E assieme iniziamo questo percorso dall’albero Falcone, diventato una sagra della porchetta. Letizia è delusa, amareggiata, ma si chiede: “Ce l’abbiamo una alternativa?”. A quel punto la porto a vedere la festa organizzata allo Zen da Ciccio Mira, un concerto di neomelodici per Falcone e Borsellino, la sera del 19 luglio, in parallelo con le celebrazioni di via D’Amelio. E qui il film diventa fantascientifico, un viaggio nell’assurdo beckettiano, veramente paradossale: incontriamo attori e registi di fiction antimafia senza una vera denuncia. È un film molto più apocalittico di “Belluscone” perché è un discorso su una “non realtà”, dove una cosa vale l’altra, dove tutto si è spettacolarizzato. Nel mio piccolo è un film orwelliano, un film disperato di fantasociologia sulla città». Insomma la Palermo di Maresco, anche quella diventata capitale della cultura, non sembra diversa dagli anni di “Cinico tv”. «Io trovavo decisamente più aperta a una prospettiva di speranza la città del dopo stragi, pur sapendo che quella spinta si sarebbe esaurita — dice il regista — E la città di qualche anno prima sia politicamente che culturalmente era più attrezzata per quanto fosse corrotta. Quello che viene fuori dal film, girato allo Zen e a Brancaccio, è una realtà urbanistica di luogo-non luogo, popolata da un’umanità omologata, inebetita. Io non vedo speranza, siamo in un momento storico che non ha punti fermi. Io sono cresciuto in una città nella quale potevi perderti, che non era eternamente a favore di telecamera, si vivevano rapporti umani. La città del “passìo”, quella delle isole pedonali, è impersonale ed è contenta di esserlo». Ma possibile che non si salvino nemmeno episodi come Manifesta? «La biennale stata come un coadiuvante tutt’al più, ma è mancato il principio attivo: la città ha perduto un’altra occasione».

LA REPUBBLICA 27.12.2028


 

Palermo, ex “talpa” della Procura di nuovo nei guai giudiziari

Su richiesta del procuratore aggiunto Sergio Demontis il giudice e le indagini preliminari gli ha imposto il divieto di dimora nella provincia di Palermo. Sono indagati per corruzione.
Ciuro ha scontato in passato una condanna a 4 anni e 8 mesi nell’ambito dell’inchiesta sulle cosiddette “talpe” alla Direzione distrettuale antimafia di Palermo che vide indagato e poi condannato anche l’ex presidente della Regione siciliana Salvatore Cuffaro.
Il militare era imputato di accesso abusivo alla rete informatica della Procura, rivelazione di segreti istruttori e favoreggiamento. Il maresciallo rivelò notizie riservate su indagini in corso al manager della sanità privata Michele Aiello, anche lui processato e condannato per mafia.
Ciuro era una delle pedine della rete di talpe all’interno della Procura di Palermo. Qui ha lavorato per anni come assistente del pubblico ministero Antonio Ingroia. E con Ingroia si era ritrovato al fianco, visto che l’ex procuratore aggiunto lo scelse come collaboratore quando ha lasciato la toga per fare l’avvocato.
Secondo la nuova accusa, l’ex finanziere aveva un debito di 200 mila euro con lo Stato per il suo vecchio processo. Con l’aiuto del sindaco De Luca, Ciuro avrebbe fatto carte false per ottenere la cancellazione del debito. Come? Dichiarando falsamente in trasferimento di residenza e la creazione di un nuovo nucleo familiare a reddito zero. Il gip ha disposto il sequestro di 200 mila euro. A tanto ammonterebbe il profitto del reato.  


 

 

Doppio gioco – Le talpe dell’antimafia


Questo sensazionale docufilm,  ricostruisce l’ indagine dei R.O.S. che, fra gli altri, portò a processo e fino alla condanna definitiva Totò Cuffaro, l’ ex presidente della Regione Sicilia.
Oltre a contenere moltissime intercettazioni e filmati originali, mostra come la mafia è in grado di insinuarsi nella società civile. Nell’indagine,  il Maresciallo della GdF nella DIA di Palermo Giuseppe “Pippo” Ciuro ha un ruolo centrale. Ciuro, si preoccupava di indagare per poi informare il boss della sanità Ajello, anche dell’ attività dello S.C.O. che, come dice al Maresciallo Giorgio Riolo (l’ altra talpa), “… perchè questi li piazzano senza dire niente a nessuno…” [microspie e telecamere – n.d.r.].  Infine, l’ annotazione più importante: quest’ indagine ha permesso di abbattere i costi dell’ assistenza sanitaria in Sicilia “… con un risparmio per le casse regionali di molti, molti milioni di euro…” (Michele Prestipino – Sostituto Procuratore – di Palermo ed ora Procuratore della Repubblica di Roma)


TALPE alla DDA

 

Il processo chiamato “Talpe alla Dda” è un processo che ha coinvolto il politico Salvatore Cuffaro, condannato a 7 anni di reclusione, il prestanome di Bernardo Provenzano e imprenditore Michele Aiello, il maresciallo (Guardia di Finanza) Giuseppe Ciuro e il maresciallo (Carabinieri) Giorgio Riolo, condannato a sette anni e cinque mesi, il politico Antonio Borzacchelli, in attesa del pronunciamento della Cassazione, e Giuseppe Guttadauro, che ha ricevuto uno sconto di 800 giorni di pena per buona condotta.
L’ex maresciallo della Guardia di Finanza Giuseppe Ciuro è stato condannato a quattro anni e 8 mesi per favoreggiamento aggravato e rivelazione di atti d’ufficio, e a risarcire la Guardia di Finanza con 35.000 euro per danno all’immagine. I due marescialli Giuseppe Ciuro e Giorgio Riolo avrebbero passato informazioni sulle indagini in corso a Michele Aiello. L’accusa sosteneva anche che Salvatore Cuffaro avrebbe permesso al boss di Brancaccio Giuseppe Guttadauro di scoprire una microspia nel salotto della propria abitazione[6] e che avrebbe rivelato altre informazioni utili a Michele Aiello.

 

 

 

 

a cura di Claudio Ramaccini – Direttore  Centro Studi Sociali contro la mafia – PSF