ILDA BOCCASSINI

 

 

Gli ultimi sviluppi delle indagini sulla strage di Via D’Amelio

Tutto parte dalla lettera con la quale Boccassini il 12 ottobre 1994 esprimeva al procuratore di Caltanissetta Giovanni Tinebra le proprie perplessità sull’attendibilità delle prime dichiarazioni di Vincenzo Scarantino.

 

Sentita dai pm di Messina, Boccassini ha raccontato di aver fatto consegnare la missiva, scritta poco prima di lasciare l’ufficio inquirente di Caltanissetta, a tutti i colleghi, ma nessuno di loro, interrogato successivamente, dice di averla ricevuta. Tutto l’ufficio ne sarebbe venuto a conoscenza anni dopo.

Anche il maresciallo a cui Boccassini dice di aver dato la lettera da recapitare ai colleghi non ricorda di averla materialmente fatta avere ai destinatari.

Nonostante le lacune e le contraddizioni per la Procura di Messina è però ragionevole pensare che Palma e Petralia, e il loro capo di allora, Gianni Tinebra, poi morto, fossero a conoscenza delle forti perplessità manifestate dalla Boccassini e dal collega Saieva sull’attendibilità delle iniziali dichiarazioni di Scarantino.

“Il fatto che Scarantino mentisse in maniera grossolana – ha detto Boccassini alla Procura di Messina – era percepibile il primo o secondo interrogatorio. Tant’è che c’è stata per me l’esigenza, perché avevo capito che c’era un atteggiamento diverso da parte dei colleghi, e feci la prima relazione insieme a Roberto Saieva e fu portata dal mio collaboratore, che stava con me a Milano, nelle stanze di tutti i colleghi. Poi non l’hanno letta questo è un altro paio di maniche”.

Durissimi i giudizi della Boccassini su come veniva gestito Scarantino.

“Interrogare Scarantino senza avvocato chiusi in una stanza. – dice – Tutto così, raffazzonato. Ma non dico neanche per… avevano uno scopo, per sciatteria voglio sperare, anche se io ritengo la sciatteria peggio della… dell’agire con dolo rispetto a certe cose”.

I pm peloritani, Scarantino inattendibile

Anche i magistrati messinesi hanno confermato che “la principale fonte dichiarativa sulla strage di via D’Amelio, Vincenzo Scarantino, ha continuato, nel corso degli anni, a contraddirsi rendendo, di fatto ed in diritto, del tutto inutilizzabili le sue dichiarazioni, le quali, comunque, non hanno mai assunto un accettabile grado di concretezza in ordine a possibili contatti delittuosi tra lo stesso e magistrati della Procura di Caltanissetta”.

“Scarantino ha mantenuto tale atteggiamento ondivago anche nel corso dell’interrogatorio reso innanzi a questo ufficio, arrivando a negare circostanze e fatti che, invece, aveva riferito in precedenti contesti giudiziari”, si legge nel documento.


E a ricostruire con dovizia di particolari le perplessità che avevano convinto, documenti alla mano,  Boccassini (applicata a Caltanissetta sulla strage di Capaci) e altri magistrati dell’inattendibilità di Scarantino, è propria la presidente Bindi, rifacendosi alla deposizione di Sergio Lari, ex capo della procura di Caltanissetta. «Non posso pensare che persone che stimiamo, come lei e il procuratore Boccassini  – dirà Bindi per evitare potenziali tensioni – siano su questo punto l’una contro l’altra (…) Sostanzialmente, la sua lettera (di Boccassini, ndr), il suo documento viene ignorato dal procuratore Tinebra, che noi non possiamo sentire».

LA DEPOSIZIONE DI LARI

Nella deposizione che fa il procuratore Lari, alla domanda «Le viene esibita una nota del 12 ottobre 1994 che lei trasmise con nota del 19 ottobre 1994 al procuratore di Palermo. Si tratta di nota non sottoscritta. Ebbe a depositarla alla procura di Caltanissetta?» lui risponde: «Si tratta di appunti di lavoro, come risulta chiaramente, di cui riconosco la paternità, anche se nella copia esibitami, trasmessa a codesta procura dalla procura di Palermo, mancano le firme di sottoscrizione mia e della collega Saieva. Tale nota fu fatta per iscritto in previsione di una riunione della Dda, in modo che i colleghi di Caltanissetta Tinebra, Di Matteo, Anna Palma e tutti gli altri che si occupavano delle stragi avessero la possibilità di conoscere le nostre perplessità. Tali perplessità erano scaturite dalla lettura dei verbali di Scarantino. Preciso che avevamo consegnato la nota in originale al procuratore Tinebra e ai colleghi sopra menzionati. Ignoro se il dottor Tinebra abbia disposto la conservazione della nota agli atti del protocollo riservato all’ufficio. Prendo atto, a tal proposito, che la Signoria Vostra mi comunica che di tale nota non si è trovata sinora alcuna traccia presso gli archivi della procura di Caltanissetta e non so, a tal proposito, fornire alcuna spiegazione».

Bisogna, però, continuare a raccontare quanto ha detto Di Matteo, perché apre fronti delicatissimi.

In ben due occasioni, infatti, il pm della Dna, dirà che dell’esistenza della lettera ha appreso tra i quattro e i sei anni fa – nel momento in cui, svolgendo delle indagini a Palermo sulla cosiddetta «trattativa Stato- mafia», aveva avviato un collegamento investigativo con Caltanissetta. Di Matteo aveva avuto dunque modo di saperlo dai colleghi e di leggere poi il contenuto di quella lettera, tra il 2011 e il 2012. Nel momento in cui è stata redatta la lettera – ottobre del 1994 – Di Matteo non era ancora entrato a far parte del pool per le stragi. «Sotto giuramento, da testimone, ho detto prima di oggi le cose che ho detto oggi – scandirà Di Matteo che in audizione sedeva alla destra di Rosy Bindi – cioè che quella lettera l’ho conosciuta soltanto negli ultimi anni, ora, a Palermo, dallo scambio di notizie, di informazioni e di atti con i colleghi. Mi dispiace. Forse non c’è nemmeno contraddizione, a meno che la dottoressa Boccassini non dica di averne parlato con me. Con me non ha mai parlato. Io quella lettera, che ora apprendo non essere nemmeno firmata, non l’avevo mai vista. Nessuno me ne ha parlato e questa è la realtà dei fatti». E quando, giustamente, Bindi sottolineerà che qualcuno quella lettera l’avrà pur ricevuta, Di Matteo risponde: «Penso proprio di sì, ma evidentemente…».

Mi sono scervellato sul  significato che è possibile o verosimile attribuire a quell’avverbio «evidentemente…» con tanto di puntini di sospensione che non sono una mia licenza ma sono stati trascritti nel verbale dell’audizione e francamente non riseco a trovare altra spiegazione che questa: è ovvio che quella lettera è stata inviata ma io, Di Matteo, non l’ho mai vista e ne ho avuto piena coscienza e conoscenza al massimo sei anni fa. Resta però da sottolineare che Lari ha deposto che la nota in originale, nella quale erano state evidenziate le perplessità dell’ufficio su Scarantino, erano state consegnate anche a Di Matteo e Palma. Un bel rebus, non c’è che dire anche perché entrambi hanno deposto sotto giuramento.

Non solo. Di Matteo ha affermato in Commissione antimafia di non aver mai parlato di indagini sulle stragi o di altro tipo con Boccassini. «Lei era forse, da un certo punto di vista, il più autorevole esponente del pool per le stragi –  continuerà a dire Di Matteo –. Non ho mai parlato di indagini con la Boccassini né la Boccassini ha mai parlato di Scarantino con me o avrebbe avuto modo e, soprattutto, il dovere di farlo. Io non ho mai partecipato a nessuna riunione della direzione distrettuale antimafia cui partecipasse la dottoressa Boccassini. All’epoca ero un giovane magistrato che, con un certo – penso sia comprensibile – timore reverenziale, salutava i colleghi più anziani. La Boccassini era molto gentile e mi salutava. Li vedevo in compagnia degli ufficiali di polizia giudiziaria più importanti e più autorevoli di allora. Mi capitava spesso di trattenermi fino a tarda sera in ufficio, soprattutto quando ero di turno sugli affari ordinari, e vedevo spessissimo la dottoressa Boccassini con il dottor La Barbera. Posso dirvi che, mentre la dottoressa Boccassini rispondeva al mio saluto, il dottor La Barbera neanche mi salutava, per cui non ho mai parlato con il dottor La Barbera di vicende relative a indagini». SOLE 24 ORE  13.10.2017


 

 SOLE 24 ORE  13.10.2017

21 gennaio 2014   ILDA BOCCASSINI depone al Borsellino Quater”  “Scarantino – ha raccontato la Boccassini che tra il ’92 e il 94 fu applicata alla Procura di Caltanissetta per indagare sugli eccidi di Capaci e via D’Amelio – dal carcere faceva arrivare messaggi tramite la polizia penitenziaria. Accennava alla possibilità di parlare, poi si tirava indietro. Oscillava. Fino a giugno quando ci fu la ciliegina finale, decise di collaborare e andammo a Pianosa a sentirlo”.
“La prova regina del fatto che Vincenzo Scarantino era un mentitore era già nel suo pentimento, nel suo background criminale. Diceva cose assurde, raccontava ‘fregnacce’, chiamava in causa collaboratori di giustizia di caratura ben più elevata che non era in grado neanche di riconoscere in foto (Salvatore Cancemi, Mario Santo Di Matteo e Gioacchino La Barbera che tra l’altro hanno più volte sbugiardato il falso pentito della Guadagna ndr). Con il collega Roberto Sajeva mettemmo nero su bianco le nostre perplessità, scrivemmo che si stava imboccando una pista pericolosa, lo dicemmo al procuratore Tinebra, ai colleghi della Procura, lo segnalammo in una nota inviata anche alla Procura di Palermo. Se ne doveva anche discutere ad una riunione che è stata celebrata poi nel giorno della mia partenza. Cosa sia successo poi non posso saperlo”. “Dissi che andava sospeso tutto
. Dovevamo verificare, avvisare i colleghi di Palermo, fare i confronti e ricominciare con saggezza umiltà ed equilibrio, doti che dovrebbero avere i magistrati. Il mio dovere era mettere per iscritto che si stavano imbarcando in una strada pericolosa“.

Nella missiva a Tinebra venivano indicati diversi punti lacunosi in particolare in merito alle dichiarazioni che Scarantino aveva rilasciato in merito alla riunione preparatoria dell’attentato. “Al termine della riunione – disse Scarantino – Aglieri, Profeta e Calascibetta mi diedero il duplice incarico di reperire un’autovettura di piccole dimensioni da usare quale autobomba e una bombola contenente una sostanza chimica, la cui denominazione Aglieri aveva annotato su un foglietto, idonea a potenziare gli effetti deflagranti dell’esplosivo”.
Dichiarazioni false, scoperte negli anni soltanto dopo le rivelazioni di Gaspare Spatuzza.
Su Spatuzza la Boccassini rivela : “Io mi occupai soprattutto delle indagini su Capaci, ma ricordo anche alcuni aspetti riguardo a via d’Amelio. Tramite l’analisi dei cellulari già nel giugno del 1994 uscì fuori l’utenza di Gaspare Spatuzza. Nello specifico scoprimmo che il 19 luglio del ’92, ma anche il 17, c’erano telefonate tra Gian Battista Ferrante e Fifetto Cannella e da lì si risaliva a Spatuzza. Fino ad allora insomma c’erano collegamenti che potevano portare allo spunto investigativo che ora si persegue”.
Su Arnaldo La Barbera, coordinatore del gruppo della polizia che indagava sulle stragi, “Sicuramente di lui c’era stima e fiducia in Procura ma  – così come ha ribadito più volte durante il dibattimento – è il pubblico ministero il dominus delle indagini. E se poi si è andati avanti per quella strada gli altri colleghi avranno ritenuto di farlo. Evidentemente erano convinti che le instabilità di Scarantino fossero dovute a momenti di debolezza. Resta che anche dopo le cose che avevamo scritto sono i pm a decidere di andare avanti”.


ILDA BOCCASSINI DEPONE AL “PROCESSO DEPISTAGGIO” 20 FEBBRAIO 2021

La lettera con Saieva
Quindi è tornata a parlare di quel documento firmato con Saieva: “Su Vincenzo Scarantino vi erano visioni completamente diverse – spiega il magistrato – Gli altri colleghi erano propensi a dire da subito ‘bene, Scarantino sta collaborando’. Ma per me c’erano delle perplessità. Molte perplessità. Tant’è che volevo persino annullare le mie ferie per partecipare agli interrogatori. Ma la risposta di Tinebra fu: ‘ti sei sacrificata tanto, ora te ne vai in ferie’, e così tornai a settembre. Ma il patatrac per me e Roberto Sajeva fu quello che leggemmo al nostro ritorno. Essere tenuta fuori dai giochi era la prassi. Vuoi per leggerezza, vuoi per sciatteria, non ero più la protagonista come lo ero stata nei mesi precedenti nella dinamica investigativa delle due stragi“.
Quindi ha denunciato: “La relazione che io e il collega Roberto Saieva facemmo sulla non credibilità di Vincenzo Scarantino era sparita da Caltanissetta ma io ne avevo diverse copie. Fino alla fine dissi ai colleghi che bisognava cambiare metodo, che Scarantino andava preso con le molle. Vedendo che c’era questa voglia che io andassi via da Caltanissetta scrissi la seconda relazione. Soltanto con il pentimento di Spatuzza nel 2008, ricevetti una telefonata dall’allora procuratore della Repubblica di Caltanissetta che mi chiese se era vero che io avevo scritto delle relazioni con Roberto Saieva. Erano sparite. Io e Saieva, dopo averne parlato con Giancarlo Caselli, mandammo le relazioni direttamente a Palermo”. “Sono qui per la quarta volta – ha affermato con forza durante il controesame – a ripetere sempre le stesse cose sentendomi quasi in colpa per aver scritto quelle relazioni che avrebbero potuto dare una scossa diversa a quei processi“.
Durante il controesame su questi argomenti la Bocassini più volte ha detto di “non comprendere il senso di certe domande volte soltanto a farmi cadere in contraddizione“. Il presidente del Collegio l’ha invitata “a rispondere alle domande senza aggiungere commenti” e ribadendo che “l’ammissibilità delle domande, lo sono fino a quando non si dichiara diversamente“.
Non credo che tutti i colleghi rimasti abbiano preso a cuore l’andazzo un po’ leggero di Tinebra – ha proseguito-. C’era un clima troppo accondiscendente nei riguardi di Scarantino, per questo la famosa lettera la mandammo anche a Palermo, se nel 2008 non arrivava Spatuzza forse delle due relazioni ne restava solo un mio ricordo. Quello che è successo dal ’94 in poi l’ho leggiucchiato dai giornali, ero impegnata a Milano in ben altre vicende“.
Quindi, nonostante i richiami, non ha voluto far mancare un momento di stucchevole ironia:
Se non avessi fatto le relazioni in cui manifestavo le mie perplessità sulla genuinità del pentimento di Scarantino e non ne avessi per altro conservato copia, oggi mi avrebbero addossato tutte le responsabilità e le colpe, chissà… magari per me avrebbero riaperto Pianosa, anche se io preferisco l’Asinara. Menomale che ne avevo una copia“.

 

Demolition Ilda

La stanza numero 30. È il titolo scelto da Ilda Boccassini per la sua autobiografia edita da Feltrinelli. 30 è anche il numero dell’ufficio al quarto piano della procura di Milano dove la magistrata napoletana –milanese d’adozione – ha trascorso quasi tutta la sua carriera giudiziaria, fino alla pensione nel 2019, dopo quarant’anni esatti con indosso una toga. Il libro non è solo la storia di Ilda la Rossa, chiamata così da amici e nemici per il colore scintillante dei suoi capelli. È anche la cronaca di quarant’anni di storia giudiziaria italiana. C’è il racconto della relazione tra Boccassini e Falcone, prima che questi venisse ucciso dalla mafia. Le loro notti insonni nei viaggi di lavoro da e per l’America Latina. Ore e ore passate abbracciati, con il sottofondo di Gianna Nannini. Ma c’è anche tanto altro. La Selvaggia – come la definì Falcone per descriverne la determinazione a fare sempre di testa sua – ne ha per tutti: politici, giornalisti, esponenti delle forze dell’ordine. Ma anche e soprattutto per i suoi stessi colleghi magistrati.

Buscetta e il rapporto malato tra toghe e pentiti

Le storture interne alla potere giudiziario emergono con regolarità lungo tutte le oltre 350 pagine di racconto. Come nel capitolo dedicato a Tommaso Buscetta, il primo collaboratore di giustizia affiliato a Cosa Nostra. Grazie alle sue rivelazioni, Falcone e il pool antimafia riuscirono ad istruire il maxiprocesso degli anni Ottanta, costato migliaia di anni di galera per centinaia di mafiosi. Un rapporto, quello tra Falcone e Buscetta, che per Boccassini è unico. Un caso irripetibile, che purtroppo non è stato la regola per l’esercito di pentiti che vennero dopo. “Quante volte ho sentito pubblici ministeri dare del tu a un collaboratore, quante volte ho visto instaurarsi un falso rapporto amicale che, purtroppo, in alcuni casi è servito ai mafiosi per intuire le aspettative di chi li stava interrogando, fino ad adattare a tali aspettative le proprie dichiarazioni”. Il rapporto malato tra toghe e pentiti è la causa del profondo malessere di Boccassini quando pensa a “quante carriere si sono sviluppate a scapito della verità e dell’obiettività in questi ultimi trent’anni. Preferisco non pensarci, anche se solo a sentir parlare di ‘eredi del metodo Falcone’ sulla gestione dei pentiti mi si torce lo stomaco”.

I due anni a Caltanissetta per ‘vendicare’ Falcone e Borsellino

Dall’ottobre 1992 al 1994, Boccassini lasciò temporaneamente Milano e si fece trasferire a Caltanissetta, procura competente per le indagini sulla morte di Falcone e Borsellino, avvenute qualche mese prima. Arrivata nel capoluogo nisseno, l’accoglienza non fu delle migliori. “Cocca mia, quelle sono le carte della strage di Capaci”, si sentì dire dal procuratore Tinebra: “Arrangiati!”. La disorganizzazione delle prime indagini era evidente. I primi sopralluoghi fatti a Capaci dalle autorità, pochi minuti dopo l’attentato, erano stati mal coordinati. Le responsabilità di chi doveva fare cosa non erano per nulla chiare. Una matassa difficile da sbrigare per i Pm impegnati nell’inchiesta nissena.

La confusione era il terreno perfetto per mettere in campo tentativi di depistaggio. Soprattutto durante il processo Borsellino. Si perdettero diversi anni impostando l’intero impianto accusatorio sulle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Scarantino. Le informazioni del pentito, poi rivelatesi infondate, furono ritenute credibili dai magistrati di Caltanissetta, e portarono a numerose “condanne all’ergastolo ai danni di persone innocenti” spiega Boccassini. Insieme a Roberto Saieva, anche lui trasferito temporaneamente a Caltanissetta, Boccassini fu l’unica componente del pool a mettere in dubbio la credibilità del pentito, intuendo la pista del depistaggio. Tra i giudici che diedero credito alla versione di Scarantino, favorendo dunque il depistaggio in maniera indiretta, c’erano anche il procuratore capo Tinebra, Annamaria Palma e, soprattutto, un giovane Nino Di Matteo, oggi componente del Consiglio Superiore della Magistratura.

Le critiche a Di Matteo…

Tra coloro che sconfessarono Scarantino, anni dopo, ci fu il pentito Gaspare Spatuzza. Sulla credibilità delle sue rivelazioni si concentrano i diverbi tra Boccassini, ormai tornata a Milano, da un lato, e i giudici di Palermo, dall’altro. Tra questi, “l’enfant prodige della procura di Palermo, Nino Di Matteo”. Secondo Boccassini, i due magistrati erano troppo “preoccupati del discredito che può derivare” verso la magistratura “quando emergono elementi che consentono una ricostruzione dei fatti diversa da quella risultante dalle precedenti sentenze, e che fanno sorgere il sospetto che la prima ricostruzione possa essere stata indotta da pressioni, da chiunque esercitate”. Boccassini voleva che venisse avviato un programma di protezione per Spatuzza, mentre i colleghi palermitani erano scettici sull’affidabilità del pentito. “Le sue dichiarazioni erano giunte a demolire punto per punto le fandonie disseminate da Scarantino proprio negli anni in cui a gestire il suo rapporto con lo Stato era lo stesso Di Matteo”, insieme al resto del pool nisseno.

e ai magistrati impegnati in politica

Feltrinelli
Feltrinelli 

L’isolamento palermitano

Nel 1995, dopo un breve ritorno a Milano, Boccassini è di nuovo in Sicilia, questa volta a Palermo. Sono anni difficili per la procura del capoluogo. Anni dominati dal ‘processo del secolo’, la maxi inchiesta per stabilire se il sette volte presidente del Consiglio Andreotti avesse avuto rapporti organici con Cosa Nostra. Sei mesi, durante i quali Boccassini vive malissimo l’isolamento nella quale è costretta a rimanere, sia per ragioni di sicurezza personale, sia per la mancanza di collaborazione di tante toghe palermitane, per nulla intenzionate ad esporsi in una fase così delicata della storia giudiziaria italiana. “Sono stati mesi di solitudine. Mai un invito a cena, un cenno di approvazione, una pacca sulla spalla. Tutti comportamenti che dicevano: non ti volevamo, sei venuta lo stesso, ora arrangiati”.

E poi, la decisione di tornare a Milano. Il procuratore capo di Palermo, Gian Carlo Caselli, da sempre “affettuoso” con lei, prende male la decisione. Come fosse un tradimento. “Gian Carlo mi guardò esterrefatto. Fu talmente sorpreso che il suo tono solitamente pacato si fece brutale nel dirmi che no, non potevo lasciare Palermo proprio in quel momento perché c’era in ballo il processo Andreotti e la mia partenza improvvisa avrebbe alimentato chiacchiere dannose per il lavoro della procura”. Divergenze ci furono anche con un altro big della magistratura siciliana, Roberto Scarpinato, titolare del processo a carico dell’ex cavallo di razza della DC. Tra i due non ci fu mai un vero affiatamento professionale: “In primo luogo perché Scarpinato era stato uno dei magistrati che avevano ostacolato Falcone quand’era in procura”. E poi perché “non ho mai apprezzato il suo stile da narciso siciliano perfettamente rappresentato dalla sua acconciatura alla D’Artagnan”.

Nicola Gratteri il presuntuoso

Da capo della Direzione Distrettuale Antimafia di Milano, negli anni Dieci, Boccassini ha condotto indagini sulle infiltrazioni di ‘ndrangheta in Lombardia. Durante l’inchiesta Crimine Infinito, le procure di Milano e Reggio Calabria hanno lavorato a stretto contatto. Ed è in questa occasione che Boccassini collabora con il procuratore capo di Reggio, Giuseppe Pignatone, oggi presidente del Tribunale dello Stato di Città del Vaticano. Un lavoro di squadra eccellente, secondo Boccassini. “Creava un po’ di imbarazzo una sola nota stonata: l’atteggiamento dell’aggiunto reggino di Pignatone, Nicola Gratteri, che creava tensione con il suo continuo vantarsi di una conoscenza del fenomeno ’ndrangheta talmente approfondita, e a suo dire unica, da ricavarne bizzarramente (poiché era il solo a esserne convinto) un senso di superiorità nei nostri confronti. Un comportamento – scrive Boccassini – che non ci ha mai permesso di legare, dato che a stento ci salutava. A detta di chi lo conosce a fondo, per Gratteri far parte di un pool senza esserne il leader non ha alcun significato”.

Il complicato rapporto con Gianni De Gennaro

Quando Boccassini doveva decidere se trasferirsi o meno a Caltanissetta per indagare sulle stragi del 1992, in molti le sconsigliavano di andare. Tra i pochi a sostenerla fu Gianni De Gennaro, all’epoca poliziotto, vicedirettore della direzione investigativa antimafia, per anni collaboratore di Falcone. “Il mio rapporto con De Gennaro è stato intenso, il suo ruolo nelle mie scelte di vita dopo la morte di Falcone è stato importante, gli volevo bene, lo stimavo”. A suo parere, afferma Boccassini, “l’impegno in Sicilia era una chiamata alle armi cui non avevo il diritto di sottrarmi. Ed escludeva che potessero essere di impedimento le questioni personali o le difficoltà famigliari”. Un sostegno professionale che non coincidette con un altrettanto rapporto disteso a livello personale. Quando una volta, in presenza di Buscetta, Boccassini non trattenne le lacrime di fronte al ricordo di Falcone, fu lo stesso De Gennaro ad apostrofarla in tono aspro, perché aveva pianto davanti a tutti. “Il compito che ti è stato affidato è troppo importante per metterlo a rischio con i piagnistei”.

I rapporti tra i due, però, toccarono il loro momento più basso alcuni anni dopo, quando Boccassini era ormai tornata a Milano – dove aveva iniziato ad indagare su Berlusconi – e De Gennaro a Roma, nel frattempo diventato capo della polizia. È il 2000, e Ilda la Rossa sta indagando Berlusconi e Cesare Previti nel processo ‘toghe sporche’, accusandoli di corruzione in atti giudiziari. Un’accusa pesantissima, alla vigilia delle elezioni politiche dell’anno successivo, decisive per far tornare a Palazzo Chigi il fondatore di Fininvest: “Berlusconi in persona non si lasciò sfuggire l’occasione di scagliarsi contro l’ufficio. Paragonò la nostra scelta processuale all’arrivo della ‘cavalleria delle toghe rosse’, utilizzata per eliminare dalla scena gli avversari politici. Si spinse fino a invocare l’intervento del presidente Ciampi, perché stigmatizzasse la persecuzione mirante ad azzopparlo nella corsa elettorale”. L’attenzione politica e mediatica sulla procura di Via Freguglia era altissima.

Ed è questo il momento in cui Boccassini ruppe con De Gennaro. In un incontro romano datato 10 novembre 2000, “senza preamboli e con il suo tono ruvido, il capo della polizia mi chiese ‘cosa stessi combinando a Milano’, aggiungendo che in tutti quei mesi aveva faticato a tenere a bada Berlusconi e i suoi, che aveva in ogni occasione parlato loro bene di me. Insomma, si era speso per ‘evitarmi il peggio’. Rimasi sbalordita – scrive Boccassini – spiazzata da quel discorso così diretto che nemmeno mi venne in mente di collegare quella rampogna al processo Toghe Sporche”. Invece erano proprio quelle indagini,“anzi, il tentativo di neutralizzarle, che rendeva De Gennaro tanto aggressivo”. La richiesta del capo della polizia fu diretta: Boccassini doveva fermare l’inchiesta su Berlusconi, “perché erano in gioco delicatissimi equilibri istituzionali”. La fine di un’amicizia: “Iniziò a montare dentro di me una rabbia feroce, mi sentivo tradita. Gli vomitai addosso parolacce e insulti mentre, infuriata, cercavo le mie cose e mi avviavo alla porta. Uscii, sbattendola con tutta la forza che avevo”.

La guerra dei trent’anni con il Cavaliere

Forse il braccio di ferro che ha l’ha resa odiata da mezzo paese e amata dall’altra metà. Boccassini non ha problemi, ora che ha appeso la toga al chiodo, a dire ciò che pensa di Berlusconi e dellee leggi ‘ad personam’ che “che miravano direttamente al cuore dei procedimenti in corso, per vanificarli o allungarne a dismisura i tempi. Quella vergognosa sequela di atti legislativi che sarebbe poi stata giustamente definita come difendersi ‘dai’ processi anziché difendersi ‘nei’ processi”. Poi, oltre alle leggi, una campagna stampa orchestrata dalle testate fedeli al Cavaliere la mise in difficoltà, e spesso anche in isolamento con altri suoi colleghi. Da qui il ricorso ad un segno distintivo di Ilva La Rossa: collane, orecchini, bigiotteria e chioma rossa acceso. Tutti elementi della persona messi in risalto nella copertina di Stanza numero 30. “Era il mio modo per esorcizzare la fatica, lo stress, la paura di sbagliare. La scelta di agghindarsi con questi accessori, che spezzavano la tristezza della mia accidentata vita professionale, era un modo tutto mio di lanciare un messaggio: ‘Se pensate di piegarmi, di spegnermi, vi sbagliate’”.

Fu l’inizio di una lunga guerra tra procura di Milano e Fininvest, combattuta in diversi procedimenti: Toghe Sporche, Sme, Lodo Mondadori, Ruby, per dirne alcuni. E nel racconto che Boccassini fa di questa guerra, emerge ancora una volta il tratto comune della sua autobiografia: tra gli effetti della conflittualità tra politica e magistratura “ci fu anche quello di destabilizzare le dinamiche all’interno della magistratura stessa. Diversi colleghi vivevano quei processi come un ostacolo alle loro carriere o a eventuali richieste di adeguamenti economici. Una lettura corporativa, che rese palpabile l’ostilità” tutta interna agli uffici di Via Freguglia nei confronti di Boccassini.

Gli attacchi della futura presidente del Senato Casellati durante l’affaire Ruby

All’offensiva contro le inchieste milanesi sul Cavaliere parteciparono tante figure. Boccassini le elenca praticamente tutte. Tra gli avversari più importanti, ai tempi del processo Ruby, c’erano esponenti del Centrodestra come Santanché, Taradash ma anche Maria Elisabetta Alberti Casellati, dal 2018 presidente del Senato. “Berlusconiana di ferro – la descrive così Boccassini – con un excursus politico-istituzionale di alto livello, interamente dovuto al fondatore di Forza Italia. Non ha mai perso occasione di attaccare frontalmente il lavoro della procura di Milano, ribadendo la sua convinzione che decine di magistrati agissero d’intesa per imbastire inchieste senza fondamento ed emettere sentenze sballate all’unico scopo di colpire Silvio Berlusconi. Logico quindi che ci fosse anche lei, l’11 marzo 2013, insieme a un altro centinaio di parlamentari del Popolo della libertà, a manifestare nei corridoi e di fronte al palazzo di giustizia durante un’udienza” del processo alle olgettine, le ragazze che partecipavano alle ‘cene eleganti’ di Berlusconi ad inizio anni Dieci, quelle del Bunga Bunga. “Si trattava di donne anche diplomate e laureate, senza nessuna scusante economica o sociale. Credo che queste ragazze siano l’angosciante prodotto di trent’anni di cultura dozzinale, in cui l’ambizione massima è un’ospitata in mediocri trasmissioni televisive”.