Infiltrati di Stato

 

Spiare, infiltrato, 'ndrangheta, poliziotto, mafia, agente sotto copertura

 

SOTTO COPERTURA – VIDEO POLIZIA DI STATO



Intervento del Dr Giovanni Falcone – 
Catania 12 maggio 1990, Facoltà di Economia e Commercio. “E’ prevedibile che a breve entrerà in vigore la nuova legge antidroga che, nella parte concernente la repressione del traffico di stupefacenti, introduce alcuni strumenti investigativi, già utilizzati con successo in altri Paesi. Mi riferisco soprattutto alla “consegna controllata” della droga e “all’agente sotto copertura”.  La prima previsione consente, in sintesi, agli ufficiali di polizia giudiziaria, previa autorizzazione dell’ Autorità Giudiziaria, di non procedere all’immediato sequestro di una partita di stupefacenti in transito nel territorio italiano e all’arresto dei corrieri, ma di tenere sotto controllo i l percorso della droga allo scopo di potere individuare i destinatari e di risalire, attraverso gli ultimi anelli della catena di distribuzione, ai gangli direzionali del traffico di stupefacenti. In questa stessa ottica si inquadra l’istituto dell’ AGENTE SOTTO COPERTURA che dà facoltà agli ufficiali di P.G., sempre previa autorizzazione dell’Autorità Giudiziaria, di spacciarsi per criminali e di entrare in contatto coi trafficanti di stupefacenti in modo da potere carpire informazioni utili per le indagini, altrimenti difficilmente acquisibili.” Il D.P.R 309/90 del 9 ottobre 1990 entrò in vigore il 15-11-1990 e conteneva la prima forma di previsione del cosiddetto “Undercover”


 

L’ex agente sotto copertura: “Ho fatto anche il boss, da donna mi accettavano”


Le confidenze all’agente belga infiltrato: “San Luca è la mamma della ’ndrangheta”


 Paolo, il carabiniere infiltrato nella ‘ndrangheta

Un recente articolo di Repubblica che riporta la testimonianza di un carabiniere del Ros, infiltrato nella ‘ndrangheta, noto con il nome in codice di“Paolo”, rivela un aspetto poco noto dell’operato delle forze dell’ordine italiane: l’infiltrazione di agenti nelle organizzazioni criminali per smantellare i clan e neutralizzare le attività illecite.

In particolare, Paolo ha raccontato di essere stato per due anni infiltrato in un clan di ‘ndrangheta, la potente organizzazione criminale calabrese con ramificazioni in tutto il mondo.
Grazie alla sua operazione sotto copertura, è stato possibile smantellare il clan e arrestare i suoi membri, mettendo fine alle attività illecite che ne costituivano il motore economico.
Il racconto di Paolo getta luce su un aspetto poco noto delle organizzazioni criminali come la ‘ndrangheta: la loro capacità di gestire attività economiche complesse, che spaziano dalla gestione di traffici di droga e armi alla riciclaggio di denaro sporco, dall’estorsione alle frodi finanziarie.
Secondo Paolo, il clan di ‘ndrangheta a cui è stato infiltrato aveva manager in tutto il mondo, in grado di moltiplicare i milioni ricavati dalle attività illecite.

Ma come è possibile che organizzazioni criminali così complesse riescano ad operare in modo così efficiente e sfuggano alle forze dell’ordine per anni, se non decenni? La risposta sta nella loro capacità di mimetizzarsi, di infiltrarsi nei tessuti sociali ed economici delle comunità in cui operano, di controllare i poteri locali e di godere della protezione di un sistema di complicità che coinvolge anche le istituzioni.
Per questo motivo, l’infiltrazione di agenti sotto copertura rappresenta uno strumento prezioso per smantellare le organizzazioni criminali, perché consente di penetrare il loro mondo e di scoprire le loro attività illecite.
Tuttavia, come ha ammesso lo stesso Paolo, si tratta di un’operazione rischiosa e complessa, che richiede una grande preparazione e un’ottima conoscenza del territorio e delle dinamiche sociali.
In ogni caso, l’esperienza di Paolo dimostra che la lotta alla criminalità organizzata richiede una strategia multifronte, che comprenda non solo l’azione diretta delle forze dell’ordine, ma anche la prevenzione, l’educazione e il coinvolgimento delle comunità locali. Solo in questo modo sarà possibile contrastare efficacemente le organizzazioni criminali e proteggere la legalità e la sicurezza dei cittadini.

 

 

Parla il carabiniere infiltrato: “La ‘ndrangheta ha manager in tutto il mondo”

 

“Ho visto come moltiplicano i milioni”

Se il suo nome si potesse rivelare, rimarrebbe in cronache e annali, asserisce Alessia Candito di Repubblica nel suo articolo dove viene riportata una intervista ad un militare dell’Arma che per diverso tempo è riuscito a monitorare dall’interno le dinamiche della ‘ndrangheta, una delle più potenti organizzazioni criminali al mondo.
Hanno manager in tutto il mondo, ho visto come moltiplicano i milioni”, dichiara alla giornalista. “Paolo” è un infiltrato, il primo italiano che sia riuscito a “bucare” un clan di ‘ndrangheta, e il suo nome reale deve necessariamente rimanere segreto. È un carabiniere del Ros, e di certo non è la sua prima esperienza sotto copertura.

LA STORIA DI UN CARABINIERE DEL ROS CHE SI È INFILTRATO IN UNA ’NDRINA CALABRESE: “CI SONO SOGGETTI CON CAPACITÀ MANAGERIALI INIMMAGINABILI E CONTATTI IN TUTTO IL GLOBO. STANNO A BOVALINO E QUATTRO GIORNI DOPO TE LI RITROVI IN SUDAMERICA, POI DI NUOVO A BOVALINO AL BAR. E MUOVONO MILIONI – HO VISTO MOVIMENTARE UNA TRENTINA DI MILIONI GRAZIE A UN CIRCUITO CRIMINALE CINESE, UNA SORTA DI MONEY TRANSFER CLANDESTINO. I SOLDI VENIVANO RITIRATI E CINQUE MINUTI DOPO ERANO DISPONIBILI IN UN PAESE LATINO AMERICANO – I CLAN TI METTONO ALLA PROVA, VERIFICANO TUTTO QUELLO CHE DICI O RACCONTI”


Estratto dell’articolo di Alessia Candito per “la Repubblica”

Se il suo nome si potesse rivelare, rimarrebbe in cronache e annali. Ma “Paolo” è un infiltrato, il primo italiano che sia riuscito a “bucare” un clan di ’ndrangheta e il suo nome reale deve rimanere segreto.
Si sa e si può dire che è un carabiniere del Ros, che ha esperienza in Italia e all’estero e che quella appena conclusa non è la sua prima operazione coperta. […] per anni ha raccolto informazioni su movimenti finanziari, traffici, latitanze «inclusa quella di Rocco Morabito», ma soprattutto su rapporti e contatti. Imprenditori insospettabili inclusi.
Un tesoro di informazioni divenute essenziali per la maxi inchiesta “Eureka”, che la scorsa settimana ha portato a più di duecento arresti in tutta Europa. […]

Chi era Paolo? Per quanto tempo è diventato lui?
«Due anni e mezzo circa. Ero un insospettabile legato a contesti criminali, utile a risolvere problemi grazie a rapporti, contatti e ganci in Italia e all’estero. […]».

Non ha mai ha avuto paura che la copertura saltasse?
«Tutto è stato pianificato, ma bisogna fare attenzione a qualsiasi cosa. I clan ti mettono alla prova, verificano tutto quello che dici o racconti, le persone che sostieni di conoscere, le circostanze».

Dopo aver indagato per anni sulla ’ndrangheta, che effetto fa trovarsi dentro?
«È molto più pericolosa e ramificata di quanto si possa immaginare».

Com’è possibile che paesini della Locride di poche migliaia di anime siamo al centro di traffici mondiali e transazioni milionarie?
«Non devono ingannare. Non tutti sono allo stesso livello, ma ci sono soggetti con capacità manageriali inimmaginabili e contatti in tutto il globo. Stanno a Bovalino e quattro giorni dopo te li ritrovi in Sudamerica, poi di nuovo a Bovalino al bar. E muovono milioni».

Lo ha visto con i suoi occhi?
«Ho visto movimentare una trentina di milioni grazie a un circuito criminale cinese, una sorta di money transfer clandestino. I soldi venivano ritirati e cinque minuti dopo erano disponibili in un Paese latino americano».

Ha mai avuto la sensazione che ci fosse una regia più grande dietro l’azione dei singoli clan?
«La ’ndrangheta è unitaria, c’è sempre una sorta di mutuo soccorso fra le diverse famiglie». […]

 

NDRANGHETA

 

Vita di un agente sotto copertura – VIDEO

Dopo l’operazione antimafia “New Bridge” che ha portato all’arresto di 26 persone tra Italia e Stati Uniti, parla un agente sotto copertura che ha partecipato a numerose operazioni di contrasto al traffico di droga e di armi. Lo strapotere dei cartelli sudamericani, il ruolo della ‘ndrangheta e le difficoltà di lavorare con un’altra identità, nel’intervista di Mario Forenza –

Fiumi di denaro e droga dalla Colombia: agente sotto copertura fa scoprire il riciclaggio del narcotraffico

 

Operazione della Guardia di finanza di Trento in collaborazione con l’Interpol: arrestate 42 persone e sequestrati beni per 20 milioni di euro

Parte del denaro sequestrato

42 indagati e sequestri per quasi 20 milioni di euro. È l’operazione conclusa dalla Guardia di finanza di Trento e della squadra di polizia giudiziaria della Procura Distrettuale di Trento, in collaborazione con l’Agenzia Europol. Eseguita l’applicazione della custodia cautelare in carcere nei confronti di 42 soggetti, di cui 5 all’estero (Colombia e Spagna) e il sequestro di oltre 18,5 milioni di euro.
L’indagine vede complessivamente il coinvolgimento di 47 soggetti, di cui 26 di nazionalità estera (Colombia, Marocco, Albania e Siria), ritenuti a vario titolo responsabili di aver partecipato o concorso a un’articolata associazione per delinquere a carattere transazionale, dedita al riciclaggio di denaro derivante dal traffico internazionale di sostanze stupefacente in favore dai cartelli sud americani.
Un agente sotto copertura si è infiltrato nella rete di broker internazionali serventi i cartelli sud americani che – nel quadro di un accordo illecito preesistente che coinvolgeva i rappresentati della criminalità organizzata siciliana, calabrese e altre strutture criminali organizzate, grazie a una ramificata rete di collaboratori e facilitatori – erano dediti al riciclaggio internazionale dei proventi derivanti dal traffico di sostanze stupefacenti sul territorio nazionale.
Nel corso delle investigazioni è emerso che i clan colombiani e messicani, che cedevano a credito sostanze stupefacenti alle organizzazioni criminali nazionali, per far fronte alla necessità di far rientrare in Sud America il prezzo dello stupefacente si avvalevano di una specifica “rete di broker” internazionali, allo scopo di riciclare il denaro e convertirlo sotto forma di beni e servizi.
La metodologia di riciclaggio scoperta può essere sintetizzata così: i “cartelli sud-americani” cedevano a credito partite di cocaina a sodalizi criminali operanti in Italia i quali, dopo l’attività di spaccio, incassavano denaro contante che veniva successivamente consegnato ai “money collectors” (detti anche “corrieri”); questi ultimi, tramite una cosiddetta operazione di “money pick up”, trasferivano a loro volta le somme ai “money mule” (detti anche “prelevatori”); il denaro, dopo il deposito su dei conti correnti, veniva bonificato (in dollari) a favore di aziende, precedentemente individuate dalla “rete” di supporto dei cartelli, dislocate in diversi paesi del mondo, tra i quali Stati Uniti, Cina, Hong Kong e Turchia, operanti nel settore della commercializzazione di prodotti elettronici (specie di telefonia) e beni di lusso (orologi etc.). Queste società procedevano quindi alla spedizione dei prodotti verso i clienti sud americani, i quali pagavano (in pesos) il prezzo dei prodotti direttamente alla “rete dei broker” di supporto ai cartelli colombiani, così permettendo a questi ultimi, con la consegna delle somme alle consorterie criminali, di ottenere il denaro, oramai ripulito, in moneta locale. 31.5.2023 RAVENNA TODAY

 


Agenti sotto copertura si infiltrano nelle chat pedoporno: arresti e perquisizioni in tutta Italia

 

L’indagine anti pedopornografia ha interessato tutto il territorio nazionale e portato a tre arresti. Tra gli indagati anche quattro minori accusati di detenzione e diffusione di contenuti pedopornografici.

 

Una vasta operazione antipedofilia è in corso dalle prime ore di oggi in tutta Italia volta a smantellare una rete di utenti che si scambiava abitualmente materiale pedopornografico anche attraverso chat create appositamente con una nota piattaforma di messaggistica che garantisce l’anonimato degli utenti.

L’indagine, che si è avvalsa di agenti sotto copertura infiltrati tra la rete online creata dai pedofili, ha portato nelle scorse ore a tre arresti e oltre una decina di perquisizione in vari città italiane da nord a sud.
Nel dettaglio, oltre alle tre ordinanze di custodia cautelare, la polizia ha eseguito anche dodici decreti di perquisizione a carico di altrettanti indagati, di cui quattro non ancora maggiorenni, e sequestrando migliaia di file che dovranno essere ora esaminati. Tutti gli indagati devono rispondere delle accuse di detenzione e diffusione di contenuti pedopornografici.
I tre arresti sono avvenuti in Campania, Calabria e Lombardia ma l’indagine ha coinvolto persone residenti anche in Abruzzo, Emilia Romagna, Lazio, Liguria, Piemonte, Sicilia e Veneto.
L’indagine, diretta dalla Procura di Torino – Gruppo Criminalità Organizzata e Reati Informatici e coordinata dal Centro Nazionale di Contrasto alla Pedopornografia Online (Cncpo) del Servizio Polizia Postale e delle Comunicazioni di Roma, infatti ha interessato tutto il territorio nazionale.
Attraverso un’attività sotto copertura svolta nell’ambito del contrasto alla diffusione di materiale pedopornografico attraverso la rete, gli agenti di polizia sono entrati in contatto con gli utenti che, apertamente, sulla chat di gruppo, dichiaravano di possedere o pubblicavano materiale pedopornografico, proponendo di scambiarlo con altre persone.
Le tracce informatiche hanno permesso poi di individuare i partecipanti della chat e sopratutto l’amministratore di un canale dove reperire materiale con una iscrizione e pagamento di 25 euro. L’uomo, residente in Calabria, è tra gli arrestati con l’accusa di commercio di materiale pedopornografico aggravato per aver utilizzato strumenti volti a impedirne l’identificazione. Oltre numerosi supporti informatici, gli sono state sequestrate carte di debito/credito e un portafoglio elettronico. Antonio Palma 11 Ottobre 2022 FANPAGE

 


Cene con i boss, cinque cellulari e finte fidanzate: «Noi, infiltrati tra i criminali»

 

Vita (e rischi) degli agenti sotto copertura: i ruoli imparati a memoria, le mosse per avere la fiducia dei malviventi. «Ti mettono alla prova, vietato fallire»

 

«Ero a pranzo con questi sudamericani trafficanti di droga. Commentavano la notizia di un poliziotto colombiano infiltrato che era stato scoperto e “lasciato nella selva”, come dicono loro.
L’avevano sezionato in qualche boscaglia e piantato lì, appunto. Era vero? Era un avvertimento per i presenti? A me il video non l’hanno fatto vedere… Lì non puoi sbagliare. Per dire: non è che puoi diventare rosso! Niente domande, niente reazioni che potrebbero insospettirli.
Devi avere sangue freddo, devi perfino far finta di non capire cosa stanno dicendo. Sai che ti stanno studiando, ti stanno mettendo alla prova. E tu la prova la devi superare, per forza».
La vita degli agenti sotto copertura è così. Sono sempre sotto esame. Sempre costretti a muoversi come se camminassero sull’orlo del burrone. Sempre con un copione da recitare alla perfezione. Vietato sbagliare o dimenticare anche la più piccola battuta. Sono esseri simili ai replicanti di Blade Runner, gli undercover.
Contano su una identità che qualcuno ha costruito per loro e che imparano a memoria, e quando sono in missione dimenticano chi sono davvero. Conta soltanto chi devono essere.
Niky, per esempio: chiameremo così l’uomo di quel pranzo con i narcotrafficanti che parlavano del poliziotto fatto a pezzi. Lui è un agente della guardia di finanza di una città del sud e da più di dieci anni studia, conosce, agisce come undercover contro il traffico nazionale e internazionale di droga.
È il reato sul quale gli infiltrati di tutte le forze di polizia lavorano di più. Ma c’è anche il traffico di armi, il terrorismo internazionale, la tratta di esseri umani, la pedopornografia… Devi avere una grande dedizione per lo Stato e per il tuo lavoro, se metti a disposizione la tua vita per diventare un infiltrato fra gente che, se ti scopre, nella migliore delle ipotesi ti uccide senza farti soffrire troppo. Devi essere preparato, equilibrato, capace di non andare nel panico in situazioni di rischio estremo e paziente davanti a risultati che arrivano dopo mesi, più spesso anni
«La parte più complicata e difficile è quella iniziale», ci dice Niky, «cioè agganciarli, conquistarsi la loro fiducia, superare la loro diffidenza. Io lavoro sul fronte dei sudamericani che vogliono aprire una porta d’ingresso della cocaina in Italia per poi smistarla in Europa.
Quasi sempre cercano soggetti “puliti” che possano aiutarli. Persone che lavorano nei porti, negli aeroporti, per esempio. E allora è lì che tu ti inserisci nel lavoro di indagine classica fatta fino a quel momento e prepari il terreno, li agganci, ma ripeto: la loro diffidenza è pazzesca, maniacale».
Preparare il terreno e agganciarli, come dice il nostro amico, non è cosa di poco conto. Perché vuol dire preparare e inscenare ruoli, connessioni, attività di lavoro, modi di comportarsi, e tutto questo richiede una preparazione lunghissima e meticolosa. Significa prima di tutto avere una identità di copertura: non hai più il tuo nome ma ti chiami come l’uomo inventato. Sei lui e devi recitare lui: hai in tasca un documento vero che viene creato assieme a una storia che deve essere assolutamente verosimile. 

Hai un profilo facebook che risulterà aperto anni prima, hai magari una società tal dei tali che alla Camera di commercio risulta avviata tanto tempo fa, hai una email che ovviamente non può sembrare aperta ieri, hai una storia personale che potrebbe richiede la presenza di una fidanzata/amante (si chiede alle colleghe, in questo caso). E a volte ti tocca recitare anche gli stereotipi del caso: la bella ragazza che ti aspetta sulla macchina lussuosa mentre tu tratti un «affare» di droga, per dirne una. Devi sapere tutto dell’argomento che riguarda il tuo ruolo. Se sei un imprenditore del settore del legno devi avere una cultura sul legno, se ti spacci per istruttore di qualcosa devi esserlo davvero o quantomeno devi studiare moltissimo per sembrarlo veramente.
Naturalmente hai una casa che può diventare rifugio per quelli che stai cercando di incastrare. E, manco a dirlo: mentre sei sotto copertura metti in secondo piano — e a volte dimentichi per lunghi periodi — la famiglia, gli amici, la vita privata e gli interessi di sempre.
Contatti limitatissimi o nulli con chiunque, colleghi compresi. A parte il cosiddetto handler, che è la tua ombra anche se non sta lavorando accanto a te da infiltrato, è il tuo anello di connessione con il mondo (quello reale) e il team investigativo che ti segue sempre, ti copre, ti monitora a distanza e, se è il caso, interviene.
«Un undercover non è mai solo», è il mantra di Sergio, nome in codice di un servitore dello Stato che lavora da tantissimi anni per il Ros dei carabinieri come coordinatore degli agenti sotto copertura. 

«Un undercover può contare sempre sull’handler, e poi sulla squadra che non deve mai perderlo d’occhio e, dove è possibile, lo tiene sotto controllo con le intercettazioni ambientali o con gli strumenti addosso all’agente. Ricordo una volta un trafficante colombiano che si è piazzato a casa del nostro agente per 15 giorni. Lì che fai? Non puoi certo chiamare tua moglie e dirle che non torni a casa.
I contatti con la famiglia in quel caso li ha tenuti l’handler che incontrava l’undercover quand’era possibile mentre il nostro infiltrato raccontava al suo ospite di una relazione finita con una ex convivente e si presentava a cena con l’amante, cioè una marescialla».
E a proposito di chiamate: niente telefonini o numeri reali. Solo cellulari di servizio con la rubrica costruita a tavolino come tutto il resto. Sergio racconta di quella volta che i suoi uomini si finsero imprenditori di una società di import/export: hanno studiato ogni cavillo delle regole commerciali per essere esperti credibili e si sono presentati al mondo con le marescialle a fingersi segretarie dell’ufficio.

Situazioni di rischio non previsto? «Una volta decidemmo di far sequestrare in Spagna 200 chili di coca destinati in Italia.
Volevamo allontanare i sospetti sugli italiani e avevamo in quel momento un nostro infiltrato con due dei cattivi, a Milano.
Erano due argentini, un uomo e una donna. All’improvviso i finanziatori dell’importazione finita male, un napoletano e un foggiano, convocarono gli argentini e il garante del trasferimento della droga in Italia, cioè il nostro agente.
L’hanno praticamente sequestrato. Per fortuna avevamo ambientali in casa e abbiamo capito quello che stava succedendo. Li abbiamo agganciati e seguiti da Milano a Roma con l’ansia di perderli… Sono andati in un ristorante a incontrare gli italiani. Li vedevamo gesticolare, stava succedendo qualcosa ma non sapevamo cosa: troppo rischioso, siamo intervenuti e li abbiamo arrestati durante il pranzo».
Insomma: una faticaccia. Stressante e pericolosa. Ma che quasi sempre porta a buoni risultati. Migliaia di chili di droga tolta dalle mani della criminalità organizzata, fiumi i denaro sottratti a operazioni di riciclaggio, carichi di armi bloccate e reti di terroristi e di pedofili scoperte grazie a chi si insinua nelle loro comunicazioni telematiche.

Luca, agente sotto copertura per lo Sco della Polizia di Stato, ha più di 30 anni di servizio e parla spesso con giovani che vogliono seguire la sua stessa strada: «Gli dico sempre che noi siamo attori. Ci dicono “ciak, si gira” e dev’esser buona la prima per forza. Non puoi rifare la scena».

Lui è il primo undercover riuscito a documentare (con telecamere e microspie) la complicità fra alcune Ong e i trafficanti libici di esseri umani (è ancora in corso il processo per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina). Si è fatto assumere da una di quelle Ong come addetto alla sicurezza e al soccorso migranti ed è rimasto per più di due mesi sulla nave. Ha il brevetto da istruttore soccorritore ma anche lì: hanno voluto metterlo alla prova. «Mi hanno fatto lanciare in mare per simulare un soccorso a 30 miglia dalla costa libica, acqua nera profonda. Ho visto come tirava la corrente, ho fatto i calcoli… Mi sono lanciato, li ho visti allontanarsi e pensavo: avranno capito? Mi lasciano qui? La corrente mi ha portato via ma sono venuti a riprendermi dopo mezz’ora. Prova superata!».

Se sei nei panni di criminali devi entrare nella loro mente, devi ragionare come loro, anche se il tuo cuore è da poliziotto. Devi esser freddo e, se serve, devi saper improvvisare. Luca racconta di quella volta che non l’hanno scoperto per un soffio. Improvvisazione, appunto.
Un colpo da maestro. «Avevo uno zaino pieno di attrezzatura investigativa» racconta, «che non doveva vedere nessuno e che stavo spostando. Ricoprivo il ruolo di un ufficiale della marina ed ero, anche in quel caso, su una nave. Nessuno di noi sapeva che a un certo punto la procedura prevedeva il controllo dei passeggeri. Davanti ai due che volevano farmi aprire lo zaino pensavo: e adesso che faccio? Ho realizzato in un secondo che dovevo distogliere l’attenzione dallo zaino. Così ho fatto lo sbruffone. Ho detto: sì, sì, apro, non c’è problema, ma forse è il caso che lasciamo perdere; sapete che devo andare dal comandante, vero? Facciamo che faccio finta di non aver sentito. Quei due si sono guardati come per dire: mo’ che facciamo con questo? Ho messo lo zaino in spalla, arrogante. E sono andato».
Maestria, appunto. Luca appoggia sul tavolo cinque telefonini: cinque! E scherza: «Chi sono io oggi? Ah, già… Mario», e ne prende uno. «È stressante, sì», torna serio. «È una cosa che ti consuma, è destabilizzante. Ma alla fine di ogni operazione è anche una soddisfazione bellissima. E non lo cambierei con nessun altro lavoro al mondo». di Giusi Fasano CORRIERE DELLA SERA 7.1.2023 


Una vita sotto copertura

Panorama ha incontrato uno degli “undercover” della Polizia che da anni vive infiltrato nella rete dei narcotrafficanti

Ragionano come i narcotrafficanti ma non infrangono le regole della legalità: sono gli agenti sotto copertura della Polizia di Stato. Uomini e donne guidati da uno dei più esperti dirigenti del Servizio Centrale Operativo (Sco). Panorama, in esclusiva, ha potuto intervistare il pioniere degli undercover. L’abbiamo incontrato in una località segreta, armati solo di taccuino e penna: perché la prudenza non è mai troppa quando si affronta un tema come la lotta ai trafficanti di droga; perché, per la prima volta, mostra il volto senza travestimento a un giornalista; perché è infiltrato nelle maglie dell’organizzazione criminale.
Lui, nome di fantasia, sembra un attore di un film americano: la sua età non traspare e neppure la cadenza rivela sua vera appartenenza, se è nato al Nord o al Sud. Come un camaleonte è stato addestrato a cambiare pelle per salvare la sua. «Sono stato infiltrato in almeno dieci importanti operazioni di Polizia» dice Jack, da due anni allo Sco. «Ho perso il conto di quanti narcotrafficanti abbiamo catturato, anche uomini al di sopra di ogni sospetto, colletti bianchi che lucrano con la droga o spietati spacciatori; abbiamo sequestrato tonnellate di stupefacenti. È sempre la prima volta però, perché ogni missione è diversa dall’altra: non sai mai come potrebbe finire». 
Parla con calma, senza emotività. «Ci vuole molta professionalità… Ho imparato a comportarmi in modo freddo, lucido, risoluto» dice. Non deve mai sembrare sbirro, neppure quando racconta «cose» da sbirro. E con la paura come la mettiamo? «Ti fa commettere errori. Non sono Batman e devo sapermi fermare, laddove lo ritenessi opportuno». Perché un poliziotto rischia la vita per un normale stipendio e senza incentivi di carriera? Perché affronta un’esistenza complicata, ai margini della società, quasi come un clochard? Accade raramente che un undercover frequenti night club in compagnia di belle donne, ristoranti stellati, hotel di lusso. «Magari…». Per un attimo sorride. «Guardi, il grimaldello è stata la riforma della legge sulla droga. E poi non sopporto che questi criminali possano sentirsi degli intoccabili e farla franca. Un giorno mi sono detto: se non si riuscisse ad arrestarli con l’attività investigativa classica e si potesse farlo sotto copertura, ben venga».
Il contatto diretto con il trafficante di stupefacenti dà risultati più immediati; e negli ultimi dieci anni si sono fatti tutti furbi, al telefono si scoprono solo le corna. «Al telefono, del resto, non si registrano nitidamente i reati, tutto è più complesso. Ci sono, poi, tanti sistemi per comunicare: WhatsApp, la Chat, Facebook, Black Berry» continua Jack. Quando il Servizio Centrale Operativo decise di alzare il livello della lotta alla criminalità puntando sulla strategia dell’agente sotto copertura, chiamò Jack: lui, che aveva già dimostrato le prerogative indispensabili per questa attività investigativa, cominciò a formare altri poliziotti.
La scuderia degli undercover permette anche di risparmiare dal punto di vista economico. Per il piccolo spaccio, per esempio, si adotta una strategia collaudata, che permette in 60 giorni di arrestare 20 o 30 spacciatori che colonizzano la piazza: un intervento efficace eseguito da una decina di poliziotti dello Sco e della Scientifica; questi ultimi installano telecamere e microspie, al resto penserà l’undercover che avrà sempre le spalle coperte da un pugno di sbirri pronti a intervenire. 
Sono un team di professionisti, perché il limite che non si deve oltrepassare è sottilissimo e si rischia facilmente di bruciare l’operazione o di imbattersi nel reato penale. Chiediamo a Jack: quante volte si è trovato con le mani legate? «In molte occasioni avrei potuto fare di più, ma la legge non me lo consente. È come una linea Maginot: oltre non si può andare» dice l’agente abbassando lo sguardo come fosse una resa. «I poliziotti americani fanno moltissime operazioni sotto copertura perché la legge permette anche di provocare il reato, di vendere o cedere la merce» racconta. Dovrebbero dare la possibilità di trasportare gli stupefacenti per conto dei trafficanti, invece possono solo acquistarla. E se l’agente sotto copertura fosse costretto a una sniffatina di coca nel bel mezzo del rendez-vous? «Scherza? Il vero narcotrafficante non prende mai la cocaina perché se fosse un drogato non sarebbe credibile. Cerco sempre di evitare incontri al buio, feste e luoghi privati. Devo essere bravo a non trovarmi in certe situazioni perché mi propongo sempre come investitore e mai come consumatore».
Alla domanda: si è mai trovato ad affrontare un incontro senza supporto tecnico e senza informare il regista dell’operazione (che è sempre il direttore dello Sco)? Jack si lascia andare a un racconto da film: «A differenza dei trafficanti bosniaci che sono scaltri, superbi, difficili da conquistare, quelli albanesi si lasciano affascinare dalla persona brillante che ostenta una ricchezza vistosa. Un giorno mi presento, al primo appuntamento, sfoggiando una Lamborghini rosso fiammante. E conquisto immediatamente la simpatia dello spacciatore albanese: la pedina che mi avrebbe portato dal capo dell’organizzazione criminale. Quando ce l’ho ormai in pugno, comincio a dettare le condizioni e a farlo sentire una nullità. Gli albanesi sono molto orgogliosi, quindi cerco di renderlo vulnerabile. Al terzo appuntamento, infatti, mi confessa che prima di vendere la droga deve chiedere il permesso al proprietario. Finché, senza preavviso, mi dice: “Vieni che ti porto dal capo”. A quel punto sono a un bivio: ho un risultato investigativo importante, ma non ho il supporto di copertura dei colleghi. Non posso rischiare di fare saltare l’operazione, l’istinto mi dice di andare.
Jack si ferma un secondo per creare maggiore suspense. «Mi sembra di vivere la scena di un giallo: mi portano in un luogo isolato dove si trova un capannone. E mentre il mio gancio si reca dal capo, mi accorgo che sono sorvegliato: basterebbe una telefonata o un gesto nervoso… e non vedrei più il sole. Quando torna lo spacciatore quasi mi esorta: “Il mio capo ti vuole conoscere”. Raggiungiamo il capannone e mi trovo di fronte a un bosniaco grande come una montagna che comincia a farmi un vero e proprio interrogatorio. Per fortuna la mia storia lo convince: dopo una settimana mi informano che avverrà la consegna della droga, ma all’appuntamento mi presento con i miei colleghi che fanno la retata».
Il fatturato del traffico di stupefacenti potrebbe risanare le casse dello Stato, la richiesta di droga è talmente elevata che tutte le organizzazioni criminali guadagnano ingenti somme di denaro senza farsi la guerra: «Una volta il giro dei trafficanti di droga era chiuso e infiltrarsi era impossibile. Adesso, invece, il sistema è talmente variegato che a noi fa gioco» spiega. «Più persone spacciano e più possibilità abbiamo per mimetizzarci nelle organizzazioni criminali. Chiaramente dipende dalla etnia: lo spacciatore nigeriano ha un modus operandi, quello magrebino ne ha un altro, l’albanese o lo slavo un altro ancora».
Nella galassia dei narcotrafficanti, kosovari, bosniaci e croati sono i più spietati, anche perché molti boss dello spaccio sono reduci di guerra. «Infiltrarsi nelle maglie di queste organizzazioni è una impresa impossibile. Sono determinati, praticano l’autarchia più assoluta» sottolinea Jack. «Se è vero che la droga accomuna i popoli, è anche vero che l’organizzazione criminale nigeriana batte le altre etnie perché è potente, dominante, spalmata soprattutto nelle piazze più ricche del Paese. Gli spacciatori nigeriani sono così tanti che è come affrontare con l’ombrello lo tsunami». I capi dei clan nigeriani usano i riti tribali juju per soggiogare i proseliti. Sono azioni violente: di recente un «adepto» è morto durante un rituale di iniziazione. «E aveva pure pagato 400 euro» precisa Jack.
I boss nigeriani, giorno dopo giorno, conquistano fette rilevanti del mercato degli stupefacenti: qualcuno cerca di fare il salto di qualità, stringendo affari anche con gli spacciatori italiani. Se si volesse tracciare l’identikit del nigeriano presente nelle piazze di spaccio? «È un soggetto irregolare sul territorio, che vive in luoghi di fortuna, per cautela si rifornisce dai connazionali». Quindi scardinare e infiltrarsi nei clan nigeriani è come un labirinto. «Nonostante fossero gruppi criminali serrati, siamo riusciti, in alcuni casi, a penetrare anche a un livello superiore dell’organizzazione» sottolinea l’undercover.
La vera difficoltà è abbattere il muro della diffidenza. E poi sono molto superstiziosi: prima di effettuare un trasporto di stupefacenti contattano lo sciamano che si trova in Nigeria. «Mi è capitato, mentre l’operazione era quasi conclusa, che il capo nigeriano fermasse la consegna della droga perché lo sciamano vietava la trattativa e la rimandava a tempi migliori» dice Jack. Anche la madre del capo riveste un ruolo importante nell’organizzazione criminale nigeriana, e ha un potere incredibile sul figlio. È lei che investe i proventi della droga in Nigeria, quasi sempre in immobili. «Siccome i nigeriani sono molto creduloni, se la mamma del trafficante di droga dovesse dire: “Non ti muovere che ho un presentimento”, spostano o addirittura sospendono l’affare. Mi è successo diverse volte».
La mafia nigeriana è in ascesa. E la Nigeria è la tratta alternativa sia per la cocaina che per l’eroina. Jack non ha dubbi: «L’ovulatore fa transitare ingenti quantità di stupefacenti». Alcune importanti operazioni, una per tutte Eiye -Calypso, a Cagliari, dimostrano che è ormai un sistema ramificato. Finché la Ndrangheta resterà la regina del grande business, perché fa tutto in proprio, dalla raffinazione al trasporto della droga e persino allo spaccio nelle zone controllate, mantenendo contatti diretti con i cartelli colombiani e importando qualsiasi carico di stupefacenti, nel mondo del narcotraffico prevarrà lo status quo. «La normativa non ci permette di infiltrarci nei cunicoli delle ndrine» sospira lo sbirro. «Ma mai dire mai». Jack saluta e si allontana. PANORAMA 7.6.2019


L’infiltrato, dieci anni tra i narcos.  La storia vera di un carabiniere

Una storia vera, sin nei minimi dettagli. La storia di un agente sotto copertura, il racconto di dieci anni di vita, anni che mettono i brividi, passati da un carabiniere dei reparti speciali dell’Arma tra i narcotrafficanti più spietati, in Italia, Svizzera, Stati Uniti, Colombia, Bolivia e Turchia, per arrivare anche alla Brianza, scenario delle ultime operazioni anti-droga. Sono dieci anni senza una vita, o meglio, con una vita falsa che rischia di diventare così vera da spazzare via la propria, di vita. Oggi quel carabiniere è tornato ad essere se stesso, proprio alla guida di una delle tante caserme brianzole. Per noi, per tutti, resta senza volto, per ovvie ragioni di sicurezza. Lui oggi non ha dubbi: “Non lo rifarei, è stata un’esperienza devastante”.
Falco per i colleghi, Mario Bottari per i boss, Giulio per la moglie e Carlos nella sua ultima missione: sono tante le identità del maresciallo infiltrato nel business del narcotraffico per tutti gli anni Novanta, quando i tir carichi di droga invadono il mercato europeo. E’ lui il protagonista del libro di Carlo Brambilla, “L’infiltrato”, Editore Melampo (227 pagine, 15 euro), uscito a dicembre 2008 e già in ristampa. Un libro che tiene con il fiato sospeso, perché si sa che ogni passaggio, ogni minimo dettaglio è stato realmente vissuto sulla pelle di Falco. Un uomo con un senso del dovere altissimo, al quale è vietato essere se stesso, a tal punto che assume le sembianze fisiche di un boss, di un narcotrafficante.
Vive dieci anni come loro, in un pericoloso intreccio di rapporti dove il rischio di uno sdoppiamento di personalità è sempre in agguato. Falco è uno dei primi carabinieri a dare il via al filone operativo undercover e anche per questo rischia grosso. Poche le tutele in un reparto che è nato praticamente con lui, grandi invece i rischi, non solo per la sua incolumità. I rischi più pesanti sono quelli di un fallimento personale, di una disgregazione psicologica sempre in agguato, di una famiglia che sembra sfasciarsi sotto il peso di quel “dovere”. Più Falco diventa bravo, più l’Arma lo butta nella mischia, trasformandolo in venditore, compratore, intermediario, mafioso, agente d’affari, doganiere corrotto. Ma dieci anni vissuti così sono davvero troppi. E in questo libro la realtà supera di gran lunga la fantasia. Solo una persona straordinaria è in grado di reggere tante pressioni. Falco molla quando capisce che sta per perdere tutto: la moglie non ha più forza per sopportare una situazione insopportabile e il suo vivere a stretto contatto con killer e confidenti genera un intreccio di rapporti dove i confini del dovere professionale vacillano sino a generare l’accusa di aver tradito l’Arma. Lui, che per l’Arma e per il dovere, ha “tradito” se stesso, la sua vita e la sua famiglia. La crisi di coscienza lo porta al limite, lo sdoppiamento di personalità è conclamato, ma lui non si arrende.
E con lui nemmeno la sua famiglia. E’ così che dopo una missione in Bosnia e diverse operazioni anti-droga in Brianza, Falco torna al suo vero volto, al suo vero nome, e si ritrova nell’essere un semplice carabiniere, in una caserma brianzola.  Arianna Monticelli IL CITTADINO


IL PRIMO INFILTRATO NELLA ‘NDRANGHETA: “VITA DURA, COLPA DI LEGGI E PM”  

Si chiama Angelo Jannone. Oggi è consulente aziendale, docente di criminologia e scrittore. Ma in passato è stato comandante della compagnia dei carabinieri di Corleone dal 1989 al 1991. Ha lavorato fianco a fianco con Giovanni Falcone. In Calabria ha inferto duri colpi alle cosche, prima di passare al Ros di Roma. Jannone è stato anche uno dei primi infiltrati all’interno delle famiglie mafiose e dei narcos. Agendo sotto copertura all’interno di organizzazioni di narcotrafficanti colombiani legati a camorristi e ‘ndrine ha permesso un maxi sequestro di cocaina e l’arresto di oltre 40 persone tra Napoli, Milano, Roma, Amsterdam e il Venezuela. Dopo la vicenda di Jimmy, l’agente sotto copertura dell’operazione “New Bridge”che negli scorsi giorni ha portato a decine di arresti tra Italia e Stati Uniti, AffariItaliani.it gli ha chiesto di raccontare la sua esperienza da under cover.

Angelo Jannone, lei è stato tenente colonnello dei Carabinieri e si è trovato a fare l’infiltrato. Com’è arrivato a svolgere attività sotto copertura?
Intanto un plauso allo SCO ed all’agente Jimmy per la splendida operazione. Normalmente un ufficiale non si infiltra perché deve dirigere le indagini. Personalmente ho diretto varie indagini che prevedevano anche l’impiego di infiltrati. In quel caso, però, non avevo a disposizione la figura giusta. Serviva un pugliese. Iniziai con l’idea di sganciarmi non appena fossimo riusciti a creare la struttura necessaria. Ma oramai si era creato un certo legame. I criminali volevano parlavano solo con me. Così sono dovuto arrivare fino alla fine.

Quali caratteristiche bisogna avere per essere in grado di infiltrarsi nella criminalità organizzata?
Bisogna essere attenti, metodici, ma al tempo stesso creativi e profondi conoscitori di quel mondo. Si deve saper ragionare come ragionano i mafiosi. Si deve essere in grado di sopportare un’incredibile dose di stress. Non esiste una scuola specifica per “infiltrati”, ma non è un caso che per esempio che nei Reparti Speciali, come Ros, Scico o SCO, si selezionano solamente persone con certe caratteristiche attitudinali.

Agendo da infiltrati si rischia di sconfinare in rapporti troppo stretti con i criminali?
Il rischio c’è, ma proprio per questo è importante che l’infiltrato sia una persona preparata e in grado di svolgere il proprio compito senza mai dimenticare che sta solo recitando una parte. Da un certo punto di vista i rapporti umani aiutano nel lavoro dell’infiltrato, basta riconoscerne i confini. Certo, all’inizio vi sono stati soprattutto errori interpretativi, anche perché i primi corsi in Italia venivano tenuti da agenti della Dea (Drug Enforcement Administration, ndr) che insegnavano metodiche adatte al quadro normativo statunitense, ma non a quello italiano. Molti dei primissimi infiltrati italiani si sono cacciati nei guai perché ricevevano indicazioni non compatibili con la nostra normativa.

Quanto si rischia a fare l’infiltrato?
Il rischio c’è, soprattutto durante l’attività sotto copertura. Lì non puoi permetterti cali di attenzione perché se vieni scoperto è finita. Ma, conclusa l’indagine, i rischi si riducono notevolmente. Questo perché, soprattutto nel riciclaggio e nel narcotraffico le organizzazioni criminali hanno una vision da azienda. Per loro perdere un carico o subire arresti a causa di un infiltrato costituisce un “rischio d’impresa”. Sanno che può accadere e quando accade non pensano a vendicarsi ma a gestire i processi. Semmai chi rischia di più è che ti ha presentato, chi si è fidato di te e ha garantito per te non accorgendosi che eri un agente sotto copertura. Pensi al film Donnie Brasco: non è un caso se alla fine Cosa Nostra “giustizia” Al Pacino, il fiduciario, e non Johnny Depp, l’infiltrato.

Quanto si resta segnati da un’attività come questa?
Lo stress è altissimo. Devi essere concentrato 24 ore su 24. Magari sei a casa con tua moglie e i tuoi figli e ricevi una telefonata da loro, sul telefono da “infiltrato”. Devi ricordarti che in quel momento devi smettere di essere chi sei ed essere qualcun altro. devi cambiare tono voce e modo di parlare. E tutto questo alla fine può segnarti. Per questo avevo suggerito tempo fa di sottoporre a visite psicologiche tutti gli agenti sotto copertura, al termine di ogni indagine.

L’operazione degli scorsi giorni ha dimostrato che ormai le redini del narcotraffico internazionale sono in mano alla ‘ndrangheta?
Sorrido perché questa storia viene ripetuta ciclicamente. In realtà la ‘Ndrangheta ha preso le redini del narcotraffico già dai primi degli anni ’90, controllando le principali “piazze europee”. Già in quell’epoca la famiglia Mazzaferro, ad esempio, riceveva svariate tonnellate di cocaina in conto vendita dai colombiani, come accaduto qualche anno dopo per la famiglia Scali, sempre di Giojosa. E Cosa Nostra, in quel settore, era “finita” già da ben prima delle stragi. Ha vissuto i suoi momenti d’oro con la Pizza connection, con le raffinerie di eroina in Sicilia e con i rapporti eccellenti con i cartelli colombiani tenuti dalle famiglie Caruana-Cuntrera. Ma da tempo i cartelli colombiani non esistono più. I boss colombiani si sono trasformati in grandi broker internazionali ed a tirare le fila sono le grandi organizzazioni in grado di gestire le rotte del narcotraffico verso le due maggiori destinazioni, Europa e Stati Uniti. Un potere enorme è in mano ai cartelli messicani, come i Las Zetas, con cui l’‘ndrangheta ha stretto rapporti da tempo. Colombiani e messicani hanno eccellenti rapporti soprattutto con le famiglie della costa Jonica Reggina. Si tratta di famiglie con una storia da contrabbandieri internazionali di tabacchi che nei decenni hanno sviluppato un know how nelle relazioni internazionali e sono considerati altamente affidabili. La ‘ndrangheta è potente perché è, tra virgolette, seria, credibile e affidabile.

Lo strumento dell’attività sotto copertura viene sfruttato a dovere in Italia?
Assolutamente no. E questo per una serie di fattori, culturali, di risorse, normativi e processuali. Le attività sotto copertura sono molto condizionata dal quadro normativo di riferimento. Nel sistema anglosassone l’esercizio dell’azione penale è facoltativo e l’infiltrazione full time è ampiamente possibile. Ma in Italia l’esercizio dell’azione penale è obbligatoria. Ed Il nostro sistema normativo a partire dal 1990 è tutto impostato sul principio del “differimento atti”. Cerco di spiegarlo con semplicità: formalmente tu quella cocaina che ricevi, o compri, durante l’attività di infiltrazione è come se la stessi sequestrando. Solo che formalizzerai il sequestro in un momento successivo, quando verrà meno l’esigenza investigativa e di copertura. Prima del 1990 un carabiniere o un poliziotto poteva infiltrarsi, ossia entrare in confidenza e carpire la fiducia di un organizzazione criminale. Ma di fronte ad una partita di droga era obbligato ad intervenire arrestando e sequestrando. Altrimenti commetteva un reato. Nel 1990, quindi, fu introdotta la prima normativa di settore che permetteva, a condizioni molto restrittive e tra mille dubbi interpretativi, di spostare in avanti il momento dell’arresto o del sequestro e non far saltare la copertura. Ma i limiti erano ancora troppi. Si diceva, ad esempio che l’infiltrato non fosse autorizzato ad utilizzare documenti falsi perché la legge non lo prevedeva ed era reato. O non poteva partecipare ad una cessione di droga perché reato. Ma allora se, ad esempio, un trafficante chiedeva di accompagnarlo ad una consegna di droga l’infiltrato cosa doveva fare? Di qui nascevano mille problemi, spesso anche giudiziari. Con un “no” finiva tutto. Con un “sì” si guadagnava la fiducia dei criminali e si portavano avanti le indagini. Ma l’ufficiale di polizia giudiziaria, anche se infiltrato, in Italia, non può chiudere gli occhi: deve qualificarsi e procedere all’arresto. Questa normativa, soprattutto nelle sue prime versioni, ha creato una marea di problemi, anche perché le nostre Procure e anche i singoli Pubblici Ministeri sono tante repubbliche a parte. Ci siamo trovati con tanti agenti sotto copertura indagati e processati per delle cavolate. Si era giunti a dire all’infiltrato: “Tranquillo, devi prima essere indagato poi in giudizio faremo valere la scriminante speciale”. Lei se lo immagina un carabiniere o un poliziotto che dopo aver rischiato la pelle deve prendere un avvocato, essere iscritto nel registro degli indagati e magari rischiare una condanna? Purtroppo è quanto accaduto. E magari con indagini sulle indagini, svolte da un’altra Procura che vanificano una certa elasticità interpretativa de magistrato che aveva diretto la prima indagine. È quanto accaduto soprattutto nella fase iniziale di applicazione della normativa speciale, con non poche aberrazioni. Un esempio su tutti il processo non ancora concluso, a carico del generale Ganzer e di altri uomini del ROS.

Insomma, non si viene proprio incentivati a utilizzare questo strumento?
Certamente no. Quanto accaduto agli esordi, ha fatto disaffezionare le forze di polizia a questo genere di attività, nonostante la profonda riforma della normativa che vi è stata solo nel 2010. Ora ci sono tantissime possibilità in più, prima inibite. Il problema è che tantissime forze di polizia giudiziaria forse non ne conoscono a fondo i contenuti e le enormi potenzialità operative.

Che cosa prevede la nuova normativa?
Ad esempio si può estendere il differimento del sequestro a qualunque corpo del reato, anche a documenti. C’è la possibilità di impiegare anche “esterni” alla polizia giudiziaria per i quali operano le stesse garanzie. Si può vendere o cedere, oltre che acquistare. Si pensi all’intermediazione o alla cessione di documenti falsi ad organizzazioni di trafficanti di esseri umani o a terroristi. Ma nel frattempo però la cultura dell’attività sotto copertura non si è sedimentata. Questo perché ad un certo punto un carabiniere, un poliziotto o un finanziere dice: “Ma chi me lo fa fare? Devo rischiare la vita e pure l’onore con un procedimento penale? Allora al diavolo voi, i trafficanti di droga e il sistema giudiziario italiano”.

I fondi per le forze dell’ordine non sono sempre adeguati. Esiste anche un problema di costi?
Sicuramente. Queste operazioni costano e il budget a disposizione è sempre più risicato. Si va avanti, in maniera tipicamente italiana, con una grande dose di creatività ed improvvisazione. Senza considerare che l’operatività si scontra spesso con la burocrazia. Alla fine della mia operazione da infiltrato mi sono sentito rifiutare una richiesta di rimborso di 300 euro per la fattura del fax della società di copertura che avevamo creato, perché la richiesta iniziale non chiariva che lo avremmo anche utilizzato. Mi sono cascate le braccia. Insomma, c’è tutto un coacervo di elementi che fa capire perché in Italia si ricorre poco a questo importante strumento di indagine. A tutto ciò si aggiunga che nella cooperazione internazionale, spesso ci si scontra con sistemi legali non facilmente conciliabili tra loro. Io stesso, per un’inezia, ho rischiato un’incriminazione in Olanda perché mi ero recato ad un secondo appuntamento richiestomi dai narcos, non “coperto” da rogatoria internazionale. Solo la flessibilità del Procuratore della Repubblica di Amsterdam mi ha salvato.

Qual è il livello delle indagini antimafia in Italia?
Il livello di professionalità della polizia giudiziaria italiana è molto apprezzato in tutto il mondo. E tutto sommato anche gli strumenti normativi di investigazione e contrasto a disposizione sono adeguati. Il problema è che fa acqua il processo penale. Abbiamo voluto scimmiottare il processo americano, ma alla fine è venuto fuori un mostro che non è né carne né pesce. Il risultato? Le verità processuali spesso sono lontanissime da quelle reali. Tanto valeva tenersi il vecchio processo inquisitorio. Vanno ridefiniti ruoli e confini. L’esperienza mi ha insegnato che le indagini ed i processi funzionano bene solo quando affidate a strutture di eccellenza in grado di sfruttare al meglio tutti gli strumenti investigativi. Le indagini funzionano male quando si fa tanto rumore. Nicola Gratteri, per esempio, è un’eccellente magistrato perché a differenza di altri sa valorizzare il ruolo della polizia giudiziaria. Il pm non si deve sostituire alla polizia giudiziaria, ma essere il garante della legalità nella fase investigativa guardando alla fase dibattimentale ed al risultato finale: far condannare i colpevoli e assolvere gli innocenti.

Secondo lei il ruolo dell’infiltrato è considerato nella maniera giusta in Italia?
Spesso si crea un cortocircuito mediatico giudiziario sbagliato. I pm guardano le strutture investigative d’eccellenza con ammirazione da una parte ma con sospetto dall’altra. Purtroppo quando superi delle norme facendo attività sotto copertura non esiste un “eccesso colposo”. Non hai la legittima difesa. E il punto è che non è sempre chiaro quando queste norme si sforano. Si è in balia di una giurisprudenza oscillante e dell’interpretazione, a volte maliziosa del singolo magistrato che può essere del tutto diversa dall’interpretazione di un altro suo collega. E in un secondo puoi ritrovarti da eroe ad indagato per narcotraffico. E lì si scatena l’opinione pubblica, il mondo dei social network, del web 2.0, specie di quelli che pensano che tutto ciò che dicono i magistrati sia il vangelo. E agenti valorosi si possono veder scambiati per corrotto e collusi, senza neanche il beneficio del dubbio.

Lei ha definito gli agenti sotto copertura ed i carabinieri e poliziotti di cui parla nel suo ultimo libro degli “eroi silenziosi”. Quanto dà fastidio a un eroe silenzioso vedere magari un magistrato che, dopo aver condotto immagini di grande impatto mediatico, si candida in politica?
Dà tanto fastidio perché è una delle anomalie tutta italiana. L’indipendenza non deve essere solo un fatto sostanziale ma anche di percezione. Personalmente non mi sono mai trovato a fare servizio dove sono nato e cresciuto. È già anomalo che i magistrati, i controllori supremi della legalità, spesso prestino servizio nella città dove sono nati, vissuti e cresciuti, dove hanno amici, compari e familiari. E ciò non può che compromettere l’indipendenza tuo operato. Se poi il passaggio successivo è la politica allora è tutto il sistema che perde di credibilità. Non a caso pur essendo i magistrati per due terzi giudicanti e per un terzo inquirenti, la proporzione si inverte nell’Anm e, di riflesso, nella loro rappresentanza in seno all’organo di autogoverno, il CSM. Ciò denota che la medianicità del loro operato ha un risvolto elettorale ed un peso ai fini del potere anche in seno alla stessa magistratura. Per questo io sono solito dire quando sento parlare di magistratura politicizzata che in realtà la magistratura a volte è politica.

di Lorenzo Lamperti AFFARI ITALIANI


LE OPERAZIONI SOTTO COPERTURA (O DI INFILTRAZIONE) 

Sono attività di intelligence dei servizi segreti italiani o di ufficiali di strutture specializzate delle forze di polizia. Sono state disciplinate per i servizi segreti da alcuni articoli della legge 3 agosto 2007, n. 124, che ha rinnovato le “agenzie” italiane di informazione per la sicurezza. In particolare:

  • l’ 24 stabilisce le modalità con cui gli agenti possono essere dotati di identità di copertura;
  • l’art. 25 prevede la possibilità di esercitare attività simulate (finta conduzione di imprese commerciali);
  • l’art. 26 regola il trattamento delle notizie personali, prefigurando un apposito servizio ispettivo a cura del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza (DIS).

Per l’attività di prevenzione condotta dalle forze di polizia, invece, in occasione della ratifica della Convenzione di Palermo contro il crimine organizzato transnazionale l’art. 9 della Legge 146/2006 ha dettato una disciplina generale delle operazioni sotto copertura[1]: essa reca una causa di giustificazione, in virtù della quale[2] non sono punibili gli operatori di polizia (ufficiali di Polizia Giudiziaria della Polizia di Stato, dell’Arma dei Carabinieri e del Corpo della Guardia di Finanza, appartenenti alle strutture specializzate o alla Direzione Investigativa Antimafia, nei limiti delle proprie competenze) che «anche per interposta persona, danno rifugio o comunque prestano assistenza agli associati, acquistano, ricevono, sostituiscono od occultano denaro, armi, documenti, sostanze stupefacenti o psicotrope, beni ovvero cose che sono oggetto, prodotto, profitto o mezzo per commettere il reato o altrimenti ostacolano l’individuazione della loro provenienza o ne consentono l’impiego o compiono attività prodromiche e strumentali».  Esse possono comunque suddividersi in due categorie: “alla prima appartengono le tecniche di investigazione sotto copertura, definibili come “attive” perché, attraverso un agente “infiltrato”, sono finalizzate all’acquisizione di elementi di prova raccolti nell’immediatezza del fatto o nel momento in cui l’attività criminosa è in corso di esecuzione; alla seconda si riconducono i ritardi e le omissioni di atti d’ufficio da parte dei soggetti incaricati dell’indagine”. Con le consegne controllate e con il differimento dei provvedimenti di sequestro o cattura, queste tecniche di investigazione “passive” sono fondate sulla continua supervisione dell’attività criminosa in corso di esecuzione.  Si è lamentato, però, che è stata persa in Italia “l’occasione per fornire più chiare indicazioni sulle finalità dello specifico strumento investigativo, oggetto attualmente di diversi approcci interpretativi, sviluppatisi sin dall’epoca della legislazione di contrasto al terrorismo internazionale, approvata in seguito all’attentato alle “torri gemelle” (2001). Una prima tesi ritiene, infatti, che dette operazioni possano svolgersi solo nell’ambito di un procedimento penale già instaurato; mentre una seconda amplia il campo di applicazione delle operazioni in questione, consentendole pure nella fase anteriore all’intervento e al controllo del pubblico ministero, ossia nelle cosiddette indagini preventive”

COME SI DIVENTA INFILTRATO   Equilibrio psichico, pazienza, coraggio e risolutezza: sono solo alcune delle caratteristiche necessarie a superare le rigide selezioni per diventare un “undercover”. In un libro Bur, Giorgio Sturlese Tosi ne ha raccontato per la prima volta la storia Ogni anno dieci finanzieri, dieci poliziotti e altrettanti carabinieri, selezionati dai rispettivi comandi generali, vengono iscritti nella lista dei possibili candidati.  Non prima, però, di aver superato una iniziale cernita interna, sostenuto test attitudinali e specifici training psicofisici. Se dimostreranno di poter affrontare situazioni al limite dello stress senza il rischio di far fallire, con il proprio comportamento, tutta l’indagine, saranno finalmente ammessi a seguire l’addestramento.  Per partecipare ai corsi però, oltre alla formazione specifica di un operatore di polizia, occorre che i candidati dimostrino anche di avere equilibrio psichico, pazienza, coraggio, tenacia e risolutezza. Insomma non servono dei Rambo per infiltrare una banda di trafficanti, ma semmai qualcuno con più sale in zucca che muscoli. Una volta a Roma, nella sede della Dcsa, in via Tuscolana, in un edificio moderno che affaccia sulla periferia di Cinecittà, gli allievi si immergono in lezioni teoriche e pratiche che affrontano vari argomenti.  La prima parte del corso consiste nel far conoscere, sia pure nel poco tempo a disposizione, il variegato mondo delle sostanze stupefacenti. Gli agenti infiltrati devono imparare a distinguere ogni tipo di droga, sapere che colore ha, quali sono i suoi effetti, come viene assunta, dove viene prodotta e quali sono i percorsi che segue fino alla piazza dello spaccio finale.  Le lezioni sono molto approfondite, tenute anche da chimici ed esperti della polizia scientifica. Perché la droga, quando viaggia, assume le forme più disparate. Vengono mostrati campioni di ogni tipo di sostanza, proibita o meno, comprese quelle che ancora non hanno invaso i mercati ma che si presuppone avranno una certa diffusione in futuro. L’aria dell’aula durante le lezioni si riempie degli odori emanati dalle diverse materie prime. Si sente il dolciastro dell’eroina, sembra quasi di palpare, in bocca, l’inconsistente amarezza della cocaina, di percepire l’odore intenso e caramellato dell’hashish e il profumo violento della marijuana. Per non parlare del fastidioso e allucinogeno puzzo acido dell’ecstasy, che impregna gli abiti, la pelle e i capelli.  Le tavolette di cocaina pressata, in genere avvolte nel cellophane o nel nastro da pacchi marrone, pesano cinquecento grammi e sembrano tutte uguali, ma invece cambia la consistenza e persino il colore, dal bianco acceso di quella più comune a quello vagamente rosato di quella più pregiata. Viene mostrato come ogni tavoletta porti impresso il marchio della raffineria dove è stata confezionata. Un marchio che vale come un Docg e che garantirà sulla qualità del prodotto. L’hashish invece viene di solito trasportato in valige di juta, dal forte odore di corda, riempite di polvere di caffè o intrise di olio per motori per camuffarne l’aroma. Spesso, però, gli allievi hanno già queste nozioni, avendo lavorato in precedenza nei reparti antidroga. Diverso è saper riconoscere in un litro di sciroppo alla fragola o in un vaso di ceramica bianca un chilo di cocaina purissima, modificata e portata allo stato liquido o solido per passare i controlli doganali ed essere poi, attraverso complessi procedimenti chimici, riportata alla forma originaria.  Gli agenti devono anche imparare quanto può essere pressata la cocaina per essere infilata in due sacchetti, ricavati dalle dita dei guanti di lattice prima di essere ingoiate dai corrieri che – è questo un test banale ma sempre valido e messo in pratica negli uffici doganali – eviteranno di bere la Coca-Cola che viene loro offerta, perché in grado di sciogliere gli involucri e provocare un’istantanea morte per overdose.  Dopodiché si passa alla dimostrazione pratica delle modalità di esame di una partita di droga. Se nei film basta infilare la punta di un coltello e portarselo alla lingua per valutare il principio attivo della polvere bianca, nella realtà le organizzazioni strutturate si servono di veri e propri chimici che testano un campione con un kit portatile che contiene provette, acidi e solventi: un armamentario che i futuri infiltrati dovranno dimostrare di saper usare al termine del corso. Dopo l’esperienza in laboratorio viene ripercorsa la filiera di ogni stupefacente. Gli allievi devono sapere chi ha il monopolio di una sostanza e in quale parte del mondo opera. Così come devono essere a conoscenza degli accordi tra organizzazioni che nascono dietro gli affari illeciti. Non possono ignorare, per esempio, che in Italia la cocaina la trattano soprattutto i calabresi, e che anche i siciliani devono ricorrere a loro per approviggionarsi della polvere bianca, mentre l’eroina viene spedita nel nostro Paese dai turchi, ma che il traffico viene gestito dagli albanesi che, a loro volta, si affidano ai nordafricani per la vendita al dettaglio. Perché ogni mafia, locale o transnazionale, in nome degli affari, è ben disposta ad allearsi e a spartirsi fette di un mercato di miliardi di euro. E, siccome di affari in fondo si tratta, gli agenti infiltrati devono essere al corrente del prezzo dello stupefacente all’origine e al dettaglio, con quali sostanze e in che modalità si può tagliare per aumentarne la quantità senza stravolgerne le qualità. Tutte queste informazioni non servono soltanto a far sì che l’agente infiltrato sappia distinguere una bustina di eroina da una di zucchero di canna, ma soprattutto che sia in grado di affrontare una trattativa con chi, di mestiere, smercia droga. L’undercover infatti compare all’improvviso, nessuno dei trafficanti lo ha mai conosciuto prima – semplicemente perché, prima, lui non esisteva – ed è naturale che venga sottoposto, palesemente o in maniera subdola, a una verifica sulla sua attendibilità. È fondamentale, per raggiungere l’obiettivo di apparire un interlocutore credibile nello scambio di una partita di droga – che potrebbe essere di quintali e valere milioni di euro –, che l’agente sotto copertura sappia anche mercanteggiare, mostrandosi attento al prezzo che pagherà (se si finge acquirente) o che intende guadagnare (se invece recita la parte del venditore).  Inutile infatti promettere cifre fuori mercato, perché anche nel commercio degli stupefacenti la concorrenza è agguerrita e il valore di un carico viene regolato dalla «Borsa» criminale dove i trafficanti internazionali si accordano con i rappresentanti di tutte le mafie, calcolando, di giorno in giorno, come nei mercati finanziari, la domanda e l’offerta, le piazze dove è opportuno investire e quelle più a rischio, le capacità del mercato di assorbire il prodotto e quelle dell’organizzazione di piazzarlo.  La seconda parte del corso riguarda gli aspetti giuridici e legislativi della figura dell’agente infiltrato, così come lo prevede l’ordinamento italiano. Viene spiegato, con l’ausilio di magistrati, quello che si può fare ma soprattutto quello che non si può fare. L’agente infiltrato non va infatti confuso con l’agente provocatore, figura impiegata in altri Paesi, come gli Stati Uniti. Con la denominazione di «agente provocatore» si identifica colui che istigando, determinando oppure offrendo l’occasione provoca la realizzazione di un reato, al solo fine di poterne catturare i colpevoli e acquisirne le prove. Poiché quasi sempre l’agente provocatore partecipa alla formazione della volontà a delinquere, la sua attività è difficilmente giustificabile e il nostro ordinamento la vieta.  In pratica, riassumendo le prerogative ma soprattutto i limiti di azione, le forze dell’ordine che hanno infiltrato un’organizzazione criminale dedita al traffico di sostanze stupefacenti, possono fare quasi tutto, tranne vendere la droga. Ovvero sono autorizzati ad acquistarla (i fondi saranno stanziati dalla Dcsa, su autorizzazione dell’autorità giudiziaria), possono intavolare trattative, partecipare agli scambi delle partite, trattenere parte della sostanza o effettuare quella che in gergo viene chiamata una «consegna controllata», in cui è l’agente infiltrato a trasportare un carico di droga. In questi casi, per esempio, il magistrato titolare delle indagini, grazie alla collaborazione con le autorità giudiziarie di altri Paesi e agli accordi bilaterali, può persino chiedere alle autorità doganali interessate dal passaggio del carico di non ostacolare i corrieri.  Ma mai, per nessuna ragione, un rappresentante delle nostre forze dell’ordine può vendere stupefacenti. Per il semplice motivo che il nostro ordinamento vieta tassativamente – al contrario di quanto avviene in altri Paesi europei e negli Stati Uniti – che l’agente concorra in modo determinante alla commissione di un reato. L’articolo 55 del nostro Codice di procedura penale infatti, impone alla polizia giudiziaria di impedire che i reati vengano portati a conseguenze ulteriori, vincolando l’agente infiltrato a funzioni di controllo, osservazione e contenimento delle attività illecite di cui è testimone, negandogli ogni partecipazione attiva nel reato. I nostri agenti infiltrati infatti agiscono in un contesto criminoso che già esiste (la cui disarticolazione è lo scopo della missione) e non possono istigare, suggerire o promuovere delitti che non siano già in compimento. Questi limiti, che in altri Paesi sono stati rimossi, si giustificano con il bilanciamento degli interessi in gioco. Il legislatore ha ritenuto inopportuno giustificare un’attività sotto copertura che vada a ledere alcuni diritti fondamentali, come quello alla vita, alla sicurezza e all’incolumità fisica.  La terza parte del corso è la più delicata. Si tratta infatti di insegnare ai futuri infiltrati a mentire, a dissimulare, a fingersi qualcun altro e, cosa più difficile, a sostenere un interrogatorio: una tecnica complicata da trasmettere, un’arte che necessita di molta esperienza. E in questo i maestri non sono i poliziotti, ma gli agenti segreti. Trucchi, travestimenti, comportamenti vengono infatti insegnati dagli esperti dell’Aisi, l’Agenzia informazioni e sicurezza interna, l’ex Sisde. Lezioni che vertono su un argomento di per sé rarefatto come il complicato intreccio psicologico che lega chi mente al suo interlocutore. Al corso si insegna come sostenere lo stress, superare i momenti di difficoltà, come inventarsi un’uscita di emergenza nel caso la situazione precipiti. Si impara a camminare sugli specchi sapendo che la persona che si sta ingannando e che potrebbe scoprire il raggiro è probabilmente armata e disposta a tutto per difendere i propri affari e la propria libertà. Gli esperti dei nostri Servizi, dopo aver svelato i segreti del mestiere ai futuri infiltrati, li sottopongono a veri e propri interrogatori, condotti con metodi anche violenti. Vengono simulate situazioni terribilmente realistiche, condotte in base alla casistica dell’esperienza acquisita anche dai Servizi segreti e dalle forze di polizia stranieri, che vengono riprese da una telecamera e poi visionate insieme a tutti gli allievi per condividere errori e stratagemmi. Sono vere e proprie lezioni di comportamento dove si spiega che anche un movimento provocato da un riflesso condizionato può assumere molta importanza. Fare lo sbirro per anni lascia molti segni, nel corpo e nell’anima, e a un occhio attento certi atteggiamenti, sguardi, reazioni a determinati stimoli non sfuggono.  La sfida più difficile è quella di riuscire a crearsi un’altra personalità, nella quale tutti i condizionamenti assimilati nel tempo, i convincimenti maturati nel far applicare la legge, le affinità verso certi individui piuttosto che le idiosincrasie verso altri, devono essere tenute nascoste. I pensieri affiorano senza possibilità di controllo ma l’agente sotto copertura non può permettersi questo rischio: deve imporsi di non pensare all’indagine in corso, di non preoccuparsi che i suoi colleghi siano appostati e pronti a intervenire, come pure non dovrà mai chiedersi se il suo interlocutore gli stia o meno credendo, perché dal cervello il dubbio passa allo sguardo e finisce per tradirlo.  Queste cose, ovviamente, non si possono insegnare in quattro settimane. Per questo, dal 2010, è stato istituito una sorta di follow up, un corso di ripetizione e aggiornamento, in cui vengono affinati e approfonditi i concetti esposti nel corso istituzionale. Terminate le lezioni teoriche si passa all’azione, al test sul campo, con simulazioni di operazioni sotto copertura svolte nel centro di Roma e nei grandi centri commerciali, dove l’agente si deve confondere tra i passanti senza dare nell’occhio, ma registrando mentalmente ogni avvenimento utile all’indagine simulata. Alla Dcsa possono attingere da una ricca collezione di sceneggiature, riscritte sulle esperienze investigative acquisite e sulle indagini portate a compimento.  La Dcsa ha un piccolo arsenale a disposizione, con armi di ogni genere, anche non convenzionali. Perché di certo l’infiltrato non potrà andarsene a spasso con la Beretta Sf calibro 9 parabellum in dotazione alle nostre polizie, perché svelerebbe la sua appartenenza alle forze dell’ordine. E poi lavora con laboratori in cui vengono perfezionate sofisticate apparecchiature elettroniche. Microfoni a distanza, microspie, cimici, telecamere a fibre ottiche che possono essere impiegate nelle attività di ricognizione e che supportano l’attività dell’agente sotto copertura, il quale deve sempre raccogliere prove valide da portare in giudizio per dimostrare la colpevolezza degli affiliati a un’organizzazione criminale. Può sembrare semplice andare in giro con questa attrezzatura elettronica addosso, ma non lo è e anche a questo gli aspiranti undercover devono essere preparati. Il microfono che si indossa, per quanto piccolo, ha comunque bisogno di una batteria e di una memoria digitale su cui verranno archiviate le registrazioni. Ma un movimento brusco, un giubbotto tolto frettolosamente, potrebbero provocarne il malfunzionamento o addirittura lo spegnimento. Importante però è resistere alla tentazione di verificare se il microfono sia acceso, perché nel controllarlo l’agente potrebbe farsi scoprire.  di Giorgio Sturlese Tosi UNA VITA DA INFLTRATO


MAFIA E CORRUZIONE, OPERATIVI 30 AGENTI INFILTRATI   

Per combattere la corruzione partono i primi 30 agenti infiltrati, poliziotti sotto copertura a milano, Napoli, Roma e Palermo. Visto l’aumento di sequestri e confische preventive, nascono le Sisco, sezioni specializzate presso le Dda puntando anche a formare poliziotti esperti di bilancio e diritto societario. Una nuova strategia “più mirata al contrasto della criminalità organizzata nella sua natura attuale: multiforme, ancora militarizzata, ma sotto mentite spoglie e soprattutto specializzata negli affari illeciti, nazionali e internazionali”. C’è una rivoluzione silenziosa in corso nel sistema investigativo della Polizia di Stato. Revisione strategica degli assetti delle squadre mobili. Del ruolo delle questure con le procure della repubblica. Dello Sco, servizio centrale operativo, e dello Sca, servizio centrale anticrimine, incardinati alla Dac, la direzione centrale anticrimine del dipartimento di Pubblica sicurezza guidato dal prefetto Franco Gabrielli, fautore di questo nuovo disegno operativo.

«Una proiezione più mirata al contrasto della criminalità organizzata nella sua natura attuale: multiforme, ancora militarizzata ma sotto mentite spoglie e soprattutto specializzata negli affari illeciti, nazionali e internazionali» osserva Francesco Messina, numero uno della Dac dal marzo scorso. Dopo i corsi ufficiali sono già operativi i primi trenta poliziotti sotto copertura: a Roma, Milano, Napoli e Palermo. «I reati spia di attività mafiose sono spesso la corruzione, per esempio, magari in uffici pubblici», ricorda il dirigente. Altre decine di agenti infiltrati si aggiungeranno ai primi trenta dopo i prossimi corsi alla scuola di Caserta della Polizia di Stato.

Ma c’è un’altra novità finora inedita: i poliziotti «patrimonialisti». Si tratta di agenti in grado «di leggere i bilanci, conoscere il diritto societario, saper verificare conferimenti infruttiferi o controllare polizze fideiussorie sospette». Le tecniche di pedinamento non si dimenticano, ma non bastano più. I nuovi poliziotti «patrimonialisti» sono già 180 e ogni anno ne arriveranno altri. Un «investimento ormai imprescindibile per la caratura professionale dei nostri agenti», sottolinea il direttore della Dac. La scommessa investigativa più grande, però, si fonda su una manovra a tenaglia contro i patrimoni mafiosi: ha le basi per essere micidiale. Punta, infatti, sulla convergenza tra l’esercizio dei poteri di proposta di misure di prevenzione in capo ai questori e l’attività di indagine giudiziaria. La prima procedura viene seguita dallo Sca diretto da Giuseppe Linares; la seconda dallo Sco guidato da Fausto Lamparelli. Una volta i procedimenti dei due tipi erano quasi sempre indipendenti e sfasati. Ora gli scambi informativi tra Sco e Sca sono continui, a volte frenetici.Tra poco arriveranno risultati ufficiali «notevoli, frutto di un lavoro di squadra», sottolinea Messina. II potere di proposta di misure di prevenzione spetta solo ai questori, al direttore della Dia, ai procuratori distrettuali e al procuratore nazionale antimafia Ci sono poi le misure patrimoniali in esecuzione di azione penale, disposte dall’autorità giudiziaria e fatte dalla Guardia di Finanza, l’Arma dei Carabinieri e la Polizia di Stato. Negli ultimi tempi sulle misure di prevenzione si sta consolidando una nuova procedura: la «proposta congiunta» del questore e del procuratore distrettuale antimafia. Rinnova e rafforza l’intesa tra autorità di pubblica sicurezza e quella giudiziaria non sempre, in passato, così solida e affiatata. Francesco Messina e la sua Dac potranno disporre a breve anche di un altro strumento di alta investigazione: le Sisco. «Sono le nuove 26 sezioni specializzate della Polizia di Stato in materia di contrasto alla criminalità mafiosa costituite presso le Dda», sottolinea il dirigente. Presso le questure restano le sezioni di criminalità organizzata mentre le Sisco, organismi nati con il recente riordino del dipartimento Ps approvato in Consiglio dei ministri su proposta del ministro dell’Interno Luciana Lamorgese «costituiscono uno strumento di alta specializzazione investigativa e hanno il coordinamento operativo dello Sco». L’attività per le misure di prevenzione, intanto, è in crescita continua. Dal 2018 al 2019 i sequestri su proposta del questore sono passati da 35 a 54 e le confische da 18 a 24. Negli ultimi 18 mesi 5o questure su 105, una su due, sono state operative su questo fronte. Nel biennio 2016-2017 erano soltanto 14. Monica Forte – Presidente Commissione Antimafia Lombardia 9.1.2020


AGOSTINO INFILTRATO NEL CLAN GALATOLO, BOSS A PROCESSO PER IL SUO OMICIDIO  

Il poliziotto faceva parte di una squadra a caccia di latitanti. I pentiti: ” La moglie morì perché conosceva i suoi segreti”. Chiesto il processo per Nino Madonia e Gaetano Scotto. Sotto accusa un amico dell’agente che avrebbe aiutato i sicari

La figlia ribelle del capomafia dell’Acquasanta, Giovanna Galatolo, racconta di aver sentito in famiglia che lo “sbirro ucciso a Carini”, Nino Agostino, venne pagato dal clan in un’occasione. Il pentito Giuseppe Marchese ha aggiunto: «Giuseppe Madonia diceva che quel ragazzo era un cornutone. Perché aveva fatto un voltafaccia» . Ovvero, il doppiogioco. Nino Agostino era un poliziotto onesto, che faceva l’infiltrato, per tentare di arrivare all’arresto dei grandi latitanti di mafia. Tasselli su tasselli, dopo 31 anni di misteri, che hanno portato sempre ad archiviazioni l’indagine sull’omicidio del poliziotto Agostino e di sua moglie Ida Castelluccio, avvenuto il 5 agosto 1989. Adesso, la procura generale di Palermo e la Dia ritengono di avere definito il quadro preciso in cui maturò il delitto. E hanno chiesto il rinvio a giudizio per i boss Antonino Madonia e Gaetano Scotto, il capo mandamento di Resuttana e il boss dell’Arenella, accusati di essere mandanti ed esecutori del delitto. «Ora mia moglie potrà dormire serena in cielo» , dice Vincenzo Agostino, il padre di Nino. Ieri mattina, mentre veniva notificata la richiesta di rinvio a giudizio, il direttore della Dia Giuseppe Governale gli ha telefonato: «Ho voluto manifestare ancora una volta la mia vicinanza personale e istituzionale», spiega.
È una storia molto articolata quella riscritta dal procuratore Roberto Scarpinato e dai sostituti Nico Gozzo e Umberto De Giglio. Agostino era ufficialmente solo un poliziotto addetto alle Volanti del commissariato San Lorenzo, in realtà avrebbe fatto parte di una squadra che cercava latitanti, per conto dei servizi segreti (non è però chiaro quale di preciso, l’Aisi e l’Aise hanno sempre smentito che Agostino sia stato un loro collaboratore). Una squadra di cui avrebbero fatto parte Emanuele Piazza, pure lui ucciso dai boss, e l’ex poliziotto Giovanni Aiello, ” faccia da mostro”, morto per un infarto tre anni fa.
Questa attività riservata avrebbe portato Agostino ad avere rapporti pericolosi con i Galatolo e i Madonia. «Portava informazioni», ha detto Giovanna Galatolo, che arriva ad ipotizzare anche «informazioni su quando Falcone sarebbe andato all’Addaura». Ma su questo punto riscontri non ce ne sono, i magistrati hanno più di un dubbio. Continuano a credere che Agostino si occupasse solo di latitanti. E dentro quella palude di Palermo che ruotava attorno a vicolo Pipitone, la roccaforte dei Galatolo, avrebbe scoperto che altri poliziotti erano invece davvero corrotti. Lo aveva raccontato vent’anni fa il pentito Oreste Pagano, ma era rimasto il giallo: «Voleva rivelare i legami della mafia con alcuni componenti della questura di Palermo» . Pagano l’aveva saputo in Canada, al matrimonio di un esponente della famiglia Caruana: «Lì mi presentarono Scotto, dissero pure che la moglie del poliziotto era a conoscenza delle rivelazioni che il marito poteva fare».
Chi tradì Agostino? Chi scoprì che voleva far saltare il suo doppiogioco per denunciare i veri collusi? Probabilmente, Agostino voleva parlarne con il giudice Falcone, c’è traccia di un incontro nelle indagini. Di sicuro, dopo l’omicidio, «da una parte il questore avalla con la sua autorevolezza la versione, rispondente al vero, che quello di Agostino è un omicidio di alta mafia – scrivono i magistrati – dall’altro, il capo della squadra mobile Arnaldo La Barbera depista le indagini sulla inconsistente pista dell’omicidio per questione di donne».
Giovanna Galatolo sentì anche dell’altro nei discorsi di suo padre: «Pure i servizi volevano morto Agostino» . E Nino venne tradito. Con la complicità, racconta l’inchiesta, del suo amico del cuore, un’altra sorpresa di questa indagine: la procura generale chiede il processo pure per Francesco Paolo Rizzuto, aveva 16 anni all’epoca del delitto. È accusato di favoreggiamento, per aver aiutato i sicari, con il suo silenzio e tante bugie.  La Repubblica Palermo, 3 luglio 2020

 


“NOI, POLIZIOTTI INFILTRATI TRA I CRIMINALI” 

Il capo degli agenti sotto copertura: “Joe Pistone è stato il primo agente Fbi a farlo. Siamo in contatto e presto collaboreremo con lui” Dottor Luigi Bovio, quanti agenti sotto copertura ci sono in Italia? “Nella polizia alcune decine, che hanno dai 25 ai 50 anni circa – risponde il vice questore dello Sco, che coordina gli agenti di polizia sotto copertura –. La maggioranza sono uomini”.

In Italia si sfruttano poco gli infiltrati. Questo perché serve un addestramento complicato o gli agenti hanno paura delle conseguenze giudiziarie? “Negli anni scorsi il ricorso a questo tipo di indagine non è stato eccessivo, ma noi ci puntiamo parecchio. Vogliamo rilanciare le attività sotto copertura, in ogni campo”.

Quali altri reati potranno essere perseguiti con l’uso di agenti sotto copertura  “Quelli nella pubblica amministrazione”.

In questo momento quante operazioni sono in corso? “Sette, otto. Spingiamo molto su queste attività, principalmente contro droga e immigrazione clandestina”.

Qual è l’identikit del perfetto agente sotto copertura? “Una persona sveglia ed empatica, mai ansiosa. Deve saper affrontare le avversità improvvise con calma ed entrare in sintonia con le persone creando un legame. Curiamo molto l’aspetto psicologico: sia al momento della selezione, sia nel corso delle operazioni, ma soprattutto dopo. Alcune azioni sono impegnative e serve un lungo supporto. Ci affidiamo anche ad agenti stranieri della polizia italiana”.

Chi, invece, viene respinto nei test selettivi  “La maggior parte: persone che non dimostrano duttilità. Dobbiamo fronteggiare criminali, nati per strada, che uno ‘sbirro’ lo riconoscono da un chilometro di distanza e non possiamo mandare chiunque allo sbaraglio”.

Il garante, che fa entrare l’infiltrato nel giro criminale, può essere difeso o è ‘condannato a morte’ alla fine dell’operazione? “Noi cerchiamo di strutturare l’operazione in modo che non emerga il ruolo dell’agente sotto copertura, anche a livello giuridico. Quando effettuiamo gli arresti, catturiamo pure l’infiltrato. In alcuni contesti, però, non si riesce a fingere e il clan capisce qual è l’anello debole della catena che è stato tratto in inganno: così lo tuteliamo perché si trova in pericolo”.

Un infiltrato anti pusher deve seguire lezioni teoriche sulla droga, sulla composizione chimica e sul mercato degli stupefacenti? “Certo e costruiamo una sua biografia dimostrabile. L’agente deve trasformarsi in un pusher anche se non ha mai usato stupefacenti”.

Come si insegna a mentire? “È una dote naturale, difficile da insegnare. Bisogna avere la capacità di muoversi in un ambiente criminale: uno è facilitato se ha già avuto contatti, come è capitato a me, per esempio coi piccoli delinquenti delle scuole. Se riesci a farti affidare dal trafficante una partita di droga da centinaia di migliaia di euro, è perché sei entrato nella testa del narcoboss”.

Lei ha mai partecipato a un’operazione sotto copertura? “Sì, ma in maniera indiretta. Le sensazioni? L’adrenalina va a mille. In quell’occasione abbiamo alzato il livello dei blitz anti droga, sequestrando una grande quantità di sostanze stupefacenti e arrestando individui apicali del clan”.

Quante operazioni un agente può affrontare in carriera? “Per lo stress fare l’agente sotto copertura a vita non è consigliabile”.

Qual è il budget per ogni operazione? “Si va da un minimo di qualche centinaia di euro, poi si cerca di limitare al massimo i soldi persi, per esempio, nell’acquisto di droga”.

Accade spesso che le azioni falliscano? “Ultimamente vanno tutte a buon fine: alcune volte si riesce a colpire esattamente il bersaglio, altre volte quasi. Quando si fallisce le cause sono due: il criminale guardingo nota qualcosa e non si confida più con l’infiltrato, oppure all’agente viene chiesto di superare un certo limite legale e umano”.

Come uccidere una vittima, per provare la propria affiliazione a un clan mafioso?  “In quel caso l’operazione si blocca”.

Il film cult ‘Donnie Brasco’ ha fatto bene al vostro sistema? “I delinquenti sapevano anche prima che esistevano gli ‘under cover’, quel film ci ha fatto semplice pubblicità. Joe Pistone (interpretato da Johnny Depp, ndr) è stato il primo agente Fbi sotto copertura, è un mito. Siamo in contatto e presto collaboreremo con lui, organizzando seminari per i nostri agenti. A quel livello di indagine ci sono situazioni complicate da gestire”.

State operando adesso a quel livello?  “Non posso rispondere”.  di ALESSANDRO BELARDETTI 28.3.2019


‘NDRANGHETA: I RACCONTI DELL’AGENTE SOTTO COPERTURA.

La Fedpol ha infiltrato un uomo tra i presunti ‘ndranghetisti residenti in Svizzera, ecco cosa ha scritto nei suoi rapporti. Nel corso dell’inchiesta culminata ieri nella maxi operazione contro la ‘ndrangheta svoltasi tra Svizzera e Italia, la Fedpol ha impiegato anche un agente sotto copertura che è riuscito a inserirsi nella cerchia degli indagati svizzeri. Tutti gravitavano attorno a un ristorante di Muri, nel Canton Argovia, e si sospetta facciano parte della cosca Anello-Fruci, attiva tra Lamezia Terme e Vibo Valentia. Dalle carte dell’inchiesta italiana si scopre che durante questi anni un uomo, agente della polizia federale, ha operato con una falsa identità, riuscendo a entrare in contatto con gli indagati residenti in Svizzera. In particolare l’agente, che si faceva chiamare Miquel, ha fatto affari con i sospetti ndranghetisti per cambio di valuta e ricettazione di moneta falsa. All’agente sotto copertura, uno degli indagati ha anche chiesto di procurargli munizioni, per una “38 special e una 7.65mm”, si legge. In un’occasione l’infiltrato ha acquistato dai calabresi un Fass 90 dell’Esercito.
Droga, auto e club Il contatto più stretto dell’agente è lo stesso gerente del ristorante di Muri finito nell’occhio del ciclone. Amante delle auto di lusso (come altri indagati svizzeri), acquista solo Ferrari, perché con una Lamborghini “ha avuto una perdita enorme”, scrive il poliziotto nel suo rapporto. Nelle serate passate in compagnia ai tavoli del locale appaiono anche pittoreschi personaggi, come un italiano (mezzo sardo e mezzo piemontese”) che ricorda con entusiasmo la gioventù passata in Sudamerica trafficando cocaina, senza mai essere arrestato. L’uomo, infatti, sarebbe stato “in ferie” (così definiscono la carcerazione) solo in Svizzera e in Italia. Il gruppo di sospetti ndranghetisti avrebbe, stando ai rapporti dell’uomo della Fedpol, anche stretti contatti con molti locali notturni della Svizzera tedesca. Da Sciaffusa a Lucerna, da Bruug a Winterthur. Un settore in cui una volta si facevano molti soldi, ma oggi diventato meno redditizio.
Riciclaggio nel Liechtenstein Al tavolo del locale di Muri si è parlato anche di riciclaggio. In particolare di come ripulire soldi sporchi nel Liechtenstein. Secondo i racconti dei protagonisti, l’operazione sarebbe molto semplice. Attraverso una serie di depositi e prelievi, fatti secondo le giuste tempistiche per evitare controlli approfonditi, si possono riciclare grandi quantità di denaro. Il costo dell’operazione è del 15%, basta trovare qualcuno “non ricercato dall’Interpol” che apra un conto in una banca del Principato. A spiegare questo sistema un uomo che potrebbe essere legato al Ticino: il suo contatto viene infatti salvato sui telefoni degli indagati con il nome di battesimo seguito da “Locarno”.
L’operaio comunale Nei rapporti dell’agente appare, in una circostanza, anche l’operaio comunale del Luganese che ieri è stato interrogato dagli inquirenti e che è finito nella lista di 158 indagati dell’inchiesta che in Italia è stata battezzata “Imponimento”. Il nome dell’uomo viene citato come “buon conoscente”. “Lavora per il comune al 50% ed è un vecchio amico della Calabria”, ha detto il ristoratore all’uomo della Fedpol. L’uomo residente in Ticino, è sospettato di aver fatto da prestanome per il capo della cosca nell’acquisto di un terreno e di essere, con il cugino, uno dei referenti del clan in Svizzera. L’uomo, da parte sua, nega tutto. TICINO NEWS di fsu 22 lug 2020


FINANZIERE INFILTRATO NEL CARTELLO DELLA DROGA: SEQUESTRATA COCAINA PER 5 MILIONI. 

Il blitz della Guardia di Finanza nell’asse Catania Verona: arrestati due narcotrafficanti guatemaltechi Catania – Un militare della Guardia di finanza e un agente della polizia colombiana sotto copertura hanno permesso alle Fiamme gialle etnee, nel corso di una indagine coordinata dalla Procura della Repubblica di Catania, di mettere le mani su un carico di circa 385 chilogrammi di sostanza stupefacente. Cocaina colombiana, per l’esattezza, che per la sua buona qualità sembrerebbe avere un valore di mercato pari a cinque milioni di euro. La notizia è trapelata nel fine settimana in Veneto e ciò proprio perché i due narcotrafficanti che hanno portato il carico nel nostro Paese – due soggetti originari del Guatemala, di 34 e 47 anni, pare vicini ai cartelli della droga colombiani – avevano portato una minima parte della droga proprio ad Affi, in provincia di Verona, con lo scopo di venderla ad acquirenti rimasti in questo momento senza nome. Qui i due sono stati sorpresi dalle Fiamme gialle, che nel frattempo avevano individuato l’intero carico a Catania e che hanno proceduto al sequestro dello stupefacente differito.
L’indagine, seguita dal procuratore aggiunto Ignazio Fonzo e dal sostituto Andrea Bonomo, affonda le proprie radici nei mesi scorsi ma ha avuto un’accelerazione nella prima decade di gennaio, allorquando è stata predisposta la spedizione dei quasi quattro quintali di cocaina. Il carico è partito da Bogotà, è transitato per Madrid e per Roma, quindi è arrivato a Catania i primi di gennaio. Per giorni gli investigatori hanno monitorato la situazione, poi quando hanno forse compreso che si potevano correre dei rischi, venerdì 24 gennaio sono entrati in azione. E ciò è accaduto ad Affi, vicino all’ingresso dell’autostrada del Brennero, dove i due guatemaltechi sono stati sorpresi nella camera del B&B che avevano preso in affitto e in cui sono stati trovati in possesso di tre chilogrammi di cocaina e di ben 35mila euro in contanti.
Nel frattempo, come detto, gli altri 382 chilogrammi di cocaina, pare suddivisa in 252 panetti, sono stati subito sequestrati. E’ evidente che le indagini continuino e che si sta cercando di chiarire possibili collegamenti con la criminalità organizzata siciliana. Intanto i due narcotrafficanti originari del Guatemala sono stati condotti e rinchiusi nel carcere di Montorio. Stando a quanto è stato possibile apprendere sull’asse Catania-Verona sembra che i due, durante l’interrogatorio di garanzia condotto con l’ausilio di un interprete, si sarebbero avvalsi della facoltà di non rispondere.  27/01/2020 – di Concetto Mannisi La Sicilia


TRATTATIVA, PARLA PAOLO BELLINI: “IO INFILTRATO IN COSA NOSTRA PER CONTO DELLO STATO”  

L’ex estremista nero, protagonista di una trattativa parallela, parla per la prima volta di un misterioso carabiniere del Ros di Aaron Pettinari, Miriam Cuccu e Francesca Mondin – 11 marzo 2014. “Ero schifato dopo le stragi capivo che si doveva fare qualcosa anche perché io non sono mai stato un terrorista. Quando mi incontrai a San Benedetto del Tronto con il maresciallo Tempesta, del Nucleo tutela patrimonio artistico dei Carabinieri, dissi che mi sarei potuto infiltrare dentro Cosa nostra. Lui disse che ne avrebbe parlato con il colonnello Mori. Tempo dopo ci vedemmo a Roma, in un distributore di benzina lungo il raccordo anulare. Arrivò l’ok del colonnello e io andai in Sicilia a contattare un mio vecchio compagno di cella, Antonino Gioè (boss stragista morto in carcere in circostanze poco limpide ndr). Altrimenti col cavolo che sarei andato nella tana del lupo a suicidarmi”. E’ così che Paolo Bellini, ex estremista nero, dopo le stragi viene investito del ruolo di “protagonista” di una “trattativa parallela” con Cosa nostra. L’ex militante di Avanguardia Nazionale, ha deposto questa mattina innanzi ai giudici della II Corte d’Assise di Palermo, nell’aula bunker di Rebibbia, a Roma, nel corso dell’udienza del processo sulla trattativa Stato-mafia. Un dibattimento in cui il teste, rispondendo alle domande dei pm Tartaglia e Teresi, ha ripercorso la ‘sua’ verità in quegli anni di stragi. Il pretesto per il contatto con Cosa nostra sarebbe stato il recupero di alcune opere d’arte rubate dalla Pinacoteca di Modena. “Quando incontrai Gioé – prosegue Bellini – lui mi chiese per conto di chi arrivava questa richiesta. Addirittura mi chiese se per caso mi mandava la massoneria e che in quel caso non c’erano problemi perché aveva direttamente la possibilità di avere rapporti con la massoneria trapanese. Io risposi che interessava ai politici locali e interessava anche al Ministero dei beni culturali. Del resto avevo le foto delle opere e la cartellina con i timbri ministeriali. Tempo dopo tornò con altre foto di opere d’arte ed una busta con quattro o cinque nominativi per i quali voleva arresti ospedalieri o domiciliari. Ricordo i nomi di Pippo Calò, Brusca, Pullarà. Quell’elenco lo consegnai al maresciallo Tempesta che lo consegnò a sua volta a Mori. Quando tornò con la risposta, tempo dopo, mi disse che non si poteva fare perché ‘C’era il gotha di Cosa nostra’ ma che avrei dovuto mantenere il canale aperto con la possibilità di fare qualcosa per un paio di nominativi’. Non solo i contatti con Vito Ciancimino quindi. Il Ros avrebbe portato avanti più canali per arrivare ad un colloquio con Cosa nostra ed ovviamente i mafiosi alzarono subito il tiro.

Trattativa con alti piani  Non fu quello l’unico momento in cui Gioé parlò di trattativa con Bellini. “Gioè mi parlò di una trattativa in corso coi piani alti del Governo italiano ma non ne ho mai parlato perché dovevo tenermi qualche cartuccia da sparare durante i processi”. Del resto Cosa nostra negli anni delle stragi era messa a dura prova in particolare dal regime carcerario del 41 bis: “In quel periodo erano spiazzati, si lamentavano i familiari dei sottoposti al 41 bis a Pianosa. A dire di Gioè loro erano consumati, vedevano solo due strade o la morte o la galera a vita”. Bellini ha poi ripercorso come ha incontrato e conosciuto il capomafia: “Quando fui trasferito da Firenze a Sciacca, lì conobbi Gioè. Ci vedevamo tutti i giorni, lui era una persona di grande rispetto io capii che era una persona posizionata, ci fu una simpatia iniziale… Ha saputo la vera identità quando fummo trasferiti nel carcere di Palermo”. E in merito al ruolo attribuitogli di “suggeritore” delle stragi in continente Bellini ha dichiarato: “Su di me sono state dette tante cose ma io sono qui per raccontare la verità.

Fu Gioé a chiedermi ‘Che cosa accadrebbe se sparisse la Torre di Pisa?’”. Un frase sinistra che appare profetica se si pensa che nel 1993 il patrimonio artistico italiano fu colpito a Firenze, Roma e Milano. Frase che sarebbe stata riferita da Bellini al maresciallo Roberto Tempesta, il sottufficiale in servizio al Nucleo tutela patrimonio artistico. “Ma quando dissi al maresciallo Tempesta quella frase cosa fecero? Nulla di nulla” ha aggiunto Bellini.

“Aquila selvaggia? Sono del Ros”  L’ex militante di Avanguardia Nazionale, nome in codice “Aquila selvaggia” (nel gergo usato per le comunicazioni con il maresciallo Tempesta ndr) ha anche rivelato che nel dicembre del 1992, quando i rapporti con il militare del Nucleo tutela patrimonio artistico dei Carabinieri avevano avuto uno stop, era stato avvicinato da un altro ufficiale. “Una persona suonò al citofono di casa mia – ha detto – e mi chiamò col nome in codice che sapevano solo Tempesta e il colonnello del Ros Mario Mori. Si presentò come un uomo del Ros e mi disse di non cercare più Tempesta, che il contatto sarebbe stato lui e di non venire in Sicilia perché era pericoloso in quanto ci sarebbe stata un’imminente operazione. Non ho mai parlato con nessuno di questo, e loro non hanno più richiamato” conclude il collaboratore”. Bellini, che aveva comunque il contatto con Gioé anche per altri motivi, non seguì quell’indicazione. “Dovetti tornare in Sicilia per incontrare Nino a cui dovevo dei soldi. Quando mi recai nel luogo dell’incontro, nei pressi del motel Agip di Palermo, riconobbi quell’ufficiale che tempo prima mi aveva sconsigliato il viaggio in Sicilia”. E’ a quel punto che, spaventato, Bellini sarebbe andato via da Palermo mancando l’appuntamento con il capomafia.

La lettera di Gioé  “Dimenticavo di dire che mio fratello Mario nell’andare a tentare di recuperare il credito ha consegnato al creditore una tessera dello stesso creditore il che adesso mi rendo conto che quest’ultimo fosse un infiltrato; mio fratello non lo ha incontrato ed il figlio gli ha detto che il padre era ricercato. Supponendo che il sig. Bellini fosse un infiltrato sarà lui stesso a darvi conferma di quanto sto scrivendo. L’ultima volta che ho incontrato quest’uomo è stato presso la cava Buttitta solo per pura fatalità me lo sono fatto portare in quel posto dove ero andato per cercare di convincere il sig. Gaetano Buttitta a comprare del lubrificante da me…”. Questo il contenuto esatto della lettera rinvenuta nella cella di Gioè il 29-7-93, scritta prima del presunto suicidio. Forse è proprio per quel mancato appuntamento che il capomafia aveva capito che Bellini era davvero un infiltrato anche se il sospetto che il ruolo di Bellini, come uomo vicino ad una parte dello Stato, fosse ben chiaro ai capimafia già nel 1991 (ovvero prima delle stragi), resta.

La riunione di Enna  Nel dicembre 1991 è notorio che in un casolare di Enna si tenne una riunione della Commissione regionale con tutti i capimafia per decidere in merito alla strategia stragista che avrebbe dovuto portare all’eliminazione dei politici traditori (da Lima all’ex presidente del Consiglio Andreotti) ai nemici di sempre (Falcone e Borsellino). Tra le nuove prove che i pm che indagano sulla trattativa Stato-mafia c’è anche una ricevuta rilasciata da un hotel di Enna, datata 6 dicembre 1991 ed intestata proprio a Paolo Bellini. Così come aveva fatto durante gli interrogatori con i pm, anche in aula ha ribadito che all’epoca si trovava in Sicilia per affari. “Dovevo recuperare alcuni crediti a Catania e Palermo e l’unico contatto avuto con Antonino Gioé era proprio per chiedergli aiuto su questa attività. Quel pernottamento non era programmato per un motivo specifico ma del tutto casuale”. Una spiegazione che non ha convinto del tutto i pm, anche perché è quantomeno singolare che, per un recupero di crediti a Catania, lo stesso abbia scelto un hotel di una città distante quasi 90 chilometri. Così l’esame è proseguito con il pm Tartaglia che lo ha incalzato chiedendogli dei commenti di Gioé su Lima.

Rispondendo alla domanda del magistrato, che in riferimento alla morte dell’onorevole Salvo Lima ha chiesto a Bellini se Gioè gli disse mai se l’omicidio fosse servito anche per mandare un messaggio al presidente Andreotti, il collaboratore ha dichiarato: “era stato quello il senso, si…. Gioé mi parlò dell’omicidio di Lima e disse che era stato fatto per dare uno schiaffo alla Dc di Andreotti perché non aveva rispettato quello che avrebbe dovuto fare a Roma per il maxi processo”. Di seguito, l’ex trafficante di opere d’arte ha parlato di un episodio avvenuto ad Enna: “Mi ricordo… si parlò, disse così…a Enna c’era… a Enna mi ricordo di una passeggiata che ho fatto per andare alla cena, c’era la saracinesca di un negozio abbassata.. fu il momento di una risata”. L’occasione di ilarità sarebbe scaturita dall’aver visto una scritta, sulla vetrina, riferita proprio al presidente del consiglio Giulio Andreotti. Tartaglia ha rilanciato: “Scusi ha detto ‘fu motivo di una risata’, ma perché c’era anche Gioè ad Enna?”. E Bellini: “No, chi ha detto Enna?”. Si è subito giustificato il collaboratore. “La risata tra noi due mentre facevamo questo discorso… lui mi fece venire in mente un flash non che io ero a Enna con Antonino Gioè”. Bellini ha anche ricostruito la propria storia passando dagli omicidi commessi tra cui quello del militante di Lotta Continua Alceste Campanile, alla sua affiliazione alla ‘Ndrangheta e la latitanza sotto falsa identità trascorsa in Brasile.

Pian piano, pur con le difficoltà dovute alla malattia da cui è affetto, che ha conseguenze sulla memoria, ha ricostruito diverse vicende, tra cui il periodo vissuto in cella quando era conosciuto con il nome di Roberto Da Silva. Nel suo racconto Bellini ha anche espresso uno sfogo nei confronti dello Stato come istituzione colpevole di averlo, a suo dire, abbandonato: “Sono un morto che cammina ma faccio il mio dovere fino in fondo. Lo Stato con me ha firmato un contratto che non ha rispettato”. Peccato che, come ha ricordato al teste lo stesso presidente Montalto, in quel contratto era previsto il dover dire tutta la verità mentre solo oggi ha raccontato la visita dell’uomo del Ros nella sua abitazione, così come soltanto nel 2013 ha raccontato della “seconda trattativa”, dopo averla accennata ad un giornalista del Resto del Carlino, Marco Pratellesi, il quale aveva scritto in merito un articolo nel 1998. Il processo proseguirà domani mattina con il controesame del teste mentre, successivamente, verrà sentito dalla corte il pentito Fabio Tranchina. 11 Marzo 2014


L’INFILTRATO ABBANDONATO DALLO STATO  

Intervista a Gianfranco Franciosi, cittadino comune “infiltrato” dalla polizia tra i narcos, che ha portato a smantellare una rete internazionale di criminali e a sequestrare un carico di 10 tonnellate di cocaina. E poi è stato abbandonato. La sua storia, oltre a un libro, “Gli orologi del diavolo”, diventerà pure un film.  Nel garage, accanto all’auto blindata, c’è un’enorme croce di marmo appoggiata al muro. Gliel’hanno regalata i suoi amici, dopo averlo sentito ripetere tante volte che lui ormai è solo “un morto che cammina”. Non lo hanno fatto perché il pericolo che qualcuno possa ammazzarlo non sia reale. Ma solo per esorcizzarlo, almeno un po’. Gianfranco Franciosi non è un “pentito” che ha scelto di dissociarsi da un clan mafioso. E non è nemmeno un imprenditore che ha denunciato i suoi estorsori. Giannino, come lo chiamano tutti, è stato condannato a morte dei narcos spagnoli solo perché quando lo Stato ha chiesto il suo aiuto, lui ha risposto sì. “Solo che poi, quando ha ottenuto ciò che voleva,  mi ha abbandonato”. Pronuncia queste parole nel cantiere di Bocca di Magra, vicino a La Spezia, dove è tornato dopo aver vissuto quattro anni da infiltrato (è l’unico caso di un civile usato in questo ruolo in Europa) e quasi due sottoposto al programma di protezione, da cui ha scelto di uscire “perché io e la mia famiglia eravamo stufi di essere trattati senza un briciolo di umanità”.
La sua storia è diventata un libro, “Gli orologi del diavolo”, scritto con il giornalista di Presadiretta Federico Ruffo, e presto diventerà anche un film. Un film di cui saranno protagoniste le barche. Giannino ce ne mostra una, bellissima: “E’ l’Albatross, quella che ho usato per trasportare decine e decine di chili di cocaina”. Proprio la sua abilità nel costruire e modificare barche stravolge la sua vita un giorno come tanti altri in cui al cantiere si presentano due sconosciuti: uno ha un marcato accento napoletano, l’altro parla spagnolo. Gli commissionano un gommone. Deve essere velocissimo e consegnato entro un mese.  Sbattono sul tavolo un mucchio enorme di banconote da 500 euro, dicendogli che se rispetterà i patti sarà solo l’inizio. Poi se ne vanno. Giannino capisce che non è una commessa come le altre e va dalla polizia. Racconta tutto e scopre che il napoletano è un camorrista del clan Di Lauro, mentre lo spagnolo è nientemeno che Elias Pinero, uno dei più potenti boss del narcotraffico. Il gommone servirà evidentemente a trasportare droga. L’occasione è troppo ghiotta. I poliziotti gli dicono che piazzeranno delle cimici sul gommone, lui dovrà solo fare il viaggio e al resto penseranno loro. “Avevo un po’ paura, ma sembrava giusto aiutare la giustizia e poi sapevo che sarei stato sempre controllato”. E invece, mentre è in alto mare con il gommone, si accorge che il rilevatore Gps che segnala la sua posizione non funziona più e così viene arrestato con un trafficante “vero” dalla polizia francese. Prova a spiegare la sua posizione, ma ci vogliono ben quattro mesi passati in cella prima che tutto si chiarisca. “Stavo con due ‘ndranghetisti. Ma mi trattavano bene: per loro ero un narcotrafficante…”, ricorda amaro Franciosi.

A questo punto, la polizia gli propone di diventare un infiltrato a tutti gli effetti: “In cella ero stato zitto e così mi ero conquistato il rispetto del boss”. Che infatti, trascorsi altri tre mesi in prigione per rendere più credibile la copertura, quando Franciosi esce gli propone di diventare un suo corriere in pianta stabile. Ma prima deve superare una prova: uccidere un uomo. Per evitarlo, e al tempo stesso non bruciare il suo lavoro, la polizia organizza una messa in scena. Gli dà una pistola con la matricola abrasa e poi lo fa fermare da una pattuglia. Per Elias è un’ulteriore prova della sua affidabilità. Ma per chi lo conosce, da quel momento Giannino è un delinquente. Il padre non gli rivolge più la parola. Solo la moglie e i due figli conoscono la verità, ma la pressione è troppo forte e il matrimonio va in frantumi. Ma lui va avanti: quattro anni di viaggi in Sudamerica, di feste lussuose con i narcos e di riunioni con la polizia. “Ho provato a tirarmi indietro, a trasferirmi da un’altra parte ma Elias è riuscito sempre a trovarmi. Una volta mi ha mandato una mail: “Se provi a fregarmi, ti taglio la testa””. Ma non è solo la paura a spingerlo a continuare. “Senza accorgermene, sono entrato nel personaggio che recitavo: avevo paura, ma allo stesso tempo quella vita mi piaceva. Per questo non ce la faccio a leggere il libro: non mi riconosco, mi sembra di leggere la storia di un pazzo”. Intanto Giannino conosce un’altra donna. Le racconta tutto e la accoglie in casa con i suoi quattro bambini: “I trafficanti venivano a casa nostra e non sapevano che nei giocattoli la polizia aveva piazzato delle microspie”. Finalmente arriva il giorno della resa dei conti: grazie anche alle sue informazioni, scatta l’operazione Albatross, come la barca di Giannino. In mezzo all’Atlantico tra motoscafi e pescherecci vengono trovati 10 tonnellate di droga: è il più imponente sequestro della storia del narcotraffico. Il boss Elias, però riesce a scampare alla cattura. Ma è solo questione di tempo. Sempre grazie alla sua collaborazione, in una successiva operazione viene arrestato e condannato a 19 anni di carcere. A questo punto, inizia la seconda parte della storia, la più dolorosa. Giannino con la sua famiglia entra nel programma di protezione. Ha una nuova identità e si trasferisce in una località protetta. Ma non può trovarsi un lavoro stabile perché basta un controllo per verificare che il suo codice fiscale non esiste. Dipende quindi dai soldi che ogni mese deve per legge dargli lo Stato. “Quasi sempre arrivavano in ritardo”, ricorda Giannino.
Ma è stata soprattutto la mancanza di sensibilità dei funzionari a esasperarlo. “Era inverno, pioveva sempre e non potevo usare la mia auto per accompagnare i bambini a scuola, perché i narcos la conoscevano benissimo. Ho chiesto quindi se potevano darmene una, ma la risposta è stata: “Si compri un ombrello più grande”. Dopo altri episodi simili, Franciosi decide di uscire dal programma di protezione come hanno fatto prima di lui molti altri testimoni di giustizia che si sono sentiti traditi dallo Stato. “Ho chiesto 437 mila euro per riprendere la mia attività, una somma ridicola se raffrontata a quelle elargite a molti pentiti. Me ne sono stati dati solo 63 mila, perché ho scelto volontariamente di uscire dal programma”. Ma la sorpresa più amara è stata il ritorno al cantiere di Bocca di Magra: “Lo Stato avrebbe dovuto garantire il mio lavoro, invece ho trovato tutto sommerso dal fango. Barche, officina: non avevo più niente. Per questo ho deciso di fare causa allo Stato”.  Oltre ai poliziotti che lo hanno seguito fin dall’inizio (“Ogni tanto mi chiamano e scherzano: come va, collega?), solo due persone delle istituzioni sono state vicino a Franciosi: “Il vicequestore di Genova Francesco Navarro e il presidente del Senato Pietro Grasso, che ha seguito da magistrato tutta la mia vicenda. E poi c’è don Luigi Ciotti: la sua voce per me è sempre di grande conforto”. Giannino comunque si è rimboccato le maniche e ha ripreso la sua attività. La forza gliela danno i figli, naturali e acquisiti, che sono orgogliosi di lui. “La più grande va al liceo. Una volta è venuto a parlare un pentito, lamentandosi per le difficoltà della sua nuova vita. Lei è scoppiata a piangere e gli ha urlato: “Sono la figlia di un uomo che non ha mai violato la legge e che rischia ogni giorno la vita per aver aiutato lo Stato. Però voi avete tutto e noi niente”.
La legge stabilisce che debba essere garantita la sua incolumità fino alla cessazione di ogni pericolo e per questo nel suo cantiere sono state messe delle telecamere. Ma un giorno Giannino ha trovato due proiettili sul cancello. Chi li ha messi? “Impossibile saperlo, perché è risultato che le telecamere non sono mai state attivate. Così ho fatto installare un impianto di videosorveglianza a mie spese. E mi sono comprato un’auto blindata. Ma so che non servirà: poche settimane fa ho trovato altri proiettili. I criminali li chiamano “ammazzasbirri” perché sono in grado di bucare anche le auto blindate. Un messaggio chiarissimo”. L’unica vera misura di protezione per Franciosi è rappresentata dagli amici che vivono e lavorano qui vicino. “Mi chiamano subito se notano qualcosa di sospetto. Pochi giorni fa un uomo con un accento napoletano ha chiesto a un amico dove si trovava il mio cantiere. Lui l’ha mandato da un’altra parte. Tanto, se è una brava persona, tornerà”. Prima di salutarci, notiamo che, come ogni vero uomo di mare, Giannino ha molti tatuaggi. Uno in particolare, ci incuriosisce: raffigura i numeri 610 e occupa tutta la parte destra del collo. Giannino spiega con calma: “Me l’hanno fatto loro. E’ un segno di riconoscimento per aver partecipato a un’operazione. La mia vita è legata a loro per sempre”. 12/07/2015 FAMIGLIA CRISTIANA

 

 

 

 



L’agente sotto copertura

 

Con l’entrata in vigore della “legge spazza corrotti” (legge 3 del 9 gennaio 2019, dal titolo “Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonche’ in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici”) verrà  ampliato il range operativo in materia di operazioni speciali sotto copertura delle forze di polizia, un insidioso strumento investigativo che vale la pena riassumere, brevemente,  nelle sue tante sfaccettature.
In un pregresso approfondimento avevamo trattato alcuni aspetti della sociologia della comunicazione come strumento d’indagine, da qui analizzando alcune tematiche a questa correlate nello scenario delle intercettazioni tattiche  di comunicazioni, fino a trattare l’ utilizzabilità dei tanti frammenti audio video che, con l’avvento delle nuove tecnologie e dei devices elettronici a portata di taschino, sono state riconosciute dalla giurisprudenza quali memorizzazioni foniche di un fatto storico ex art. 234 c.p.p.
Erano stati, anche, offerti alcuni spunti di riflessione riguardo la più recente giurisprudenza sulle immagini, fino all’introduzione del concetto di agente attrezzato per il suono e dell’agente sotto copertura.

 

Sommario
1. Undercover e società moderna
2. Formazione degli agenti sottocopertura, “la menzogna” ed il distress
3. L’agente sotto copertura nella legislazione italiana
4. L’istituto dell’undercover comparato nelle altre realtà internazionali
5. Il contrasto alla corruzione nella Pubblica Amministrazione
6. La riforma dell’undercover con la L. 9 gennaio 2019, n. 3
7. Infiltrato ed agente provocatore: la focale della Corte EdU 

Il fascino delle “légendes”, storie di copertura degli agenti segreti

La storia, attuale ma non troppo, di Maria Adela-Olga, spia russa che lasciò l’Italia nel 2018, ha riacceso l’interesse, anche romantico, del pubblico verso questa forma antica quasi quanto l’essere umano di spionaggio, cioè la raccolta informativa a mezzo agenti infiltrati in territorio amico e non.
Più di recente, nella storia delle due guerre mondiali, hanno agito agenti segreti sotto copertura, donne e uomini. Si trovano nei documenti desecretati di vari archivi nazionali, soprattutto di Londra e Washington. Coperture: le più svariate e fantasiose. Alcune ben riuscite; altre no.
La copertura può servire per avere informazioni utili ma anche per somministrarne di false ove occorra. L’infiltrazione di un agente può infatti avere un duplice scopo.
In guerra forse la più famosa fu quella, nel luglio 1943, organizzata dall’intelligence britannica, per coprire la vera data dello sbarco alleato in Sicilia. Menti brillanti di una speciale sezione dell’intelligence fecero assumere a una persona morta una falsa identità, utilizzandolo come agente provocatore; la corredarono di falsi documenti “top secret” sulle date di sbarco, e in quali luoghi, e ne fecero ritrovare il cadavere dai tedeschi, che ritennero di aver fatto casualmente una importante scoperta frutto, invece, di una brillante azione di controinformazione. I documenti d’archivio inglesi narrano che i nazisti caddero nel tranello.
La copertura spesso più usata, soprattutto in momenti non di conflitto, ma di relativa calma, è sempre stata quella di un’impresa commerciale (esattamente come per la citata Maria Adela, venditrice di gioielli), o di agenzie di stampa delle quali però quasi sempre si è conosciuto il vero lavoro, appunto non solo giornalistico.
A Teheran, negli anni 1975-1986 il bravo corrispondente della Pravda parlava un ottimo farsi oltre all’arabo, e circolava in tutti i ricevimenti occidentali e non. Tutti i diplomatici ben sapevano che apparteneva al Kgb. Non si conoscevano, però, gli altri suoi collaboratori – salvo forse i servizi segreti, e non, dello Shah.
Il problema degli agenti sotto copertura è molto delicato, specialmente in Italia. Non illudiamoci di non aver mai avuto persone che raccoglievano informazioni per i nostri Servizi. Queste, però, non erano in organico nei ruoli amministrativi o militari. Un esempio noto: Francesco Pazienza, ingaggiato alla fine del 1979 dal generale Giuseppe Santovito come consulente del Sismi, in Francia, cioè un informatore ad alto livello, con un nome in codice, Miro. A dire del Pazienza stesso, non fu una esperienza positiva, almeno per lui e non solo, e finì presto, per molte ragioni. Erano certo tempi diversi.
Quale dovrebbe essere il punto fondamentale della svolta che si vuole imprimere nel quadro di una necessaria rivisitazione della legislazione concernente la nostra Agenzia per la Sicurezza esterna (Aise) riguardo a questo modo di operare? Un problema che mai è stato sfiorato in precedenza, almeno ufficialmente. Nell’Agenzia per la Sicurezza interna (Aisi), il metodo degli infiltrati è stato ampiamente usato nella lotta al terrorismo e alla mafia.
Nei vari e lunghi dibattiti parlamentari che hanno preceduto l’approvazione delle leggi 801/1977 e 124/2007, nonché della cosiddetta manutenzione della seconda con la133/2012 (la legislazione che governa attualmente le Agenzie), mai è stato sfiorato il problema di autorizzare personale di ruolo in Aise ad agire da infiltrato con una buona copertura, anche se possibilmente inattivo per molto tempo, attuando quella penetrazione informativa, come ben ricordato da Gabriele Carrer nel suo articolo del 7 settembre.
Non avendo una tradizione operativa nel settore, sarà complesso arrivare a una soddisfacente e chiara regolamentazione del problema in breve tempo; una regolamentazione che preveda per i funzionari dell’Aise la possibilità di impegnarsi in un terreno sul quale, almeno così sembra, non abbiamo esperienza consolidata, dando loro le necessarie garanzie funzionali.
Ben riconoscendo che le serie televisive partono da fatti veri, trattandoli in modo romanzato, bisogna sapere che nella serie francese Le Bureau des Légendes compare più volte il logo della Direction Générale de la Sécurité Extérieure (Dgse – corrisponde alla nostra Aise). Ai tempi durante i quali si stava girando la serie, corse voce che l’istituzione non ne fosse molto contenta, ma poi la stessa decise di dare “una mano” tecnica, in modo che non ci fossero situazioni non credibili, che avrebbero anche potuto, al limite, screditare con il pubblico la stessa Dgse. E infatti il logo ufficiale della Dgse compare spesso nel film. Occorre peraltro notare che quella istituzione si avvale di personale esperto nel settore da molto tempo.
Non è facile creare buone credibili coperture che durino nel tempo e che necessitano, a volte, anni per radicarsi e soprattutto servono menti sopraffine per delinearle.
È vero che attualmente la parte tecnologica dell’intelligence sembra avere il sopravvento sulla Humint, l’intelligenza umana, ma possiamo ben ricordare che spesso, soprattutto in un quadro mediorientale-centroasiatico, è stata la mente umana, anche se aiutata dalla tecnologia, a ottenere brillanti risultati, laddove per tradizione o scarsa conoscenza di mezzi attuali o anche per umana prudenza, le direttive operative per Isis o Daesh o similari organizzazioni sono spesso veicolate a voce o con striminziti foglietti spesso indecifrabili a chi non è della partita.
L’intelligence italiana, che ha peraltro ottimi operatori, deve fare un passo avanti nella modernizzazione, organizzando ancora meglio la propria rete informativa, ricorrendo anche ai sistemi antichi sempre validi. Sembra una contraddizione i termini ma non lo è. Questo concetto sembra ormai essersi ben radicato là dove si fa intelligence.

 


L’agente sotto copertura nel DDL anticorruzione

 

Il disegno di legge intitolato “Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione” (c.d. ddl “spazzacorrotti”), approvato dal Consiglio dei Ministri lo scorso 6 settembre, propone di introdurre nel nostro ordinamento la figura dell’agente sotto copertura, o agente infiltrato, anche per i delitti di corruzione.
Nell’affrontare questo tema si terrà conto della bozza del testo del disegno di legge, non essendo stata ancora diffusa la versione formalizzata dal Consiglio dei Ministri.
 
Lo spirito del progetto di legge

In generale, le proposte del disegno di legge mirano a rafforzare la normativa già esistente per il contrasto alla corruzione al fine di debellare questo fenomeno e accrescere la credibilità e la competitività del nostro Paese sul piano internazionale.

Le misure maggiormente significative, ma non per questo innovative, consistono nell’aumento di pena per il reato di corruzione nell’esercizio delle funzioni (art. 318 c.p.); nel rafforzamento della misura della interdizione a contrarre con la Pubblica Amministrazione (c.d. “daspo” contro ai corrotti) già prevista nell’attuale art. 32 ter c.p.; nella introduzione di pene miti e di “clausole di non punibilità” per chi denuncia i corrotti o fornisce prove di reati di corruzione; nella confisca dei beni anche in caso di amnistia o prescrizione, se si è stati condannati almeno in primo grado; nella perdita dell’anonimato per chi fa donazioni a partiti, fondazioni o altri organismi politici; e, non da ultimo, nella possibilità di utilizzare agenti sotto copertura anche per i reati di corruzione.

L’agente sotto copertura e l’agente provocatore: possibili differenze

L’agente sotto copertura, o infiltrato, è un appartenente alla polizia giudiziaria che penetra in una organizzazione criminale, partecipando alla commissione di qualche reato, per acquisire elementi di prova nell’immediatezza del fatto o nel momento in cui l’attività criminosa è in corso di esecuzione.

Entro determinati limiti, la sua attività è giustificata o, più tecnicamente, scriminata dall’art. 51 del codice penale ai sensi del quale “l’esercizio di un diritto o l’adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica Autorità, esclude la punibilità”. Norma che deve però essere letta contestualmente alla disposizione di cui all’art. 55 c.p. che punisce chi eccede colposamente nell’esercitare un proprio diritto o adempiere ad un dovere legittimamente imposto.

Non appare sempre chiara la distinzione tra l’infiltrato e l’agente provocatore, colui cioè che istigando od offrendo l’occasione, provoca la commissione di reati al fine di coglierne gli autori in flagranza o, comunque, al fine di farli scoprire e punire. Quest’ultima figura mal si concilia con i principi che governano il nostro ordinamento sia perché la finalità di scoprire gli autori del reato non rappresenta né una giustificazione, né una scusante per la commissione di reati da parte di agenti di polizia sia perché l’autorità giudiziaria ha l’obbligo di perseguire i reati consumati, ma non di suscitare azioni criminose ancorché finalizzate a ragioni di giustizia.

Per questi motivi, la giurisprudenza della Corte di Cassazione ha precisato che l’attività dell’agente provocatore è ammissibile nelle sole ipotesi in cui la sua opera si limita alla osservazione, al controllo e al contenimento delle altrui condotte criminose, o, comunque, non suscita nuovi propositi criminosi, ma offre soltanto l’occasione di acquisire elementi di prova e scoprire reati che sono già stati commessi. L’infiltrato non può in alcun modo suscitare in altri un proposito criminoso o concorrere alla sua concreta realizzazione.

Sulla base di questa definizione le due figure sembrano coincidere ed è forse per questa ragione che sovente i termini di “agente sotto copertura” e “agente provocatore” vengono considerati e utilizzati in maniera sinonimica.

In definitiva, che lo si chiami nell’uno o nell’altro modo, l’agente deputato a indagini di questa natura non è punibile se si limita ad osservare, controllare e contenere i comportamenti illeciti altrui con la conseguenza che al di fuori di questo perimetro la sua attività potrebbe essere qualificata in termini di reato, salvo espressa indicazione normativa.

Previsioni normative

Ad oggi, il legislatore giustifica l’attività sotto copertura in determinati settori. A titolo esemplificativo: disciplina delle sostanze stupefacenti o psicotrope (art. 97, d.P.R. n. 309/1990), contrasto al terrorismo (art. 4, l. n. 438/2001), criminalità organizzata transnazionale (art. 9, l. n. 146/2006) e sicurezza (artt. 17-29, l. n. 124/2007).

La materia delle operazioni sotto copertura è stata riorganizzata con l’art. 9 della l. 16 marzo 2006, n. 146 e successive modificazioni. Questa disposizione esclude la punibilità per “gli ufficiali di polizia giudiziaria della Polizia di Stato, dell’Arma dei Carabinieri e del Corpo della Guardia di Finanza, appartenenti alle strutture specializzate o alla Direzione investigativa antimafia, nei limiti delle proprie competenze, i quali, nel corso di specifiche operazioni di polizia e, comunque, al solo fine di acquisire elementi di prova” in ordine, ex plurimis, ai reati di estorsione, sequestro di persona, usura, riciclaggio, ai delitti concernenti armi, munizioni, esplosivi, ai delitti in materia di immigrazione, di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, ecc., i quali pongono in essere le seguenti attività: dare rifugio o prestare assistenza agli associati, acquistare, ricevere od occultare denaro, armi, documenti, sostanze stupefacenti o psicotrope, beni ovvero che sono oggetto, prodotto, profitto o mezzo per commettere il reato o altrimenti ostacolano l’individuazione della loro provenienza.

L’art. 5 del disegno di legge in esame aggiunge alle operazioni appena elencate la possibilità di accettare l’offerta o la promessa di denaro o altra utilità; corrispondere denaro o altra utilità in esecuzione di un accordo illecito già concluso da altri; promettere o dare denaro o altra utilità richiesti da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio o sollecitati come prezzo della mediazione illecita verso un pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio o per remunerarlo.

La norma è stata salutata come attesa attuazione della Convenzione ONU di Merida adottata dalla Assemblea Generale dell’ONU il 31 ottobre 2003 con risoluzione n. 58/4 e ratificata dallo Stato italiano con l. 3 agosto 2009, n. 116.

L’art. 50 della Convenzione ONU auspica infatti che gli Stati aderenti, per combattere efficacemente la corruzione, “nei limiti consentiti dai principi fondamentali del proprio ordinamento giuridico interno, e conformemente alle condizioni stabilite dal proprio diritto interno”, adottino le misure necessarie e “altre tecniche speciali di investigazione, quali la sorveglianza elettronica o di altro tipo e le operazioni sotto copertura entro il suo territorio”.

Profili problematici

Salvo successive modifiche, così formulata, la disposizione sulle operazioni undercover potrebbe destare non poche perplessità in ordine alla responsabilità dell’agente infiltrato nella realizzazione degli stessi reati che dovrebbe svelare e alla tenuta della norma sul piano processuale.

Ed invero, costituisce parte integrante della fattispecie della concussione ex art. 317 c.p. la condotta dell’agente che promette denaro o altra utilità richiesti da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio; così come compone il reato di traffico illecito di influenze ex art. 346 bis c.p. la promessa o l’effettiva consegna di denaro o altra utilità sollecitati come prezzo della mediazione illecita verso un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio.

Ebbene, i reati di corruzione e concussione sono necessariamente plurisoggettivi nel senso che per la loro consumazione è essenziale che si instauri una dinamica di prestazione e controprestazione tra almeno due soggetti: chi chiede denaro o altre utilità, chi promette e/o consegna quel denaro o l’altra utilità.

I dubbi che scaturiscono dalla lettura del disegno di legge attengono al fatto che lo stesso agente sembra rappresentare la parte essenziale di quella dinamica e la sua attività potrebbe integrare fatti di reato rispetto ai quali, come indicato nell’incipit dell’art. 9 della l.n. 146/2006, dovrebbe “solo acquisire elementi di prova”.

In concreto, rispetto a quell’aula di tribunale con cui ogni legislatore dovrebbe confrontarsi, l’efficacia della norma potrebbe mostrarsi fragile perché se l’agente sotto copertura realizza una delle prestazioni che configurano il delitto di corruzione, concussione o traffico illecito di influenze, potrebbe risultare difficile sia stabilire se, senza la sua partecipazione, il reato sarebbe comunque giunto a giuridica esistenza, sia raccogliere prove autentiche secondo lo spirito della legge che il ddl mira ad integrare.

È vero che la norma punta ad attuare l’art. 50 della Convenzione di Merida ma proprio questa disposizione impone a ciascun Stato di considerare “i limiti consentiti dai principi fondamentali del proprio ordinamento giuridico interno e le condizioni stabilite dal proprio diritto interno”.  Pubblicato il 12/09/2018 di Ester Molinaro TRECCANI


Undercover operations: l’agente sotto copertura e l’agente provocatore

 

Le operazioni sotto copertura suscitano da anni l’attenzione non solo degli operatori del diritto, ma anche di registi e sceneggiatori. Siamo oramai abituati a vedere in film o serie tv questo tipo di operazioni di polizia. Cerchiamo di vedere, con le lenti del giurista, cosa sono e che cosa è consentito fare nel nostro ordinamento a chi effettua le undercover operations.

Innanzitutto, bisogna effettuare una fondamentale distinzione: l’agente sotto copertura o infiltrato, da un lato, e l’agente provocatore, dall’altro. Tale ripartizione si rende necessaria in quanto il primo è lecito e pienamente utilizzabile, mentre il secondo è ritenuto contra ius dalla Corte di Strasburgo[1]e, a cascata, dalla giurisprudenza nazionale.

Cerchiamo di capire il perché analizzando alcune differenze fra queste due figure.

In primo luogo, l’agente sotto copertura si colloca all’interno di un procedimento penale già avviato e, quindi, presuppone l’esistenza di una notizia di reato a monte del suo operato.

Il provocatore, invece, agisce prima e a prescindere dall’acquisizione di una notitia criminis.

Ne deriva che mentre l’infiltrato non fa altro che insinuarsi nel tessuto criminale osservando e disvelando un reato, l’agente provocatore dà origine a un reato che senza il suo intervento di istigatore non si sarebbe mai verificato nella realtà storica.

Oltre agli elementi che li differenziano, agente provocatore ed infiltrato hanno anche dei tratti comuni.

Ad esempio il contesto in cui agiscono, i c.d. reati di criminalità organizzata: entrambi costituiscono, infatti, l’insostituibile fattore umano indispensabile per capire quali siano le intenzioni di un’organizzazione criminale, nonché il relativo radicamento sul territorio, le gerarchie interne, la forma mentis ed il modus operandi degli affiliati.

In genere, ambedue queste figure utilizzano, com’è ovvio supporre, identità e documenti di copertura o fittizi e le operazioni in esame devono necessariamente essere svolte da agenti di p.g. o da loro ausiliari in specifiche operazioni di polizia e per specifici reati previsti ex lege.

Dal punto di vista normativo, il Legislatore ha iniziato ad interessarsi al tema nel 1990 e, segnatamente, con il T.U. in materia di stupefacenti ossia il D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 che agli artt. 97 e 98 ha previsto le attività sotto copertura nelle indagini antidroga.

L’ambito operativo di questo tipo di strumenti investigativi è stato ampliato nel corso degli anni fino a ricomprendere: sequestro di persona a scopo di estorsione (L. 15 marzo 1991, n. 82), contrasto al traffico di armi (L. 7 agosto 1992, n. 356), usura e riciclaggio (L. 18 febbraio 1992, n. 172), reati di pedo-pornografia, prostituzione minorile, riduzione in schiavitù e turismo sessuale (L. 3 agosto 1998, n. 269), contrasto al crimine organizzato internazionale e transnazionale (L. 15 dicembre 2001, n. 438) e, infine, alcuni reati contro la p.a. (L. 9 gennaio 2019 n. 3).

Questa l’evoluzione normativa dell’istituto.

Inoltre, è da segnalare la riforma organica effettuata con L. 16 marzo 2006, n. 146 che all’art. 9 delinea compiutamente l’attuale disciplina delle operazioni sotto copertura.

L’attività dell’agente infiltrato deve, quindi, mantenersi allo stato di mero controllo, osservazione e contenimento dell’altrui condotta criminosa in quanto laddove sfociasse in istigazione a commettere delitti si trasformerebbe in quella dell’agente provocatore.

Cosa può fare l’infiltrato? Sicuramente non ha licenza di uccidere.

Le prerogative dell’agente sotto copertura sono tassativamente elencate all’art. 9, L. n. 146/2006 il quale chiarisce che dette condotte sono non punibili solo se effettuate nel corso di specifiche operazioni di polizia e al solo fine di acquisire elementi di prova in ordine ai delitti previsti.

In primis, l’infiltrato può omettere o ritardare gli atti di rispettiva competenza. Sugli agenti di p.g. incombe, infatti, l’art. 55 c.p.p. che esprime il concetto di ordine pubblico[2] e l’art. 328 c.p. sull’omissione di atti d’ufficio e, pertanto, se costoro non fossero facoltizzati a ritardare l’arresto non avrebbe senso alcuno l’operazione sotto copertura.

Gli agenti possono, inoltre, dare rifugio o comunque prestare assistenza agli associati ex art. 9, comma 1, lett. a), L. 146/2006.

Particolarmente delicata è la questione concernente un certo tipo di operazioni che gli è consentito svolgere: gli infiltrati acquistano, ricevono, sostituiscono od occultano denaro, armi, documenti, stupefacenti, beni ovvero cose che sono oggetto, prodotto, profitto o mezzo per commettere il reato o altrimenti ostacolano l’individuazione della loro provenienza o ne consentono l’impiego[3].

In altri termini: possono commettere reati, rectius azioni che se non fossero espressione di specifiche operazioni di polizia sotto copertura integrerebbero sic et simpliciter condotte meritevoli del disvalore delle fattispecie penali.

Con la legge c.d. “spazzacorrotti” (L. n. 3/2019) il Legislatore ha esteso il raggio d’azione dell’infiltrato[4] anche ad alcuni reati contro la p.a. di particolare allarme sociale (quali corruzione, induzione indebita, concussione, etc.).

A questo punto sorge spontanea un’altra domanda, e cioè se e fino a che punto l’agente provocatore e l’agente infiltrato siano scriminati.

La giurisprudenza ha chiarito che la loro condotta ‘‘è scriminata per adempimento del dovere solo se non si inserisca con rilevanza causale nell’iter criminis, ma intervenga in modo indiretto e marginale concretizzandosi prevalentemente in un’attività di osservazione, di controllo e di contenimento delle azioni illecite altrui”. [5]

Inoltre la giurisprudenza di legittimità ha affermato che non può farsi derivare dall’obbligo previsto “dall’art. 55 c.p.p., l’esclusione della responsabilità dell’agente provocatore, poiché è adempimento di un dovere perseguire i reati commessi, non già di suscitare azioni criminose al fine di arrestarne gli autori” (Cass. pen., sez. 4, 21 settembre 2016, n. 47056).

Sinteticamente può, dunque, affermarsi che l’infiltrato è sempre scriminato, ma solo nel caso in cui compia le prerogative tassativamente tipizzate dall’art. 9, L. 146/2006.

Il provocatore, invece, non è espressamente scriminato, ma bisogna segnalare che non è sempre penalmente rilevante ciò che egli ponga in essere: bisogna analizzare caso per caso.

Ad esempio, è stata affermata dalla giurisprudenza la penale responsabilità di agenti provocatori i quali, in operazioni antidroga, non si erano limitati ad acquistare e detenere, bensì avevano venduto la sostanza stupefacente (Cass. pen., sez. 3, 15 gennaio 2016, n. 31415).

Si faccia un altro esempio. Poniamo il caso in cui un agente si finga un imprenditore e faccia una proposta corruttiva ad un politico. [6] Nel caso in cui quest’ultimo non accettasse nulla questio.

Nel caso in cui il politico abbia, invece, accettato l’offerta vi sarebbe la configurazione di un qualche reato? Indubbiamente no.

In particolare, né provocatore né provocato sono punibili in quanto, senza neanche dover scomodare il reato impossibile di cui all’art. 49, comma 2. c.p. per inidoneità della condotta, rientrano nel perimetro del famoso brocardo latino cogitationis poenam nemo patitur. [7]

Non sembra comunque compatibile con l’impostazione dello Stato di Diritto, democratica e liberale, quella di uno Stato intento ad istigare e saggiare sotto mentite spoglie l’onestà dei propri dipendenti pubblici, anche se ben potrebbe utilizzarsi questa tecnica di integrity testing ad esempio a livello giornalistico.

Per quanto concerne il profilo operativo, è necessario porre in evidenza alcuni aspetti essenziali di come si svolgono questo tipo di operazioni di polizia.

In primis, è indispensabile mantenere un costante monitoraggio dell’agente infiltrato per salvaguardarne l’incolumità durante la fase attiva del contatto con il crimine organizzato: anche con prossimità di forze pronte a soccorrere l’agente in caso di emergenza.

Di non poco momento è poi l’importanza di uno specifico addestramento dell’agente in questione.

Il riferimento è tanto ad una specifica preparazione a vivere in contesti criminali particolarmente pericolosi quanto e soprattutto ad una specifica formazione culturale: ad esempio, un infiltrato che voglia fingersi un imprenditore intenzionato a contrattare con la p.a., in indagini per reati corruttivi, necessita di indispensabili conoscenze tecniche e lessicali dell’ambiente nonché di contatti personali, disponibilità economiche, etc.

Quest’ultimo aspetto ci porta ad una questione problematica che riguarda in particolar modo le operazioni sotto copertura per reati contro la p.a.

Come può un agente di polizia fingersi, in modo credibile, un imprenditore che voglia aggiudicarsi un appalto, una concessione o un affidamento diretto di rilevante consistenza economica o addirittura di livello nazionale o europeo? Sembra oltremodo difficile costruire un passato fittizio di imprenditore con tanto di azienda avviata nel settore, da rifilare ad un pubblico ufficiale competente. [8]

Si pensi poi al caso in cui vari imprenditori costruiscano un sistema con il quale corrompono il pubblico funzionario che redige il capitolato di un appalto in modo da avere dei requisiti confacenti alle loro imprese (il c.d. “abito sartoriale” o su misura)[9] creando così una lobby che si spartisce ogni anno il medesimo appalto.

Come sarebbe credibile agli occhi di veri imprenditori un infiltrato la cui azienda in realtà non esiste!? La soluzione è offerta dalla stessa normativa in quanto le udercover operations possono essere svolte non solo da un agente di polizia giudiziaria tout court, bensì anche da un suo ausiliario.

Utilizzando un vero imprenditore o un vero appartenente ad un’organizzazione criminale, mafiosa o di narcotraffico, l’operazione diventa indubbiamente più efficace rispetto a quella di un agente di polizia al quale servirebbero innumerevoli e costosi corsi di formazione e passati virtuali di non sempre facile costruzione.

In conclusione, può affermarsi che mentre l’infiltrato costituisce un irrinunciabile strumento investigativo, soprattutto nell’azione di contrasto per certi tipi di reato, il provocatore è, invece, una figura troppo controversa per essere introdotta nel nostro ordinamento, almeno per il momento.

[1]                    Sul punto, “in the fight against crime cannot justify the use of evidence obtained as a result of police incitement”, cfr. Corte eur. dir. uomo, 9 giugno 1998, Teixeira de Castro c./Portugal; Corte eur. dir. uomo, 27 ottobre 2004, Edward & Lewis c./UK: il quale, ai sensi dell’art. 117 Cost., costituisce principio di diritto vincolante nel nostro ordinamento; a livello nazionale, Cass. pen., sez. 4, 21 settembre 2016, n. 47056.  

[2]                    Art. 55, comma 1, c.p.p.: “la polizia giudiziaria deve, anche di propria iniziativa, prendere notizia dei reati, impedire che vengano portati a conseguenze ulteriori, ricercarne gli autori, compiere gli atti necessari per assicurare le fonti di prova e raccogliere quant’altro possa servire per l’applicazione della legge penale”.

[3]                    Preme sottolineare come queste prerogative, essendo tassative, non sono analogicamente interpretabili.

[4]                    Nel contratto di Governo al punto 15 era prevista l’introduzione dell’infiltrato e “la valutazione della figura dell’agente provocatore”: nella legge definitiva è poi confluito il solo infiltrato.

[5]                    Cfr., Cass. n. 10695/2008; n. 14677/2002; n. 11634/2000; n. 2890/1988; n. 10849/1975; n. 311/1969.

[6]                    Negli USA sono soliti utilizzare gli integrity testing effettuati in undercover operations o in inchieste giornalistiche, vedi P. Davigo, Il sistema della corruzione, Laterza, Bari, 2017, 62.

[7]                    Diversamente opinando si finirebbe per ripristinare la dottrina della colpa d’autore che si sviluppò nella Germania nazista attorno agli anni ’40 del secolo scorso in base alla quale si era colpevoli per la mera propensione al delitto.

[8]                    Così, F. Cardella, Corruzione e sistema mafioso, in Nova Itinera. Percorsi del diritto nel XXI secolo, Nuova scienza s.r.l., Roma, 2017, III, 11.

[9]                    Al riguardo, R. Cantone, E. Carloni, Corruzione e Anticorruzione. Dieci lezioni, Feltrinelli, Milano, 2018, 62

29.7.2019 IUSITINERE

 


L’AGENTE SOTTO COPERTURA: EVOLUZIONE E RIFORMA IN MATERIA DI CONTRASTO ALLA CORRUZIONE 

In questi giorni, con l’entrata in vigore della “legge spazza corrotti” (legge 3 del 9 gennaio 2019, dal titolo “Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonche’ in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici”) verrà  ampliato il range operativo in materia di operazioni speciali sotto copertura delle forze di polizia, un insidioso strumento investigativo che vale la pena riassumere, brevemente,  nelle sue tante sfaccettature. In un pregresso approfondimento avevamo trattato alcuni aspetti della sociologia della comunicazione come strumento d’indagine, da qui analizzando alcune tematiche a questa correlate nello scenario delle intercettazioni tattiche  di comunicazioni, fino a trattare l’ utilizzabilità dei tanti frammenti audio video che, con l’avvento delle nuove tecnologie e dei devices elettronici a portata di taschino, sono state riconosciute dalla giurisprudenza quali memorizzazioni foniche di un fatto storico ex art. 234 c.p.p. Erano stati, anche, offerti alcuni spunti di riflessione riguardo la più recente giurisprudenza sulle immagini, fino all’introduzione del concetto di agente attrezzato per il suono e dell’agente sotto copertura.

 

Sommario
1. Undercover e società moderna
2. Formazione degli agenti sottocopertura, “la menzogna” ed il distress
3. L’agente sotto copertura nella legislazione italiana
4. L’istituto dell’undercover comparato nelle altre realtà internazionali
5. Il contrasto alla corruzione nella Pubblica Amministrazione
6. La riforma dell’undercover con la L. 9 gennaio 2019, n. 3
7. Infiltrato ed agente provocatore: la focale della Corte EdU 

1. Undercover e società moderna  L’istituto dell’undercover rimanda ad  prestito linguistico dallo slang  americano ridondante nella copiosa filmografia poliziesca sin dagli ani ’70,  e descrive, nella sua reale interpretazione semantica, un insidioso, quanto invasivo, strumento investigativo d’intelligence che le realtà occidentali hanno, negli anni, importato. Si è scelto di scrivere, “realtà”, piuttosto che “potenze”,  “istituzioni” o “forze di sicurezza”, in quanto si tratta di un espediente, purtroppo, utilizzato in tantissimi contesti della società moderna, con protocolli di “infiltrazione”, fisici o virtuali,  che si registrano nel mondo del lavoro (ad esempio per monitorare il rendimento e l’affidabilità del personale), nell’istruzione (per saggiare modelli di apprendimento e contesti sociali dei discenti), nella vita familiare (con il monitoraggio silente e disinvolto di amici e parenti compiacenti), nella sfera privata (con l’intrusione di detectives ed investigatori privati pronti ad insinuarsi con nonchalance  nelle dinamiche sociali del quotidiano),  nella criminalità (con l’inserimento di occhi e orecchie dei clans nelle contrapposte fazioni malavitose), nel mondo dell’informatica (con moderni “cavalli di troia”, pronti ad inocularsi nella nostra più intima quotidianità attraverso performanti captatori informatici), fino al monitoraggio  del web . Un aspetto particolare aveva riguardato, anche, il  terrorismo moderno, e l’attività di profiling ivi connessa, un  rodato protocollo di analisi versatile in ogni ambito investigativo e criminalistico,  ormai divenuto un modello operativo indispensabile nell’attività di analisi del terrorismo internazionale[1], e dove si tende ad individuare un distinguo psico-comportamentale rivolto a disegnare il profile del “terrorista fondamentalista tipo”, spesso camuffato, come ai tempi delle B.R.,  da “vicino della porta accanto”[2]. La carrellata sarebbe ancora lunga  ma,  ultimo e più importante esempio è, infine, quello che riguarda l’istituto dell’agente sotto copertura disciplinato dal legislatore italiano nelle tante attività di prevenzione e contrasto di reati.    Si tratta di un contesto istituzionale di elevatissima professionalità, fatto di protocolli e linee guida tanto rigidi quanto complessi e variegati, per via dell’ inusuale modalità di approccio investigativo, che va dal galoppino della droga, al trafficante di armi semi analfabeta, al pedofilo giacca e cravatta fino al raffinato broker internazionale, ove la formazione non riguarda soltanto l’agente autorizzato a svolgere operazioni speciali, ma la certosina preparazione di un articolato e sofisticato pool istituzionale. Dal team di tutela dell’agente, a quello di supporto tecnico-operativo, alla squadra incaricata alla logistica ed alle identità di copertura, a quella di coordinamento internazionale, fino al gruppo incaricato alla documentazione giudiziaria ed ai rapporti con le competenti autorità che, spesso, andranno ad interfacciarsi con diversi organismi collaterali. Un brain storming  di strutture internazionali che fa da collante al sistema ed  ove, accanto al noto e datato servizio INTERPOL, troviamo l’interfaccia dell’ Agenzia Europea per la Difesa E.D.A., supportata dal Servizio Europeo per l’Azione Esterna S.E.A.E., a sua volta propulsa dal braccio operativo del Joint Situation Centre Sit. Cen., a cui si aggiungono, ancora un “coordinatore antiterrorismo del consiglio europeo” ed altri nomi ed acronimi altisonanti, fino ai più noti organismi di coordinamento giudiziario e di polizia sul fronte comunitario, EUROJUST ed EUROPOL. 

2. Formazione degli agenti sottocopertura,  “la menzogna” ed il distress La formazione dell’operatore sottocopertura è articolata quanto raffinata, con la frequentazione di specifici corsi di alta formazione organizzati dalle tante strutture istituzionali interessate, che vanno dalle scuole di formazione del D.I.S., fino a quelle interforze presso la Direzione Centrale Antidroga del Dipartimento di Pubblica Sicurezza, a cui il personale accede dopo una rigida selezione, in primis di carattere psicologico e di attitudine al particolare e rischioso servizio. La ratio è ovvia, in quanto si tratta di una attività che nel c.d. processo di Intelligence, trova compendio nella  Hum-Int[3] ove il primo requisito – accanto all’altissimo senso del dovere – è quello dell’adattamento sociolinguistico dell’agente infiltrato al contesto comunitario, sociale, professionale e parlante in cui andrà ad insinuarsi. Si tratta di personale che, in determinati contesti addestrativi, potrebbe essere in grado di bypassare[4] strumenti sofisticati di rilevazione della “menzogna”, come il poligrafo[5] più comunemente noto come “macchina della verità”,  un apparato in grado di registrare ed evidenziare alcuni segni (pattern) di alterazione neurovegetativa e cambiamenti fisiologici prodotti in maniera principale dalle emozioni, che sono contestualmente tradotti graficamente nel corso dell’esame. Gli aspetti che riguardano le best practices per il rilevamento della menzogna erano stati, in passato, affrontati in un approfondimento sulle “tecniche di colloquio investigativo”[6], ove si era annotata l’esistenza di tre modelli cardine;  uno di tipo classico, seguendo uno dei modelli criminologici fissati dall’F.B.I.; un approccio di interrogatorio di tipo psicologico[7]; ed infine un modello tecnologico ove è fatto ricorso all’utilizzo di apparecchiature più o meno sofisticate d’ausilio all’intervistatore:  “[…] Preliminarmente è opportuno distinguere le menzogne a basso rischio (le c.d. bugie sociali) rispetto a quelle ad alto rischio, ove l’intervistato deve mantenere un maggiore impegno cognitivo nel formulare la risposta, ponendo attenzione nella costruzione dei concetti e sulla motivazione da produrre. Ciò determina un’alterazione del pattern abituale, con inusuali tratti cinesici e gestuali, incremento dello stato d’ansia per l’essere scoperto, così evidenziando ulteriori segni di manipolazione dovuti all’attivazione del sistema nervoso simpatico, attraverso cui saranno evidenziate modifiche neurofisiologiche ed elevazione brusca dell’ormone dello stress[8]. In precedenza è già stato fatto richiamo al rapporto tra individuo ed ambiente in grado di determinare frequenti interazioni di stress, che hanno come generica conseguenza uno stato d’ansia. Taluni elementi ambientali, con ciò intendendosi anche esperienze, rapporti interpersonali e situazionali, detti stressors, determinano una sollecitazione sull’organismo e subiscono sempre un’elaborazione di tipo cognitivo, da cui dipende generalmente la reazione della persona,  e da qui un’alterazione dell’equilibrio tra individuo ed ambiente a cui consegue il disagio definito stress. La condizione di stress determina l’attivazione di un circuito composto da strutture cerebrali e da una ghiandola endocrina, il surrene[9], il quale aumenta la secrezione di cortisolo; questo ormone, anche conosciuto come ormone dello stress, è particolarmente indicativo per rilevare la menzogna nel corso di un’intervista, in quanto induce, tra l’altro, un aumento della gittata cardiaca e dei valori glicemici[10]. Lo stress indotto dalla menzogna ha, inoltre, per effetto dei microtremori della voce,  dovuti al minore afflusso di sangue verso le corde vocali così da determinare la tensione dei muscoli striati della laringe inducendo, per contro, un’improvvisa affluenza di sangue in alcune parti del viso, ed in maniera peculiare vicino gli occhi. Questi, come altri indizi, saranno oggetto di monitoraggio investigativo nel corso del colloquio tecnico al fine di rilevare la presenza di menzogne[11] […]”[12].

3. L’agente sotto copertura nella legislazione italiana  Va, adesso, descritta più in dettaglio la figura dell’undercover[13],  cioè l’agente sotto copertura[14], connotato da un delicatissimo status[15] e garantito da alcune scriminanti[16], che si riflette nell’ufficiale di polizia giudiziaria “infiltrato”  specializzato ad insinuarsi nel tessuto criminale, in alcuni casi[17], anche, “istigando”  alla commissione di delitti, ed ove sono presenti ulteriori figure giuridiche di compendio: quella dell’ausiliario[18]e della persona interposta[19]. Due figure concorrenti nell’attività dell’infiltrato, alle quali “[…] è estesa l’esimente[20] prevista per l’acquisto, ricezione, sostituzione od occultamento di sostanze stupefacenti o psicotrope o il compimento di attività preliminari e strumentali. È opportuno, quindi, chiarire se e quali differenze sussistono tra la persona interposta e l’ausiliario. La nozione di “persona interposta” è abbinata allo svolgimento “diretto” delle attività di acquisto simulato delle sostanze stupefacenti ed alle altre attività prodromiche e strumentali tipiche[21] o atipiche[22]. “Persona interposta”, a scanso di equivoci, può essere chiaramente un agente o un ufficiale di polizia giudiziaria chiamato a coadiuvare l’ufficiale di polizia giudiziaria “infiltrato” e diverso da questi; ma, ovviamente, può essere anche un privato[23]. L’“ausiliario” si differenzia, invece, dalla “persona interposta” sostanzialmente per le attività di collaborazione che può essere chiamato a svolgere, tra cui quella ab externo con l’undercover, rivolta al buon esito dell’operazione, ma diversa dal coinvolgimento “diretto” nella stessa, realizzato con il compimento di una delle attività[24] descritte nel co. 1 dell’art. 97. Le figure giuridiche della persona interposta e dell’ausiliario trovano analogo compendio normativo nella legislazione speciale di contrasto al crimine transnazionale[25] […]. Con l’indicazione di “agente infiltrato” si intende individuare l’operatore di polizia che si limita ad adottare comportamenti di mera osservazione, sorveglianza e/o contenimento dell’altrui azione criminosa; l’attività dell’undercover è rivolta a raccogliere prove su reati od a carico di persone che li abbiano commessi, ovvero di far cogliere in flagranza i responsabili di uno o più delitti, non assumendo mai un ruolo attivo di istigatore od ideatore nella commissione degli stessi. Con l’accezione di “agente provocatore” si identifica, invece, il soggetto istituzionale che, oltre quanto detto, pone in essere condotte attive e/o omissive funzionali alla realizzazione dei fatti delittuosi investigati[…]”.[26] Vediamo adesso, nello scenario legislativo speciale, le tante disposizioni di legge che disciplinano l’istituto dell’agente sotto copertura e che, negli anni, sono in parte  confluite nell’art. 9 della L. 16 marzo 2016 n. 146:

  • in materia di stupefacenti, 
  • nel contrasto al traffico di armi,
  • nei sequestri di persona a scopo di estorsione,  L. 15 marzo 1991, n. 82, art. 7 “Disposizioni processuali”;
  • nel contrasto all’usura ed al riciclaggio, L. 18 febbraio 1992, n. 172, art. 10 “Disposizioni processuali”;
  • nei reati di pedo-pornografia, prostituzione minorile, riduzione in schiavitù e turismo sessuale, L. 3 agosto 1998, n. 269, art. 14 “Attività di contrasto”; L. 11 agosto 2003, n. 228, art. 10 “Attività sotto copertura”;
  • nel contrasto al crimine internazionale  e transnazionale, L. 15 dicembre 2001, n. 438, art. 4 “Attività sotto copertura”; L. 16 marzo 2006, n. 146, art. 9 “Operazioni sotto copertura”.

Un più raffinato e meno rigido protocollo di intelligence trova riscontro nella norma di riforma dei “Servizi”,  la legge 3 agosto 2007 n. 124, che aveva portato alla nascita  il D.I.S. Dipartimento delle     Informazioni per la Sicurezza, la sostituzione del “Servizio Militare” SISMI con  di Agenzia Informazioni e Sicurezza Esterna, ed il  vecchio SISDE rinominato Agenzia Informazioni e Sicurezza Interna.

“[…] In detto nuovo assetto la norma ha previsto la possibilità che gli agenti delle due Agenzie possano effettuare, per ragioni istituzionali “attività simulate” assumendo  “identità di copertura”; un bel traguardo se si compara la performance degli omologhi organismi di altri stati, da anni autorizzati a svolgere attività tecnico-informative ad ampio respiro e senza soluzioni di continuità.

In generale il provvedimento ha previsto che il direttore generale del DIS, può autorizzare, su proposta dei direttori dell’AISE e dell’AISI, l’uso, da parte degli addetti ai servizi […], di documenti di identificazione contenenti indicazioni di qualità personali diverse da quelle reali può essere disposta o autorizzata l’utilizzazione temporanea di documenti […] di copertura.

Che venga agli stessi “agenti” escluso lo status di ufficiale o di agente di polizia giudiziaria e di pubblica sicurezza, così da manlevare gli stessi da tutti quegli oneri che la legge impone, in via generale, agli operatori delle forze di polizia.

Con la riforma, ancora, il direttore generale del DIS può autorizzare, su proposta dei direttori dell’AISE e dell’AISI, l’esercizio di attività economiche simulate, sia nella forma di imprese individuali sia nella forma di società di qualunque natura[…]”[27].

In uno scenario comparato – aveva annotato alcuni anni addietro il compianto Ten. Col. Omar Paci nelle sue tante slides per i discenti frequentatori dei corsi undercover- l’istituto giuridico dell’agente sotto copertura trova applicazione diversa nelle tante realtà internazionali, come ad esempio:

  • Svizzera: il funzionario di polizia nell’ambito di indagini penali per la repressione del traffico di sostanze stupefacenti può essere autorizzato dal procuratore generale della confederazione ad assumere un’identità fittizia allo scopo di partecipare ad operazioni di acquisto simulato di droga. Le false generalità dell’infiltrato potranno essere mantenute anche durante la fase processuale. Presupposti: dovrà trattarsi di investigazioni inerenti la criminalità organizzata, ovvero indagini che riguardino fatti di particolare gravità (es. traffico internazionale di stupefacenti).
  • Danimarca: qui è istituzionalizzata la figura dell’agente provocatore che potrà essere rivestita da un funzionario di polizia a tre condizioni: fondato sospetto che il reato stia per essere commesso; dimostrata insufficienza di altri strumenti investigativi; gravità dei delitti per cui si procede (pena superiore ai 6 anni e contrabbando). È sempre necessaria l’autorizzazione motivata del magistrato che deve, salvo casi eccezionali, darne avviso all’avvocato della difesa.
  • Francia: la legge sul contrasto ai traffici di stupefacenti individua due distinte figure: l’agente sorvegliante che si limita a rilevare e documentare, passivamente, le transazioni illecite; l’agente controllante che viceversa assume un ruolo attivo nell’acquisto, trasporto, detenzione e vendita di sostanze stupefacenti. Oltre che gli appartenenti alla polizia, anche i doganieri possono rivestire i citati ruoli investigativi. Per l’agente sorvegliante è sufficiente la previa informazione al magistrato, mentre per l’agente controllante è necessaria un’autorizzazione scritta.
  • Germania: la legislazione tedesca prevede la figura dell’investigatore coperto o segreto che può operare nei settori criminosi del traffico di droga e di armi, del falso nummario nonché dei reati contro la personalità dello stato. Condizioni: i citati delitti dovranno essere perpetrati da organizzazioni criminali; l’attività sotto copertura potrà realizzarsi solo quando gli altri strumenti d’indagine si dimostreranno inefficaci; sarà necessaria l’autorizzazione scritta del pubblico ministero. L’agente infiltrato è legittimato a compiere una serie diversificata di condotte e, soprattutto, allo stesso sarà attribuita una doppia identità che verrà mantenuta a che in fase processuale.
  • Bulgaria: è prevista l’ autorizzazione del pm per l’ attività undercover; l’agente under cover (anche straniero) testimonia con garanzia di anonimato.
  • Russia: l’agente under cover può utilizzare identità e struttura di copertura. La testimonianza avviene con identità di copertura (anche per l’agente straniero); la rivelazione dell’identità può avvenire solo previo consenso scritto dell’agente.
  • Macedonia: l’agente under cover (anche straniero) testimonia con garanzia di anonimato; vige estrema versatilità di impiego nelle attività sotto copertura.
  • Israele: gli agenti under cover testimoniano con l’identità fittizia, e solo per una singola operazione. Sono previsti accordi speciali con criminali o privati che possono fare filmati o registrazioni quali repertazioni di fatti storici e prove documentali. Gli under cover testimoniando obbligatoriamente con l’identità reale.
  • Regno Unito: si tratta di uno strumento investigativo di polizia non soggetto ad autorizzazione giudiziaria. Le richieste di cooperazione sono rivolte direttamente alle agenzie di polizia.
  • Romania: gli agenti under cover stranieri sono soggetti alla secretazione dell’identità reale, procedendo a riservata testimonianza.
  • Turchia: l’attività under cover è soggetta ad autorizzazione del G.I.P. (P.M. per urgenze); con decreto autorizzativo e documentazione di copertura in cassaforte del pm che ne risponde in toto; il mantenimento dell’identità fittizia avviene anche dopo l’operazione per esigenze di sicurezza (il c.d. sganciamento).
  • Lituania: il personale, per ragioni di riservatezza, non è presente in elenchi di polizia; l’ agente under cover può essere interrogato solo dal giudice e dal P.M.: Qualora l’escussione avvenga in aula, l’anonimato dell’under cover sarà garantito con pseudonimo e distorsione audio con protezione visiva; per gli agenti under cover stranieri è prevista documentazione e struttura di copertura.

5. Il contrasto alla corruzione nella Pubblica Amministrazione

Negli ultimi anni il legislatore si è più volte interessato all’ammodernamento dei correttivi in materia di contrasto alla corruzione nel settore pubblico[28], con l’introduzione dell’ipotesi di induzione indebita a dare o promettere utilità [29], e quella del “traffico di influenze illecite”[30], individuando anche un intermediario tra soggetto pubblico e quello privato[31].

Ridefinendo, parallelamente,  il reato di concussione[32] – un’estorsione qualificata diversa rispetto alla pregressa dicotomia tra induzione e costrizione –  oggi ristretto alla  sola  ipotesi in cui il pubblico ufficiale[33] costringa il privato all’ illecita dazione o promessa di denaro o altra utilità[34].

L’evoluzione normativa di contrasto alla corruzione ha delineato la figura giuridica del soggetto privato  concusso dal pubblico ufficiale o dall’incaricato al pubblico servizio  mediante induzione[35], rilevandone la compartecipazione nel reato quale concorrente necessario.[36]

Una stretta di vite che vedrà attuata in questi giorni la c.d. “legge spazza corrotti” n. 3 del 9 gennaio 2019, dal titolo “Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonche’ in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici”; un inasprimento alle ipotesi delittuose già delineate con i precedenti pacchetti anticorruzione, con l’introduzione di ulteriori correttivi e strumenti di intervento.

Il tema della corruzione pubblica rientra in dinamiche tutt’altro che obsolete, seppure già oggetto di classificazione criminalistica nei lontani anni ’40, allorquando la “scuola di Chicago” introdusse  il  termine  The white collar crime[37], sapientemente descritto da Edwin Sutherland quale forma di dilagante distorsione sociale: “[…] I crimini dei colletti bianchi – annotava il criminologo statunitense – sono di difficile individuazione, in quanto molti sono ‘delitti senza vittime’. In caso di corruzione entrambe le parti possono considerarsi dalla parte del guadagno derivato dall’accordo, entrambi sono passibili di condanna e, perciò, è probabile che nessuno denunci il danno[…] [38].

Uno scellerato “mentire e rubare tra diritto e morale”[39];  fatto di  rapporti tra “Clientela e parentela”[40]; un mix di “Stato, controllo sociale e devianza”[41], ove è presente un “crimine socialmente tollerato”[42], abilmente, quanto sfrontatamente, coltivato da colletti bianchi orbitanti un una “sfera delinquenziale d’elite in ambito economico ove  l’autore, di solito un professionista accreditato che gode di massima rispettabilità e prestigio nella società in cui vive, attua l’attività criminosa   nell’esercizio del proprio status lavorativo”[43].

Si tratta di una forma di devianza criminale descrivibile, anche, attraverso interpretazioni scientifico matematiche desunte dalla disamina di una serie di variabili, come il  comportamento, la funzione, la personalità e l’ ambiente.

Questo è il concetto di studio su cui si basa la c.d. teoria del campo[44] di Kurt Lewin ove  è presente un orientamento che focalizza l’attenzione anche sulla motivazione, traducendo la rappresentazione di quelle variabili attraverso l’equazione  matematica:  C= f (P, A)in cui C sta per comportamento, f per funzione, P per personalità ed A per ambiente.

Nella precedente legislatura, gli strumenti di contrasto al fenomeno sono andati oltre, interessandosi ai mezzi di ricerca della prova, ed alla possibilità di utilizzare le intercettazioni facendo ricorso alle nuove tecnologie dual use e, da qui, al  captatore informatico “Trojan”. “[…] In merito alle intercettazioni concernenti reati contro la pubblica amministrazione compiuti dai pubblici ufficiali, la riforma in esame ha snellito le procedure per l’ascolto di conversazioni nel caso di gravi reati dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione. Innanzitutto il testo prevede che questa disposizione si applichi soltanto per i reati la cui pena massima non è inferiori ad anni 5. Inoltre, ci devono essere gravi indizi di reato e le intercettazioni devono essere necessarie per procedere nelle indagini. Recita testualmente l’art. 6 del decreto, rubricato “Disposizioni per la semplificazione delle condizioni per l’impiego delle intercettazioni delle conversazioni e delle comunicazioni telefoniche e telematiche nei procedimenti per i più gravi reati dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione” che: “Nei procedimenti per i delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione puniti con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni, determinata a norma dell’articolo 4 del codice di procedura penale, si applicano le disposizioni di cui all’articolo 13 del decreto-legge 13/05/1991, n. 152, convertito, con modificazioni, dalla legge 12/07/1991, n. 203.[45] L’intercettazione di comunicazioni tra presenti nei luoghi indicati dall’articolo 614 del codice penale non può essere eseguita mediante l’inserimento di un captatore informatico su dispositivo elettronico portatile quando non vi è motivo di ritenere che ivi si stia svolgendo l’attività criminosa[…][46]”.

6. La riforma dell’under cover con la L. 9 gennaio 2019, n. 3 L’evoluzione normativa ha riguardato, infine, con l’odierno legislatore, anche l’istituto dell’agente sottocopertura nel contrasto ai crimini nella Pubblica Amministrazione, definito in questi giorni con la legge 9 gennaio 2019, n. 3[47] che entrerà in vigore il prossimo 31 gennaio. La norma presenta alcuni limiti rispetto alla preesistente previsione del delicatissimo status,  descritta dalla legge 146 del 2006 di cui abbiamo parlato nelle pagine che precedono, non consentendo l’estensione della veste di under cover a quella di agente provocatore, in altre ipotesi delittuose manlevato dall’istigazione a delinquere (come in relazione all’art. 97 del DPR309/90 ed all’art. 1 quater del D.L. 306/92, ed alle altre evoluzioni annotate all’art.9 della L. 146/2006).

Di seguito la nuova configurazione normativa:

All’articolo 9, comma 1, della legge 16 marzo 2006, n.  146,  la lettera a) e’ sostituita dalla seguente: «a) gli ufficiali di polizia giudiziaria della Polizia di  Stato, dell’Arma dei carabinieri e  del  Corpo  della  guardia  di  finanza, appartenenti  alle   strutture   specializzate   o   alla   Direzione investigativa antimafia,  nei  limiti  delle  proprie  competenze,  i quali, nel corso di specifiche operazioni di polizia e, comunque,  al solo fine di  acquisire  elementi  di  prova  in  ordine  ai  delitti previsti dagli articoli 317, 318, 319, 319-bis, 319-ter,  319-quater, primo  comma,  320,  321,  322,  322-bis,  346-bis,   353,   353-bis, 452-quaterdecies, 453, 454, 455, 460, 461, 473, 474, 629,  630,  644, 648-bis e 648-ter, nonche’ nel libro secondo, titolo XII,  capo  III, sezione I, del codice penale, ai delitti concernenti armi, munizioni, esplosivi, ai delitti previsti dall’articolo 12, commi 1, 3, 3-bis  e 3-ter, del testo unico delle disposizioni concernenti  la  disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al decreto legislativo 25  luglio  1998,  n.  286,  nonchè  ai  delitti previsti dal testo unico delle leggi in materia di  disciplina  degli stupefacenti   e   sostanze   psicotrope,   prevenzione,    cura    e riabilitazione dei relativi stati di  tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre  1990,  n.  309,  e dall’articolo 3 della legge  20  febbraio  1958,  n.  75,  anche  per interposta persona, danno rifugio o comunque prestano assistenza agli associati, acquistano, ricevono, sostituiscono od occultano denaro  o altra utilità, armi, documenti, sostanze stupefacenti o  psicotrope, beni ovvero cose che sono oggetto, prodotto, profitto, prezzo o mezzo per commettere il reato o ne accettano  l’offerta  o  la  promessa  o altrimenti ostacolano l’individuazione della loro  provenienza  o  ne consentono l’impiego ovvero corrispondono denaro o altra utilità  in esecuzione di un accordo illecito già concluso da altri,  promettono o danno denaro o altra utilità richiesti da un pubblico ufficiale  o da un incaricato di un pubblico servizio o  sollecitati  come  prezzo della mediazione illecita verso un pubblico ufficiale o un incaricato di un pubblico  servizio  o  per  remunerarlo  o  compiono  attività prodromiche e strumentali». Lo spettro di azione dell’agente impiegato in operazioni speciali sotto copertura viene, quindi, ampliato, cosicchè l’under cover infiltrato negli scenari delle amministrazioni pubbliche, non risponderà penalmente di dazioni di denaro improprie – purchè in esecuzione di un accordo illecito già concluso da altri – così come nel caso di promessa o consegna di  denaro o altra utilità richiesti da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio, o dall’aver dato corso a una sollecitazione di pagamento illecita. L’accezione “ogni altra utilità” qui introdotta,  è la fisiologica espansione analogica di altra novella legislativa, in relazione al voto di scambio politico mafioso, in precedenza oggetto di lungo de iure condendo, per via di quella rigida interpretazione sul “cambio dell’erogazione del denaro”.[48] Il nuovo alveo di operatività dell’agente sotto copertura riguarda, adesso, anche la concussione, la corruzione per l’esercizio della funzione, e  quella per un atto contrario ai doveri d’ufficio, la corruzione propria aggravata dall’avere ad oggetto pubblici impieghi o stipendi o pensioni, arrivando al pagamento o al rimborso dei tributi, la corruzione in atti giudiziari, l’induzione indebita a dare o promettere utilità, traffico di influenze illecite, turbata libertà degli incanti e turbata libertà del procedimento di scelta del contraente. Ed, ancora, gli illeciti di corruzione di incaricato di pubblico servizio, la corruzione attiva comunque sia commessa, l’istigazione alla corruzione attiva e passiva, i vari reati corruttivi verso i membri della Corte penale internazionale,  gli organi della Comunità europea,  funzionari della Ue e di Stati esteri. Rimangono invariati i presupposti di impiego a monte delle “operazioni speciali” condotte dall’infiltrato – da identificarsi tassativamente in un ufficiale di polizia giudiziaria appartenente alle “strutture specializzate” delle tre forze di polizia o alla Direzione Investigativa Antimafia, secondo i parametri già in precedenza ancorati dall’originaria norma che aveva introdotto l’istituto, previe intese ed autorizzazioni della competente autorità giudiziaria.

7. Infiltrato ed agente provocatore: la focale della Corte EdU  Ultimo inciso riguarda il distinguo operato in generale tra under cover ed agente provocatore,  al centro di un acceso dibattito istituzionale, e ad oggetto di pronuncia del giudice di legittimità, che ha più volte tracciato una distinzione netta tra la condotta, penalmente irrilevante dell’agente sotto copertura, rispetto a quella, invece,  meritevole di sanzione penale, dell’agente provocatore.[49] Analogamente,  la Corte europea per i diritti dell’uomo, seppure consapevole della necessità di adeguata lotta al fenomeno corruttivo[50],  ha chiarito l’incompatibilità di alcuni insidiosi strumenti di indagine con la Convenzione: “[…] Da un punto di vista generale, la Corte ha, infatti, precisato che, se da un lato “the Court’s case-law does not preclude reliance, at the investigation stage of criminal proceedings and where the nature of the offence so warrants, on evidence obtained as a result of an undercover police operation”[51] (CEDU Khudobin c/ Russia, para §128), dall’altro lato “although the admissibility of evidence is primarily a matter for regulation by national law, the requirements of a fair criminal trial under Article 6 entail that the public interest in the fight against crime cannot justify the use of evidence obtained as a result of police incitement”[52] (CEDU Teixeira de Castro c/ Portugal, para §§34-36, CEDU Edward & Lewis c/ UK, pag. 15). La Corte ha così inteso distinguere con precisione la figura dell’agente provocatore, come detto incompatibile con la Convenzione, da quella dell’agente sotto copertura, che è invece ammissibile: “Police incitement occurs where the officers involved – whether members of the security forces or persons acting on their instructions – do not confine themselves to investigating criminal activity in an essentially passive manner, but exert such an influence on the subject as to incite the commission of an offence that would otherwise not have been committed, in order to make it possible to establish the offence, that is, to provide evidence and institute a prosecution”[53] (CEDU Ramanauskas c/ Lithuania, para §55). Venendo alle regole nostrane, anche il Legislatore italiano distingue le due figure, disciplinando (e rendendo legittima) soltanto quella dell’agente sotto copertura. In particolare, quest’ultima trova spazio nell’ambito delle indagini cd. antimafia (L. n. 146/2006, art. 9) e antidroga (D.P.R. n. 309/1990, art. 97), attraverso una speciale causa di non punibilità per quegli agenti di Polizia giudiziaria che, “al solo fine di acquisire elementi di prova in ordine a determinati delitti, diano rifugio o comunque prestino assistenza agli associati, acquistino, ricevano, sostituiscano od occultino denaro, armi, documenti, sostanze stupefacenti o psicotrope, beni ovvero cose che sono oggetto, prodotto, profitto o mezzo per commettere il reato o altrimenti ostacolino l’individuazione della loro provenienza o ne consentano l’impiego o compiano attività prodromiche e strumentali” […]”[54].

L’AGENTE SOTTO COPERTURA  Chi è l’agente sotto copertura, in quali ambiti può operare, quando e per quali reati è esclusa la punibilità, la differenza con la figura dell’agente provocatore. Guida aggiornata alle novità del ddl anticorruzione L’agente sotto copertura è quel soggetto che, per motivi di indagine partecipa all’attività criminosa altrui al fine di farla fallire e farne arrestare gli autori; controlla e osserva l’attività illecita altrui, senza poter dare esecuzione al reato.

Agente sotto copertura: punibilità esclusa  All’agente sotto copertura è applicabile la scriminante prevista dall’art. 51 del codice penale, ai sensi del quale: “l’adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica Autorità, esclude la punibilità”.

Agente sotto copertura: le leggi speciali Il legislatore nel corso degli anni ha emanato leggi speciali in materie particolari, che prevedono scriminanti specifiche per gli agenti sotto copertura

Agente sotto copertura: stupefacenti L’attività degli agenti che operano sotto copertura per indagare sulla commissione di reati in materia di stupefacenti è prevista dall’art. 97 del D.P.R. n. 309/90, che per la sua disciplina rinvia all’art. 9 della Legge n. 146/2006 e successive modificazioni, che si analizzerà in seguito.

Agente sotto copertura: prostituzione e pornografia  La legge n. 269/1998 all’art. 14 dispone che, gli ufficiali di polizia giudiziaria delle strutture specializzate per la repressione dei delitti sessuali, per la tutela dei minori e per il contrasto dei delitti di criminalità organizzata, possano:previa autorizzazione dell’autorità giudiziaria e al solo fine di acquisire elementi di prova per i reati suddetti,procedere all’acquisto simulato di materiale pornografico, prendere parte alle relative attività d’intermediazione, e partecipare alle iniziative turistiche di cui all’articolo 5 della presente legge.

Sempre al fine di contrastare i delitti di cui agli articoli 600-bis, primo comma (prostituzione minorile), 600-ter, commi primo, secondo e terzo (pornografia minorile) e 600-quinquies (iniziative turistiche volte allo sfruttamento della prostituzione minorile) del codice penale, commessi con l’impiego di sistemi informatici, mezzi di comunicazione telematica o reti di telecomunicazione disponibili al pubblico, nell’ambito dei compiti di polizia delle telecomunicazioni il personale specializzato può ricorrere a indicazioni di copertura, anche per attivare siti, creare o gestire aree di comunicazione o scambio su reti o sistemi telematici, o partecipare ad esse.

Agente sotto copertura: terrorismo internazionale  L’art. 4 del D.L n. 374/2001 coordinato con la legge di conversione n. 438/2001 disciplina l’attività sotto copertura, disponendo, fermo restando quanto previsto dall’art. 51 c.p., la non punibilità degli ufficiali di Polizia giudiziaria che:

nel corso di specifiche operazioni di polizia disposte al solo fine di acquisire elementi di prova relativi a delitti commessi con finalità di terrorismo

“anche per interposta persona acquistano, ricevono, sostituiscono od occultano denaro, armi, documenti, stupefacenti, beni ovvero cose che sono oggetto, prodotto, profitto o mezzo per commettere il reato, o altrimenti ostacolano l’individuazione della provenienza o ne consentono l’impiego.”

Sempre a fini d’indagine, gli ufficiali e gli agenti di Polizia giudiziaria possono utilizzare documenti, identità o indicazioni di copertura anche per attivare o entrare in contatto con soggetti e siti nelle reti di comunicazione. Queste attività di copertura sono compiute dagli ufficiali di Polizia giudiziaria degli organismi investigativi della Polizia di Stato e dell’Arma dei carabinieri specializzati nel contrastare il terrorismo e l’eversione e gli ufficiali della Guardia di finanza competenti nell’ostacolare il finanziamento del terrorismo, anche internazionale. Gli ufficiali di Polizia giudiziaria possono avvalersi della collaborazione di ausiliari, a cui si applica la stessa causa di non punibilità.

Agente sotto copertura: crimine organizzato transazionale  L’art. 9 della Legge n. 146/2006 in materia di crimine organizzato transnazionale, in vigore dal 12/4/2006, in materia di operazioni sotto copertura, stabilisce che, fermo quanto stabilito dall’art. 51 c.p. non sono punibili gli ufficiali di polizia giudiziaria della Polizia di Stato, dell’Arma dei carabinieri e del Corpo della Guardia di Finanza, che fanno parte delle strutture specializzate o della Direzione investigativa antimafia, che nel corso di specifiche operazioni di polizia e al fine di acquisire elementi di prova in ordine ai delitti:

  • di alterazione, falsificazione di monete, spendita e introduzione nello Stato, previo concerto senza concerto di monete falsificate;
  • di contraffazione di carta filigranata in uso per la fabbricazione di carte di pubblico credito o di valori di bollo;
  • di fabbricazione o detenzione di filigrane o di strumenti destinati alla falsificazione di monete, di valori di bollo o di carta filigranata;
  • di contraffazione, alterazione o uso di marchi o segni distintivi ovvero di brevetti, modelli e disegni;
  • di introduzione nello Stato e commercio di prodotti con segni falsi;
  • di estorsione e sequestro di persona a scopo di estorsione;
  • d’usura;
  • di riciclaggio;
  • di impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita;
  • contro la libertà individuale;
  • concernenti armi, munizioni, esplosivi;
  • di cui all’art. 12, commi 1, 3, 3-bis e 3-ter, del testo unico sull’immigrazione;
  • di cui al decreto legislativo 25/07/1998, n. 286 relativi alla condizione dello straniero;
  • previsti dal testo unico in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope di cui al D.P.R. n. 309/1990;
  • di cui all’art. 260 Dlgs. n. 152/ 2006 e art. 3 Legge n. 75/1958;

anche per interposta persona, danno rifugio o comunque prestano assistenza agli associati, acquistano, ricevono, sostituiscono od occultano denaro, armi, documenti, sostanze stupefacenti o psicotrope, beni ovvero cose che sono oggetto, prodotto, profitto o mezzo per commettere il reato o altrimenti ostacolano l’individuazione della loro provenienza o ne consentono l’impiego o compiono attività prodromiche e strumentali. Non sono punibili neppure gli ufficiali di polizia giudiziaria degli organismi investigativi della Polizia di Stato e dell’Arma dei carabinieri specializzati nel contrastare il terrorismo e l’eversione e del Corpo della guardia di finanza competenti a ostacolare il finanziamento del terrorismo, che, nel corso di specifiche operazioni e solo per acquisire elementi di prova in ordine ai delitti commessi con finalità di terrorismo o di eversione, anche per interposta persona, compiono le stesse attività messe in atto da coloro che, come analizzato sopra, fanno parte delle strutture specializzate o della Direzione investigativa antimafia. La causa di giustificazione si applica agli ufficiali, agli agenti di polizia giudiziaria, agli ausiliari sotto copertura quando le attività sono condotte per dare attuazione a operazioni autorizzate e documentate e anche alle interposte persone. Gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria impiegati in tutte le operazioni descritte possono utilizzare documenti, identità o indicazioni di copertura, rilasciati dagli organismi competenti anche per attivare o entrare in contatto con soggetti e siti nelle reti di comunicazione.

Agente sotto copertura: sicurezza e segreto  L’art. 17 della Legge n. 124/2007 in materia di sicurezza della Repubblica e del segreto che, fermo il disposto dell’art 51 c.p. prevede la non punibilità del “personale dei servizi di informazione per la sicurezza che ponga in essere condotte previste dalla legge come reato, legittimamente autorizzate di volta in volta in quanto indispensabili alle finalità istituzionali di tali servizi”.  Il comma 6 dell’art. 17 precisa però che, la speciale causa di giustificazione si applica quando le condotte:

sono poste in essere nell’esercizio o a causa di compiti istituzionali dei servizi di informazione per la sicurezza, in attuazione di un’operazione autorizzata e documentata ai sensi dell’articolo 18 e secondo le norme organizzative del Sistema di informazione per la sicurezza;

sono indispensabili e proporzionate al conseguimento degli obiettivi dell’operazione non altrimenti perseguibili;

sono frutto di una obiettiva e compiuta comparazione degli interessi pubblici e privati coinvolti; d) sono effettuate in modo tale da comportare il minor danno possibile per gli interessi lesi”.

Il comma 7 estende la causa di giustificazione prevista per il personale dei servizi di informazione e sicurezza, ai non addetti ai medesimi servizi ” quando risulta che il ricorso alla loro opera da parte dei servizi d’informazione per la sicurezza era indispensabile ed era stato autorizzato (…)”.

Agente sotto copertura e agente provocatore: differenze  L’agente sotto copertura e l’agente provocatore sono sostanzialmente la stessa figura, l’unica differenza è che la prima figura è prevista dalla legge per i reati di pedofilia, terrorismo, droga, sicurezza e criminalità organizzata, mentre la seconda è vietata.

Agente sotto copertura: corruzione e Convenzione di Merida  Uno dei reati che più di ogni altro richiederebbe la possibilità di ricorrere all’agente provocatore è quello di corruzione, non meno importante per diffusione e gravità, ai reati in cui tale figura è prevista. La lacuna normativa del nostro ordinamento potrebbe tuttavia essere colmata rapidamente, dando attuazione alla Convenzione ONU contro la corruzione, sottoscritta a Merida nel 2003.

Il comma 1 dell’art. 50 della Convenzione, dedicato a tecniche investigative speciali, prevede infatti che, al fine di contrastare la corruzione, ogni Stato, nei limiti stabiliti dai principi fondamentali dell’ordinamento interno, e conformemente al proprio diritto interno, possa adottare speciali tecniche di investigazione, tra le quali, appunto, le operazioni sotto copertura.

Agente sotto copertura: le novità del ddl anticorruzione  Il ddl anticorruzione, diventato legge il 18 dicembre 2018, disciplina la figura dell’agente sotto copertura ampliando il numero e il tipo di reati per i quali è consentito ricorrere a tale tecnica investigativa In particolare:

l’impiego dell’agente sotto copertura sarà possibile per i reati contemplati dai seguenti articoli del codice penale: 317, 318, 319, 319-bis, 319-ter, 319-quater, primo comma, 320, 321, 322, 322-bis, 346-bis, 353, 353-bis, 452-quaterdecies, 630, 644, 648-bis e 648-ter;

diventa non punibile l’acquisto, la ricezione, la sostituzione e l’occultamento anche di altra utilità o cose che costituiscono il prezzo per commettere il reato o ne accettano l’offerta o la promessa;

così come non saranno punibili d’ora in poi gli ufficiali di polizia che “corrispondono denaro o altra utilità in esecuzione di un accordo illecito già concluso da altri, promettono o danno denaro o altra utilità richiesti da un pubblico ufficiale o da un incaricato di un pubblico servizio o sollecitati come prezzo della mediazione illecita verso un pubblico ufficiale o un incaricato di un pubblico servizio o per remunerarlo.”   Annamaria Villafrate | 29 mar 2018

ULTIME SENTENZE IN MATERIA

Investigazioni della polizia giudiziaria  Quando l’attività concretamente riferibile all’agente sotto copertura o all’interposta persona corrisponde ad una o più fra le operazioni espressamente contemplate dal minisistema normativo di riferimento costituito dall’art. 9 l. 16 marzo 2006, n. 146, deve escludersi sia la configurabilità di ipotesi di responsabilità penale a carico di tali soggetti, sia la sussistenza di situazioni di inutilizzabilità della prova acquisita nel corso della indicata attività. Cassazione penale sez. VI, 02/04/2015, n.19122

Agenti di polizia giudiziaria sotto copertura   Ai fini della valutazione dei gravi indizi di reato in sede di autorizzazione delle intercettazioni, le informazioni fornite da agenti di polizia giudiziaria operanti sotto copertura, la cui identità non sia disvelata, sono pienamente utilizzabili, a condizione che sia stata rispettata la procedura autorizzativa prevista dalla legge, non essendo equiparabili alle informazioni di fonte confidenziale o anonima indicate nell’art. 203 c.p.p. Cassazione penale sez. IV, 03/05/2016, n.25247

Reato di importazione di sostanza stupefacente  Il reato di importazione di sostanza stupefacente, commesso da un appartenente alla polizia giudiziaria, che agisca da agente sotto copertura ma travalicando i limiti di applicabilità dell’esimente di cui all’art. 97 d.P.R. n. 309 del 1990, richiede, quanto all’elemento soggettivo, la sussistenza del dolo generico, inteso come coscienza e volontà di introdurre nel territorio dello Stato sostanza stupefacente e di detenerla ad uso non personale, mentre non è necessario che l’importazione sia commessa con la finalità specifica di cessione a terzi della droga . (In motivazione la Corte ha chiarito che, nella specie, non valesse ad escludere l’elemento soggettivo del reato la finalità ultima, perseguita dagli imputati, di individuare i soggetti dediti al traffico illecito di stupefacenti attraverso le condotte di importazione). Cassazione penale sez. III, 15/01/2016, n.31415

Testimonianza circa le dichiarazioni dell’indagato In tema di criminalità organizzata, con riferimento alle speciali tecniche di investigazione preventiva previste dalla l. n. 146 del 2006 (di ratifica della convenzione Onu contro il crimine organizzato), e alla figura dell’agente infiltrato o sotto copertura, qualora questi commetta azioni illecite diverse da quelle dichiarate non punibili (art. 9 legge citata), ed esorbiti dai limiti legislativi posti alla sua azione così determinando con il suo comportamento fatti penalmente rilevanti, egli assume la figura di coimputato in procedimento connesso o collegato, e di conseguenza, alle sue dichiarazioni si applica la disciplina di cui agli art. 192 e 210 c.p.p. (Ha specificato peraltro la Corte che, laddove l’agente sotto copertura operi entro i limiti di legge, alla sua testimonianza circa quanto da lui appreso dall’imputato durante le investigazioni non si applica l’art. 62 c.p.p. posto che il divieto ivi previsto non attiene alle dichiarazioni che costituiscano o accompagnino la condotta criminosa direttamente riferita dall’agente infiltrato). Cassazione penale sez. II, 28/05/2008, n.38488

Deposizione testimoniale su quanto appreso dall’imputato In tema di indagini per l’accertamento dei reati concernenti le sostanze stupefacenti, gli investigatori operanti “sotto copertura” possono rendere testimonianza su quanto hanno appreso dall’imputato nel corso dell’investigazione, dal momento che, nell’ambito dell’operazione svolta, sono stati soggetti partecipanti all’azione e non hanno agito come ufficiali di polizia giudiziaria con i poteri autoritativi e certificatori connessi alla qualifica. Cassazione penale sez. VI, 05/12/2006, n.41730

Dichiarazioni rappresentative di precedenti fatti  In tema di dichiarazioni che l’agente sotto copertura abbia ricevuto dagli imputati nel corso delle indagini preliminari, di regola non trovano applicazione. gli art. 62 e 63 c.p.p. Infatti il divieto di testimonianza previsto dall’art. 62 c.p.p. concerne soltanto le dichiarazioni rappresentative di precedenti fatti, e non anche le condotte e le dichiarazioni che si accompagnano a tali condotte, o le dichiarazioni programmatiche di future condotte. Nemmeno si applica il secondo 2 dell’art. 63 c.p.p., non trattandosi di dichiarazioni rese nel corso di un esame o di assunzione di informazioni in senso proprio, nè le dichiarazioni rappresentano eventi già accaduti (fattispecie, in tema di agente provocatore ex art. 97 del d.P.R. n. 309 del 1990). Tribunale Macerata, 18/07/2001

Dichiarazioni percepite dall’agente sotto copertura Il divieto di testimonianza sulle dichiarazioni comunque rese dall’imputato nel corso del procedimento non riguarda le affermazioni compiute in presenza di agenti “infiltrati” per il compimento delle attività previste dall’art. 97 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309. Per un verso, infatti, la preclusione riguarda solo le dichiarazioni rappresentative di fatti precedenti e non quelle che costituiscano o accompagnino la condotta direttamente riferita dal testimone. Per altro verso il divieto attiene alle sole dichiarazioni rese nel corso del procedimento, e dunque funzionalmente alla formazione di un atto processuale, mentre l’agente infiltrato non agisce al fine di redigere atti servendosi dei propri poteri autoritativi e certificativi, quanto piuttosto (nei limiti fissati dalla legge) quale partecipe del fatto successivamente testimoniato. Cassazione penale sez. IV, 04/10/2004, n.46556

Divieto di testimonianza sulle dichiarazioni dell’imputato In tema di accertamento dei reati concernenti sostanze stupefacenti, gli investigatori operanti ‘sotto copertura’ possono rendere testimonianza su quanto hanno appreso dall’imputato nel corso dell’investigazione, dal momento che, nell’ambito dell’operazione svolta, sono stati soggetti partecipanti all’azione e non hanno agito come ufficiali di polizia giudiziaria con i poteri autoritativi e certificatori connessi alla qualifica. Cassazione penale sez. III, 09/05/2013, n.37805

Dichiarazioni confessorie rese all’operatore di polizia giudiziaria Il documento fonografico contenente le dichiarazioni confessorie dell’autore di un fatto reato, rese ad un operatore di polizia giudiziaria non conosciuto come tale ed impegnato, quale agente “sotto copertura”, in tutt’altre investigazioni, è utilizzabile probatoriamente, perché il divieto di testimonianza su quanto dichiarato dal sottoposto ad indagine ed il divieto di utilizzazione delle dichiarazioni rese prima dell’assunzione della qualità di indagato operano soltanto nel corso e nell’ambito del procedimento nel quale il soggetto è sottoposto ad indagine o è imputato. Cassazione penale sez. II, 19/12/2006, n.5601

fonte: La legge per tutti


1. Il novum dell’intervento normativo e lo statuto giuridico dell’agente sotto copertura. – Il comma 8 dell’articolo unico della L. n. 3/2019 introduce, per alcuni tra i più significativi reati contro la Pubblica Amministrazione[1], la possibilità di utilizzazione dell’agente sotto copertura, apportando una serie di modifiche, quanto a reati presupposto e condotte scriminate, all’articolo 9 L. 146/2006, che delinea lo statuto giuridico di tale organo di polizia giudiziaria.

La norma, così come modificata dall’art. 8 L. 136/2010, è il risultato di un’operazione di reductio ad unum[2] delle diverse discipline introdotte nel tempo dalla disciplina di settore[3]. Una risposta certamente utile a fronte di regole sedimentate da una legislazione che si è susseguita nel tempo con tratti di incoerenza interna ma che tuttavia nei suoi esiti finali propone criticitàanaloghe a quelle che intendeva evitare: la collocazione nello stesso comma della norma di reati presupposto e condotte scriminate assai eterogeneitra loro ripropone il carattere alluvionale della legislazione di settore che la precedeva.

La conseguenza è che l’esatta delimitazione del contenuto precettivo della norma, dei suoi limiti e delle sue connessioni con i sistemi del diritto penale sostanziale e processuale non è di immediata evidenza, sì che una corretta esegesi deve muovere dalla individuazione degli strumenti pattizi di diritto internazionale che l’hanno determinata e, nel rispetto del dato letterale, deve proseguire con la considerazione dei principi generali dei sistemi in cui essa si colloca.

La legge che ha elaborato, all’art. 9, lo statuto giuridico dell’agente sotto copertura reca il titolo Ratifica ed esecuzione della Convenzione e dei Protocolli delle Nazioni Unite contro il crimine organizzato e transnazionale, adottati dall’assemblea generale il 15 novembre 2000 e il 31 maggio 2001 [4]. Si tratta di uno strumento pattizio che elabora, nell’ambito delle finalità perseguite, ipotesi di tecniche speciali di investigazione (TSI), consentendo di distinguere all’interno di esse quelle meramente passive da quelle attive, e, all’interno di queste ultime, prevede, all’art. 20, la figura dell’undercover, affermando la necessità che ciascuno degli Stati contraenti, nel rispetto delle condizioni stabilite dal diritto interno e in conformità con il principi dell’ordinamento, adotti le misure necessarie per consentire l’impiego, così come quello della consegna controllata e di altre ipotesi operative (sorveglianza elettronica, ritardo o omissione di atti d’ufficio – esempio di TSI passiva – e undercover operations – esempio di TSI attiva) adottando accordi bilaterali o multilaterali o concrete decisioni caso per caso.

Di tecniche investigative speciali parla anche la Convenzione ONU contro la corruzione[5], che, all’art. 50, a rubrica Tecniche investigative speciali, menziona esplicitamente, nel solco della convenzione di Palermo, la possibilità di operazioni sottocopertura[6]. È la stessa relazione ministeriale al disegno di legge che ha modificato l’art. 9 L. 146/2006, introducendo tra i reati presupposto quelli di corruzione, che fa esplicito riferimento agli obblighi assunti con la convenzione di Merida[7].

2. I soggetti. – Secondo l’art. 9 L. 146/2006, legittimati attivamente a svolgere operazioni sotto copertura sono gli ufficiali di polizia giudiziaria della Polizia di Stato, dell’Arma dei Carabinieri e del Corpo della Guardia di Finanza, appartenenti alle strutture specializzate o alla Direzione investigativa antimafia, nei limiti delle competenze di ciascuna struttura.

Con riguardo al settore del terrorismo e dell’eversione, legittimati attivamente sono gli ufficiali di polizia giudiziaria appartenenti agli organismi investigativi della Polizia di Stato e dell’Arma dei Carabinieri specializzati nell’attività di contrasto al terrorismo e all’eversione e del Corpo della guardia di finanza competenti nelle attività di contrasto al finanziamento del terrorismo[8].

La platea dei soggetti legittimati a partecipare ad operazioni sottocopertura, dunque potenzialmente idonea a fruire dello statuto di cui all’art. 9, si amplia, ai sensi del comma 5, ad agenti di polizia giudiziaria, ausiliari e interposte persone di cui i primi si avvalgano nello svolgimento delle operazioni.

Si colgono, dunque, limitazioni soggettive e oggettive. Le prime legate alla qualità di ufficiale di polizia giudiziaria, appartenente a una struttura specializzata dei corpi di polizia giudiziaria. Le seconde legate al fatto che tali strutture devono agire nei limiti di loro competenza.

Se non sorgono particolari problemi in ordine alla individuazione della qualità di ufficiale di p.g., non è agevole cogliere, massimamente con riferimento al settore della corruzione, quali siano le strutture specializzate che, operando nei limiti delle loro competenze, possano partecipare ad operazioni sottocopertura, soprattutto perché a livello nazionale non esistono strutture specializzate aventi una competenza autonoma nel settore in questione.

Se non si vuol giungere ad una interpretatio abrogans della norma, con riferimento al settore della corruzione e non solo, può intanto ritenersi che ogni volta che un reato di corruzione intervenga in un’indagine che si svolga in un settore dove esista una struttura specializzata in altra materia (droga, criminalità organizzata, eversione, riciclaggio) gli ufficiali di ad essa appartenenti potranno svolgere operazioni sottocopertura[9].

Sotto altro angolo di visuale, in assenza di specifiche strutture speciali di polizia giudiziaria nel settore della corruzione a livello nazionale[10], si può attribuire tale qualità agli appartenenti ai servizi di cui all’art. 56 comma 1 lettera a) c.p.p. a livello provinciale, articolazioni di polizia giudiziaria nel cui ambito esistono gruppi con specifica competenza nel settore della corruzione[11], con esclusione di altre articolazioni di PG che non hanno una specifica competenza[12].

Occorre a questo punto individuare la platea di soggetti che, in quanto persone interposte o ausiliari, possano giovarsi della scriminante in parola. Al riguardo, può condividersi l’opinione di chi ritiene che per persona interposta si debba intendere colui il quale svolge direttamente delle attività che costituiscono il proprium dell’attività dell’undercover, mentre ausiliario è colui che svolge una collaborazione ab externo con l’infiltrato, diversa dal coinvolgimento “diretto” in essa[13] .

3. I reati presupposto. – Alla platea tradizionale dei reati in relazione ai quali era consentito l’uso dell’agente sotto copertura, catalogo assai eterogeneo e frutto di una stratificazione successiva, la legge n. 3/2019 ha aggiunto taluni tra i più significativi reati contro la Pubblica amministrazione, e segnatamente: concussione, corruzione per funzione attiva e passiva, corruzione propria attiva e passiva, induzione a dare o promettere denaro od atra utilità limitatamente alla condotta dell’intraneus, istigazione alla corruzione, la fattispecie di cui all’art. 322 bis c.p. (peculato, concussione, induzione indebita a dare o promettere utilità, corruzione e istigazione alla corruzione di membri di corti internazionali o degli organi di comunità europee o di assemblee parlamentari internazionali o di organizzazioni internazionali e di funzionari delle comunità europee e di Stati esteri), corruzione in atti giudiziari, traffico d’influenze, turbativa d’asta e turbata liberà del procedimento di scelta del contraente.

Un’analisi del catalogo evidenzia, tra i reati contro la PA, l’assenza dei reati di peculato, malversazione a danno dello Stato, indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato, abuso d’ufficio e di tutti i reati di cui agli artt. 325 ss. c.p.p compresi nel capo I del titolo II del codice penale.

Di difficile comprensione appare l’inserimento tra i reati presupposto del richiamo all’art. 319-bis c.p., che prevede solo una circostanza aggravante, così come occorre rilevare una oggettiva asimmetria tra1’omessa previsione del peculato di cui all’art. 314 c.p. e l’inclusione del peculato internazionale di cui all’art. 322-bis c.p.

4. Le condotte scriminate. – La novella, per effetto dell’allargamento delle fattispecie di reato presupposto, aggiunge alle condotte scriminate quelle degli agenti sotto copertura che … corrispondono denaro o altra utilità in esecuzione di un accordo illecito già concluso da altri, promettono o danno denaro o altra utilità richiesti da un pubblico ufficiale o da un incaricato di un pubblico servizio o sollecitati come prezzo della mediazione illecita verso un pubblico ufficiale o un incaricato di un pubblico servizio o per remunerarlo o compiono attività prodromiche e strumentali.

L’analisi del novum normativo evidenzia che il modello criminale di riferimento è l’accordo o l’erogazione o la promessa di utilità verso un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio ovvero verso un trafficante d’influenze. Dunque si presuppongono condotte di corruzione attiva e passiva, concussione, induzione indebita e traffico d’influenze.

A tali condotte, devono essere aggiunte quelle del comma 2 dell’articolo 9 L. 146, consistenti nell’utilizzazione di documenti, identità o indicazioni di copertura.

Al modello di condotte scriminate strettamente intese previste dal I comma, dunque, sembrano essere estranee le condotte di istigazione alla corruzione, quelle di turbata libertà degli incanti e di turbativa di un procedimentofinalizzato alla formazione di un bando, di peculato[14], sì che si pone il problema del rapporto tra la scriminante in parola e le indagini relative a tali reati, esplicitamente definiti come presupposto per l’utilizzazione dello strumento dell’undercover. Al riguardo, non sembra possa essere utilizzato utilmente l’inciso compiono attività prodromiche e strumentali, poiché, sintatticamente, sembra riferirsi alle condotte esplicitamente scriminate, sì che esso amplia l’area di non punibilità solo limitatamente alle condotte prodromiche o strumentali alle attività di accordo, erogazione o promessa di utilità verso un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio ovvero verso un trafficante d’influenze[15].

L’unica soluzione possibile è ipotizzare che con riguardo a tali reati sia possibile un’attività di infiltrazione, finalizzata alla ricerca di prove del reato, ma non di integrazione delle condotte tipiche, con l’eccezione della utilizzazione di documenti, identità o indicazioni di copertura (per esempio che consentano di partecipare a una gara indetta).

Ai fini della individuazione dei limiti delle condotte scriminate, conviene muovere dalla relazione di accompagnamento al disegno di legge, secondo cui ..le condotte non punibili restano confinate a quelle necessarie per l’acquisizione di prove relative ad attività illecite già in corso e che non istighino o provochino la condotta delittuosa, ma s’inseriscono in modo indiretto o meramente strumentale nell’esecuzione di attività illecita altrui, secondo il paradigma della causa di giustificazione elaborato dalla consolidata giurisprudenza della Corte di cassazione e della Corte europea dei diritti dell’uomo[16].

Effettivamente, sia la Corte di Legittimità, sia la Corte EDU pongono un limite esterno all’attività dell’undercover, costituito dalla necessità che non si istighi o provochi l’attività criminosa.

In particolare, la giurisprudenza della Corte di Cassazione pone due limiti, volti massimamente a segnare la differenza tra l’attività funzionale dell’infiltrato, scriminata, e una condotta da agente provocatore: l’azione è scriminata negli stretti limiti delle condotte dichiarate non punibili e di quelle ad esse strumentali; la scriminante non opera allorché la condotta consista nell’incitamento o nell’induzione alla commissione di un reato da parte di terzi[17].

Sul secondo versante, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha ritenuto la violazione del principio dell’equo processo quando l’infiltrato ha indotto una persona a commettere il reato, non limitandosi a una condotta passiva. Leading case è la sentenza emessa nel 1998 nel caso Teixeira de Castro c. Portogallodove la Corte ritiene la violazione dell’art. 6 della Convenzione in ragione del fatto che nel caso concreto non vi erano elementi idonei a dimostrare che il soggetto fosse predisposto a commettere un reato, attività delittuosa che non si sarebbe realizzata in mancanza dellapporto causale degli infiltrati[18]. Nel caso Calabrò c. Italia, nel 2002, la Corte enuncia il principio secondo cui linfiltrato non deve determinare altri che non ne avessero il proposito a commettere un reato, principio ribadito nel 2008[19], nel 2014[20]e, da ultimo, nel 2018[21].

Nello stesso senso, la Corte di Legittimità ha osservato che non viola l’art. 6 CEDU la condotta dell’infiltrato che si limiti a rendere palese un’intenzione criminale già esistente, fornendo l’occasione per il suo concretizzarsi[22].

5. Operazioni sotto copertura e indagini penali. – La chiave di lettura del rapporto tra indagini preliminari e attività sotto copertura è fornita dall’incipitdell’art. 9 L. 146/06, nella parte in cui afferma che essa è posta in essere al solofine di acquisire elementi di prova in ordine ai delitti specificamente indicati e da parte di ufficiali di polizia giudiziaria.

L’unico strumento previsto dal sistema di acquisizione di elementi di prova (rectius: fonti di prova) nel sistema sono le indagini preliminari, sì che è all’interno di esse che può svolgersi l’attività dell’agente infiltrato, dei suoi ausiliari o interposti. In questo senso, risolve ogni dubbio la qualità dei soggetti che possono svolgere tale attività: ufficiali di polizia giudiziaria, specificamente considerati dall’art. 55 del titolo III del codice di procedura penale tra i soggetti delle indagini preliminari, i quali, in quanto appartenenti alla polizia giudiziaria, hanno la funzione, anche di propria iniziativa, di prendere notizia dei reati, impedire che vengano portati a conseguenze ulteriori, ricercarne gli autori, compiere gli atti necessari per assicurare le fonti di prova e raccogliere quant’altro possa servire per l’applicazione della legge penale. 

Una lettura imposta dall’art. 109 della Costituzione, secondo cui l’A.G. dispone direttamente della polizia giudiziaria, e come ricordato solo gli ufficiali di polizia giudiziaria e i loro interposti o ausiliari possono svolgere la funzione di undercover, e coerente con le fonti di diritto internazionale, e in particolare con la convenzione Onu contro la corruzione (convenzione di Merida) che, all’art.50, inquadra le TSI, tra le quali l’utilizzazione dell’undercover, nel Cap. III, dal titolo Incriminazione, individuazione e repressione.

Si tratta, dunque, di un’attività compresa nel perimetro delle indagini preliminari, alle cui peculiari regole si deve uniformare, con esclusione di ogni attività che abbia finalità di prevenzione[23]. Può, pertanto, individuarsi il dies a quo nel momento dell’acquisizione della notizia di reato, sia pure embrionalmente intesa, anche d’iniziativa dalla polizia giudiziaria.

Tanto premesso, si tratta di integrare la specifica disciplina prevista dall’art. 9, soprattutto nella parte in cui prevede che le operazioni sono disposte dagli organi di vertice delle forze di polizia, con le regole proprie delle indagini preliminari, che individuano nel pubblico ministero l’organo di direzione delle investigazioni ex art. 327 c.p.p.

La prassi in essere, massimamente nel settore del terrorismo e nel traffico degli stupefacenti, delinea soluzioni coerenti con il sistema, nel senso che gli organi di polizia che svolgono le indagini propongono al pubblico ministero la speciale tecnica d’investigazione e, con il suo consenso, richiedono agli organi di vertice di disporre l’operazione.

In conclusione, un’interpretazione dell’art. 9 di tipo sistematico impone di ritenere che ogni volta che nel corso dell’indagine emerga la necessità dell’uso dell’undercover, nella quale sia intervenuto il p.m., con l’autorizzazione del medesimo si debba inoltrare una richiesta ai competenti organi di vertice, i quali disporranno le operazioni, individueranno le articolazioni competenti, che dovranno ottemperare agli obblighi di tempestiva comunicazione titolare delle indagini, al quale è rimesso il coordinamento delle strategie investigative, ivi compreso il potere di bloccare l’operatività dell’undercover[24].

Una conclusione coerente con gli arresti della Corte EDU in materia, che ha rilevato la violazione dell’art. 6 par. 1 CEDU per l’assenza di qualsiasi controllo giudiziario sul potere della polizia di infiltrare operatori[25].

Può, dunque, ritenersi che l’art. 9 introduca nell’architettura delle indagini preliminari un elemento di asimmetria, costituito dal fatto che una scelta investigativa non può essere gestita nel rapporto p.m./p.g. delegata, ma deve necessariamente passare per un’interlocuzione con gli organi di vertice cui la polizia delegata appartiene. Una asimmetria che tuttavia non incide il rapporto tra pubblico ministero e polizia giudiziaria, introducendo in essa solo un elemento di ulteriore articolazione.

In questo senso, peraltro, devono essere letti gli obblighi di comunicazioneche gravano sui soggetti che dispongono l’operazione, i quali devono ai sensi del comma 4 dare preventiva comunicazione e comunque senza ritardo al p.m. competente per le indagini polizia giudiziaria e devono comunicare nel corso dell’operazione modalità e soggetti che vi partecipano.

In questo senso si muovono alcune circolari emanate da uffici di Procura, dirette agli organi investigativi.

In particolare, le circolari emanate dalle Procure della Repubblica di Roma[26] e Napoli[27], dopo aver individuato specificamente la platea di soggetti, all’interno della polizia giudiziaria, che possono svolgere le funzioni di undercover, evidenziano il rapporto di inclusione tra indagini preliminari e tecnica d’indagine dell’agente sottocopertura, evidenziando la necessità del consenso dell’organo d’accusa, quando sia intervenuto nella direzione delle indagini, per lo svolgimento di tale attività d’indagine, al fine del suo coordinamento nella più ampia strategia investigativa e richiedendo una comunicazione sempre preventiva anche in forma orale, ove dopo l’acquisizione della notizia di reato non sia ancora intervenuto il pubblico ministero, con specifico riguardo alla materia della corruzione.

05 marzo 2019 | Paolo Ielo


[1] Si tratta dei reati previsti dagli articoli che seguono: 317, 318, 319, 319-bis, 319-ter, 319-quater, primo comma, 320, 321, 322, 322-bis, 346-bis, 353, 353-bis c.p.

[2] ad oggi, presenta connotazioni peculiari solo la regolazione del settore in materia di pedopornografia

[3] art. 97 DPR 309/90 in materia di stupefacenti; art. 7 L. 82/91 in materia di sequestri di persona a scopo di estorsione; art. 12-quaterL. 356/92 in materia di riciclaggio o delitti concernenti armi, munizioni ed esplosivi; art. 12, comma 3-septies, del D. Lgs. 286/98 in materia di ipotesi aggravate di favoreggiamento e immigrazione clandestina; art. 14 L. 269/98 in materia di prostituzione e pornografia minorile; art. 4 L. 438/01 in materia di delitti commessi per finalità di terrorismo; art. 10 L. 228/03 in materia di tratta delle persone.

L’art. 9 in parola, poi, è stato modificato ad opera dell’art. 8 L. 136/2010, che ne ha esteso l’applicabilità anche al settore del traffico illecito dei rifiuti e alle ipotesi non aggravate del favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.

[4] Convenzione di Palermo.

[5] Convenzione di Merida, adottata con delibera ONU il 31 ottobre 2003 e aperta alla firma a Merida dal 9 all’11 dicembre dello stesso anno, entrata in vigore il 14.12.2005 e ratificata in Italia con legge 3 agosto 2009, n° 116.

[6] Per combattere efficacemente la corruzione, ciascuno Stato, nei limiti consentiti dai principi fondamentali del proprio ordinamento giuridico interno, e conformemente alle condizioni stabilite dal proprio diritto interno, adotta le misure necessarie, con i propri mezzi, a consentire l’appropriato impiego da parte delle autorità competenti della consegna controllata e, laddove ritenuto opportuno, di altre tecniche speciali di investigazione, quali la sorveglianza elettronica o di altro tipo e le operazioni sotto copertura, entro il suo territorio, e a consentire l’ammissibilità in tribunale della prova così ottenuta.

[7] Ivi, pagg. 26 e 27.

[8] comma 1, lettere a) e b).

[9] Sotto questo angolo di visuale, dunque, potranno svolgere questo tipo di attività, a titolo di esempio, ufficiali del ROS dei Carabinieri, del nucleo di Polizia Valutaria della GDF, dello SCO della polizia, della DCSA, della DIA

[10] Il nucleo anticorruzione della GDF non ha specifiche funzioni di polizia giudiziaria e le sue competenze sono prevalentemente nel settore ella prevenzione e della trasparenza, e segnatamente: in materia di prevenzione della corruzione e obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle diverse articolazioni di stato.
Relativamente al comparto degli appalti pubblici elabora progetti operativi, sviluppa analisi tattica e assicura attività e supporto di conoscenze di settore: 

– Svolge compiti di esecuzione e di direzione operativa, nei rapporti con l’Autorità Nazionale Anticorruzione (relativamente alla vigilanza sui contratti di lavori pubblici), con il Servizio per l’Alta Sorveglianza delle Grandi Opere (S.A.S.G.O.), con il Consiglio Superiore dei lavori Pubblici, con Terna S.p.a. e Cassa Depositi e Prestiti;

– Partecipa ai lavori dell’“Osservatorio sul Calcestruzzo”;

– Agisce su richiesta o delega dell’Ispettorato per la Funzione Pubblica.

– Sovrintende inoltre, al generale ed efficiente funzionamento dell’applicativo informatico per il Monitoraggio dei Contratti Pubblici – (Mo.Co.P.).

[11] Tali sono:

– per i CC i nuclei investigativi provinciali;

– per la Polizia le squadre mobili a livello provinciale;

– per la GDF i nuclei PEF a livello provinciale.

[12] Dunque con esclusione di strutture territoriali quali stazioni dei CC; commissariati; compagnie, tenenze e brigate GDF; compagnie CC.

[13] In questo senso G. Amato, Se l’agente provocatore entra nel processo, in Gnosis, 2/07, pag. 8, con riguardo alla specifica ipotesi dell’acquisto simulato di droga; Infiltrato a caccia di riscontri e prove senza “provocazioni”, in Guida al diritto, 2 febbraio 2019, n. 7 pag. 87-90.

[15] Ancora più estranea alle condotte scriminate appare essere la fattispecie di peculato internazionale.

[16] Pag. 29.

[17] Cass 3, Sentenza n. 37805 del 09/05/2013 Ud. (dep. 16/09/2013) Rv. 257675; 3, n. 20238 del 07/02/2014 Ud. (dep. 15/05/2014) Rv. 260081; 3, n. 31415 del 15/01/2016 Ud. (dep. 21/07/2016) Rv. 267517.

[18] Corte Europea dei diritti dell’uomo, caso Teixeira De Castro c. Portugal(44/1997/828/1034), 9 giugno 1998: un soggetto non indagato, né con precedenti penali fu istigato a comperare una certa quantità di eroina ed una volta fornita (dopo essersela procurata da un conoscente) fu arrestato.

[19] Corte Europea dei diritti dell’uomo, caso Ramanauskas c. Lithuania(74420/01), 5 febbraio 2008.

[20] Sent. 23 ottobre 2014, Furcht c. Germania.

[21] Sent. 28 giugno 2018, Tchokhonelidze c. Georgia.

[22] Cass. 3, 2763, 3 luglio 2008, RV 240270; 2038, 7 febbraio 14, RV 260081

[23] R. Minna – A.S. Sardo, Agente provocatore: profili sostanziali e processuali, Milano, 2003, pag. 45.

[24] È teoricamente ipotizzabile un’attività autonoma delle forze di polizia, ma sempre compresa nella fase successiva all’acquisizione della notizia di reato, prima dell’intervento del p.m., ai sensi dell’art. 348 c.p. In tali ipotesi, è fondamentale il rispetto degli obblighi di comunicazione di cui al comma dell’art. 9.

[25] Sentenza 30 ottobre 2014, Nosko e Nefedov c. Russia.

[26] Circolare Procura di Roma del 21 febbraio 219.

[27] Circolare Procura di Napoli del 22 febbraio 2019.


La CRIMINALITA’ ORGANIZZATA