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Il racconto di GASPARE CERVELLO, capo scorta di Giovanni Falcone quel 23 maggio 1992
Gli agenti di scorta SOPRAVVISSUTI Giuseppe Peppino Costanza, Angelo Corbo, Gaspare Cervello, Paolo Capuzza.
STRAGE di CAPACI – testimonianze
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VOCI DI CAPACI – Polizia di Stato e le comunicazioni via radio di quei minuti
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- Nelle stanze di Falcone e Borsellino al Tribunale di Palermo
QUEL FURGONE TARGATO RAVENNA A CAPACI…
La STRAGE di CAPACI, compiuta da Cosa Nostra il 23 maggio 1992 nei pressi di Capaci (sul territorio di Isola delle Femmine), per uccidere il magistrato antimafia Giovanni Falcone. Gli attentatori fecero esplodere un tratto dell’autostrada A29, alle ore 17:57, mentre vi transitava sopra il corteo della scorta con a bordo il giudice, la moglie e gli agenti di Polizia, sistemati in tre Fiat Croma blindate. Oltre al giudice, morirono altre quattro persone: la moglie Francesca Morvillo, anche lei magistrato, e gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Vi furono 23 feriti, fra i quali gli agenti Paolo Capuzza, Angelo Corbo, Gaspare Cervello e l’autista giudiziario Giuseppe Costanza.
La decisione dell’attentatoL’uccisione di Falcone venne decisa nel corso di alcune riunioni delle “Commissioni” regionale e provinciale di Cosa Nostra, avvenute tra il settembre-dicembre 1991, e presiedute dal boss Salvatore Riina, nelle quali vennero individuati anche altri obiettivi da colpire[2]. Nello stesso periodo, avvenne anche un’altra riunione nei pressi di Castelvetrano (a cui parteciparono Salvatore Riina, Matteo Messina Denaro, Vincenzo Sinacori, Mariano Agate, Salvatore Biondino e i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano), in cui vennero organizzati gli attentati contro il giudice Falcone, l’allora ministro Claudio Martelli e il presentatore televisivo Maurizio Costanzo. In seguito alla sentenza della Cassazione che confermava gli ergastoli del Maxiprocesso (30 gennaio 1992), la “Commissione provinciale” di Cosa Nostra decise di dare inizio agli attentati: per queste ragioni, nel febbraio 1992 venne inviato a Roma un gruppo di fuoco, composto da mafiosi di Brancaccio e della provincia di Trapani (Giuseppe Graviano, Matteo Messina Denaro, Vincenzo Sinacori, Lorenzo Tinnirello, Cristofaro Cannella, Francesco Geraci), che avrebbe dovuto uccidere Falcone, Martelli o in alternativa Costanzo, facendo uso di armi da fuoco. Qualche tempo dopo però Riina li richiamò in Sicilia perché voleva che l’attentato a Falcone fosse eseguito sull’isola adoperando l’esplosivo. Fu scelto Giovanni Brusca come coordinatore dei dettagli delle operazioni.
La ricerca del luogo e la prova dell’esplosivo[6] Una volta stabilito di utilizzare dell’esplosivo, a Brusca vennero suggerite due opzioni: inserire dell’esplosivo in alcuni cassonetti della spazzatura posti vicino all’abitazione di Falcone, o in un sottopassaggio pedonale che attraversava l’autostrada A29. Entrambe le proposte furono scartate, in quanto per la prima si rischiava di avere troppe vittime “innocenti”, mentre per la seconda Pietro Rampulla, esperto in esplosivi, suggerì di trovare un luogo stretto dove posizionare le cariche, in modo da ottenere una maggiore deflagrazione. Dopo alcune ricerche, venne trovato un cunicolo di scolo dell’acqua piovana, che attraversava l’autostrada da un lato all’altro.
Nell’aprile del ’92 Brusca effettuò una prova dell’esplosivo in Contrada Rebuttone, nei pressi di Altofonte: dopo aver scavato nel terreno, collocò un cunicolo delle stesse dimensioni di quello presente sotto l’autostrada e riempì la buca con del cemento; all’interno del cunicolo inserì dell’esplosivo, e vi collocò un detonatore elettrico fornito da Giuseppe Agrigento (che fornì anche dell’esplosivo). Vennero utilizzate la stessa trasmittente e la stessa ricevente che furono poi impiegate nell’attentato a Capaci, procurate da Pietro Rampulla: si trattava di un radiocomando per aeromodellismo. L’esplosione che venne generata, nonostante la carica fosse in quantità di gran lunga inferiore a quella utilizzata nell’attentato, fu abbastanza potente.
Tra aprile e maggio, Salvatore Biondino, Raffaele Ganci e Salvatore Cancemi (rispettivamente capi dei “mandamenti” di San Lorenzo, della Noce e di Porta Nuova) compirono alcuni sopralluoghi presso l’autostrada A29, nella zona di Capaci, per individuare un luogo adatto per la realizzazione dell’attentato e per gli appostamenti. Nello stesso periodo avvennero riunioni organizzative nei pressi di Altofonte (a cui parteciparono Giovanni Brusca, Antonino Gioè, Gioacchino La Barbera, Pietro Rampulla, Santino Di Matteo, Leoluca Bagarella), in cui avvenne il travaso in 13 bidoncini di 200 kg di esplosivo da cava procurati da Giuseppe Agrigento (mafioso di San Cipirello). I bidoncini vennero poi portati nella villetta di Antonino Troìa (sottocapo della Famiglia di Capaci), dove avvenne un’altra riunione (a cui parteciparono anche Raffaele Ganci, Salvatore Cancemi, Giovan Battista Ferrante, Giovanni Battaglia, Salvatore Biondino e Salvatore Biondo), nel corso della quale avvenne il travaso dell’altra parte di esplosivo (tritolo e T4) procurata da Biondino e da Giuseppe Graviano (capo della Famiglia di Brancaccio)
Negli stessi giorni Brusca, La Barbera, Di Matteo, Ferrante, Troìa, Biondino e Rampulla provarono varie volte il funzionamento dei congegni elettrici che erano stati procurati da Rampulla stesso e dovevano servire per l’esplosione. Effettuarono varie prove di velocità, e collocarono sul tratto autostradale antecedente il punto dell’esplosione un frigorifero e dei segni di vernice rossa, che al passaggio del corteo servivano a segnalare il momento in cui azionare il radiocomando, per compensare il ritardo di millisecondi che l’impulso avrebbe impiegato per attivare il detonatore. Tagliarono inoltre i rami degli alberi che impedivano la visuale dell’autostrada. La sera dell’8 maggio Brusca, La Barbera, Gioè, Troia e Rampulla provvidero a sistemare con uno skateboard i tredici bidoncini (caricati in tutto con circa 400 kg di miscela esplosiva) nel cunicolo di drenaggio sotto l’autostrada, nel tratto dello svincolo di Capaci, mentre nelle vicinanze Bagarella, Biondo, Biondino e Battaglia svolgevano le funzioni di sentinelle.
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La verità di Brusca sulla strage di Capaci
Entrò per la prima volta in un’aula giudiziaria dieci mesi dopo il suo pentimento. Lo fece nell’aula bunker di Caltanissetta dove si stava celebrando il processo per la strage di Capaci. Indossava un abito color fumo di Londra. Camicia in tono. Dieci mesi prima, nel cortile della questura di Palermo, prima di essere trasferito in carcere, aveva lo sguardo perso nel vuoto e gli occhi sbarrati mentre fotografi e cameraman lo riprendevano. Dieci mesi dopo a Caltanissetta non era lo stesso Giovanni Brusca. Entrò in aula e salì sul pretorio con passo deciso, dimagrito, sicuro di sé. Si sedette senza essere protetto né da paravento né da uomini di scorta perché non era ancora stato inserito nel programma di protezione.
Era il pomeriggio del 27 marzo del 1997. Un giovedì. Ad interrogarlo il pubblico ministero Luca Tescaroli. Fu un fiume in piena colui che nell’immaginario collettivo, e non, è visto con un telecomando in mano mentre fa saltare un pezzo di autostrada e cinque vite umane. Ad ascoltarlo dalle gabbie dell’aula bunker i suoi ex complici nella strage di Capaci.
Quel giovedì 27 marzo 1997 era carica di tensione l’aula bunker di Caltanissetta. Sul pretorio a testimoniare non c’era uno dei tanti pentiti che avevano già raccontato molto del massacro che costò la vita a Giovanni Falcone, alla moglie Francesca Morvillo e agli agenti Rocco Dicillo, Vito Schifani ed Antonio Montinaro. No, non era uno dei tanti. Era colui che aveva scatenato l’inferno sull’autostrada che collega Punta Raisi con Palermo. Cominciò a rispondere alle domande del pubblico ministero quasi sottovoce, poi piano piano il suo tono aumentò. Sul perché decise di collaborare disse: “Ho deciso di liberarmi di un peso, quando parlo con i magistrati mi sento la coscienza più libera”. In aula conferma quanto già detto ai magistrati: “Sì, sono colpevole della strage di Capaci, ho schiacciato io il telecomando”.
Il pm Tescaroli, però, contesta a Brusca di avere detto, subito dopo la decisione di voler collaborare, alcune falsità. Brusca replicò duramente: “Io non mi giudico, sarà la Corte a farlo. Posso solo dire che qualche bugia inizialmente l’ho detta, ma subito dopo ho confessato e ho anche spiegato il perché di quei fatti raccontati diversamente dalla verità, ma ora chiedo soltanto di poter raccontare tutto ciò che è a mia conoscenza”. Ma allora e forse ancora oggi Brusca è ancora da interpretare. Verità e bugie miscelate fra loro. Dichiarazioni fatte e poi ritrattate o cambiate. E ancora indicazioni smentite da altri collaboratori. Viene quindi in mente una terribile logica mafiosa, che recita così: “Amputare il braccio incancrenito per salvare il resto del corpo”, ovvero affossare la “vecchia” commissione, già nelle patrie galere con sentenze definitive, per salvare la “nuova” commissione formata in gran parte da latitanti. Era questo il teorema di Brusca? A tutt’oggi non c’è risposta. Dopo quei tre giorni il pm Luca Tescaroli riassunse così quella testimonianza: “Abbiamo raccolto un elemento probatorio che va confrontato con gli altri che fanno parte del processo. Brusca non ha fornito apprezzabili elementi nuovi. Per quanto riguarda l’aspetto esecutivo della strage ha ripercorso quanto dichiarato dai collaboratori”.
Nel corso degli anni ha cercato di spiegare e spiegarsi ma Brusca rimane lo stragista di Cosa nostra, è stato lui stesso all’inizio della sua collaborazione a precisare: “Quello che ho fatto con Chinnici ho fatto con Falcone” poi aggiunse di avere compiuto oltre 150 omicidi.
A Caltanissetta quella fine di marzo del 1997 parlò per tre giorni di fila. Parlò del perché, secondo la sua versione, ci furono le stragi, “Salvatore Riina voleva uccidere tutti coloro che in qualche modo avevano tradito la fiducia di Cosa nostra. Dovevamo chiudere i conti con quel ramo politico con la speranza di aprirne altri. Dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio Totò Riina presentò il conto ad esponenti politici e qualcuno si fece vivo”. In quel momento Brusca lasciò intuire l’esistenza di una trattativa tra lo Stato e la mafia finalizzata a fermare la violenza stragista.
“L’uomo politico che in quel momento era maggiormente odiata da Riina – aggiunse Brusca – era Giulio Andreotti. Quando si era nella fase operativa della strage di Capaci si stava votando in Parlamento per la elezione del presidente della Repubblica e Andreotti era uno dei maggiori candidati. Riina mi disse che sperava che la strage avvenisse in quei giorni in maniera tale da bloccare l’elezione di Andreotti e quando ciò avvenne mi disse che avevamo preso due piccioni con una fava”.
Brusca in quei tre giorni nisseni ha parlato anche del tentativo di accordo tra Stato e mafia. “Bastava un’altra strage, un altro colpo e Riina avrebbe vinto. Aveva già presentato il papello, delle richieste scritte su due fogli protocollo.
Descrisse dettagliatamente le ore che precedettero la strage di Capaci, il momento dell’esplosione, e cosa avvenne subito dopo.
Lo raccontò con calma, senza particolari emozioni. “I compiti erano già stati stabiliti. Tutti sapevamo cosa dovevamo fare quando arrivava il segnale. Così è stato quando il gruppo di Palermo, formato dai Ganci e da Salvatore Cancemi ha dato il segnale che l’auto del giudice Falcone aveva lasciato il garage ed era diretta verso Punta Raisi. In quel momento ci trovavamo nel casolare, io, La Barbera, Gioè, Battaglia, Biondino e Troia. Io, Biondino e Battaglia ci dirigiamo sulla collina, gli altri escono pure, vanno ad azionare la ricevente che si trovava nei pressi dell’autostrada, e subito dopo La Barbera va verso l’aeroporto, mentre Gioè ci raggiunge e ci da l’ok che è tutto a posto. Subito dopo si mette al cannocchiale, mentre io ho già in mano il telecomando. Il compito di La Barbera era quello di passare dalla ricevente, andare a togliere la protezione in plastica, che è un tubo di benzina, inforcare i fili, azionare la ricevente, mettersi in macchina ed andarsene. Dopo doveva segnalare appena vedeva il dottor Falcone. Doveva segnarlo telefonando a Gioè e così è stato. A Gioè doveva dire a che velocità andava il dottor Falcone. Quando io ad occhio nudo ho visto la macchina, ho visto che rallentava, non riuscivo a capire perché La Barbera diceva un’altra velocità, vedevo ad occhio nudo che non andava a quella forza. Gioè mi dice vai, ma io non so perché ero bloccato. Gioè mi grida ancora vai, ma io non premo il pulsante. Gioè grida per la terza volta e a questo punto premo il telecomando e non vedo più nulla. Solo fumo e fiamme. Poi sento scoppi a ripetizione, probabilmente erano i bidoni che non sono esplosi contemporaneamente. Io poi ho saputo dai giornali che il dottor Falcone aveva tolto le chiavi della macchina e la velocità si era ridotta, poi ha rimesso le chiavi ed è ripartito un’altra volta. Se andava per come… cioè si era programmato, cioè succedeva la disgrazia solo al dottor Falcone. Lì, in quel momento ho avuto anche rimorso, ma si doveva fare. Cosa nostra lo aveva voluto ed io ho ubbidito”. Brusca si ferma nel suo racconto solo un attimo poi prosegue: “Dal luogo della strage ci allontanammo a bordo di due Clio, con me c’era Gioè. Passammo da Torretta, Bellolampo e Boccadifalco e una volta giunti in via Michelangelo, all’altezza di Borgo Nuovo, salutammo Biondino che si diresse altrove. Io avevo un appuntamento nell’abitazione di Girolamo Guddo e Gioè mi lasciò davanti al portone di ingresso. All’interno vi trovai Raffaele Ganci e Salvatore Cancemi. Ascoltammo la televisione dalla quale, in un primo momento, apprendemmo che Giovanni Falcone non era deceduto, al che Cancemi reagì dicendo che “questo cornuto se non muore ci darà filo da torcere. Questo maledetto non vuole morire”. A distanza di una mezzora, alla notizia fornita dalla televisione del decesso del magistrato, Cancemi d’impeto si alzò per sputare verso il televisore e subito dopo, gioendo per la notizia, usciva dalla tasca del denaro che consegnava ad un ragazzo lì presente, a nome Giovanni, incaricandolo di andare a comprare una bottiglia. Avuta la bottiglia si effettuò un brindisi”.
Un interrogatorio quello di Giovanni Brusca iniziato il 27 marzo del 1997, Giovedì santo e conclusosi alla vigilia della Pasqua di quell’anno. Un interrogatorio atteso per mesi, ma che non aggiunse più di tanto a quanto, processualmente già si era conoscenza. Va anche ricordato come l’ingresso di Brusca nell’aula bunker nissena fu sottolineato dal commento di Leoluca Bagarella: “Trasiu u maiali”. 18.5.2022 PIOLATORRE.IT
Iniziammo i turni il 21 maggio di pomeriggio. Eravamo sempre gli stessi ma Bagarella non c’era più. Infatti quando finimmo di collocare l’esplosivo, lui prese la moglie e se ne andò a Mazara del Vallo. In quel periodo era latitante.
Giovanni Ferrante vide arrivare il magistrato.
Strage di Capaci, il punto di non ritorno per il “terrorista” di Corleone
L’auto di GIOVANNI FALCONE
L’orrore e la memoria, 29 anni fa la strage di Capaci Il 23 maggio del 1992 a Palermo Cosa Nostra dichiarò guerra allo Stato inaugurando una nuova stagione terroristica. L’agguato per uccidere Giovanni Falcone costò la vita alla moglie, Francesca Morvillo e ai tre agenti di scorta. Il ricordo di quella ferita ancora aperta e i misteri ancora irrisolti
Capaci, una strage spaventosa per lanciare un segnale “forte e chiaro”
Alla piena convergenza delle predette dichiarazioni si aggiunge l’accertamento consacrato con forza di giudicato dei processi celebrati sulla strage di Capaci le cui sentenze ormai divenute irrevocabili sono state qui acquisite. In particolare, la stessa riunione della “commissione regionale” tenutasi tra la fine del 1991 e l’inizio del 1992 per deliberare (rectius, ratificare il volere di Salvatore Riina) riguardo alla nuova strategia di attacco alle Istituzioni, può ritenersi storicamente e processualmente accertata all’esito del processo sulla strage di Capaci, da cui emerge anche la condanna passata in cosa giudicata di Benedetto Santapaola per quel delitto, a riprova del coinvolgimento dell’intera “cosa nostra” siciliana nella deliberazione dalla quale scaturì (anche) la strage di Capaci. Così come può ritenersi provato che l’originario intento di Salvatore Riina, maturato già prima della pronunzia della sentenza della Corte di Cassazione all’esito del maxi processo (ma strettamente collegato alla previsione ormai certa, dopo la sostituzione del dott. Carnevale, dell’esito infausto che questo avrebbe avuto) e che Iii recepito senza alcuna opposizione all’interno dell’associazione mafiosa “cosa nostra”, fu quello di scatenare la propria vendetta, uccidendo i Giudici Falcone e Borsellino, quali nemici “storici” della mafia responsabili della debacle che si preannunciava con la sopra ricordata sentenza, ed alcuni politici, iniziando da Salvo Lima, che avevano tradito le attese in essi riposte dallo stesso Riina. E ulteriore e definitivo riscontro la Corte ritiene di poter ricavare dalle parole dello stesso Salvatore Riina, intercettate nel 2013 all’interno del carcere in cui il predetto era detenuto, […]. Ma la Corte tiene a sottolineare, per la refluenza sull’accertamento dei fatti qui in contestazione che in quella prima fase — e, sino al giugno 1992 — non v’era alcun intendimento da parte di Riina (e, conseguentemente, da parte dei suoi sodali stante il potere assoluto dal primo esercitato e l’assenza di qualsiasi possibile opposizione interna manifestabile in occasione delle riunioni degli organismi collegiali senza incorrere nella punizione con la morte da parte del Riina medesimo) di “trattare” contropartite di sorta ovvero di subordinare l’inizio o anche soltanto la prosecuzione del programma delittuoso già comunicato nelle riunioni di cui sopra si è detto a eventuali cedimenti da parte delle Istituzioni dello Stato. E tuttavia comincia a farsi strada l’idea che una manifestazione eclatante di potenza e ferocia distruttiva, avrebbe potuto indurre o costringere lo Stato a venire a più miti consigli, ovvero a ripiegare su un atteggiamento di non belligeranza, invece che di risoluto contrasto: come del resto era sempre stato, almeno prima che sulla scena irrompessero irriducibili antagonisti del potere mafioso (ovvero, magistrati quali Chinnici, Costa, Falcone e Borsellino e gli altrettanti validi investigatori che li affiancavano). Atteggiamento al quale, almeno nell’ottica mafiosa, poteva ricondursi l’esito di molti processi conclusasi, a differenza di quanto sarebbe, invece, avvenuto col maxiprocesso, con sentenze o che negavano addirittura l’esistenza della mafia o che, al più, si rifugiavano nella formula dubitativa dell’assoluzione per insufficienza di prove. Le condanne fioccate all’esito del primo maxi processo evidenziavano quindi un chiaro indebolimento dell’associazione mafiosa — ed, in primis, della leadership di Salvatore Riina — per non essere più riuscita, pur con la pletora di politici o di soggetti che più o meno indirettamente facevano da tramite, ad “aggiustare” quel processo e, conseguentemente, ad ottenere un risultato che in passato e sino ad allora era stato indice della potenza intimidatrice della mafia, ma anche — e forse soprattutto puntualizza ancora la Corte — della capacità di tessere una ragnatela di rapporti tale da avviluppare a sé, in un gioco di interessi e controinteressi ed in nome del quieto vivere, una fetta non indifferente della società civile che più contava (politici, imprenditori, professionisti, magistrati e investigatori). Salvatore Riina non poteva subire, senza reagire a suo modo, un simile indebolimento, che ne avrebbe inevitabilmente intaccato la leadership: e opta per una reazione preventiva, senza attendere la sentenza definitiva della Corte di Cassazione, che avrebbe potuto scatenare l’insoddisfazione del “popolo” di “cosa nostra” e il risentimento nei confronti del capo incontrastato che si era fatto garante di un risultato favorevole fidandosi di quei politici che sino ad allora lo avevano sempre assecondato per i propri tornaconti elettorali ed economici, quando ancora il suo potere era saldo. Ma emerge anche l’interesse di Riina a coinvolgere i vertici di “cosa nostra” in quella strategia di attacco frontale allo Stato, che, segnando inevitabilmente un punto di non ritorno, avrebbe costretto coloro che avessero approvato quella strategia a non poter più recedere da quella decisione; e, quindi, in definitiva, avrebbe impedito che altri, che magari già segretamente vi aspiravano, avessero potuto tentare di conquistare la guida di “cosa nostra” in opposizione al “ridimensionato” Salvatore Riina. Ecco perché già all’indomani della sentenza della Corte di Cassazione nel maxi processo (30 gennaio 1992), prima che vi fosse il tempo di riflettere sulla debacle di “cosa nostra” e, quindi, di Riina, iniziano le attività preparatorie per l’esecuzione dell’omicidio di Salvo Lima, poi effettivamente realizzato il 12 marzo 1992; seguito a breve distanza di tempo, prima dall’omicidio del M.llo Guazzelli (4 aprile) e, poi, a coronamento di quella prima fase, dalla più eclatante delle stragi per modalità esecutive e valore simbolico, quella di Capaci (23 maggio): che non a caso fu voluta e portata a termine con tecnica libanese e in Sicilia (nonostante la più agevole esecuzione a Roma ove il dott. Falcone aveva di fatto una vigilanza più attenuata), perché occorreva ricorrere ad una terrificante manifestazione di potenza, che incutendo terrore nella popolazione, e dimostrando la capacità di Cosa Nostra di colpire lo Stato nei suoi uomini-simbolo, valesse a rinsaldare e ricostituire la capacità d’intimidazione dell’organizzazione mafiosa e la forza del suo capo. E all’omicidio Lima e all’uccisione del Maresciallo Guazzelli la sentenza dedica una riflessione specifica per la loro refluenza sulla ricostruzione dei prodromi della vicenda che costituisce specifico oggetto del processo. Dalla sentenza
Un pentito rivela: “Falcone non fu ucciso a Roma solo perché i killer sbagliarono ristorante”
Questo e altro nelle rivelazioni del collaboratore di giustizia Vincenzo Sinacori, ex capo del mandamento di Mazara del Vallo, che ha deposto oggi nell’aula bunker di Rebibbia a Roma, nell’ambito del secondo processo per la strage di Capaci davanti alla Corte d’assise di Caltanissetta. Secondo il pentito tra l’ottobre e il novembre del 1991 si tenne un summit di mafia a Castelvetrano e in in quella sede fu deciso di eliminare il giudice Giovanni Falcone, l’allora ministro Claudio Martelli, Maurizio Costanzo e altri giornalisti, come Andrea Barbato. All’incontro, presieduto da Totò Riina, erano presenti anche Matteo Messina Denaro e i fratelli Graviano.
Secondo Sinacori, alla riunione di Castelvetrano ne seguirono altre a Palermo, a casa di Salvatore Biondino, autista di Riina, e del fratello, per definire le modalità con cui uccidere le vittime designate. “Bisognava usare delle armi tradizionali. In caso di attentati bisognava chiedere il permesso a Riina. A Roma, arrivarono con un camion, armi ed esplosivo”. Falcone, nella versione del pentito, doveva essere ucciso prima degli altri “perché dopo il maxiprocesso era un nemico storico di cosa nostra. Maurizio Costanzo perché durante le sue trasmissioni era contro cosa nostra e Martelli perché era stato eletto con i voti dalla mafia e poi aveva girato le spalle ai boss. Il giudice Falcone doveva essere ammazzato in un ristorante che frequentava a Roma mentre Martelli in via Arenula, dove c’era la sede del ministero di Grazia e Giustizia”. Una volta a Roma il commando mafioso sbagliò ristorante e si decise di agire in Sicilia. 27 aprile 2015 IL SITO DI SICILIA
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- Nella metà di maggio Raffaele Ganci, i figli Domenico e Calogero e il nipote Antonino Galliano si occuparono di controllare i movimenti delle due Fiat Croma e della Lancia Thema
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- Gli agenti Paolo Capuzza, Gaspare Cervello e Angelo Corbo, che viaggiavano nella terza auto
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- Prima indagine e processo “Capaci uno. “Nel 1993 la Direzione Investigativa Antimafia, su indicazione del neo-pentito Giuseppe Marchese, cognato di Leoluca Bagarella
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- Brusca “si dispiace” di non avere colpito in pieno il giudice
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- “MAI PRIMA DI CAPACI USAMMO COSÌ TANTO ESPLOSIVO”
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- L’ORDINE DI BRUSCA
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- LA CASUPOLA DELL’ACQUEDOTTO
- LE PRIME INDAGINI DELLA DIA
- IL CRATERE CHE INGOIA TUTTO E LE TRACCE LASCIATE DAGLI ASSASSINI
- DELLA FIAT CROMA RESTA BEN POCO Lampadine e cellulari, il commando fa le “prove” del massacro
- LE LAMPADINE FLASH
- LE INDAGINI SUL “POSIZIONAMENTO” DEI KILLER
- UN RADIOCOMANDO A DISTANZA PER FARE ESPLODERE 500 CHILI DI TRITOLO
- LA STRAGE RIPRODOTTA IN UN’AREA MILITARE
- PIETRO RAMPULLA, L’ARTIFICIERE RECLUTATO PER COSTRUIRE IL RADIOCOMANDO
- UN ESPLOSIVO “DIVERSO”
- LA COSTRUZIONE DEL RADIOCOMANDO
PROGETTO SAN FRANCESCO A PALERMO CON MARIA FALCONE AL XX ANNIVERSARIO DELLA STRAGE DI CAPACI – 23 MAGGIO 2012
PROGETTO SAN FRANCESCO A PALERMO CON MARIA FALCONE AL XX ANNIVERSARIO DELLA STRAGE DI CAPACI Il Centro Studi sociali contro le mafie – Progetto San Francesco, a Palermo per ricordare il lavoro giudiziario e culturale di Giovanni Falcone. Nel giorno del ventesimo anniversario della strage di Capaci, in cui morí il magistrato palermitano con la moglie Francesca Morvillo e gli agenti di scorta.Il Progetto San Francesco ha incontrato Maria Falcone (in foto con Claudio Ramaccini, Benedetto Madonia e il segretario generale della Cisl di Como, Gerardo Larghi) all’arrivo delle navi della legalità. ” Avervi qui a Pelermo, insieme a tutti questi ragazzi, con questi giovani scout genovesi è per noi la prosecuzione di un percorso comune iniziato a Como, proseguito a Milano e che certamente ci vedrà uniti in tutt’Italia” Così Maria Falcone alla squadra del Progetto San Francesco, ricordando anche gli atti vandalici a danno della targa posta sul lungo lago lariano.
- FOTOTECA EVENTI A PALERMO
- PSF AL XX ANNIVERSARIO
- L’ARRIVO DELLE NAVI DELLA LEGALITÀ
- LA MOSTRA NELL’AULA BUNKER
- IL CORTEO
- LA COMMEMORAZIONE DI PIERO GRASSO