GAETANO MURANA: “I miei 18 anni in carcere da innocente accusato dal falso pentito Scarantino”

 

 

MALASTORIA di errori ed orrori – Ingiustamente  accusato di aver partecipato alla strage di Via D’Amelio viene condannato all’ergastolo. GAETANO MURANA, figlio di un pescatore, operatore ecologico del quartiere palermitano della Guadagna (prima sospeso e poi licenziato dall’AMIA a causa dell’arresto) sconta 18 anni in carcere di cui 16 al 41 BIS prima di poter tornare in libertà .
L’arresto “Sirena, lampeggiante, testacoda e passamontagna. Arrivato in Questura iniziano a picchiarmi e a darmele di santa ragione fino a farmi svenire. Massacrato di botte chiedevo loro il perché ma come risposta arrivavano solo sputi e calci . C’era anche una donna tra loro. Non potrò mai dimenticarlo. Mi diede un calcio alla schiena che mi stese e mi sputò addosso. Io ero a terra che rantolavo. Mi dissero: “Questo è un regalo che ci ha fatto Scarantino”. Poi mi sbatterono in camera di sicurezza.
Solo la sera seppi quali erano le accuse nei miei confronti: aver partecipato alla strage di via D’Amelio.
Dissi subito che c’era stato uno scambio di persona.
Pensavo che da lì a poco mi avrebbero rilasciato… mi portarono invece a Pianosa e in isolamento  mi fecero sistemarono alla sezione ‘Discoteca’, dove per le botte si ‘ballava’ dalla mattina alla sera.
Mi fanno spogliare sottoponendomi a qualsiasi tipo di sevizia fisica e di tortura psicologica. Costretto a fare flessioni nudo per 3 anni, a subire violenza con l’uso del metal detector sui genitali. Lì subii torture di ogni genere, minacce e violenze. Nella cella ho visto l’inferno: appena mi vedevano a letto mi intimavano di alzarmi e di camminare senza sosta. Una volta, stremato dalla fatica, mi sono fermato e ho detto alle guardie: ‘sparatemi. Nel
cibo c’erano vermi, scarafaggi e persino preservativi usati nel brodo. “Mio figlio l’ho rivisto e l’ho potuto toccare solo dopo i primi 5 anni di carcere”. Poi il trasferimento a Caltanissetta, “un altro inferno, invivibile.
” Anche lì ogni genere di angheria, “schiaffi e pedate”, risate di scherno.
Nei diciotto anni da ergastolano Murana sarà “ospitato” in altri 6 carceri. 
“A me dispiace molto per quello che è successo al dottor Borsellino. Io provo grande stima
per i suoi figli e ringrazio Fiammetta per le parole che in più occasioni ha avuto nei nostri confronti”.
Gaetano Murana é uno degli undici innocenti condannati (di cui 7 all’ergastolo) per la Strage di Via D’Amelio a causa della chiamata in correità da parte del falso pentito Vincenzo Scarantino.
Il 27 ottobre 2011, dopo 18  anni, 206 mesi, 4724 interminabili giorni da incubo passati in carcere, Murana e gli altri innocenti tornano in libertà.
Il pentito Gaspare Spatuzza riconfermerà infatti la validità della ritrattazione dello Scarantino, il pupo vestito da mafioso che, più volte inascoltato dagli inquirenti, aveva ammesso di essersi inventato tutto su pressione di uomini delle Istituzioni. Alla testimonianza di Spatuzza si aggiungerà quella di un altro pentito: Fabio Tranchina, ex uomo di fiducia ed autista del boss di Brancaccio, Giuseppe Graviano. Confessione, quella di Scarantino,  fino ad allora non ritenuta credibile dai magistrati inquirenti e giudicanti che si erano succeduti nelle varie sessioni processuali.
Un vero incubo che terminerà definitivamente solo il 13 luglio 2017 grazie alla professionalità ed all’impegno di altri magistrati che demoliranno finalmente la “verità” fino allora imbastita e comunque incredibilmente convalidata dai vari gradi di giudizio e che ora é al vaglio in un ennesimo processo giunto alla fase di appello: il cd ”Processo depistaggio”.



TRIBUNALE DI CALTANISSETTA udienza di martedì 17 Maggio 2022 Processo sui depistaggi della strage di via D’Amelio arringa dell’Avvocato Rosalba Di Gregorio per la parte civile di: Gaetano Murana, Cosimo Vernengo e Giuseppe La Mattina AUDIO



Pianosa, l’isola dei reclusi e dei liberi – VIDEO

 

 

L’intervista – “18 anni in carcere da innocente”

 

“Sa qual è la verità? Che la mia vita è distrutta per sempre. Se l’è mangiata la giustizia. Niente e nessuno potrà ripagarmi questi 18 anni trascorsi in carcere, da innocente.
Non ho visto crescere mio figlio, l’ho potuto vedere solo attraverso un vetro.
Mia moglie è sulla sedia a rotelle per un ictus cerebrale. E sono senza un lavoro. Questa è una non vita”.
Gaetano Murana, 60 anni, è un fiume in piena. Polo blu, pantaloni verdi, occhiali e un viso scavato, l’ex netturbino dell’Amia di Palermo, è uno degli uomini accusati falsamente dell’ex pentito Vincenzo Scarantino di avere fatto parte della strage di via D’Amelio .
Un’accusa che gli è costata una condanna all’ergastolo, passata in giudicato. Poi annullata grazie al processo di revisione.
“Il Procuratore generale mi chiese scusa quel giorno – racconta oggi in una intervista esclusiva all’AdnKronos – quella fu l’unica volta in cui piansi. Nessuno mai mi aveva chiesto scusa per tutto quello che ho subito in 18 anni trascorsi ingiustamente in carcere”.
Ma cosa accadde a Gaetano “Tanino” Murana, difeso dall’avvocato Rosalba Di Gregorio, che gli è sempre stata vicina?
Tutto ebbe inizio la sera del 17 luglio del 1994, mentre in tv c’era la finale dei Mondiali di Usa’94 e gli occhi di milioni di persone erano incollate sulla tv.
“Quella sera stavo guardando alla televisione la finale di Italia-Brasile. Mia moglie aveva finito di sparecchiare e mio figlio dormiva nella culla. Non aveva neppure un anno.
Tra il primo e il secondo tempo il telegiornale diede la notizia del pentimento di Vincenzo Scarantino, un ‘picciotto’ della Guadagna che conoscevo di vista. Abitavamo abbastanza vicini. Ma non lo avevo mai frequentato – racconta Murana –  Dopo la finale andai a letto sereno. Non avrei mai immaginato quello che poi mi sarebbe accaduto poche ore dopo. E l’inferno che avrei subito per 18 lunghi, lunghissimi anni”.
E’ l’alba del 18 luglio e “Tanino” esce di casa per andare all’Amia, l’Azienda per la raccolta dei rifiuti di Palermo. “Prendo con la mia macchina un controsenso – racconta – quando all’improvviso una Giulietta mi si avvicinò e mi fermò. Ho capito che si trattava di poliziotti e pensavo che mi volessero multare per avere preso un controsenso. Mi fermarono e mi chiesero i documenti. Quello fu l’inizio di un incubo durato 18 lunghi anni con umiliazioni, torture, vessazioni di ogni genere”.
“Mi invitarono a salire sulla loro auto per portarmi in questura – ricorda con lo sguardo perso nel vuoto – Io ero convinto che si trattasse di una questione di pochi minuti perché non volevo perdere la giornata di lavoro.
Mi infilarono nella loro auto e arrivammo in questura. Ma pochi minuti prima iniziò lo ‘spettacolo’. Misero la sirena, il lampeggiante, fecero un testacoda, misero i passamontagna. Io non capii più niente. Quando entrai iniziarono a picchiarmi e a darmele di santa ragione fino a farmi svenire. Mi hanno massacrato di botte. Io chiedevo loro il perché ma arrivavano solo sputi e calci e c’era anche una donna tra loro. Non posso mai dimenticarlo. Mi diede un calcio alla schiena che mi stese e mi sputò addosso. Io ero a terra che rantolavo. Poi mi sbatterono in camera di sicurezza.
Solo la sera seppi quali erano le accuse nei miei confronti: di avere partecipato alla strage di via D’Amelio. Io sorridevo perché dissi subito che c’era uno scambio di persona.
Pensavo che da lì a poco mi avrebbero rilasciato. Ma nessuno mi diede ascolto”.
Murano era accusato da Scarantino di avere bonificato e osservato il luogo dell’attentato, via D’Amelio. “All’indomani vennero in carcere la dottoressa Ilda Boccassini e il dottore Tinebra (i pm che coordinarono l’inchiesta sulla strage ndr).
Forse c’era pure il dottore Petralia ma non lo ricordo con esattezza”, racconta. Fu interrogato per più di due ore. Lì seppe di essere stato accusato da Vincenzo Scarantino.
Ma oggi non prova rabbia o rancore nei suoi confronti. “Scarantino è una vittima come me – chiosa – Lui non voleva accusarmi. Lui dice di essere stato costretto da magistrati e poliziotti”.
Negli anni sono arrivate anche le scuse di Scarantino. Scuse accettate. “Avevano vestito il pupo”, dice scuotendo la testa.
Un modo di dire siciliano per spiegare che è stato tutto organizzato fin nei minimi particolari.
In quel preciso istante iniziò l’incubo per “Tanino” Murana.
“Mi portarono a Pianosa – racconta – dove mi fecero sistemare in una sezione, la ‘Discoteca’, dove per le botte si ‘ballava’ dalla mattina alla sera. Lì subii torture di ogni genere, minacce, violenze. Pensi che nel cibo c’erano vermi, scarafaggi e persino preservativi usati”.
Murana chiude gli occhi, come se volesse scacciare i brutti pensieri che lo attanagliano.
“Davano legnate senza motivo – dice – ho perso il conto delle botte ricevute.
E anche a mia moglie fecero delle angherie. Così pure al mio bambino, a cui levarono il pannolino prima di farlo entrare nella sala visite”. Murana è stato a lungo (16 anni su 18 di carcere) al 41 bis, il cosiddetto carcere duro. Fino al giorno in cui è uscito dal carcere. “La mia vita è finita – continua a ripetere come una nenia – se l’è mangiata la giustizia.
La mia vita si è spenta il giorno in cui sono stato arrestato”. Murana non vuole accusare nessuno ma chiede giustizia. “Ho riportato da questa vicenda una condanna a 8 anni per 416 bis, che però è arrivata dalle accuse di Scarantino.
Tutti i pentiti che sono stati interrogati nel processo hanno sempre negato perfino di conoscermi”.
A breve il suo legale Rosalba Di Gregorio presenterà una richiesta di risarcimento per il suo assistito. “Io sono molto amareggiato e deluso – dice – No, non odio nessuno, non provo rancore.
Mi sono molto avvicinato alla fede, per fortuna. Stavo anche finendo la maturità, ma poi il Governo tolse ai docenti la possibilità di seguirci in carcere e così sono stato costretto a fermarmi al quarto anno delle superiori”.
Il suo pensiero principale è quello di non avere un lavoro fisso “a 60 anni è umiliante”, dice. Sono stato licenziato e ora non so come campare la mia famiglia. Vivo con una pensione di nemmeno 800 euro con mia moglie costretta sulla sedia a rotelle.
Ma è impossibile non parlare del processo sul depistaggio che si sta celebrando a Caltanissetta e che vede alla sbarra tre poliziotti, Maio Bo, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei.
“Io guardo sempre nella loro direzione ma loro abbassano sempre gli occhi – dice – non capisco il perché”.
E preferisce non parlare neppure dei pm Annamaria Palma e Carmelo Petralia, accusati di calunnia aggravata in concorso per il depistaggio.
“Se hanno qualcosa da dire, la dicano”, si limita a dire.
Si avvicina l’ennesimo anniversario della strage di via D’Amelio.
“A me dispiace molto per quello che è successo al dottor Borsellino – dice – Io provo grande stima per i suoi figli e ringrazio Fiammetta per le parole che in più occasioni ha avuto nei nostri confronti”.
“Spero solo di trovare un lavoro”, conclude “Tanino” Murana. “Anche se la mia è una non vita, vale la pena di essere vissuta”. di Elvira Terranova ADNKRONOS 18.7.2019


Parla GAETANO MURANA, il netturbino palermitano arrestato sulla base delle dichiarazioni di un falso pentito: “Il processo non ha fatto giustizia”. “Sono deluso, molto deluso. La mia vita è stata distrutta per le accuse, false, di un uomo come Scarantino. Sono stato in carcere, da innocente, per quasi 18 anni. Si rende conto? Diciotto lunghi anni al 41 bis, il carcere duro. Per un reato mai commesso. E nessuno pagherà per questa ingiustizia. Sì, lo ammetto, sono deluso da questa sentenza. A me mi “arraggia u cori”, sì mi brucia il cuore”
Murana fa fatica a parlare. L’ex netturbino palermitano è uno dei sette innocenti accusati falsamente dal finto pentito Vincenzo Scarantino di avere avuto un ruolo nella strage di via D’Amelio.
È una delle vittime del “più grande depistaggio della storia giudiziaria italiana”, come lo ha definito il giudice Antonio Balsamo, che ha presieduto il processo “Borsellino quater”.
Murana, che ha seguito spesso quasi tutte le udienze del processo a carico di tre poliziotti accusati di avere indottrinato il falso pentito Scarantino, finito pochi giorni fa con un’assoluzione e la prescrizione per gli altri due imputati, non nasconde la sua amarezza. “Ho partecipato a numerose udienze ed ero convinto che l’epilogo fosse diverso. Io ho fatto ingiustamente la galera. Ho perso il lavoro, non ho visto crescere mio figlio, ho avuto un infarto. E nessuno pagherà”, dice oggi una in una intervista esclusiva all’Adnkronos.
“Sono amareggiato, non voglio commentare questa sentenza, la accetto, ma valutando la mia situazione e gli atti del processo, e il modo i cui i pm hanno valutato minuziosamente i fatti, mi aspettavo una sentenza certamente diversa. E non la prescrizione”.
Ma chi è Gaetano Murana, detto Tanino?
Tutto inizia la sera del 17 luglio del 1994. In tv c’è la finale dei Mondiali di Usa 94 Italia-Brasile, e gli occhi di milioni di persone sono incollate sul pallone. Murana sta guardando la tv con la moglie e il figlio, un bimbo di neppure un anno, sta dormendo. Tra il primo e il secondo tempo il telegiornale dà la notizia del pentimento di Vincenzo Scarantino, un “picciotto” della Guadagna che Murana conosce di vista, perché vivono nello stesso quartiere. Non sa che poche ore dopo la sua vita sarebbe cambiata per sempre.
All’alba del 18 luglio, Tanino esce di casa per andare all’Amia, l’Azienda per la raccolta dei rifiuti di Palermo, dove fa il netturbino. Mentre sta andando al lavoro viene fermato da una macchina di poliziotti in borghese. “Mi fermarono e mi chiesero i documenti. Quello fu l’inizio di un incubo durato 18 lunghi anni con umiliazioni, torture, vessazioni di ogni genere”, dice oggi tra le lacrime.
L’inizio di un incubo durato 18 anni. “Sono stato in carcere in due fasi: Prima dal 1994 al 1999, poi sono uscito per la scadenza dei termini e poi dal 2001 fino al 2011”.
Altri undici anni “di inferno”, come dice lui, fino a quando gli viene sospesa la pena, solo grazie al processo di revisione fortemente voluto dalla sua legale, l’avvocata Rosalba Di Gregorio, battagliera, che fin dal primo processo sulla strage Borsellino ha sempre gridato l’innocenza del suo assistito, insieme con altri sei imputati. Ci sono voluti 14 processi per sapere che Scarantino era un falso pentito.
Tutti sapevano che era tutto falso, era lampante. Ma gli unici a gridare la nostra innocenza erano il mio avvocato e quelli degli altri arrestati ingiustamente. Il mio avvocato ha portato alla luce la verità. Non senza fatica. Ci hanno nascosto persino i confronti, e ora sono usciti solo grazie ai pm che hanno portato alla luce la verità, con dei riscontri. Alcune volte mi chiedo dov’è la giustizia. Il depistaggio è stato già acclamato, ma chi lo ha fatto? Arnaldo La Barbera (l’ex dirigente della Squadra mobile di Palermo, ndr) perché è morto?”.
O l’ex Procuratore di Caltanissetta Giovanni Tinebra, “anche lui morto nel frattempo? Lo capisce perché mi “arraggià il cuore”? Perché mi brucia il cuore. Sono stato accusato con infamia di avere partecipato alla strage Borsellino”.
Quali sono stati i momenti più duri per Gaetano Murana? “Tutti”, grida quasi di getto. “A partire dal carcere di Pianosa, ma anche il carcere d Caltanissetta. E tutte le varie carceri che ho girato, ho subito soprusi, abusi, soprattutto a Pianosa. Il tutto perché? Per il loro intento di farmi collaborare? Ma cosa dovevo dire? Cosa dovevo dire?”.
Parlando delle scuse del Procuratore nazionale antimafia Gianfranco Melillo, che nel giorno del trentennale della strage di Via D’Amelio, ha detto: “Non posso che chiedere pubblicamente scusa per tutte le omissioni e gli errori”, Murana allarga le braccia.

Io non ho mai ricevuto le scuse di nessuno. Tranne una sola volta, quando il Procuratore del processo di revisione mi chiese pubblicamente scusa in aula, a nome del Ministero della Giustizia, ma anche a livello personale, per noi che abbiamo vissuto la carcerazione da innocenti e mi diede anche la mano. Quando è finita l’udienza ci ha voluto vedere, e io l’ho apprezzato molto. Per il resto, non ho mai avuto le scuse di nessuno”, aggiunge amareggiato.
Non solo. “Nessuno si è preso la briga, da quando sono uscito dal carcere, di darmi un lavoro – rivendica – io avevo un lavoro all’Amia e nessuno me lo ha più ridato. Mi hanno rovinato la vita, oggi ho 64 anni e non è giusto vivere con la speranza di trovare la busta della spesa comprata dai miei genitori o da qualche amico fraterno che mi porta in macelleria e mi dice “Scegli    che carne vuoi”. Non è dignitoso. Devo anche occuparmi di mia moglie che è costretta a letto per un ictus che l’ha paralizzata. E non ho l’aiuto di nessuno. Non è giusto”.
Nessuno si è preso la briga di darmi una mano e farmi trovare un posto di lavoro. Un sussidio, niente – dice ancora Murana – Non ho preso nemmeno i soldi del risarcimento danni che ho subito.
Ho fatto tutto l’iter, ma ancora niente”. E poi vuole ringraziare pubblicamente la sua legale, Rosalba Di Gregorio, che gli è sempre stata vicino. “Non solo è stata professionalmente eccellente, ma lo è stata anche da punto di vista personale e io non potrò mai dimenticare quello che ha fatto per me.
La ringrazio dal profondo del cuore. Non credo che un avvocato si prenda la briga di pensare al suo cliente, e di fargli una telefonata anche solo per chiedergli “Come stai?”. Nessuno lo ha mai fatto. Farei qualunque cosa per lei”.

Il figlio di Murana non aveva neppure un anno quando l’ex netturbino fu arrestato. E negli anni in cui è stato al 41 bis lo ha visto solo tre volte l’anno e sempre dietro un vetro. “Ho recuperato il rapporto con mio figlio solo dopo anni – dice – non posso certo recuperare gli anni persi perché è cresciuto senza un padre. Mia moglie gli faceva da padre e da madre…”, dice senza nascondere la commozione.
Alla domanda sul perché Scarantino lo accusò falsamente di avere partecipato alla strage di via D’Amelio, Murana non sa rispondere. “Non lo so, io glielo chiesi, in aula, e lui mi disse: “Mi hanno detto di accusarti”. Eravamo entrambi della Guadagna, un quartiere periferico di Palermo, ma non eravamo amici. Io non gli davo confidenza. Vorrei sapere chi glielo ha chiesto di accusarmi. E perché proprio io. Perché lui, quando è venuto in aula e ha ritrattato tutte le accuse, mi ha detto: “Io non volevo accusarti”, è tutto agli atti”.
Poi, si mette le mani sulla testa e la scuote ripetutamente, ribadendo: “Io non sono stato creduto, nonostante fossi innocente, e lui sì. I giudici hanno creduto a un bugiardo. E non a un incensurato come me”. E ribadisce: “Hanno vestito il “pupo”, lui faceva la recita. Come i bambini quando vanno a scuola. Ed è stato creduto. Per anni e anni, mentre io marcivo in galera, al carcere duro”.
E aggiunge: “Capisce perché sono così deluso da questa sentenza? Non me l’aspettavo, non è stata fatta giustizia. Dopo 30 anni la verità ancora non si conosce. Anche se qualcosa si è saputo”. E spiega che la pubblica accusa “ha portato in aula le prove”, come il pm Stefano Luciani. “Non le chiacchiere, i fatti. Ma oggi non so a chi o a cosa credere più…”.
Però una cosa vuole dirla, Tanino Murana: “Io ci credo ancora nella giustizia, anche se questa sentenza, per come si è svolto il processo, dimostra che non è stata fatta giustizia. Perché c’è un depistaggio, acclamato in sentenza, ma ad oggi non si sa da parte di chi e perché”. E conclude con un appello: “Nessuno mi ha dato una mano per farmi sopravvivere. Ho perso il lavoro a poco più di 30 anni e non l’ho mai più riavuto. Oggi sono cardiopatico, ho avuto un infarto. Ho la colonna vertebrale scassata, perché me l’hanno massacrata nel carcere di Pianosa, dove dicevano che ci trattavano bene. No, non me lo meritavo tutto questo…”.  di Elvira Terranova La Sicilia, 22 luglio 2022


27.5.2023 Depistaggio Borsellino, l’avvocato di parte civile Di Gregorio: «Scarantino fu ricattato»

 

Pronto il ricorso contro la sentenza di assoluzione o prescrizione per i poliziotti. Nel documento anche accuse ai magistrati

 

«Vincenzo Scarantino è stato ricattato. Non sopportando le torture del carcere di Pianosa, non sopportando più le continue pressioni esercitate da Arnaldo La Barbera e da Mario Bo, con i colloqui investigativi, quelli autorizzati e quelli “in autonomia”, ha ceduto, finendo per sostenere il ruolo del falso collaboratore».
È netto il giudizio dell’avvocato Rosalba Di Gregorio, parte civile al processo sul depistaggio delle indagini sull’attentato al giudice Paolo Borsellino. Di Gregorio, che difende Giuseppe La Mattina, Gaetano Murana e Cosimo Vernengo, tre degli otto accusati ingiustamente della strage dal falso pentito Scarantino, ha presentato appello contro la sentenza del tribunale di Caltanissetta che ha dichiarato prescritto il reato di calunnia aggravato contestato ai poliziotti Mario Bo e Fabrizio Mattei e assolto il terzo poliziotto imputato, Michele Ribaudo.
I tre erano accusati del depistaggio: di aver cioè, su input del loro capo di allora, Arnaldo La Barbera, poi deceduto, costruito a tavolino una falsa verità sull’attentato del 19 luglio del 1992. «Non si può non riconoscere – aggiunge la legale nell’appello – come la natura di soggetti umanamente fragili, in primo luogo e per quanto qui ci riguarda, di Scarantino, di soggetti ricattabili e psichicamente instabili, dediti alla microcriminalità, sia stato il terreno utile e fertile ai “pupari” a sceglierli come pupi da vestire».
«Ma Scarantino – precisa – non è, né è mai stato, un collaboratore di giustizia. Non gli si può quindi chirurgicamente sezionare il narrato con l’applicazione rigida della disciplina relativa ai requisiti di intrinseca attendibilità, perché mancano i presupposti di base: la collaborazione e l’attendibilità». Una conclusione che mira dritto contro le argomentazioni dei giudici che proprio sull’inattendibilità di Scarantino hanno incentrato parte della motivazione della sentenza.
«Nel percorso tortuoso di accuse, di ritrattazioni non possono escludersi spinte esterne, su cui sicuramente non si è indagato», dice a proposito delle testimonianze controverse di Scarantino l’avvocato Di Gregorio, che parla anche di «prove sparite», confronti e intercettazioni nascoste e conversazioni mai registrate.
L’avvocato parla anche di responsabilità dei magistrati, che «erano consapevoli di tante cose – afferma – e come minimo disattenti persino nell’uso distorto di istituti giuridici quali i colloqui investigativi, le intercettazioni fatte e poi nascoste, le mancate verbalizzazioni, i colloqui privi di verbalizzazione, le pause non verbalizzate in alcuni interrogatori e, più generale, nella disapplicazione del metodo Falcone di valutazione della prova, come stigmatizzato anche nel processo Borsellino quater». Per Di Gregorio, «è chiaro che se Scarantino dinanzi al Tribunale ha voluto o dovuto salvare i magistrati del tempo, nel suo modo rozzo e incolto, ha voluto, o forse dovuto, attribuire ai poliziotti l’accusa di avergli fatto credere che i pubblici ministeri erano accondiscendenti ed erano disponibili».
Per l’avvocato, infine, «i comportamenti gravi, posti in essere dagli imputati hanno arrecato un gravissimo danno alle vittime della calunnia. Le odierne parti civili hanno subito una vera propria espropriazione della loro esistenza, attraverso la privazione ingiusta della libertà, della sofferenza fisica e morale della più che decennale carcerazione sotto il regime dell’art. 41 bis. Hanno sofferto l’ingiusto allontanamento dai propri cari l’etichetta di stragisti, danni anche fisici e distruzione totale della propria esistenza, e, di conseguenza, anche di quella del loro nucleo familiare. Ancora oggi sono stati, come cittadini, espropriati di quello che la sentenza definisce diritto alla verità».


Gaetano Murana, fermato per un normale controllo di routine, racconta: «…Siamo arrivati alla Squadra Mobile, mi sono trovato in una stanza con un mucchio di funzionari, poliziotti… Mi hanno chiesto di parlare della strage di via D’Amelio… Io ridevo». «È una presa in giro? Cosa volete da me? Avete sbagliato persona? Sicuramente avete sbagliato persona, io sono Murana Gaetano!».

È proprio l’incontro con Murana una delle chiavi della svolta di Spatuzza:

Nell’agosto ’97, trovandomi nel carcere di Parma, ho incontrato Tanino Murana. Mi è rimasto impresso questo ragazzo perché sapevo di cosa era stato accusato, (…) mi raccontava di Pianosa, di quello che aveva vissuto, tra l’altro era stato arrestato con il bimbo che aveva due o tre mesi. Gli raggiava – così, ve la dico in siciliano – gli raggiava il cuore, perché sapete, tutti in carcere dicono che sono tutti innocenti, ma io che sapevo che effettivamente quello era innocente, mi rattristava, dicevo «porca della miseria…».

Del suo arresto, del suo soggiorno a Pianosa, il signor Murana ha voluto riferire, e non senza pena, dinanzi questa Commissione.

  • MURANA. Luglio ’94, la mia vita è finita! Si è distrutta! Tuttora la mia vita è distrutta! (…) Ho visto questa pattuglia borghese… mi hanno fermato. «Libretto e patente». Ho dato libretto e patente e mi hanno detto: «Si deve accomodare con noi in Questura». Dico: «vi portate la patente e il libretto… neanche per farmi perdere la giornata di lavoro…». «Non si preoccupi, due minuti, il tempo che arriviamo e può andare a lavorare». Siamo arrivati alla Squadra Mobile, mi sono trovato in una stanza con un mucchio di funzionari, poliziotti… Mi hanno chiesto di parlare della strage di via D’Amelio… Io ridevo: «È una presa in giro? Cosa volete da me? Avete sbagliato persona? Sicuramente avete sbagliato persona, io sono Murana Gaetano!».
  • FAVA, presidente della Commissione. Le è stato detto subito in quell’occasione che il suo accusatore era Scarantino?
  • MURANA, Sì, sì. «Scarantino ci ha fatto questo bel regalo». Io ridevo, io ridevo. Se non so nulla, ridevo… e giù schiaffi… alla Squadra Mobile mi hanno distrutto! Mi hanno distrutto!
  • Più passano le ore e più il netturbino dell’AMIA incomincia a rendersi conto che quel giorno non tornerà al lavoro.
  • MURANA. Io ero sicuro che appena mi interrogavano me ne andavo, uno che è innocente, non ha fatto nulla… Mi hanno interrogato, mica mi sono avvalso della facoltà di non rispondere! Siccome la dottoressa Boccassini mi ha detto «lei risponde?», c’era pure Tinebra, Petralia se non erro, ho detto: «certo che voglio rispondere”, «Scarantino le fa quest’accusa» e ho risposto: «c’è sbaglio»… si figuri che Scarantino non sapeva che macchina avevo io, pur essendo della stessa borgata, io avevo l’Opel e lui diceva che avevo la 127… Appena finisco l’interrogatorio, ho chiesto: «Me ne posso andare a casa?». Non la dimentico più l’espressione della dottoressa Boccassini… si gira verso di me e dice: «Murana, purtroppo ci sono indagini in corso, si deve accomodare in cella».

L’ARRIVO A PIANOSA

A Pianosa, Murana verrà tradotto dopo pochi giorni. Probabilmente, è ignaro del fatto (che ad attenderlo c’è la sezione speciale chiamata Agrippa. Lui imparerà a conoscerla con un altro nome: Discoteca.

  • MURANA. Appena siamo arrivati a Pianosa mi hanno caricato in una jeep e siamo andati in una sezione che ha un soprannome, “Discoteca”, appena ho passato la soglia di questa sezione è iniziato il mio inferno, il mio calvario!
  • FAVA, presidente della Commissione. Perché?
  • MURANA. Botte dalla mattina alla sera, non si capiva, senza un motivo né nulla… Il primo giorno, il secondo giorno lo stesso. Dovevo passeggiare sempre. Appena mi vedevano seduto nella branda: «alzati, passeggia» …
  • FAVA, presidente della Commissione. Dentro la cella?
  • MURANA. Sì, sì. Una cella, un cubicolo. «Te lo dobbiamo dire noi quando ti devi fermare» … Ho perso la conta dei giorni… Gli indumenti, gli stessi di quando mi avevano arrestato, gli stessi, una magliettina giallina… Un giorno mi hanno massacrato, mi hanno massacrato!
  • FAVA, presidente della Commissione. L’hanno picchiata?
  • MURANA. Tutti i giorni. Mattina… notte quando stavo dormendo… «Ehi, che fa dormi? Sveglia!».
  • È possibile che nessuno si accorgesse di quanto stava accadendo?
  • D’ANDRIA, già direttore del carcere di Pianosa. Mah, guardi, io quando ho ricevuto la convocazione ho visto questo nominativo e, sinceramente, nella mia memoria non mi ricorda niente.
  • FAVA, presidente della Commissione. Scusi, Murana viene portato a Pianosa perché è imputato per la strage di Via D’Amelio, non può dirmi che il direttore del carcere di Pianosa non sapesse che uno degli imputati della strage di Via D’Amelio era ospite dell’istituto che dirigeva!
  • D’ANDRIA, già direttore del carcere di Pianosa. Eh, Presidente, però sono passati trent’anni! Rispetto a questo che sento dire, queste accuse… io sono portato ad escluderle.
  • D’Andria non ricorda chi sia Gaetano Murana: ne prendiamo atto. Quello che resta da capire è come far coesistere fra loro le diverse e contrapposte versioni dei fatti.
  • FAVA, presidente della Commissione. Mi faccia riproporre questa domanda, perché il signor Murana non ci è sembrato un millantatore, semmai una persona piuttosto provata da 17 anni di reclusione ingiusta. Di questi anni trascorsi a Pianosa ci ha raccontato situazioni molto specifiche, con molti dettagli che difficilmente si possono inventare… Parla di cose che accadevano quando lei era direttore. Come è possibile che ci siano versioni così lontane? Murana che parla di pestaggi, manganelli, umiliazioni, e lei che ci dice: «non mi sono mai accorto di nulla».
  • D’ANDRIA, già direttore del carcere di Pianosa. A Livorno c’era un magistrato di sorveglianza molto, molto rigoroso nella sua azione di vigilanza, di controllo, ma anche di garanzia dei diritti delle persone ristrette… Se ci fosse stato un clima di illegalità, un clima come quello delineato, si può pensare che un magistrato di sorveglianza non avrebbe adottato dei provvedimenti? Quello che racconta il signor Murana delinea uno scenario che a me sicuramente non risulta… Diciamo che nelle carceri del sud c’era un tipo di gestione del circuito che era molto leggera, nel senso che… magari in quelle sedi, Napoli piuttosto che Palermo, venivano concesse determinate prerogative, certe cose.

                                                       


IL RACCONTO DI MURANA

 

Un diverso approccio alla disciplina penitenziaria tra nord e sud, ecco chiarito l’arcano. Ma il punto che interessa questa relazione non è tanto (o solo) il trattamento ricevuto in carcere da Murana e da altri detenuti. Il punto è capire se e come questa condizione carceraria a Pianosa sia servita a orientare le indagini su via D’Amelio nel comodo binario che suggerivano le rivelazioni di Scarantino. Per uscir di metafora, sentiamo cosa racconta lo stesso Murana.

  • MURANA. Dopo un periodo di tempo mi chiamano per un colloquio investigativo… mi hanno detto che era la DDA di Caltanissetta… c’era uno che io ho conosciuto, un magistrato del gruppo Falcone-Borsellino… Faccio questo colloquio investigativo… Dice: «Noi siamo qua, non si preoccupi, la sua vita cambierà… qui c’è il depliant… ora stesso la portiamo via, andiamo a prendere la sua famiglia. Lei si deve raccontare» …
  • FAVA, presidente della Commissione. La proposta era di diventare un collaboratore di giustizia.
  • MURANA. Collaboratore di giustizia. Dissi: «non so nulla, non so nulla, che cosa volete da me?», «Andiamo, lei ancora è giovane, ha una moglie giovane, un bambino…». Gli ho detto: «senti, io non so nulla, a me dovete parlare di lavoro», e lui dice: «andiamo, guarda che belle ville, una valigia di soldi…». Dissi: «a me i soldi, le ville non mi interessano… io non consumo nessuno… sono innocente, non so nulla…». «Allora facciamo una cosa mi firma i verbali che ha fatto Scarantino». Dissi: «Perché gli devo firmare i verbali che ha fatto Scarantino. Mi faccia capire, le ho dette io o le ha dette Scarantino queste cose? Mica io gliel’ho detto… E allora perché devo firmare i verbali che ha fatto Scarantino?».
  • È un fermo immagine importante nella lunga ricostruzione del depistaggio. Murana dice in Commissione che durante un colloquio investigativo gli fu chiesto di sottoscrivere le dichiarazioni di Scarantino. In cambio? Una vita nuova, per lui e per la sua famiglia, ville e soldi. Gli viene addirittura mostrato un dépliant.
  • FAVA, presidente della Commissione. A questo colloquio era presente il suo avvocato?
  • MURANA. No, all’impensata sono venuti, no, no, nessuno! Colloqui investigativi, dissero. Erano magistrati di Caltanissetta. «Allora, ci firma?», dissi: «io non firmo nulla. Io non so niente».
  • FAVA, presidente della Commissione. Cioè avrebbero voluto che lei firmasse le dichiarazioni di Scarantino.
  • MURANA. Di avallare…
  • FAVA, presidente della Commissione. …di avallare le dichiarazioni di Scarantino
  • MURANA. Esatto, bravo, sì, così. Poi gli dissi: «ma perché devo firmare? L’ho detto io? Scarantino può dire quello che vuole, io sto dicendo che sono innocente». Mi dissero: «andiamo Murana…».
  • SCHILLACI, componente della Commissione. Quanti erano questi magistrati?
  • MURANA. Parecchi.
  • FAVA, presidente della Commissione. Può anche darsi che non fossero solo magistrati… lei si ricorda, per esempio, di avere mai conosciuto il dottor La Barbera che era anche il capo di questo gruppo investigativo Falcone-Borsellino?
  • MURANA. La Barbera? Sì, quando mi hanno portato nel suo ufficio.
  • FAVA, presidente della Commissione. A Palermo.
  • MURANA. Sì, lì nel suo ufficio, quando mi massacrarono.
  • FAVA, presidente della Commissione. E c’era anche lui quando ci fu questo colloquio investigativo a Pianosa?
  • MURANA. No.
  • FAVA, presidente della Commissione. Non c’era.
  • MURANA. No, perché lo conoscevo per figura.
  • FAVA, presidente della Commissione. Solo magistrati della D.D.A. di Caltanissetta…
  • MURANA. Sì, sì.
  • FAVA, presidente della Commissione. Però non ricorda come si chiamava.
  • MURANA. Non mi ricordo… A quest’ora l’avrei detto.
  • FAVA, presidente della Commissione. In quell’occasione lei con questi Magistrati della DDA di Caltanissetta parlò anche del trattamento che aveva ricevuto a Pianosa?
  • MURANA. No, no… Anzi quando me ne sono andato ho avuto la rimanenza. Come si dice in siciliano: “U riestu appi e mi ni ivu a discoteca”.
  • FAVA, presidente della Commissione. A questo colloquio investigativo assistevano anche personale…
  • MURANA. …della Polizia penitenziaria, sì!
  • Sul punto il dottor D’Andria è netto.
  • D’ANDRIA, già direttore del carcere di Pianosa. Lo escludo! I colloqui investigativi venivano svolti dal personale delegato dall’Autorità giudiziaria e si svolgeva in un ufficio con porte chiuse e, quindi, praticamente, con la non partecipazione del personale penitenziario.
  • FAVA, presidente della Commissione. Che questa sia la regola lo sappiamo. Le chiedevamo se, secondo lei, potesse esserci stata un’eccezione e, quindi, una presenza, come nel ricordo di Murana, anche di personale della Polizia penitenziaria.
  • D’ANDRIA, già direttore del carcere di Pianosa. Io non ricordo niente di questo genere e sono portato ad escluderlo.

Murana sarà l’ultimo a lasciare Pianosa, il 17 luglio 1997 (poco dopo, infatti, la struttura chiuderà i battenti). Tornerà libero solamente nell’ottobre 2011 grazie alle confessioni di Gaspare Spatuzza. Dopo diciassette anni di detenzione!   DOMANI 8.11.2021


Murana è parte civile nel processo per il depistaggio sulla strage Borsellino, in corso a Caltanissetta. “Io mi aspetto giustizia – dice – perché la mia vita è distrutta. Io volevo trovare un lavoro dignitoso per potere campare la mia famiglia con onestà, ma mi hanno chiuso tutte le porte in faccia. Lo sanno tutti che Tanino Murana è innocente e che non c’entra niente con la strage. Io sono stato una vittima della giustizia”. E ci tiene a “ringraziare con tutto il cuore” il suo legale, l’avvocata Rosalba Di Gregorio che lo assiste da molti anni. “Si è battuta come un leone per me”, dice. “Come mai nessun altro…”. 

Diciotto anni da innocente in carcere, ‘La mia vita è distrutta’

 

“E’ difficile dimenticare. Quando vedo in tv le immagini dell’anniversario della strage di via D’Amelio non faccio che pensare alla mia vita distrutta. Ancora faccio fatica a credere di avere trascorso tutta la mia giovinezza in carcere. Da innocente. E continuo a provare una grande rabbia”. Tanino Murana oggi è un uomo di 62 anni. Magro, con lo sguardo a tratti fisso nel vuoto, torna indietro nel tempo. A quel 18 luglio del 1994, quando venne arrestato. Con un’accusa atroce. Di avere fatto parte del commando che uccise, il 19 luglio del 1992, il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti della scorta. Murana ha trascorso in carcere 18 anni. Tutta la sua giovinezza. Da innocente. Perché accusato ingiustamente da un falso pentito, Vincenzo Scarantino. In una intervista all’Adnkronos, Tanino Murana, racconta la sua vita “distrutta” ma, soprattutto, la sua “solitudine”. “Ero impiegato all’Amia”, l’ex azienda per l’igiene ambientale di Palermo, oggi Rap. “Ma dopo la mia scarcerazione, anche non ero innocente, nessuno mi ha più voluto dare un lavoro”. Tutto accade tra il 17 e il 18 luglio del 1994, due anni dopo la strage di via D’Amelio. Quella sera Gaetano Murana e la moglie Antonella stanno guardando la tv seduti sul divano. C’era la finale dei mondiali Italia-Brasile. Tra il primo e il secondo tempo, il tg annuncia in tv la notizia che Vincenzo Scarantino, piccolo mafioso di Palermo, avrebbe “reso piena confessione” autoaccusandosi della strage di via D’Amelio. Scarantino è un cognome che risulta familiare al netturbino palermitano. Il ‘picciotto’ della Guadagna è il suo vicino di casa con il quale, però, non ha mai avuto nessun tipo di rapporto. Murana va a dormire. Non immagina cosa lo aspetta il giorno dopo. All’alba esce di casa per andare al lavoro. Mentre è in macchina viene fermato da una pattuglia dei carabinieri. Pochi istanti dopo, a sirene spiegate, arrivano altre pattuglie della squadra mobile della questura. E’ il caos. Murana non capisce. Finisce in manette con l’accusa di aver fatto da staffetta, in motorino, la mattina del 19 luglio 1992, alla Fiat 126 imbottita di tritolo della strage di via D’Amelio. Trascorrerà 18 lunghi anni in carcere.Inizialmente pensa a uno scambio di persona. Ma i giorni passano, le settimane pure. E resta in carcere. Al 41 bis, il cosiddetto carcere duro. Solo nel 2017 la procura generale di Caltanissetta ha chiesto il processo di revisione, che si è celebrato a Catania. A fare luce su quanto accaduto in via D’Amelio è stato un altro pentito, un vero collaboratore di giustizia. Il suo nome è Gaspare Spatuzza. Qualche anno dopo sono arrivate anche le scuse di Vincenzo Scarantino. Ma intanto Gaetano Murana ha trascorso in carcere tutta la sua giovinezza.

‘E’ difficile dimenticare – dice – ero sposato da poco, con un bambino piccolo’

“E’ difficile dimenticare – racconta Murana – quando sento qualcosa della strage, come ieri per l’anniversario, mi viene rabbia. Quando mi arrestarono, ero sposato da poco, con un bambino piccolo, la mia vita è stata totalmente distrutta. Tuttora. Non mi hanno dato un lavoro, ero impiegato Amia con tanti anni di servizio, eppure ho perso tutto”. Poi, la voce diventa flebile, e Murana inizia a raccontare “gli abusi e le torture subite in carcere a Pianosa”. “Non si possono dimenticare – dice – ho subito vessazioni di tutti i tipi. Hanno giocato con la mia dignità”. E racconta che quando ha visto in tv le immagini delle violenze nel carcere di Santa Maria Capua Vetere è “scoppiato a piangere”, dice. “Ho rivissuto questi fatti”, racconta. “Non le nascondo che mi sono spuntate le lacrime – ricorda Murana -ho rivissuto quei momenti in cui ero a Pianosa nella famosa ‘discoteca’. La chiamavano così perché si ‘ballava’ per le botte e i soprusi. Ho subito di tutto e di più…”.
Murana è parte civile nel processo per il depistaggio sulla strage Borsellino, in corso a Caltanissetta. “Io mi aspetto giustizia – dice – perché la mia vita è distrutta. Io volevo trovare un lavoro dignitoso per potere campare la mia famiglia con onestà, ma mi hanno chiuso tutte le porte in faccia. Lo sanno tutti che Tanino Murana è innocente e che non c’entra niente con la strage. Io sono stato una vittima della giustizia”. E ci tiene a “ringraziare con tutto il cuore” il suo legale, l’avvocata Rosalba Di Gregorio che lo assiste da molti anni. “Si è battuta come un leone per me”, dice. “Come mai nessun altro…”. (di Elvira Terranova 20.7.2021)


Strage via D’Amelio, Spatuzza rivelò a Grasso il depistaggio già nel 1998

 

Gaspare Spatuzza aveva svelato a Piero Grasso già nel 1998 che la storia della strage di via D’Amelio, come raccontata dal falso pentito Vincenzo Scarantino, era una balla. Non solo: in un colloquio investigativo rimasto finora segreto, Spatuzza aveva anche spiegato a Grasso perché Scarantino aveva mentito accusando se stesso e altri innocenti di reati mai compiuti. E aveva anche indicato il cognome del possibile responsabile di uno dei più grandi depistaggi della storia giudiziaria italiana: “Toto La Barbera” si legge nel verbale integrale che pubblichiamo su ilfattoquotidiano.it. Piero Grasso e il suo capo di allora, il procuratore nazionale antimafia Pierluigi Vigna, nel colloquio non chiedono a Spatuzza chi sia quel “Toto La Barbera”.
Ci sono due funzionari della Polizia coinvolti in questa storia con quel cognome. Il primo si chiamava Arnaldo La Barbera, era il capo del pool che ha realizzato quello che – secondo lo stesso Sarantino – era un depistaggio studiato a tavolino. Nel 1998, quando Spatuzza parla di un “Toto La Barbera” a Grasso era Questore a Napoli, e morirà nel 2002, onorato come il superpoliziotto che ha scoperto i colpevoli della strage. Poi c’è Salvatore La Barbera: oggi è capo della Polizia Postale ed è indagato anche lui a Caltanissetta per calunnia a seguito delle nuove dichiarazioni di Scarantino. Allora era un giovanissimo funzionario che dipendeva dall’omonimo più anziano. “Certo a leggere oggi quel verbale qualche rammarico viene. Forse se si fosse battuto più su questa strada alcune cose sarebbero venute fuori tempo fa e la verità su persone innocenti sarebbero emerse prima”, ha commentato il procuratore di Caltanissetta Sergio Lari.
In questi giorni si sta celebrando il nuovo processo per la strage di via D’Amelio e tra il pubblico sparuto c’è sempre seduto all’ultimo banco un signore magro con gli occhiali. Si chiama Gaetano Murana e – a causa delle false accuse di Vincenzo Scarantino – è rimasto in carcere in isolamento per 18 anni. Se i magistrati avessero ascoltato i suggerimenti di Spatuzza del 1998, sarebbe potuto uscire dal carcere dieci anni prima. Nel 1998 la condanna non era definitiva però “dopo quel colloquio investigativo non fui più richiamato da nessuno e così – ha chiosato martedì durante il suo interrogatorio in aula a Roma, Gaspare Spatuzza – ora siamo qui a rifare tutto il processo”.
Oggi, con il senno di poi, è facile dare più importanza alle parole dette nel 1998 da Spatuzza rispetto alle menzogne con il timbro della Polizia di Scarantino. Ma quel verbale non era firmato perché non era presente l’avvocato di Spatuzza. Il colloquio era “investigativo”, una sorta di corteggiamento per convincere Spatuzza a pentirsi. Essendo fallito quel verbale non vale nulla. Nonostante la richiesta dell’avvocato Flavio Sinatra, difensore di due degli imputati, Salvatore Madonia e Vittorio Tutino, la Corte mercoledì non ha ammesso il verbale tra gli atti del dibattimento. Spatuzza nel 1998 non arrivava a dire: “Procuratore Grasso sono stato io!” ma diceva: “So che qualcuno ha rubato l’auto così, l’ha preparata così e Scarantino mente”. I giudici di Caltanissetta non conoscevano queste parole quando condannavano all’ergastolo gli innocenti. Ecco perché, anche se non è rilevante dal punto di vista processuale, il verbale merita di essere riportato.

  • Grasso: Ah, così è. E quindi quelli che l’hanno avuta rubata non sanno niente?
    Spatuzza: Non sanno niente poi, altri ladri l’hanno rubata a loro. Orofino (il carrozziere accusato dal falso pentito Vincenzo Scarantino di avere ospitato nella sua officina la preparzione dell’auto, ndr) non esiste questo.
  • Grasso: In che senso non esiste?
    Spatuzza: Non esiste. Perché chi l’ha rubata, l’ha messa dentro e l’hanno preparata. (…) Lui è estraneo a tutto. Aveva subito un furto.
  • Grasso: Lei allora dice che Orofino non sa?
    Spatuzza: Non esiste. Loro hanno questa situazione all’officina, e prendono per dire una macchina mia?
  • Grasso: E allora come è andata?
    Spatuzza: Praticamente stu disgraziato di Orofino fu coinvolto pirchi c’iru a rubari i targhi a notti stissu.
  • Grasso: Anche le targhe hanno rubato? Ma allora non si è fatta nell’officina di Orofino la preparazione?
    Spatuzza: Nru nru. (verosimilmente lo Spatuzza annuisce come per dire di no, ndr).
  • Grasso: E queste targhe di macchine a loro volta rubate?
    Spatuzza: No, erano di macchine che Orofino aveva nell’officina.
  • Grasso: Orofino aveva le macchine, vanno a rubare nell’officina di Orofino la targa che lui aveva dentro in riparazione. Dopo la usano per metterla nella macchina dell’autobomba, cosi è? 
    Spatuzza: Si
  • Grasso: Che viene preparata in un altro luogo, e non nell’officina di Orofino. E Scarantino in questa cosa che cosa che c’entra?
    Spatuzza: Non esiste completamente .
  • Grasso: Non partecipa completamente?
    Spatuzza: Non esiste.
  • Grasso: E scusi, com’è che allora le cose che lui ha detto che sa?
    Spatuzza: Lui era a Pianosa, ha ammazzato un cristiano che doveva ammazzare, e ci ficiru diri chiddu ca nu avia adiri. Toto La Barbera.

Poi Grasso chiede dell’altro falso testimone di accusa, Andriotta. Spatuzza replica: “ ma, di… vieninu chisti? Si sono rifatti di nuovo pentiti? Tutti questi cinque nella stessa cordata, evidentemente”. Una cordata di falsi pentiti scoperta 10 anni dopo.  Da Il Fatto Quotidiano del 14 giugno 2013


La condanna di Gaetano Murana, che non c’entrava nulla con il massacro

 

dal Borsellino Quater

Le false accuse di Calogero Pulci, che aveva riportato alcune confidenze che Murana gli avrebbe fatto quando entrambi erano nel carcere di Caltanissetta, portano alla condanna all’ergastolo. Dichiarazioni che la Corte d’Assise del Borsellino Quater ha giudicato come una “palese falsità”
In premessa all’esame degli elementi a carico di Calogero Pulci, si deve necessariamente accennare all’iter processuale che portava, con il contributo determinante delle sue dichiarazioni, alla condanna all’ergastolo, nell’ambito del processo c.d. Borsellino bis, di Gaetano Murana, per concorso nella strage di via Mariano D’Amelio del 19 luglio 1992.
Il dato di partenza è l’assoluzione di Murana dalla predetta accusa, all’esito del primo grado di giudizio, poiché, come per altri suoi coimputati (Vernengo Cosimo, Natale Gambino, La Mattina Giuseppe ed Urso Giuseppe), la Corte d’Assise di Caltanissetta riteneva carenti i necessari riscontri individualizzanti alle dichiarazioni di Scarantino Vincenzo, in base alle quali (in sintesi):

  • Murana era presente, al pari di Scarantino alla riunione tenutasi nella villa di Calascibetta, dove rimanevano all’esterno del salone;
  • Murana si attivava, assieme a Scarantino, per portare la Fiat 126 nel garage di Orofino, il venerdì prima della strage ed era presente anche nel momento del caricamento dell’autobomba, presso detta officina, all’esterno dell’immobile, impegnato, come Scarantino, nell’attività di pattugliamento, durante il caricamento;
  • Murana partecipava anche al trasferimento dell’autobomba a piazza Leoni, la domenica mattina del 19 luglio 1992, con la sua autovettura (Opel o -come emerso dietro contestazione, in quel processo- Fiat 127 azzurra).

Come anticipato, a giudizio della Corte d’Assise, gli ulteriori elementi addotti a sostegno della responsabilità di Gaetano Murana, riguardavano (esclusivamente) il fatto nella sua materialità, giacché non vi era alcun altro collaboratore di giustizia che lo indicasse (direttamente, oppure de relato) come partecipe alla strage di via D’Amelio; la ritenuta appartenenza dello stesso alla ‘famiglia’ mafiosa della Guadagna, infatti, era una circostanza oggettivamente diversa ed ulteriore rispetto alla sua chiamata in correità per la strage, che non costituiva un elemento logico di riscontro, estrinseco ed individualizzante, rispetto al predetto ruolo materiale delineato da Vincenzo Scarantino.

CONDANNATO ALL’ERGASTOLO  Ebbene, i giudici del secondo grado (come per altri imputati di quel processo), ribaltavano quel giudizio, condannando Gaetano Murana alla pena dell’ergastolo, ritenendolo colpevole di concorso nella strage e negli ulteriori delitti connessi.
A detta conclusione, la sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Caltanissetta n. 5/2002, emessa il 18 marzo 2002, perveniva dopo l’esame di Calogero Pulci – un appartenente a Cosa Nostra della provincia di Caltanissetta, già autista personale e uomo di fiducia del rappresentante provinciale Madonia Giuseppe (inteso “Piddu”) – che iniziava a collaborare con la giustizia nei mesi successivi alla pronuncia della sentenza di primo grado del processo c.d. Borsellino bis. Proprio le dichiarazioni inedite di Pulci sul conto di Gaetano Murana permettevano ai giudici di secondo grado di acquisire quel riscontro estrinseco ed individualizzante alla chiamata in correità di Vincenzo Scarantino, che mancava in primo grado.
Nel processo d’appello, infatti, Pulci spiegava che era stato detenuto nel carcere di Caltanissetta con lo stesso Murana, nel 1998-1999, all’epoca della celebrazione del secondo processo, di primo grado, per la strage di via D’Amelio, e che, in un colloquio avvenuto nell’ora d’aria, aveva rimproverato Murana per la leggerezza commessa dagli uomini d’onore della sua famiglia, nella realizzazione dell’eccidio, poiché avevano affidato un incarico così delicato ed importante “allo Scarantino di turno”. Murana -a dire del Pulci- si era difeso dall’accusa, senza negare il ruolo della sua famiglia nella realizzazione della strage, ma evidenziando il ruolo del tutto marginale di Scarantino, esclusivamente utilizzato per il furto della Fiat 126, commissionatogli da Salvatore Profeta, suo cognato e uomo d’onore della predetta famiglia. In particolare, lo scambio di battute fra Pulci e Murana veniva giudicato, dalla Corte d’Assise d’Appello, sufficiente ad offrire adeguato riscontro estrinseco ed individualizzante alle accuse di Vincenzo Scarantino sul diretto protagonismo di Murana nella preparazione della strage, poiché il collaboratore di giustizia evidenziava -per la prima volta, proprio nell’esame dibattimentale in quel processo (sebbene avesse già reso dichiarazioni agli inquirenti, sul punto)- come Murana gli avesse spiegato che “il lavoro lo avevamo fatto noi della Guadagna”.

LE FALSE DICHIARAZIONI DI PULCI   Prima di proseguire nell’analisi della posizione dell’imputato, si riporta uno stralcio delle sue dichiarazioni rese nell’udienza dibattimentale del 7 marzo 2001, nell’ambito del processo d’appello c.d. Borsellino bis:

  • P.G. dott.ssa ROMEO: – Senta, e con Murana avete avuto occasione di discutere delle vostre… delle rispettive posizioni processuali?
  • PULCI CALOGERO: – La prima cosa che feci quando incontrai Murana, come e’ mio carattere o vizio, come si puo’ definire, poi ognuno lo definisce come meglio crede, io quando incontro una persona che conoscevo da fuori dentro il carcere faccio finta di non incontra… di non conoscerla, per vedere la reazione che fa. Cosa che feci con Scianna e cosa che feci con Murana. Quando lo feci con Murana Murana si spavento’ e ando’ da Scianna, dici: “Ma che c’ho fatto io a Pulci, che non mi saluta, che non mi ha salutato?”. Scianna dice: “Ma che ne so io, puo’ essere che magari non si ricorda di te”, dici: “Come non si ricorda di me? Ci siamo visti tante volte”. Tra l’altro una volta ero rimasto in panne sull’autostrada, proprio mentre andavo da Madonia, e fui soccorso dallo stesso Murana; cioe’, ci conoscevamo bene. E allora si chiari’, c’ho detto: “Sai, devi scusarmi, io non… sai con la testa da quando mi hanno sparato tanta… tanto bene non ci sto” ed e’ finita la prima discussione. Io volevo vedere la reazione, la reazione che aveva lui era spaventata, poi chiacchierando chiacchierando… perche’ se siamo in un carcere di 416 bis si chiacchiera di come taglieggiare a Tizio, a Caio o di come abbiamo taglieggiato all’altro, di come abbiamo ammazzato a questo e a quello; se siamo in un carcere di collaboratori, dove ora io mi trovo, si parla: “Quello ha accusato a quello”. Cioe’ ogni status che ha un detenuto parla dell’oggetto perche’ e’ detenuto. (…) Comunque, a Murana chiacchierando chiacchierando lo rimproverai, ci dissi: “Ma che razza di gente siete? – dico – Come, vi fidate di un Scarantino del genere pi’ iri a fare un travagliu cosi’ delicato? Ma veramente scimuniti siti dducu a Palermo?” e lui mi disse, dici: “Ma Scarantino – dici – non c’entra niente, Scarantino solo ci ha procurato la macchina, quello che ha detto Scarantino gliel’hanno fatto dire gli sbirri”. Io non c’ho voluto dire niente per non mi litigare, ma mi fece… mi pose la domanda, poiche’ io idiota non ci sono o almeno non mi ci sento, posso anche esserci ma io non me ne accorgo; ma scusa, gli sbirri non e’ che ti possono raccontare una cosa che non sanno perche’ Scarantino gliela racconta dettagliatamente? Gli sbirri possono avere l’idea di chi l’ha fatto, ma non del racconto, di come sono avvenute le cose. Comunque, io ho tagliato e l’ho allontanato; lo salutavamo ed e’ finita li’ la storia con Murana.
  • P.G. dott. FAVI: – Signor Pulci, proseguo io ora il suo esame. Senta, vorrei che lei tornasse con la mente nuovamente al colloquio, diciamo al discorso, al colloquio che lei ebbe con Murana, perche’ vorrei qualche maggiore dettaglio su questo colloquio. In sostanza Murana che ruolo attribuiva a Scarantino?
  • PULCI CALOGERO: – In sostanza Murana a me mi disse, giustificandosi, perche io lo aggredii offendendolo, perche’ nel nostro gergo dirci a uno: “Ma che razza di gente siete?” e’ come dirci sbirri, e dire sbirro a un uomo di “Cosa Nostra” e’ la peggiore parola che uno ci puo’ dire. Io invece di dirglielo cosi’ chiaro, sbirro, gliela girai in un altro modo che lui lo capi’, “Che razza di gente siete che vi siete portati a Scarantino, allo Scarantino di turno?”. E li’ lui cerco’ di giustificare il ruolo marginale che ebbe lo Scarantino. In sostanza lui non e’ che lo ha escluso che Ma… Scarantino abbia avuto un ruolo, lui lo esclude nel ruolo della strage materiale, ma lui giustificava dicendo che era il cognato che aveva partecipato alla strage, e che lui gli aveva procurato l’auto. Perche’ lo Scarantino era, diciamo, ladro d’auto, cioe’ un ladro di polli, non era un uomo d’onore. A questa risposta io gli domandai: “Ma scusi, Scarantino che ha da un anno – o due che aveva, ora in questo momento con la testa tanto bene non ci sono – parlava e tutti i detenuti seguiamo la cronaca tra i giornali e la televisione, che raccontava minuziosamente i luoghi, la riunione, la casa di quello, la casa dell’altro; scusami, gli sbirri come gliela potevano fare una ricostruzione del genere se non sapevano neanche che doveva succedere l’omicidio Borsellino?”. Cioe’, questo io non glielo dissi, altrimenti non lo dovevo salutare piu’ poi, cioe’ entravamo in una discussione che poi ci dovevamo litigare.
  • P.G. dott. FAVI: – Benissimo. Signor Pulci, che discorso esattamente le fece Murana?
  • PULCI CALOGERO: – Cioe’, Murana mi disse che “il lavoro lo avevamo fatto noi della Guadagna”, “noi”. Lui e’ della Guadagna pure; non l’avevano fatto loro, “l’avevamo fatto noi” e Scarantino aveva avuto solo il ruolo tramite il cognato di fornire la Fiat 126, quella che era, l’autovettura. Praticamente se lo da’ il ruolo Murana…
  • P.G. dott. FAVI: – Va bene.
  • PULCI CALOGERO: – … dicendomi: “L’abbiamo fatto noi della Guadagna”.
  • P.G. dott. FAVI: – Benissimo, signor Pulci, un momento ancora. In sostanza Murana sosteneva che le dichiarazioni di Scarantino erano state suggerite dagli sbirri; ma dava giudizi sul contenuto di queste dichiarazioni? Diceva che gli sbirri gli avevano fatto dire cose false o cose vere?
  • PULCI CALOGERO: – Cioe’, di… a me mi disse che gli sbirri gli fecero fare la ricostruzione del racconto di… di Scarantino; ma mi misi a ridere e tagliai, “Ma scusa, li sbirri cumu ti punnu ricostruire una cosa che non sanno?”. Cioe’, lui come si giustifico’: “Quello che dice Scarantino e’ vero, ma pero’ gliel’hanno suggerito gli sbirri”.
  • P.G. dott. FAVI: – Benissimo, era quello che volevo sentire.
  • PULCI CALOGERO: – Cioe’, non dice: “Scarantino mente”, “Scarantino dice il vero, pero’ gliel’hanno suggerito gli sbirri” dice Murana a me.
  • P.G. dott. FAVI: – Benissimo. PULCI CALOGERO: – E Murana a me mi dice: “Il lavoro l’abbiamo fatto noi della Guadagna”.
  • P.G. dott. FAVI – Si’. Senta, una domanda su un punto specifico: Murana dichiarava che Scarantino era uomo d’onore o no?
  • PULCI CALOGERO: – No, su questo termine non ci siamo arrivati, non gliel’ho chiesto, perche’ c’ho detto: “Che razza di gente vi portate?”; poi, che fa, gli chiedo: “E’ un uomo d’onore?”? Quando lui tra l’altro dice che ha fatto il favore al cognato, ma che e’ il cognato l’uomo d’onore.

A prescindere dalla progressività accusatoria delle predette dichiarazioni (comunque, alquanto sospetta, alla luce di quanto infra esposto), la palese falsità della confidenza carceraria di Murana a Pulci, anche in ordine al furto dell’autobomba da parte di Vincenzo Scarantino, emerge innanzitutto da quanto ampiamente accertato nel presente procedimento, in seguito alla collaborazione di Gaspare Spatuzza ed alla conseguente ricostruzione del segmento relativo al furto ed allo spostamento della Fiat 126 (oltre che alla sottrazione delle targhe da apporre sulla stessa), con il protagonismo della famiglia mafiosa di Brancaccio. Infatti, alla luce di quanto esposto in altra parte della motivazione sulla fase preparatoria ed esecutiva della strage di Via D’Amelio, è impossibile credere che Murana -da quanto emerso nel presente processo, assolutamente estraneo al furto ed allo spostamento della Fiat 126- abbia confidato a Pulci quanto sopra riportato. Anche a ritenere che appartenenti alla famiglia della Guadagna abbiano gestito altre fasi della strage di via D’Amelio (sulle quali permangono molte zone d’ombra), sarebbe comunque inspiegabile la rivelazione del Murana in merito ad un ruolo (come detto, inesistente) di Vincenzo Scarantino, per sottrarre la Fiat 126 di Pietrina Valenti, su incarico del cognato, Salvatore Profeta. Una valida chiave di lettura delle predette dichiarazioni di Calogero Pulci è offerta dall’analisi del suo percorso di collaboratore della giustizia, affatto peculiare e discutibile. Si deve, innanzitutto, rilevare (senza alcuna pretesa di completezza, considerato che, in più occasioni, il suo contributo veniva riconosciuto come attendibile e rilevante, oltre che degno del riconoscimento dell’attenuante speciale della c.d. dissociazione attuosa, nei processi celebrati a suo carico) che, a dire dello stesso imputato, la sua collaborazione con la giustizia, all’epoca delle dichiarazioni rese su questi fatti, era ancora parziale e reticente (ad esempio, sull’omicidio di Filippo Cianci, che l’imputato ammetterà solamente a partire dal settembre 2001, dopo la morte del padre, che forniva le armi ai killers). Peraltro, anche sul momento in cui Pulci passava da una collaborazione parziale ad una piena apertura all’autorità giudiziaria (almeno a suo dire), si registra una evidente oscillazione dichiarativa da parte dell’imputato. Sul punto, ci si limita a rilevare che Pulci (catturato, il 3 giugno 1994, a Grenoble in Francia e, successivamente, estradato in Italia), pur avendo manifestato la sua volontà di collaborare con l’autorità giudiziaria, sin dal novembre del 1999 (le misure di protezione venivano adottate ad aprile del 2000), veniva successivamente attinto da un’ordinanza di custodia cautelare in carcere per associazione mafiosa, commessa anche da collaboratore, fino al settembre 2001 (vale a dire l’epoca in cui egli firmava i verbali illustrativi, in data 20 settembre 200184): per tale addebito, egli veniva catturato il 24 febbraio 2001 (dopo la richiesta di revoca, pochissimi giorni prima, delle misure di protezione) e, poi, condannato, con sentenza definitiva, in continuazione con analogo reato precedente, a tre anni di reclusione, poi ridotti -in appello- ad un anno e dieci mesi (cfr. sentenza Tribunale Collegiale Caltanissetta 20.11.200285). Dunque, in base a quanto definitivamente accertato, con il crisma dell’irrevocabilità, all’epoca delle dichiarazioni delle quali Pulci risponde in questa sede (tempus commissi delicti: 7 marzo 2001), l’imputato era appartenente al sodalizio mafioso di Cosa Nostra. E’ quindi ravvisabile nelle sue dichiarazioni.


“Borsellino quater”. Secondo la legale Di Gregorio ci sarebbero “anomalie sul caso Scarantino”

 

Sono parecchie le anomalie, secondo l’avvocato Rosalba Di Gregorio, sulla gestione del falso pentito Vincenzo Scarantino e degli altri ex collaboratori di giustizia Francesco Andriotta e Calogero Pulci durante le prime indagini sulla strage di via D’Amelio. Anomalie che la penalista palermitana ha sottolineato questa mattina durante la sua arringa nel processo “Borsellino quater” – in corso davanti alla Corte d’assise di Caltanissetta – come legale di parte civile di Gaetano Murana, uno degli imputati condannati ingiustamente nel secondo processo per l’eccidio del 19 luglio ’92 sulla base delle dichiarazioni degli stessi falsi pentiti ora accusati di calunnia.
Nella sua requisitoria – ha detto di Gregorio – la Procura ha parlato di depistaggio a più voci. Ma sono soltanto le voci dei tre balordi? Ci sono verbali che io definisco sospetti, con interrogatori di 8 o 9 ore senza pause. I pm Anna Palma e Nino Di Matteo ci hanno parlato di episodi in cui Scarantino si fermava per mangiare un panino e consumava il pasto davanti a loro, ma di queste pause nei verbali dovrebbe esserci traccia. Invece il poliziotto Salvatore Coltraro, che abbiamo sentito sul periodo che Scarantino passò in Liguria, ricorda che l’ex pentito usciva dalla stanza e faceva pause di oltre mezz’ora”. 12.2.2017 IL SICILIA


Borsellino: boss scagionati chiedono a Stato danni per 50 milioni

Ammonta a cinquanta milioni di euro la richiesta di risarcimento danni avanzata, tramite i loro legali, da Cosimo Vernengo, Giuseppe La Mattina, Gaetano Murana, Gaetano Scotto e Natale Gambino, accusati ingiustamente della strage di via D’Amelio. L’istanza è già stata depositata nell’ambito dell’udienza preliminare fissata per il 20 settembre, davanti al Gip del Tribunale di Caltanissetta e che vede imputati il questore Mario Bo, gli ispettori Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, componenti del pool “Falcone – Borsellino”, accusati di aver depistato le indagini manovrando il falso pentito Vincenzo Scarantino. Gli avvocati hanno citato come responsabili civili la presidenza del Consiglio dei ministri e il ministero dell’Interno. “La costituzione di parte civile – ha detto all’AGI l’avvocato Giuseppe Dacqui’, legale di Natale Gambino – è stata presentata per i danni all’immagine che quell’accusa ha comportato, per essere stati detenuti all’isolamento e aver subito il carcere duro. Sono stati etichettati ingiustamente come stragisti”. ADNKRONOS


12.1.2017 Processo Borsellino, parte civile chiede risarcimento per Murana

 

«L’agenda rossa di Paolo Borsellino è scomparsa e non per mano di mafia. Di questo possiamo essere certi». Lo ha detto l’avvocato Rosalba Di Gregorio in chiusura della sua arringa come legale di parte civile di Gaetano Murana nel corso del quarto processo per la strage di via D’Amelio che si svolge a Caltanissetta. «Voglio ricordare – ha aggiunto Di Gregorio – che l’ex capo della Mobile di Palermo Arnaldo La Barbera il 24 luglio ‘92, disse che l’agenda rossa si era sciolta a causa della combustione. Si era sciolta solo quella, mentre tutto il resto era rimasto intero. E poi, nella stessa intervista, La Barbera la definisce un’agenda telefonica che non conteneva nulla di importante. Ma lui cosa ne sapeva?».«L’agenda rossa di Paolo Borsellino è scomparsa e non per mano di mafia. Di questo possiamo essere certi». Lo ha detto l’avvocato Rosalba Di Gregorio in chiusura della sua arringa come legale di parte civile di Gaetano Murana nel corso del quarto processo per la strage di via D’Amelio che si svolge a Caltanissetta. «Voglio ricordare – ha aggiunto Di Gregorio – che l’ex capo della Mobile di Palermo Arnaldo La Barbera il 24 luglio ‘92, disse che l’agenda rossa si era sciolta a causa della combustione. Si era sciolta solo quella, mentre tutto il resto era rimasto intero. E poi, nella stessa intervista, La Barbera la definisce un’agenda telefonica che non conteneva nulla di importante. Ma lui cosa ne sapeva?»
L’avvocato ha chiuso il suo intervento chiedendo il risarcimento danni per Gaetano Murana, condannato ingiustamente all’ergastolo nel processo «Borsellino bis» sulla base delle dichiarazioni dei falsi pentiti Vincenzo Scarantino, Francesco Andriotta e Calogero Pulci, ora imputati per calunnia. Di strage, per l’attentato del 19 luglio ‘92, rispondono invece Salvo Madonia e Vittorio Tutino. Dopo Di Gregorio è toccato all’avvocato Giuseppe Scozzola, difensore di parte civile di Gaetano Scotto, un altro dei soggetti condannati ingiustamente nel «Borsellino bis» e per il quale è pendente il processo di revisione. CORRIERE DEL MEZZOGIORNO


29 ottobre 2011 “Nell’inferno del carcere di Pianosa capii perché Scarantino mi accusava

 

Dal 18 luglio 1994 e fino a quarantotto ore fa è stato uno degli ergastolani accusati della strage di via d’Amelio. Ha attraversato l’inferno di Pianosa, che lui chiama la discoteca perché “si ballava dalla mattina alla sera per le sevizie”, è rimasto in isolamento al 41 bis, ha perso il suo lavoro al Comune come spazzino, portando addosso il marchio di essere uno dei mafiosi che ha preparato l’attentato al giudice Borsellino. Gaetano Murana, scarcerato con altri cinque, compie 54 anni il 4 novembre: il suo primo compleanno da uomo libero dopo 18 anni in cella. Si racconta nella sua prima intervista. Ha il viso scavato, adesso porta gli occhiali e ha le mani gonfie e rosse di chi ha maneggiato tanti detersivi per tirare a lucido le troppe celle in cui ha vissuto. Al polso l’unico “souvenir” che gli ricorda gli anni trascorsi in galera: un orologio Swatch di plastica, l’unico ammesso.
Da dove cominciamo signor Murana, dall’inizio o dalla fine?
“La conclusione dei miei giorni in carcere è assolutamente la parte più bella. A Voghera ho lasciato l’infinita tristezza per una falsa verità che non mi apparteneva e una pentola con il sugo di carne fatto con le mie mani, che, senza offesa, è uno dei migliori che si siano mai assaggiati nelle celle italiane. E io di carceri ne ho girate ben 8 in diciotto anni. È andata così: stavo arriminannu il sugo per non farlo appigghiare quando un agente è entrato nella mia cella di Voghera. Mi ha portato in infermeria dal capoposto che mi ha chiesto quale fosse la mia residenza. Lì ho capito e mentre già piangevo è stato il capoposto a dirmi: “Lei è liberante”. A quel punto i miei compagni mi hanno aiutato a fare le valigie. Anche loro piangevano. I vestiti, le scarpe, le tute da lavoro li ho donati ai più bisognosi. Quando la porta carraia si è chiusa alle mie spalle ho cominciato a tremare. Mi sono guardato attorno, ero confuso. Mi sono seduto su un gradino e ho cominciato a piangere tutte le mie lacrime”.
Andiamo indietro di 18 anni, al giorno dell’arresto. Come andò?
“Ancora ci penso e in certi momenti sorrido amaramente. Bisogna partire dal giorno prima per capire. Era il 17 luglio. Stavo guardando la finale Italia-Brasile del campionato mondiale di calcio Usa 94, abbracciato a mia moglie. Eravamo sposini. Mio figlio, Giuseppe, era nato un anno e un mese prima. Nell’intervallo tra il primo e il secondo tempo l’annuncio che ha cambiato la mia vita. Il giornalista del tg diceva che un nuovo collaboratore di giustizia, Vincenzo Scarantino, stava raccontando fatti e misfatti sulla strage di via d’Amelio. Non dimenticherò mai la sua foto in televisione. È rimasta impressa nella mia memoria per tutti questi anni maledetti. Conosco Scarantino, abitava a 50 metri da casa mia. La mattina seguente sono stato arrestato mentre andavo al lavoro. Con la mia auto avevo fatto un’infrazione. Un’auto civetta mi ha subito bloccato. Credevo di ricevere una multa. I poliziotti mi dissero che avrei perso tre minuti. Ebbene, questi tre minuti sono durati 206 interminabili mesi e una manciata di ore. Quando alla squadra mobile mi hanno consegnato l’ordine di cattura per strage, ero stupefatto. Ho chiesto perché. I poliziotti mi hanno risposto: “Questo è un regalo che ci ha fatto Scarantino””.
Lei è stato accusato di avere “bonificato e sorvegliato” il luogo dell’attentato a Borsellino. Ed è finito al 41 bis, il carcere duro. Come ha resistito?
“Pianosa è quello che ha lasciato nella mia anima le ferite più profonde. Dopo l’arresto mi hanno portato nella sezione Agrippa, quella riaperta proprio per il 41 bis. Botte e sevizie, come hanno denunciato alcuni detenuti, erano all’ordine del giorno. Sono stato costretto a fare flessioni nudo per 3 anni, a subire violenza con l’uso del metal detector sui genitali. Ma non dimenticherò nemmeno i profilattici dentro alle minestre, il peperoncino nelle bevande, le sbarre battute a tutte le ore per tenerci svegli. Il 17 luglio del 1997 sono stato l’ultimo a lasciare Pianosa. Ma anche Caltanissetta è stato un altro posto da dimenticare. Mi rendo conto, adesso, che negli anni a tutte quelle botte mi ero quasi abituato”.
Nel “Borsellino I” lei è stato assolto, e dal 2002 al 2005 è tornato in libertà. In appello poi è stato condannato all’ergastolo, pena confermata in Cassazione. Libertà a parte, cos’altro ha perduto in questi anni?
“La crescita di mio figlio: l’ho rivisto e l’ho potuto toccare dopo i primi 5 anni di carcere. È stato un supplizio. Poi ho perso i migliori anni di matrimonio. Ero un ragazzo, adesso mi sento stanco e vecchio. Ho perso una sorella, morta di tumore e che non ho potuto salutare. E ho perso il lavoro. Adesso pretendo di nuovo il mio impiego al Comune. Credo mi spetti, no?”.

C’è stato qualcosa di buono, nonostante tutto, nella sua lunga carcerazione?
“Nel 2009, finalmente, dopo una lunga battaglia con l’avvocato Rosalba Di Gregorio, ho ottenuto la revoca del carcere duro. Ho potuto riprendere gli studi. Mi sono iscritto a ragioneria: andrò al terzo anno.

 

 

Poi ho approfondito la mia fede. Ho letto e riletto i libri su San Francesco Sono diventato anche un uomo più riflessivo e vorrei dedicarmi al volontariato”.


Qual è il primo desiderio esaudito da uomo libero?
“Mi sono fatto preparare un piatto di pasta con le sarde, la mia preferita”.
Se avesse Scarantino davanti cosa gli direbbe?
“Nulla, lo saluterei. È una vittima come me. Credo che le sue false dichiarazioni sono il frutto dei terribili anni a Pianosa. Vorrei solo chiedergli una cosa: “Chi ti ha detto di fare il mio nome?”  LA REPUBBLICA



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