OMBRE sull’ANTIMAFIA

 


“L’antimafia non può non essere disinteressata, non può mirare al potere e non può diventare essa stessa potere”
Basta antimafia da martiri, serve sobrietà
“Credo che bisogna fare una grossa riflessione su quello che vuol dire oggi essere ‘antimafioso’. I casi Helg, Saguto e Montante ci insegnano che non basta una semplice ricetta per essere antimafioso, non basta diventare amici di magistrati, poliziotti, giornalisti, non basta creare un’impresa e parlare di mafia”. “Anche l’antimafioso più esposto al pericolo, quello che ha ricevuto non false minacce, ma minacce vere, farebbe bene a non recitare la parte del martire da vivo – ha aggiunto -. Un po’ più di sobrietà e di silenzio renderebbe più efficace, vero e fruttuoso l’impegno anche di queste persone”.
A dirlo è stata Fiammetta Borsellino al dibattito ‘Lettera aperta ai giovani di Palermo’, nell’ambito di ‘Una Marina di libri’. 


…non capisco l’antimafia come categoria, come sovrastruttura sociale.  Sembra quasi un modo per cristallizzare la funzione di alcune persone, magari per costruire carriere. La legalità, per me, non è facciata, è una precondizione di qualsiasi attività.

GIOVANNI FIANDACA: «Una parte dell’antimafia si è trasformata in una retorica della legalità, un vuoto palcoscenico per rituali stanchi o per dare sfogo a forme di intollerabile narcisismo”



Il movimento dell’antimafia sociale: l’analisi della Commissione antimafia


Nell’ambito della relazione conclusiva della Commissione qui di seguito riassunta, viene dedicata una specifica attenzione alle deviazioni di settori del movimento civile dell’antimafia, utilizzato talora  come mezzo per il perseguimento di interessi personali e di avanzamento di carriera di appartenenti al mondo politico e delle professioni; in alcuni casi è stata la stessa mafia ad infiltrarsi nel movimento antimafia per accreditarsi con le pubbliche amministrazioni in vista dell’aggiudicazione degli appalti.
L’“inquinamento morale” del movimento antimafia. La relazione ricorda alcuni inquietanti episodi che hanno coinvolto amministratori locali, giornalisti, esponenti del movimento antiracket (inclusi imprenditori aderenti a Confindustria) e addirittura il presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo, punto di riferimento in tema di riutilizzo dei beni confiscati: tutti personaggi molto noti e considerati simboli della lotta alle mafie.
Sono emersi anche casi di gestione anomala di fondi pubblici o di utilizzo improprio di servizi di scorta.
Tutti elementi che possono minare la credibilità dell’intero campo dell’antimafia e hanno spinto le stesse associazioni ad adottare forme di controllo interno più stringente.
Ciò ha indotto la Commissione ad effettuare un’approfondita disamina della situazione (vedi le audizioni compiute nel corso della legislatura) per “verificare quali fossero gli strumenti culturali, sociali, associativi e istituzionali che potevano garantire un effettivo presidio contro i condizionamenti criminali”.
Il ruolo dell’antimafia sociale. Un movimento espressione di una sana ribellione della società civile contro la ferocia di Cosa Nostra, che dalla Sicilia si è esteso in tutta Italia, significativamente anche in quelle regioni del Centro – Nord dove invece si è negata a lungo l’esistenza stessa di una presenza mafiosa; sviluppatosi forse in modo troppo rapido e in difficoltà nel leggere l’evoluzione del metodo mafioso e i nuovi fenomeni criminali rispetto alla fase stragista.
Risulta però essenziale “salvaguardare e rilanciare un ricco patrimonio di esperienze e prassi di contrasto dei poteri mafiosi che ha dato un grande contributo in ambito sia locale che nazionale” sia nella sensibilizzazione dell’opinione pubblica (in particolare tra i giovani), nella difesa delle vittime delle mafie e nello stimolo nei confronti delle Istituzioni per l’adozione di più rigorose misure di contrasto: un ruolo talora di vera e propria supplenza nei confronti dello Stato.
L’Italia oggi è “più mafiosa”?  Questa l’affermazione provocatoria della Commissione nel descrivere la situazione attuale: da un lato, un sistema normativo di contrasto delle mafie all’avanguardia e alcuni centri di eccellenza nella magistratura e nelle forze dell’ordine; dall’altro, il permanere di situazioni di scarsa consapevolezza ed inadeguata formazione in determinati contesti, che facilita la penetrazione dei gruppi criminali nelle istituzioni e nell’economia. E settori della società civile che stringono alleanze con i clan mafiosi per ottenere determinati reciproci vantaggi, e in tal modo consentono ai gruppi criminali di compensare i pesanti colpi inferti dall’azione repressiva dello Stato.
In questo contesto aumenta l’area delle illegalità: “la corruzione sistemica ha regalato forza alle organizzazioni mafiose, tanto da avere incoraggiato il convincimento, un po’ azzardato in realtà, che la mafia odierna non abbia più bisogno di ricorrere ad alcuna forma di violenza perché in grado di piegare ogni volontà ostile con il puro impiego della corruzione…
La corruzione è l’autostrada sulla quale le organizzazioni mafiose recuperano continuamente il terreno perduto trovando come provvidenziale alleato un diffuso spirito pubblico, costruito sulla centralità ideologica del denaro e del successo”. Proprio da tale analisi nasce il bisogno di rilanciare le buone ragioni dell’antimafia e di un fattivo contributo delle associazioni che ne fanno parte nella lotta per l’affermarsi del principio di legalità.  AVVISO PUBBLICO

 


La mafia ha capito che l’antimafia è un affare

 

Franco La Torre, figlio di Pio La Torre, a Radio 24: Per il Parlamento non è una priorità il pacchetto di norme per modificare la gestione dei beni confiscati La mafia ha capito che l’antimafia è un affare. Io se fossi un mafioso farei l’antimafioso”.
Cosi afferma Franco La Torre, figlio di Pio La Torre, politico autore dell’art. 416-bis c.p. ucciso dalla mafia il 30 aprile 1982, in un’intervista a Raffaella Calandra a Storiacce in onda sabato 19 marzo alle 21.30 su Radio 24 dopo il suo recente abbandono dall’associazione antimafia Libera.
Ci sono “segnali di dialogo tra me e Libera – ha aggiunto Franco La Torre a Radio 24 – In organizzazioni dove c’è un leader fortemente autorevole, si confida sulla capacità della guida di risolvere. Libera ha bisogno di maggiore democrazia che consenta anche la formazione e la selezione della classe dirigente di Libera di domani”.
Franco La Torre, intervistato da Raffealla Calandra a Storiacce in onda sabato 19 marzo alle 21.30 su Radio 24, si è anche espresso in merito al caso di Silvana Saguto, l’ex Presidente delle Misure di prevenzione del tribunale di Palermo che gestiva i beni confiscati: “Se ci fossero state quelle norme che adesso sono in discussione al Parlamento e che speriamo vengano approvate al più presto, anche se, mi spiace dirlo, sembra che non siano una priorità, (la Saguto, ndr) avrebbe avuto molti meno margini. Secondo me – ha concluso Franco La Torre – l’elemento di maggiore fragilità sta nella parte dell’antimafia politica e istituzionale”. E’ questa l’ultima operazione messa a segno dal Nucleo di Polizia Tributaria della Guardia di Finanza di Rieti, conclusasi con un sequestro di beni mobili ed immobili pari a 875.000 Euro nei confronti di un soggetto che, pur avendo svolto attività produttive di reddito, risultava completamente sconosciuto all’erario. I finanzieri reatini, nel corso di alcuni interventi eseguiti a tutela degli interessi erariali, avevano fra gli altri individuato un soggetto che si era iscritto all’AIRE, ovvero al Registro dei cittadini italiani residenti all’Estero e che da quel momento in poi aveva omesso di presentare le dichiarazioni fiscali in Italia. Apparentemente quindi nulla di strano, ma da un’attenta analisi delle oltre 40 banche dati ed applicativi disponibili, qualcosa di inconsueto era apparso agli investigatori.
Il controllo economico del territorio ha fatto il resto.
L’imprenditore, operante nel settore delle prestazioni di servizio informatiche e dell’automazione telematica, aveva soltanto simulata la interruzione della propria attività, in realtà proseguendola senza soluzione di continuità. Lunga e laboriosa è stata l’indagine dei finanzieri reatini, i quali, in assenza di ogni benché minima forma di contabilità ufficiale, si erano messi a ricercare fatture e documentazione contabile in ogni dove, inviando decine e decine di questionari ad altri contribuenti per individuare i rapporti commerciali occultati, non trascurando di passare al setaccio tutti i conti correnti ed i rapporti finanziari del soggetto d’imposta.
A fine anno 2015, l’evasore era stato quindi segnalato alla locale Agenzia delle Entrate per il recupero a tassazione di un imponibile pari a circa 4 milioni di Euro, ed era anche stato deferito alla Procura della Repubblica di Rieti per i reati di omessa dichiarazione e occultamento o distruzione di documenti contabili.
Ed è recentissimo il provvedimento emesso dall’Autorità Giudiziaria di Rieti, con il quale le fiamme gialle hanno messo i sigilli? a immobili, titoli, quote societarie, conti correnti e ad auto d’ingente valore, tutti nelle disponibilità dell’indagato, per un valore complessivo pari a 875.000 euro. Tra i beni sequestrati, un’abitazione in Rieti, due pregiate autovetture d’epoca tipo TRIUMPH TR4A, AUSTIN 3000 MK III ed una autovettura di grossa cilindrata tipo LAND ROVER LIMITED per un valore commerciale di oltre 93.000 euro, oltre 50.000 azioni di tre società con sede in Roma e Rieti per un valore pari a circa 200.000 euro, i saldi attivi di due conti correnti e titoli per circa 360.000 euro.
Stretta è la sinergia sviluppata dalle Autorità preposte per contrastare i reati economico- finanziari, ed è con l’aggressione dei patrimoni che si cerca di restituire alla collettività le risorse illecitamente sottratte dalle grandi evasioni e frodi, fenomeni questi che minano il tessuto economico del paese, producendo effetti negativi in danno dell’equità sociale e dei diritti al libero esercizio dell’impresa e del lavoro.  19 Marzo 19, 2016 IGNPRESS


 

 


22.2.2018 – PRESENTATA IN SENATO LA RELAZIONE CONCLUSIVA DELLA COMMISSIONE ANTIMAFIA: IL TESTO INTEGRALE

 

 

 

 

Documenti in formato PDF  INTERO

Frontespizio – Indice … pag. 1-2 (43 kb)

Parte I … pag. 3-16 (561 kb)

Parte II … pag. 17-32 (513 kb)

Parte III … pag. 33-48 (473 kb)

Parte IV … pag. 49-64 (504 kb)

Parte V … pag. 65-80 (468 kb)

Parte VI … pag. 81-96 (486 kb)

Parte VII … pag. 97-112 (517 kb)

Parte VIII … pag. 113-128 (537 kb)

Parte IX … pag. 129-144 (486 kb)

Parte X … pag. 145-160 (521 kb)

Parte XI … pag. 161-176 (542 kb)

Parte XII … pag. 177-192 (514 kb)

Parte XIII … pag. 193-208 (496 kb)

Parte XIV … pag. 209-224 (487 kb)

Parte XV … pag. 225-240 (550 kb)

Parte XVI … pag. 241-256 (469 kb)

Parte XVII … pag. 257-272 (567 kb)

Parte XVIII … pag. 273-288 (504 kb)

Parte XIX … pag. 289-304 (508 kb)

Parte XX … pag. 305-320 (524 kb)

Parte XXI … pag. 321-336 (522 kb)

Parte XXII … pag. 337-352 (486 kb)

Parte XXIII … pag. 353-368 (470 kb)

Parte XXIV … pag. 369-384 (423 kb)

Parte XXV … pag. 385-400 (465 kb)

Parte XXVI … pag. 401-416 (468 kb)

Parte XXVII … pag. 417-432 (511 kb)

Parte XXVIII … pag. 433-448 (497 kb)

Parte XXIX … pag. 449-464 (505 kb)

Parte XXX … pag. 465-480 (483 kb)

Parte XXXI … pag. 481-496 (497 kb)

Parte XXXII … pag. 497-502 (408 kb)

 

L’ALTRA FACCIA DELL’ANTIMAFIA 

 

L’inganno, l’ANTIMAFIA non serve affatto a combattere la criminalità organizzata e rovescia lo Stato di diritto

 

Un apparato burocratico, giudiziario, politico e affaristico cresciuto a dismisura e fuori da ogni controllo di legalità e di merito. Ecco come Alessandro Barbano definisce la delega che una politica miope ha fatto alla magistratura

  • Il percorso compiuto fin qui conduce a una conclusione impegnativa: l’Antimafia, intesa nella sua complessa realtà istituzionale e simbolica, nella sua operatività e nel suo racconto, è un inganno.
    Uso questa parola in senso politico e non morale. Cioè al netto della buona fede e dell’impegno di quanti si dedicano a combattere il crimine, l’Antimafia ha tradito il compito che le è stato assegnato dalla democrazia.
    L’inganno politico sta nell’idea che l’intera macchina dell’eccezione, raccontata in queste pagine, serva a combattere la mafia. Che l’arbitrio delle confische e la ferocia delle condanne servano a ripagare le vittime. Ma l’inganno si mostra anche al contrario: non è vero che chi critica la legislazione d’emergenza e invoca pene compatibili con i principi costituzionali fa il gioco della mafia e offende le vittime.
    Si tratta di un teorema che non ha fondamento. Perché le vittime, e cioè i caduti e le loro famiglie, non sono risarcibili con la vendetta. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino non sono morti per consegnare alle generazioni future l’idea che la mafia sia irredimibile, quindi invincibile. Che l’emergenza sia la cifra permanente delle relazioni tra lo Stato e i cittadini.
    Che la lingua del sospetto sia il racconto del paese.
    Il loro sacrificio vale molto di più. Chi ha pagato il prezzo più alto nella lotta alla criminalità organizzata – cioè i congiunti di quei magistrati, poliziotti, politici, imprenditori, sindacalisti e giornalisti assassinati –, non può trovare consolazione al proprio dolore in una guerra eternata. Che può solo amplificare lo strazio di un martirio vano.
    Se questo è vero sul piano morale, lo è ancora di più su quello razionale. Una pena che non redime trascina con sé il rancore tra le generazioni. Senza il ravvedimento dei padri, per lungo, doloroso e rischioso che sia, il destino dei figli è segnato. Uno Stato incapace di superare l’emergenza divide la società in fazioni. Una giustizia che pensa e parla con la lingua del sospetto alza una coltre di fumo sulla vita pubblica, nella quale «mafia» è, allo stesso tempo, tutto e niente.
    I falsi protettori di Abele tirano per la giacca gli eroi dell’Antimafia per nascondere la loro cecità ideologica e proteggere le posizioni di potere costruite fin qui. Ma Abele è morto e nessuno di loro può resuscitarlo. Nessuno può restituire alla comunità la dedizione, il rigore, l’ispirazione spirituale di un magistrato come Rosario Livatino, ucciso il 21 settembre 1990 sulla provinciale Caltanissetta-Agrigento, mentre si recava, senza scorta, in tribunale.
    Commemorando la sua morte trent’anni dopo, il cugino di questo eroe involontario, don Giuseppe Livatino, rivolge parole impegnative a uno degli assassini, con il quale intrattiene da anni una corrispondenza privata: «Un abbraccio particolare a Gaetano Puzzangaro. Insieme possiamo costruire un volto nuovo di questa terra bellissima e disgraziata, come la definì Paolo Borsellino». Puzzangaro aveva ventun anni quando, insieme ad altri complici, speronò l’auto del giudice, per poi colpirlo a morte. Ha trascorso tre decenni in carcere, gran parte dei quali al 41bis. Ha studiato, si è ravveduto e, grazie al coraggio di una magistrata di sorveglianza, ha ottenuto la semilibertà.
    La sua redenzione è stata al centro della causa. Ci vuole coraggio. Il coraggio di scartare per sempre le scorciatoie, che sporcano le democrazie con l’illusione che ci sia un fine in grado di giustificare tutti i mezzi. Ci vuole il coraggio di magistrati illuminati, e politicamente influenti, che pure riconoscono la traiettoria deviante imboccata dalla giustizia dei cattivi nel nostro paese. Ma che hanno commesso l’errore di pensare che l’eccezione sia ancora sostenibile, se maneggiata da coscienze responsabili e sagge. Non è così: non basta ridurre gli errori e limitare gli abusi, da sempre due variabili nell’esercizio della giurisdizione.
    Perché una cosa è abusare con strumenti ordinari, un’altra è farlo con una bomba atomica. Bisogna avere il coraggio di disarmare le testate nucleari installate nel sistema democratico da una logica di potenza che è cresciuta negli anni senza alcun contrappeso istituzionale.
    L’Antimafia in Italia è una macchina fuori controllo, dotata di mezzi letali; lo sconfinamento dell’azione penale sugli altri poteri, che essa persegue, coincide con un deragliamento della democrazia.
    Per questo l’eccezione va dismessa, smontata e rottamata per sempre. Non c’è salvezza per la giustizia italiana senza un riscatto profondo dello Stato di diritto.
    Vuol dire tornare a un diritto penale ordinario fondato su fatti, prove e convincimenti oltre ogni ragionevole dubbio. Vuol dire riportare le confische, i sequestri e tutte le misure di prevenzione all’interno del processo, ancorandole all’accertamento di un reato e limitandole alla lotta alla mafia.
    Vuol dire definire per legge il confine tra l’illecito e il lecito, tipizzare in maniera tassativa fattispecie come il concorso esterno. Vuol dire abiurare il paradigma del sospetto e del disdoro, separando il diritto dalla morale nella giurisprudenza e nella cultura giuridica e civile del paese.
    Vuol dire dare un tempo preciso e breve alle misure emergenziali, come il 41bis, nella prospettiva di tornare all’ordinario prima possibile. Vuol dire restituire una funzione di redenzione alla pena, rendendola certa nella misura e flessibile nell’esercizio, cancellando per sempre la vergogna dell’ergastolo ostativo.
    Vuol dire considerare come sanzioni, di beatificazione di Rosario Livatino: più volte l’ergastolano è stato chiamato a testimoniare il suo percorso interiore davanti al postulatore del Vaticano.
    Ci vuole coraggio. Il coraggio di scartare per sempre le scorciatoie, che sporcano le democrazie con l’illusione che ci sia un fine in grado di giustificare tutti i mezzi.
    Ci vuole il coraggio di magistrati illuminati, e politicamente influenti, che pure riconoscono la traiettoria deviante imboccata dalla giustizia dei cattivi nel nostro paese. Ma che hanno commesso l’errore di pensare che l’eccezione sia ancora sostenibile, se maneggiata da coscienze responsabili e sagge. Non è così: non basta ridurre gli errori e limitare gli abusi, da sempre due variabili nell’esercizio della giurisdizione. Perché una cosa è abusare con strumenti ordinari, un’altra è farlo con una bomba atomica. Bisogna avere il coraggio di disarmare le testate nucleari installate nel sistema democratico da una logica di potenza che è cresciuta negli anni senza alcun contrappeso istituzionale.
    L’Antimafia in Italia è una macchina fuori controllo, dotata di mezzi letali; lo sconfinamento dell’azione penale sugli altri poteri, che essa persegue, coincide con un deragliamento della democrazia.
    Per questo l’eccezione va dismessa, smontata e rottamata per sempre. Non c’è salvezza per la giustizia italiana senza un riscatto profondo dello Stato di diritto.
    Vuol dire tornare a un diritto penale ordinario fondato su fatti, prove e convincimenti oltre ogni ragionevole dubbio.
    Vuol dire riportare le confische, i sequestri e tutte le misure di prevenzione all’interno del processo, ancorandole all’accertamento di un reato e limitandole alla lotta alla mafia.
    Vuol dire definire per legge il confine tra l’illecito e il lecito, tipizzare in maniera tassativa fattispecie come il concorso esterno. Vuol dire abiurare il paradigma del sospetto e del disdoro, separando il diritto dalla morale nella giurisprudenza e nella cultura giuridica e civile del paese.
    Vuol dire dare un tempo preciso e breve alle misure emergenziali, come il 41bis, nella prospettiva di tornare all’ordinario prima possibile.
    Vuol dire restituire una funzione di redenzione alla pena, rendendola certa nella misura e flessibile nell’esercizio, cancellando per sempre la vergogna dell’ergastolo ostativo.
    Vuol dire considerare come sanzioni, e assisterle con le garanzie del processo penale, tutte le misure amministrative che comportino un’afflittività e una limitazione della libertà per i destinatari, come le interdittive antimafia.
    Vuol dire promuovere nel paese un dibattito sulla crisi e sulla difesa dello Stato di diritto, che impegni al massimo livello le Commissioni giustizia delle due Camere.
    Vuol dire, da ultimo, diradare il polverone di sospetti, accostamenti superficiali, pregiudizi cognitivi e morali, rappresentazioni ideologiche con cui l’Antimafia racconta la società, sgombrare il campo dai fantasmi di una mafia che non risparmierebbe nessun territorio e nessun ambito civile del paese, e tornare a studiarla per quello che è oggi.
    Non abbiamo della mafia nessuna rappresentazione attuale e attendibile.
    La macchina dell’investigazione giudiziaria è un’arma spuntata e autoreferenziale, sconnessa dai processi di territorio. Insegue una verità sempre più storica, tra le delazioni di pentiti pronti a tutto pur di garantirsi privilegi e immunità.
    Assume l’enorme mole di intercettazioni di cui dispone come unica fonte di prova, in assenza di riscontri efficaci. Cede alle congetture di una polizia giudiziaria che non risponde, come del resto il pm, della raccolta e della proposizione di illazioni inconsistenti.
    Senza un’iniezione di responsabilità non si ferma la deriva, fuori controllo, del sistema investigativo. Né si ottiene, da una simile articolazione organizzativa e operativa, alcun fotogramma realistico della realtà criminale. Quello che passa nell’opinione pubblica è un racconto irrealistico, distorto dalla necessità di costruire consenso attorno a un’Antimafia che ha assunto, nell’assetto istituzionale, un ruolo politico.
    E che utilizza l’allarmismo come cassa di risonanza della propria propaganda. Questo non vuol dire che la minaccia della mafia nel paese sia scongiurata o fittizia. Né che, dopo i colpi subiti negli anni seguenti le stragi e dopo la sconfitta dei corleonesi, non possa rialzare la testa in forma diverse. I soli ventotto omicidi del 2020, contro gli ottocento o mille di trent’anni fa, non bastano per dire che la mafia è morta. Ma neanche per sostenere il contrario, e cioè che la mafia non uccide più perché non ne ha bisogno, essendosi infiltrata in ogni dove.
    La mafia non è solo figlia di una condizione primigenia del potere, ma è sopravvissuta, in centocinquant’anni, ai cambiamenti sociali e alle strutture della modernità, trapiantandosi in due mondi e cogliendo ogni occasione di profitto e di potere. Nessuno ci garantisce che lo sviluppo tecnologico, i cambiamenti culturali, il controllo dello Stato e l’evoluzione della democrazia siano in grado di assorbire per sempre il fenomeno. E tuttavia sappiamo che il suo radicamento pesa su due fattori: la concentrazione del potere in forme occulte e l’arretratezza sociale del suo bacino di affiliazione.
    La trasparenza amministrativa e un clima civile di fiducia nelle relazioni pubbliche sono rimedi antimafiosi, assai più delle retate e dei maxi processi destinati a finire parzialmente in fumo. Allo stesso modo lo sono le occasioni di lavoro e di socialità e la lotta alla dispersione scolastica che, in alcune aree del Sud, riguarda uno studente su quattro. Sono i ghetti culturali e civili i bacini di incubazione della mafia.
    Nessuna guerra li ha mai cancellati, nessuna legge speciale li ha mai arginati. Semmai li hanno resi più impenetrabili. La stagione dell’eccezione perciò deve chiudersi. Alle condizioni date, e qui raccontate, la delega della politica all’Antimafia offende il diritto e la civiltà, è inutile, di più, è un danno per la democrazia. Prima cessa e meglio è. È ora di svelare l’inganno.  LINKIESTA 5.12.2022 Alessandro Barbano

 

 

 



“Confische incostituzionali”, Amato demolisce l’Antimafia che ha distrutto vite e aziende

 


L’altra faccia dell’Antimafia Se l’emergenza diventa sistema

 

L’altra faccia dell’Antimafia. Alessandro Barbano, oggi condirettore del Corriere dello sport, riprende i temi della campagna garantista condotta ai tempi della direzione del Mattino, quando si discuteva (2017) “se equiparare i corrotti ai mafiosi”, estendendo il “Codice antimafia“ ai reati contro la pubblica amministrazione. Per Barbano “un’aberrazione”. “Il Codice antimafia – scrive nelle pagine iniziali – mi pare il grimaldello per scardinare la porta già traballante dello Stato di diritto e mettere l’intera società sotto tutela giudiziaria”. Barbano indica i pericoli delle norme d’emergenza pensate per combattere le mafie e prende di mira – fra gli altri aspetti – lo strumento della confisca dei beni, una misura di prevenzione che non va di pari passo con i procedimenti penali, per cui può capitare d’essere assolti ma d’essere comunque privati del proprio patrimonio. Il pamphlet denuncia la deriva “illiberale e autoritaria” dell’Antimafia. “L’attacco alle garanzie liberali è in atto da tempo nel paese – scrive Barbano, allargando lo sguardo all’intero sistema politico-giudiziario – Viene da un’alleanza tra una parte della magistratura inquirente, rappresentata dalle procure antimafia, le forze politiche della sinistra e dei Cinquestelle in concorrenza fra loro, una parte della burocrazia prefettizia, settori dell’ordine pubblico guidati da un’ispirazione securitaria, liberi professionisti e associazioni di volontariato animati da interessi di lucro”. La logica Antimafia, conclude, è un inganno inutile e dannoso: “Prima cessa e meglio è”.  QUOTIDIANO NAZIONALE 5.12.2022

Teoremi accusatori, prevenzione, pene: l’antimafia da ripensare

“L’inganno” di Alessandro Barbano, un saggio lucido e coraggioso su “usi e soprusi dei professionisti del bene” che tenta di esportare l’analisi critica fuori dai recinti accademici per renderla viva nello spazio pubblicoChi osa criticare, anche con buone ragioni, l’antimafia più repressiva e integralista suscita subito il sospetto di essere un filomafioso, o un garantista peloso che nasconde intenzioni ignobili e interessi oscuri. Ne ho fatto esperienza nel sottoporre a critiche sin dall’origine, anche su questo giornale, il processo sulla cosiddetta trattativa stato-mafia (cfr. il Foglio, 1 giugno 2013), attirandomi l’accusa di essere un “negazionista” o “giustificazionista” di turpi patti politico-mafiosi. Più di recente, ha vissuto una esperienza analoga ad esempio il giornalista Alessandro Barbano (noto per il suo impegno “garantista”), incorrendo nel rimprovero di avere tradito lo spirito di Pio La Torre per avere espresso, sul palco della Leopolda 2022, opinioni negative su alcune parti della legislazione antimafia vigente. Lo racconta egli stesso in un saggio freschissimo di stampa, dall’eloquente titolo L’inganno – Antimafia. Usi e soprusi dei professionisti del bene (Marsilio, 2022). È di questo saggio lucido e coraggioso che intendo qui parlare, apprezzandone innanzitutto l’obiettivo di denunciare effetti dannosi o distorsivi delle attuali strategie di contrasto delle mafie che sfuggono, per lo più, all’ampia platea dei “non addetti ai lavori”. Tanto più che le critiche prospettate, lungi dall’essere puramente demolitrici, mirano a sollecitare un ripensamento complessivo dell’azione antimafia per migliorarne i modelli operativi e i risultati pratici (anche se non mancano qua e là nel libro rilievi influenzati, a mio giudizio, da un eccesso di garantismo ideologico, o formulati con una certa enfasi drammatizzatrice). Non privo di infarinatura tecnico-giuridica, e accettando il rischio di qualche imprecisione (che può peraltro essergli perdonata), Barbano affronta con stile vivace e pugnace più punti nevralgici, ponendo nel contempo sotto osservazione meccanismi normativi e approcci giudiziari. Sicché l’analisi prende in considerazione sia i risalenti e persistenti deficit di tassatività e precisione delle norme scritte, che determinano come effetto una notevole dilatazione della discrezionalità interpretativo-applicativa dei giudici, sia prassi giudiziali censurabili in quanto a vario titolo contrastanti con esigenze di garanzia o col principio della divisione dei poteri. Si tratta, beninteso, di questioni problematiche tutt’altro che nuove: ma nuovo o rinnovato è lo sforzo di esportare l’analisi critica fuori dai recinti accademici, dove è consolidata ormai da non pochi decenni, per farne appunto oggetto di una discussione più ampia nello spazio pubblico.  Non è possibile accennare a tutti i profili problematici considerati e alle svariate esemplificazioni casistiche che conferiscono concretezza al saggio, rendendone più intrigante la lettura. Tra questi profili, un posto centrale spetta senz’altro alla questione di fondo relativa al ruolo dell’antimafia a un tempo politica, giudiziaria e giornalistica nel complessivo orizzonte democratico (si veda in particolare il capitolo 9). Si allude cioè alle tendenze ricorrenti a porre la democrazia sotto tutela giudiziaria, a utilizzare l’indagine e il processo penale come strumenti di condizionamento o rinnovamento politico e di moralizzazione collettiva (trasformando procure e tribunali in autorità deputate a emettere censure etico-politiche di fatti anche privi di rilevanza penale), a riscrivere la storia d’Italia o a interpretare le dinamiche politiche in prevalente chiave criminale (andando alla caccia ossessiva del “grande vecchio” di turno da additare a regista o capo di complotti politico-delittuosi), a scrivere articoli giornalistici e persino libri (ad opera anche di magistrati protagonisti delle indagini) che divulgano come verità giudiziariamente accertate ipotesi accusatorie frutto di teoremismi, immettendo così nella comunicazione pubblica virus destinati a distorcere l’interpretazione degli accadimenti, ecc. Che questi sin qui sintetizzati siano effetti più che discutibili di un certo modo diffuso di fare antimafia, è indubbio e Barbano ha fatto bene a stigmatizzarli con vigore e ampi riscontri esemplificativi. Più complesso e articolato, anche sotto un profilo tecnico, è invece il discorso rispetto al radicale e pressoché totalizzante attacco che l’autore muove al sistema della prevenzione antimafia, rivisitato in più capitoli del saggio. Le misure di prevenzione – vale forse la pena ricordarlo – sono state in Italia introdotte, nel secondo Ottocento, come “stampelle” di una attività repressiva che non riusciva a contrastare la endemica criminalità meridionale con gli strumenti della normale giurisdizione penale (il loro meccanismo applicativo, in quanto incentrato su elementi indiziari di cosiddetta pericolosità sociale, prescinde dalla prova della commissione di reati veri e propri): non a caso, la dottrina giuridica di orientamento liberale le ha sempre guardate con prevalente avversione e diffidenza, bollando in particolare le tradizionali misure personali (come la sorveglianza speciale di pubblica sicurezza) come “pene del sospetto” o “pene senza delitto”. Ma non bisogna trascurare che, nel corso del tempo, il ventaglio delle misure preventive è andato arricchendosi e ammodernandosi, per cui i vecchi arnesi del passato non ne rappresentano ormai la parte più significativa e potrebbero anche essere eliminati. Ben maggiore rilievo, in termini di attualità e almeno potenziale efficacia, assumono invece le misure patrimoniali del sequestro e della confisca dei patrimoni di origine illecita o delle aziende in mano mafiosa, introdotte nel 1982 e successivamente più volte riformate (in un primo tempo, rendendole applicabili anche senza le misure personali, e infine – in particolare durante l’ubriacatura populista del governo cosiddetto gialloverde – estendendole indebitamente a forme di criminalità diverse da quella mafiosa); nonché, a mio avviso, soprattutto le ancora più innovative misure non ablative, ma – per dir così – “terapeutiche” dell’amministrazione giudiziaria e del controllo giudiziario (quest’ultimo previsto più di recente anche in sede amministrativo-prefettizia), volte a bonificare quelle aziende che, pur infiltrate da organizzazioni criminali, appaiono comunque suscettibili di essere recuperate a un futuro funzionamento esente da influenze o pressioni mafiose. È proprio questa orientazione recuperatoria che rende questi ultimi strumenti, in atto in corso di sperimentazione applicativa, assai promettenti.     Se è certo che le suddette misure con finalità di bonifica non hanno un carattere punitivo, non è però neppure sicuro che possa continuare oggi a essere considerata come una “pena mascherata” la stessa confisca dei patrimoni illeciti. Piuttosto, è plausibile ravvisarne la attuale finalità in una ottica che ha poco a che fare con una sostanziale punitività occultata, e che riflette piuttosto una esigenza di controllo pubblico sull’origine e formazione delle ricchezze patrimoniali: in questo senso, la confisca diventa una misura compensatorio-ripristinatoria volta a riportare la situazione patrimoniale allo stato antecedente alla commissione dell’illecito, in quanto la ragione che la giustifica finisce appunto col basarsi sul principio che  la condotta illecita non può costituire titolo legittimo di arricchimento (cfr. sent. costituzionale n. 24/2019). Ciò non equivale, beninteso, a disconoscere che una confisca pur così concepita necessiti di essere posta su basi normative da riformare, essendo ancora quelle vigenti sotto diversi aspetti difettose sul piano delle garanzie individuali. Come pure sono senz’altro da criticare certe prassi giudiziarie troppo spericolate, disinvolte o comunque eccessivamente discrezionali nel decidere la confiscabilità di ricchezze o aziende lambite da sospetti assai labili di origine o compromissione mafiosa (specie nei casi in cui il procedimento di prevenzione prosegua, come l’ordinamento vigente consente, nei confronti di persone assolte in un processo penale già concluso). E altresì Barbano ha ragione nell’annoverare, tra i guasti maggiori dell’attuale gestione del sistema preventivo, il frequentissimo destino infausto cui vanno incontro i beni o le aziende già confiscati, che nella maggior parte dei casi finiscono col deteriorarsi o col cessare ogni attività. Considerato che le luci e le ombre della prevenzione antimafia in ogni caso oggi coesistono mescolandosi insieme in una sorta di zona grigia, che non sempre consente distinzioni nette tra aspetti positivi e negativi, sarebbe difficile contestare l’esigenza di un ripensamento dell’intero settore, in vista di una sua complessiva riforma: da un lato per renderlo più razionale e organico e  potenziarne l’efficacia e, dall’altro, per rafforzare sensibilmente il livello delle garanzie (come da tempo, del resto, auspicano la dottrina accademica e l’avvocatura). E sarebbe anche necessario, più in generale, aprire un confronto pubblico su come curare le diverse patologie che in atto affliggono l’antimafia intesa nel senso più comprensivo, come il libro di Barbano appunto opportunamente suggerisce. Ma siamo capaci, nel nostro paese, di impegnarci in dibattiti e confronti autentici su un tema così divisivo?  3.12.2022 IL FOGLIO


L’inganno del sistema dell’antimafia che è diventato eccezione democratica

 

Il paradosso della giustizia che si è trasformata in una macchina del dolore ingiustificabile. Il muro della menzogna di una legislazione speciale che tutti ci invidiano ma che, stranamente, nessuno imita

Raccontare la giustizia da dentro, con gli occhi di fuori. Vuol dire riconnettere la coerenza delle sue condanne, o piuttosto delle sue confische, alla realtà. E scoprire, per esempio, che Riccardo Greco, l’imprenditore di Gela che denunciò i mafiosi a cui pagava il pizzo da anni, e che per anni fu perseguitato dallo stato, non aveva altra scelta che quella di togliersi la vita, per sottrarre la sua stessa vita, e quella dei suoi famigliari, alla ferocia kafkiana di un processo capace di inseguirlo per ogni dove. E per ogni tempo. Con “L’inganno”, in uscita stamane in libreria, voglio spiegare il paradosso civile di una giustizia trasformatasi in una potente macchina del dolore non giustificato e non giustificabile.

Ho due obiettivi: confutare l’idea che la crisi della giustizia si esaurisca nel rapporto tra la magistratura e la politica, e quindi si risolva, come pure si dice in questi giorni, modificando il reato di abuso d’ufficio o piuttosto abolendo la legge Severino; e dimostrare invece che tutto origina dallo sconfinamento dell’intero sistema nell’eccezione. Dove ciò che, visto da fuori, sarebbe “arbitrio”, “abuso” e “assurdo”, qui è legittimato da una logica dell’emergenza che prevale su ogni altra ragione. È il diritto dei cattivi, introdotto “dopo l’Unità d’Italia per combattere i briganti, usato a piene mani dal fascismo per perseguitare i dissidenti, ignorato dai repubblicani” e riportato in auge dai moderni paladini della giustizia. È l’antimafia, un universo che fa della deroga la regola, e dell’emergenza permanente l’altare sul quale sacrificare la libertà in nome della lotta al crimine. Un universo fatto di leggi speciali. Di sentenze che anticipano leggi e poi diventano leggi. Di pene che aumentano a dispetto del diminuire dei reati. Di procure che hanno accresciuto il loro potere fino ad assumere un ruolo politico e ad assegnarsi il compito di bonificare la democrazia. Di confische e sequestri con cui lo stato espropria enormi patrimoni privati a cittadini spesso mai processati o, addirittura, assolti. Di imprenditori interdetti nella loro attività in nome di un sospetto, che si diffonde per contagio, come un virus. Di prefetti, amministratori giudiziari e associazioni di volontariato, la cui funzione o il cui profitto dipendono, a vario titolo, dalla crescita continua del sistema stesso. E, infine, di una retorica che accompagna l’avanzare dell’antimafia nella democrazia.
Mi chiedo se questa enorme sovrastruttura fosse indispensabile per sconfiggere la mafia, se e in che misura ha adempiuto al suo compito, perché è cresciuta oltre ogni previsione, qual è oggi la sua funzione e quali effetti collaterali produce per la società, chi la promuove e perché, che rapporto ha con la crisi della giustizia italiana e quali sono i vantaggi, o piuttosto gli abusi, i lutti e l’inquinamento civile perpetrati fuori da ogni autentico controllo di legalità e di merito. E da ultimo quali sono i rischi di una sua ulteriore espansione in Italia, dove sempre più spesso con i rimedi dell’antimafia si affronta e si reprime ciò che mafia non è.
Ma più di tutto mi interessa mettere a confronto la coerenza logica di dentro con quella di fuori, e dimostrare il divorzio insanabile che si è prodotto tra la giustizia e la vita. Nella prima si può allo stesso tempo assolvere un cittadino perché il fatto non sussiste, e confiscargli tutti i beni, l’azienda, i conti correnti, la casa, le auto e perfino i regali ricevuti dai figli per la prima comunione. Si può fare e dire che le due azioni, assolvere e confiscare, sono possibili, compatibili, coerenti e, in certi casi, consequenziali. Nella vita l’idea di un’azione così violenta e così afflittiva dello stato suona invece come la più atroce delle sopraffazioni. Se tra la logica della giustizia e quella della vita si è aperto un cratere così ampio, vuol dire che la prima non è più funzione della seconda, ma esiste per se stessa.
C’è un disegno di potere, visibile, che si traduce nell’idea di mettere la società sotto tutela, grazie a una delega che la magistratura ha ricevuto dallo stato e che ha la genesi nella lotta all’emergenza mafiosa. Se ne parla e se ne discute da anni, ma questo disegno non esaurisce e non spiega da solo il deragliamento della giustizia. C’è di più. C’è un progetto ideologico di matrice rivoluzionaria, che si assegna il compito di redistribuire la ricchezza, perseguendo quella che si ritiene prodotta ingiustamente. L’obiettivo di questa crociata sono i beni illeciti. I colpevoli sono tali in quanto possessori di patrimoni che si presumono acquisiti ingiustamente, quindi non solo gli autori di reati, ma anche i terzi coinvolti nella proiezione della pericolosità dei beni, e perfino le vittime della mafia, come gli imprenditori che pagano il pizzo. La qualificazione della colpevolezza sfuma nell’idea che chiunque si trovi, per qualunque ragione, ad aver beneficiato di un ingiustificato possesso di ricchezza debba risponderne penalmente. Nella giustizia del riscatto sociale non esistono più i colpevoli, in quanto autori del fatto, ma piuttosto i coinvolti. Per questo mafiosi e corruttori stanno sullo stesso piano, in quanto beneficiari di ricchezze ingiuste. La loro responsabilità non è verso lo stato o verso la comunità, e neanche verso le vittime dei reati commessi, ma prima di tutto verso la storia.
Questo paradigma ha una serie di conseguenze per la giustizia. La più grave è una torsione illiberale dell’azione penale, per cui nel suo radar il reo sostituisce il reato, il sospetto la prova, il risultato le garanzie, la morale il diritto. Di questa sostituzione si coglie un’eco nel rapporto tra il diritto penale ordinario e il diritto speciale dell’antimafia. Non a caso il primo pone il limite a premessa della potestà punitiva: “Nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come reato dalla legge”, recita l’articolo 1 del Codice penale. Il secondo invece non assegna vincoli alla volontà. “I provvedimenti del presente capo si applicano a coloro che debbano ritenersi, sulla base di elementi di fatto, abitualmente dediti a traffici delittuosi”, recita l’articolo 1 del Codice delle misure di prevenzione. Dove prima era il limite, ora c’è l’obiettivo. Il programma culturale moderno del diritto penale parte dalla protezione dell’innocente. Quello delle misure di prevenzione, all’esatto opposto, parte dalla definizione del bersaglio della potestà punitiva.
Nel racconto de “L’inganno”, l’antimafia mostra la sua evoluzione in una concrezione insieme ideologica, politica, burocratica e affaristica, protetta da un muro di cinta e da un fossato, come nella tradizione di ogni architettura di potere feudale. Il muro è la menzogna di una legislazione speciale che tutti i paesi del mondo vorrebbero imitare. Nelle pagine di questo libro ho provato a scavalcarlo, dando una risposta alla seguente domanda: perché, se tutti ci invidiano i rimedi delle norme eccezionali, nessuno li adotta? Il fossato è la gogna in cui rischia di cadere chiunque osi criticare il sistema, da Leonardo Sciascia ai giorni nostri.
Non a caso, nell’anno di gestazione del libro, mi sono imbattuto in consigli per così dire scoraggianti, del tipo “ma chi te lo fa fare”, o piuttosto semplicemente in apprezzamenti che, a rigor di logica, risultano immotivati. Come quelli che fanno dire a taluno: “Che coraggio hai avuto a scrivere un libro così”. Ma coraggioso sarebbe raccontare una guerra o, al limite, smascherare un’organizzazione criminale, sfidare per esempio la mafia. Perché dovrebbe essere coraggioso, invece, sfidare l’antimafia, cioè criticare un apparato di contrasto pubblico e legale, fondato su leggi, istituzioni e autorità legittimate? Senza alcun autocompiacimento rilevo che una buona parte delle persone che, per motivi diversi, hanno avuto l’occasione di leggere le bozze de “L’inganno”, mi hanno espresso questo pensiero. Credo che anche in questa percezione diffusa ci sia la prova di uno slittamento civile che coincide con un’anomalia della nostra democrazia. Su cui riflettere. 


La mafia non è finita, ma anche l’Antimafia va totalmente ripensata

 

Quello che passa nell’opinione pubblica è un racconto irrealistico, distorto dalla necessità di costruire consenso attorno a un’Antimafia che ha assunto, nell’assetto istituzionale, un ruolo politico.
Non c’è salvezza per la giustizia italiana senza un riscatto profondo dello Stato di diritto. Vuol dire tornare a un diritto penale ordinario fondato su fatti, prove e convincimenti oltre ogni ragionevole dubbio.
Vuol dire riportare le confische, i sequestri e tutte le misure di prevenzione all’interno del processo, ancorandole all’accertamento di un reato e limitandole alla lotta alla mafia. Vuol dire definire per legge il confine tra l’illecito e il lecito, tipizzare in maniera tassativa fattispecie…

09 Novembre 2022 IL SOLE 24 ORE


Musacchio: “Si pensi ad una Commissione Antimafia diversa dalle precedenti”

 

La Commissione Antimafia così come è attualmente concepita serve a poco. Sistemerà il solito parlamentare (scelto tra color che son sospesi) nella casella di Presidente e i vari componenti che, una volta eletti, avranno un titolo di cui fregiarsi.
Nella realtà si tratta di un organo con funzione essenzialmente auditiva di magistrati e forze dell’ordine e che in concreto così come è concepita oggi apporterà ben pochi vantaggi alla lotta contro le mafie.
Avremmo bisogno di un ripensamento della stessa  e di un suo adeguamento alle continue metamorfosi mafiose. Negli ultimi trent’anni non ricordo una Commissione che abbia inferto alla mafia colpi degni di menzione speciale e non ricordo grandi relazioni che abbiano fatto evolvere gli studi e le conoscenze scientifiche sul fenomeno mafioso.
Agli iniziali reboanti proclami sulla lotta alla criminalità fanno seguito poi le classiche audizioni che purtroppo raramente apportano qualcosa di effettivamente nuovo. La nuova Commissione Antimafia dovrebbe, a mio avviso, tener conto di tre esigenze: 1) essere presidio statale in grado di assumere funzioni anche gestionali; 2) garantire un’adeguata partecipazione di veri esperti e dell’ associazionismo civico; 3) assicurare unitarietà, scientificità, organicità e tempestività degli interventi in materia. La nuova Commissione dovrà approfondire la conoscenza del fenomeno mafioso con studi scientifici e documentazione di livello internazionale soprattutto in quelle nuove aree d’interesse che rivestono una particolare importanza nel contrasto alla criminalità organizzata transnazionale. Dovrebbe occuparsi di individuare nuovi metodi e moderne strategie di lotta preventiva e repressiva. Elaborare un’efficace politica antimafia volta a incidere sulla capacità d’infiltrazione della criminalità nel tessuto economico legale. Sarà così?  Vincenzo Musacchio, criminologo forense, giurista, associato al Rutgers Institute on Anti-Corruption Studies (RIACS) di Newark (USA). 02/12/2022 FAI INFORMAZIONE