“Paolo Borsellino sapeva di essere ormai nel mirino”, disse Antonino Caponnetto in un’intervista con Gianni Minà nel 1996, “soprattutto lo seppe negli ultimi giorni prima della sua morte. Il giovedì ebbe la comunicazione indubitabile… la certezza assoluta che il tritolo per lui era già arrivato a Palermo. Per prima cosa si attaccò al telefono, chiamò il suo confessore. Disse: puoi farmi la cortesia di venire subito? E appena quello lo raggiunse nel suo studio, disse: senti, per cortesia, confessami e impartiscimi la comunione”.
Per cinquantasette giorni e cinquantasette notti, Paolo Borsellino visse con la morte sulla spalla. Aveva un’unica via di scampo: il tempo, batterli sul tempo, prendere per la gola i Corleonesi prima che Totò Riina lo uccidesse. Per cinquantasette giorni e per cinquantasette notti, Paolo Borsellino non visse. Morì lentamente, settimana dopo settimana, ora dopo ora. Davanti a tutta Palermo. Che sapeva, presagiva… Il procuratore aggiunto chiudeva un’indagine e ne apriva un’altra, un’altra e un’altra ancora. Volava in Germania per seguire le tracce dei sicari del maresciallo Giuliano Guazzelli, assassinato ad Agrigento tre mesi prima. Partiva per Roma per ascoltare i segreti di un pentito di San Cataldo. Scendeva per ore alla procura generale per spiegare ai magistrati di Caltanissetta qual era la pista da imboccare per Capaci. <> confessò Paolo Borsellino al suo migliore amico. Era una corsa contro il tempo. Doveva chiudere il cerchio intorno ai Corleonesi. L’uomo che poteva chiudere quel cerchio era arrivato. Era Asparino Mutolo, l’ultimo pentito della Cosa Nostra. Era in grado di aprire un varco nell’organizzazione criminale. Ma bisognava ascoltarlo subito, bisognava verbalizzare le sue dichiarazioni, bisognava prima capire e poi colpire. <> fece sapere Mutolo ai poliziotti e ai magistrati. Il procuratore capo della Repubblica di Palermo si chiamava Pietro Giammanco. Ai suoi sostituti disse: <>. E da Palermo partì il procuratore aggiunto Vittorio Aliquò. Quando Mutolo non vide Borsellino ma un altro magistrato, chiuse gli occhi e chiuse la bocca. Si persero giorni. Il tempo passava inesorabilmente. (Attilio Bolzoni Giuseppe D’Avanzo)
MARTEDÌ 2 GIUGNO 1992 – ALL’INDOMANI DELLA STRAGE DI CAPACI, PER BORSELLINO scatta IL PIANO DI PROTEZIONE. In prefettura si studiano le abitudini del Magistrato e si scopre che durante la settimana ha tre appuntamenti fissi: il Palazzo di giustizia, la chiesa di Santa Luisa di Marillac e la visita all’anziana madre. Ma gli agenti di scorta sollecitano invano l’istituzione di una zona rimozione in via D’Amelio. E quella mattina di giugno, affacciata al balcone del quarto piano di via Mariano D’Amelio, Maria Lepanto, l’anziana madre del giudice Borsellino, si accorge di movimenti sospetti di “gente strana” nel giardino adiacente al palazzo. Con una telefonata avverte il figlio Paolo che invita la polizia a dare un’occhiata. All’alba del giorno dopo arriva sul posto una squadra di agenti guidati dal capo della mobile Arnaldo La Barbera. Scoprono alcuni cunicoli nascosti sotto il manto stradale con tracce di presenze recenti. Da Capaci a Via D’Amelio ricordando i 57 giorni.
Medaglia d’oro al valor civile. «Procuratore Aggiunto presso la Procura della Repubblica di Palermo, esercitava la propria missione con profondo impegno e grande coraggio, dedicando ogni sua energia a respingere con rigorosa coerenza la proterva sfida lanciata dalle organizzazioni mafiose allo Stato democratico. Nonostante le continue e gravi minacce, proseguiva con zelo ed eroica determinazione il suo duro lavoro di investigatore, ma veniva barbaramente trucidato in un vile agguato, tesogli con efferata ferocia, sacrificando la propria esistenza, vissuta al servizio dei più alti ideali di giustizia e delle Istituzioni.
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PER SENTIRE LA BELLEZZA DEL FRESCO PROFUMO DI LIBERTÀ
PERCHÉ NON È FUGGITO, PERCHÉ HA ACCETTATO QUESTA TREMENDA SITUAZIONE, perché è stato sempre pronto a rispondere a chiunque della speranza che era lui? Per amore! La sua vita è stata un atto d’amore verso questa sua città, verso questa terra che lo ha generato. Perché se l’amore è soprattutto ed essenzialmente dare, per lui, e per coloro che gli sono stati accanto in questa meravigliosa avventura, amare Palermo e la sua gente ha avuto e ha il significato di dare a questa terra qualcosa, tutto ciò che era ed è possibile dare delle nostre forze morali, intellettuali e professionali per rendere migliore questa città e la patria cui apparteniamo. G. Lo Bianco-S.Rizza, L’agenda rossa di Paolo Borsellino
DA CAPACI A VIA D’AMELIO RICORDANDO I 57 GIORNI Sabato 4 luglio 1992 – Paolo Borsellino si reca al Palazzo di Giustizia di Marsala per la cerimonia di saluto che era già stata rinviata altre volte dopo il trasferimento a Palermo. Borsellino parla a braccio, ricorda i sacrifici che i magistrati devono affrontare per assicurare alla nazione il servizio della giustizia, senza mai nominarlo cita il collega Vincenzo Geraci, il quale aveva scritto che a Marsala Borsellino era andato perché voleva una procura con il mare, e riceve una lettera di saluto dai “suoi” sostituti, i giovani pm cresciuti sotto la sua la protettiva negli anni delle inchieste marsalesi: Giuseppe Salvo, Francesco Parrinello, Luciano Costantini, Lina Tosi, Massimo Russo, Alessandra Camassa.* ”A Palermo, ma non solo a Palermo, bisogna avere, si deve avere il coraggio di evitare o troncare amicizie, frequentazioni o semplici contatti con persone importanti o altolocate chiacchierate da cui si possono trarre favori più o meno leciti; si deve avere la forza di rinunciare a coltivare rapporti con persone che nel tempo hanno intrapreso un’altra strada, la strada della contiguità e della complicità con il malaffare e la delinquenza in genere.” Questo Paolo ha insegnato ai figli. La sua stessa vita è stata una continua rinuncia: una rinuncia ai divertimenti, alla vita mondana, ad amicizie risalenti ai tempi della scuola o dell’università con persone che egli stesso si era ritrovato a indagare e perseguire, anche per fatti molto gravi. Agnese Borsellino dal libro “Ti racconterò tutte le storie che potrò” di Salvo Palazzolo.
TUTTI I PIANI DELLA CUPOLA PER ELIMINARE UN MAGISTRATO CHE FACEVA PAURA Nel periodo in cui Paolo Borsellino svolgeva le funzioni di Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Marsala, Cosa Nostra ideò alcuni progetti di omicidio nei suoi confronti, con tutta una serie di attività preparatorie Nel periodo in cui Paolo Borsellino svolgeva le funzioni di Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Marsala, “Cosa Nostra” portò avanti una pluralità di progetti di omicidio nei suoi confronti, con il compimento di una serie di attività preparatorie. Uno di questi piani criminosi avrebbe dovuto realizzarsi presso la residenza estiva del Magistrato, nella zona di Marina Longa. Tale episodio è stato ricostruito nella sentenza n. 23/1999 emessa il 9 dicembre 1999 dalla Corte di Assise di Caltanissetta nel processo n. 29/97 R.G.C.Ass. (c.d. “Borsellino ter”), dove si è evidenziato che il collaboratore di giustizia Giovanni Brusca ha riferito di una concreta attività posta in essere dall’organizzazione mafiosa per seguire i movimenti del magistrato, all’epoca Procuratore della Repubblica a Marsala, e studiarne le abitudini di vita durante la sua permanenza estiva a Marina Longa, in vista dell’esecuzione di un attentato ai suoi danni. A tal fine Salvatore Riina aveva dato incarico a Baldassare Di Maggio – in quel periodo sostituto per il mandamento di San Giuseppe Jato di Brusca Bernardo, detenuto dal 25 novembre 1985 al 18 marzo 1988 e successivamente agli arresti domiciliari sino al 22 ottobre 1991 – di recarsi a Marina Longa, servendosi come punto di appoggio per l’attività di osservazione della vicina abitazione di Angelo Siino. Tale attività era stata poi sospesa per ragioni che il Brusca non ha precisato. Questo racconto ha trovato preciso riscontro nelle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Angelo Siino, il quale ha riferito che in “Cosa Nostra” vi erano stati commenti assai negativi perché Paolo Borsellino aveva pubblicamente denunciato un calo di tensione nell’attività di contrasto alla mafia e che Pino Lipari aveva espresso la convinzione che il magistrato, che aveva un temperamento più irruente, avesse dato voce al pensiero dell’amico Giovanni Falcone, più cauto di lui, tanto che in “Cosa Nostra” venivano indicati rispettivamente come “il braccio e la mente”. Subito dopo, e cioè intorno al luglio del 1987 o del 1988, egli aveva visto a Marina Longa il Di Maggio, che era venuto a trovarlo con una scusa che egli non faticò a riconoscere come pretestuosa e che successivamente tornò in quel luogo, sicché egli comprese che l’interesse del Di Maggio era rivolto al magistrato. Il Siino aveva successivamente appreso da Francesco Messina, inteso “Mastro Ciccio”, che il progetto di uccidere Borsellino aveva incontrato l’opposizione dei marsalesi di “Cosa Nostra”, i quali avevano lasciato trapelare quel progetto all’esterno, sicché erano state predisposte delle rigorose misure di sicurezza, come egli stesso aveva potuto constatare a Marina Longa. A loro volta le indicazioni del Siino sull’opposizione dei marsalesi all’uccisione del Magistrato ha trovato riscontro nelle dichiarazioni di Antonio Patti, appartenente proprio alla “famiglia” mafiosa di Marsala. Quest’ultimo collaborante ha, infatti, riferito che dopo il duplice omicidio di D’Amico Vincenzo, rappresentante della “famiglia” di Marsala, e di Craparotta Francesco, consumato l’11 gennaio 1992, suo cognato Titone Antonino, persona assai vicina al D’Amico, gli aveva confidato che la reale motivazione della soppressione dei due andava ricercata nell’opposizione che essi avevano manifestato al progetto di uccidere Borsellino quando questi era Procuratore della Repubblica a Marsala.
UN PIANO PER VIA CILEA Un ulteriore progetto omicidiario era destinato a trovare realizzazione nei pressi dell’abitazione del Dott. Borsellino, sita a Palermo in Via Cilea. Sul punto, nella sentenza n. 23/1999 emessa il 9 dicembre 1999 dalla Corte di Assise di Caltanissetta si rileva come dalle dichiarazioni sostanzialmente conformi di Anselmo Francesco Paolo, Cancemi Salvatore, Galliano Antonino, Ganci Calogero e La Marca Francesco, appartenenti ai “mandamenti” della Noce e di Porta Nuova, emerga che nel corso del 1988 ebbe a concretizzarsi un altro progetto di attentato in danno di Paolo Borsellino da attuarsi questa volta a Palermo, nei pressi della sua abitazione di via Cilea, approfittando sia del fatto che si erano attenuate le misure di protezione nei suoi confronti, essendo stato revocato il presidio di vigilanza fissa sotto la sua abitazione, sia dell’abitudine del magistrato di recarsi la domenica da solo presso la vicina edicola per l’acquisto del giornale. In un’occasione gli attentatori ebbero a mancare solo per pochi secondi la loro vittima, dopo essere partiti dal vicino negozio di mobili di Sciaratta Franco, sito in Viale delle Alpi, perché erano giunti sul posto a bordo di un motociclo poco dopo che Paolo Borsellino aveva richiuso il portone di ingresso del palazzo. L’attentato doveva essere eseguito con una pistola cal. 7,65, in modo da non attirare l’attenzione su “Cosa Nostra” e da far pensare piuttosto all’opera di un isolato delinquente, tenuto conto della pendenza in grado di appello del maxiprocesso di Palermo, di cui si confidava in un esito favorevole per il sodalizio mafioso. Tale progetto era stato poi abbandonato dopo gli appostamenti protrattisi per circa quattro domeniche consecutive, verosimilmente per non pregiudicare l’esito di quel giudizio, non essendo stata possibile una rapida esecuzione. Questo secondo episodio ha formato oggetto delle deposizioni rese, nel presente procedimento, dai collaboratori di giustizia Francesco Paolo Anzelmo, Francesco La Marca (escussi all’udienza del 25 settembre 2014) e Antonino Galliano (esaminato all’udienza del 7 ottobre 2014). In particolare, l’Anzelmo (già sotto-capo della “famiglia” della Noce, il cui rappresentante era Raffaele Ganci) ha dichiarato che, intorno al 1987-88, mentre egli si trovava in stato di latitanza e il Dott. Borsellino era Procuratore della Repubblica di Marsala, approfittando di una riduzione delle misure di protezione attorno all’abitazione di quest’ultimo, le “famiglie” della Noce e di Porta Nuova ricevettero il mandato di uccidere il Magistrato. L’esecuzione del progetto criminoso era affidata allo stesso Anzelmo, a Francesco La Marca, a Raffaele e Domenico Ganci, a Salvatore Cancemi. Come base operativa venne utilizzato un negozio di mobili sito in Viale delle Alpi, di proprietà di Franco Sciarratta, dove i killer – ruolo, questo, assegnato all’Anzelmo e al La Marca – erano appostati, in attesa della “battuta” che avrebbe dovuto essere data da Raffaele o Domenico Ganci, o Salvatore Cancemi, o Antonino Galliano. L’agguato avrebbe dovuto scattare di domenica, quando il Dott. Borsellino si recava presso un pollaio per acquistare delle uova, oppure presso un’edicola per prendere il giornale. Si sarebbe dovuto trattare di un omicidio da commettere recandosi immediatamente sul luogo con un motoveicolo ed utilizzando le pistole per uccidere il Magistrato. Tuttavia, dopo un paio di appostamenti, Raffaele Ganci comunicò che bisognava sospendere l’esecuzione del delitto, e il progetto quindi si bloccò.
I RICORDI DEL PENTITO ANZELMO Il collaborante ha specificato che, secondo le regole di “Cosa Nostra”, sia il progetto omicidiario, sia la sua sospensione, sia l’inizio di una nuova fase esecutiva, dovevano essere decisi dalla “Commissione”. Ha, inoltre, precisato che la motivazione del progetto criminoso si ricollegava all’attività giudiziaria del Dott. Borsellino e al maxiprocesso.
Le dichiarazioni dell’Anzelmo sono di seguito trascritte:
- AVV. SINATRA – Le chiedo anche: lei ha mai sentito parlare di un progetto che riguardava l’uccisione di alcuni magistrati di Palermo, nella specie il dottore Falcone, il dottore Borsellino?
- TESTE F.P. ANZELMO – Risale a molto tempo prima di quando poi sono stati effettivamente uccisi.
- AVV. SINATRA – E quando?
- TESTE F.P. ANZELMO – Sicuramente il dottor Borsellino quando si trovava a Marsala, che si vide che ci avevano levato… che lui sotto casa aveva un furgone sempre là piantonato e poi, tutta ad un tratto, ce l’hanno tolto ‘sto furgone e quindi noi, in particolar modo noi della Noce, con la collaborazione di Porta Nuova, di Totò Cancemi, avevamo avuto questo mandato di uccidere il dottor Borsellino. E anche… e anche per Falcone si cercava, però non ricordo il periodo preciso quello del dottor Falcone; si parlava di fare in tanti modi.
- AVV. SINATRA – Sì, dico, un attimino, parliamo per il momento di questo progetto nei confronti del dottore Borsellino prima. Me lo sa indicare nel tempo? Quindi, lei ha detto che nel… […]
- TESTE F.P. ANZELMO – Allora, io sono andato latitante dall’84 all’89 e quindi non lo so, penso verso l’87, l’88, una cosa del genere.
- AVV. SINATRA – Anni ’87 – ’88. E può essere più preciso in ordine a questo progetto? Cioè era un progetto che lei l’aveva saputo da chi precisamente?
- TESTE F.P. ANZELMO – Io dal mio capomandamento, da Ganci Raffaele l’avevo saputo.
- AVV. SINATRA – Cosa le disse di specifico Ganci Raffaele?
- TESTE F.P. ANZELMO – Che dovevano ammazzare il dottor Borsellino e ci dovevamo organizzare, e così abbiamo fatto, ci siamo organizzati.
- AVV. SINATRA – Aspetti, aspetti un attimo. Quando le disse che si doveva ammazzare il dottore Borsellino e quindi poi si doveva passare alla fase esecutiva, le ha fatto riferimento chi decise?
- TESTE F.P. ANZELMO – Quelli erano decisioni di commissione, perché non è che lo decideva Ganci Raffaele, quelle erano decisioni prese dalla commissione e avevamo avuto mandato noi di farlo. […]
- AVV. SINATRA – Eh, quindi gliel’ha riferito e si passa alla fase, diciamo, organizzativa. Può essere più preciso su questo?
- TESTE F.P. ANZELMO – Sì, siamo passati alla fase organizzativa e si… si doveva fare di domenica, perché lui durante la settimana era là; lo dovevamo fare quando usciva di casa, perché lui mi ricordo che…
- AVV. SINATRA – Dove? In quale casa?
- TESTE F.P. ANZELMO – In via Cilea, abitava nel nostro territorio, non come territorio di Noce, ma come territorio Malaspina, però era… Malaspina faceva mandamento da noi, quindi eravamo noi. […]
- TESTE F.P. ANZELMO – Si doveva fare di domenica, quando lui… siccome c’erano ‘ste notizie che lui andava da un pollaio a prendere le uova, per quello che ricordo, oppure da… dall’edicolante, che c’era un edicolante là, e lui si andava a prendere il giornale là e lo dovevamo fare in questo frangente. E noi come base avevamo un magazzino di mobili, dove si vendevano dei mobili, che faceva capo a Franco Sciarratta, che era un uomo d’onore della nostra famiglia, ed eravamo appostati là. Nel momento in cui ci arrivava la battuta, uscivamo, perché quelli che avevamo incarico era io… che lo dovevamo fare materialmente ero io e Ciccio La Marca.
- AVV. SINATRA – Quindi lei e La Marca.
- TESTE F.P. ANZELMO – Sì.
- AVV. SINATRA – Sì, dico, lei e La Marca. E come doveva essere fatto questo attentato materialmente?
- TESTE F.P. ANZELMO – Non era un attentato, era un agguato, un omicidio con le pistole. […]
- AVV. SINATRA – Oltre a lei e a La Marca vi furono altri che in quel preciso frangente, ovviamente con riferimento a questo segmento, ebbero un ruolo?
- TESTE F.P. ANZELMO – Sì, c’era Ganci Raffaele, Totò…
- AVV. SINATRA – Esecutivo.
- TESTE F.P. ANZELMO – Sì, c’era Ganci Raffaele, Totò Cancemi, se non ricordo… se non ricordo male c’era… c’era pure Calogero Ganci. Mi sente?
- AVV. SINATRA – Sì, sì, la sento. Tutti lì appostati eravate?
- TESTE F.P. ANZELMO – Sì, eravamo tutti in questo magazzino dove si vendevano i mobili, che facevamo la base là. Mentre c’era Ganci Raffaele o Totò Cancemi, o non mi ricordo se c’era pure il Galliano Nino che giravano per… per portarci poi la battuta a noi per dire: “E’ uscito”, e noi partivamo con la moto, perché noi eravamo appostati in via delle Alpi, quindi via delle Alpi – via Cilea è un tiro, con la moto arrivavamo in un baleno. […]
- AVV. SINATRA – Lei sa le ragioni per cui era stata deliberata la morte del dottore Borsellino?
- TESTE F.P. ANZELMO – Ma la morte del dottor Borsellino e del dottor Falcone è tutta unica, era la situazione che… cioè non… non davano tregua e poi c’era il fatto del maxiprocesso, tutto di lì parte. Quella era la motivazione, per questo si dovevano uccidere.
- AVV. SINATRA – Non davano tregua, nel senso dal punto di vista giudiziario, dico, per…
- TESTE F.P. ANZELMO – Dal punto di vista giudiziario, sì, certo. […]
- TESTE F.P. ANZELMO – Ma negli anni precedenti se ne… se ne parlava che si doveva uccidere il dottor Falcone e il dottor Borsellino. Mi ricordo che c’erano dei progetti, si facevano dei progetti che certe volte si parlava e si doveva fare con un lancia-missile, con un bazooka, con un… cioè c’erano tanti… (…)
- AVV. SINATRA – Ma lei non può escludere che ci siano stati anche precedentemente, per averlo saputo, dico, se gliene ha mai parlato Ganci, anche altri fatti e altri episodi dove c’erano stati degli appostamenti già con le armi, pronti per uccidere il dottore Falcone o in questo caso a noi interessa il dottore Borsellino?
- TESTE F.P. ANZELMO – No, no, no.
- AVV. SINATRA – Lei di questo ne sa proprio di appostamenti?
- TESTE F.P. ANZELMO – No, io questo appostamento so questo, dove c’ho partecipato io.
- AVV. SINATRA – Ecco, chiaro.
- TESTE F.P. ANZELMO – Le ripeto, c’erano… c’erano progetti omicidiari sia ai danni del dottor Falcone che del dottor Borsellino, ma già da anni prima, però io mi sono trovato in questo.
Il collaboratore di giustizia Francesco La Marca ha riferito che, intorno al 1988, Salvatore Cancemi (capo della “famiglia” di Porta Nuova, cui egli apparteneva) lo incaricò di recarsi presso un negozio di mobili sito in Viale delle Alpi per commettere un omicidio. Dal canto suo, il collaboratore di giustizia Antonino Galliano ha affermato che, nel periodo in cui il Dott. Borsellino prestava servizio a Marsala, egli insieme a Raffaele Ganci, Domenico Ganci, Salvatore Cancemi, e qualche volta anche Francesco La Marca effettuarono una serie di appostamenti presso l’abitazione del Magistrato, soprattutto nei giorni di sabato e domenica, nei quali la vittima designata si recava in chiesa per assistere alla Messa e poi presso un pollaio per acquistare alcune uova. Dopo uno o due mesi i predetti appostamenti vennero però sospesi. […] si desume, quindi, che intorno al 1988 venne attuata, con una precisa organizzazione di mezzi e di persone, tutta la fase preparatoria di un progetto di omicidio del Dott. Borsellino, che avrebbe dovuto essere realizzato tendendogli un agguato nelle vicinanze della sua abitazione di Palermo, con modalità non eclatanti (verosimilmente, per non compromettere le aspettative di un esito favorevole del maxiprocesso), mentre egli era intento a compiere atti della propria vita quotidiana. Tuttavia, dopo una serie di appostamenti, il progetto venne accantonato, per decisione della stessa “Commissione” che lo aveva deliberato. Anche questo piano delittuoso era motivato dall’attività giudiziaria svolta dal Dott. Borsellino, il quale non dava tregua a “Cosa Nostra”. A CURA DELL’ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA10 luglio 2021
COSA NOSTRA VOLEVA MORTO PAOLO BORSELLINO DA MOLTO TEMPO La mafia voleva uccidere il giudice già tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80, in connessione con le indagini da lui svolte insieme con il comandante della compagnia dei carabinieri di Monreale, capitano Emanuele Basile, che aveva fatto luce su alcune attività criminali dei “corleonesi” L’intento di “Cosa Nostra” di uccidere Paolo Borsellino aveva iniziato a manifestarsi già tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80, in connessione con le indagini da lui svolte insieme con il Comandante della Compagnia dei Carabinieri di Monreale, Capitano Emanuele Basile, che avevano consentito, tra l’altro, di pervenire all’arresto di Pino Leggio e di Giacomo Riina nella zona di Bologna, nonché di far luce su alcune delle attività criminali svolte dall’emergente gruppo dei corleonesi. A tale primo movente se ne aggiungeva un secondo, rappresentato dalla circostanza che dopo l’omicidio del Capitano Basile, consumato il 4 maggio 1980, il Dott. Borsellino aveva emesso dei mandati di cattura nei confronti, tra gli altri, di Francesco Madonia, capo del “mandamento” di Resuttana, e del figlio Giuseppe Madonia. La vicenda si trova puntualmente ricostruita nella sentenza n. 23/1999 emessa il 9 dicembre 1999 dalla Corte di Assise di Caltanissetta nel processo n. 29/97 R.G.C.Ass. (c.d. “Borsellino ter”). In particolare, nelle dichiarazioni rese il 19.6.1998, il collaboratore di giustizia Francesco Di Carlo ha riferito che Salvatore Riina dopo l’omicidio del Capitano Basile e la conseguente attività di indagine del magistrato aveva commentato che “l’aveva BORSELLINO il capitano BASILE sulla coscienza, perché era stato BORSELLINO a mandare il capitano BASILE a Bologna ad arrestare i suoi”. Inoltre, il collaborante Gaspare Mutolo, come evidenziato nella suddetta pronuncia, ha riferito che, mentre si trovava detenuto nel corso del 1981 insieme a Francesco e Giuseppe Madonia, Leoluca Bagarella e Greco, aveva avuto occasione di sentire le loro esternazioni in ordine alla necessità di uccidere il Dott. Borsellino. Sempre nella sentenza emessa il 9 dicembre 1999 dalla Corte di Assise di Caltanissetta si è sottolineato come il collaboratore di giustizia Giovanni Brusca abbia dichiarato che l’omicidio del Dott. Borsellino era già stato deliberato da “Cosa Nostra” sin dagli inizi degli anni Ottanta, allorché Salvatore Riina aveva vanamente cercato di farlo contattare per risolvere alcuni problemi giudiziari del cognato Leoluca Bagarella, constatandone in quell’occasione l’incorruttibilità. Da allora il Brusca aveva più volte sentito il Riina ripetere che Borsellino doveva essere eliminato perché “faceva la lotta a Cosa Nostra assieme al dottor Falcone in maniera forte e decisa”.
IL RACCONTO DI BRUSCA Tali vicende sono state ricostruite, nel corso del presente procedimento, durante l’incidente probatorio, all’udienza del 6 giugno 2012, dallo stesso Giovanni Brusca, il quale ha fatto risalire l’intenzione di Salvatore Riina di eliminare il Dott. Borsellino al 1979-80, spiegando: «Totò Riina lo voleva uccidere prima quando fu del cognato, poi quando fu del Capitano Basile… ». Sul punto, Giovanni Brusca ha reso le seguenti dichiarazioni:
- P.M. DOTT. MARINO – Senta, mentre il Dottor Borsellino?
- TESTE BRUSCA – Il Dottor Borsellino invece le esternazioni di Salvatore Riina che
- voleva uccidere… in quanto lo voleva uccidere cominciano con la vicenda del cognato Leoluca Bagarella del Capitano Basile.
- P.M. DOTT. MARINO – E perché?
- TESTE BRUSCA – Perché mi aveva chiesto di poterlo più di una volta avvicinare per ottenere un trattamento di favore, insabbiare in qualche modo le indagini, per poterlo scagionare dall’accusa.
- P.M. DOTT. MARINO – Ma ci furono tentativi di contattare il Dottor Borsellino all’epoca?
- TESTE BRUSCA – Sì, allora… l’ho detto, allora ci sono stati dei tentativi e ci fu un rifiuto totale.
- P.M. DOTT. MARINO – Ma lei ricorda chi e in che maniera si fecero questi tentativi, se l’ha mai saputo?
- TESTE BRUSCA – Guardi, ora non mi ricordo chi lui… a chi lui abbia incaricato, però di solito si comincia da dove è nato, le amicizie, le amicizia di scuola… un po’ conoscendo la città di Palermo si cerca di vedere con chi si può avvicinare. Ripeto, io conosco le esternazioni che lui si è rifiutato di fargli questa cortesia, però con che soggetti abbia…
- P.M. DOTT. MARINO – E lei da chi lo apprende?
- TESTE BRUSCA – Da Riina.
- P.M. DOTT. MARINO – Da Riina direttamente?
- TESTE BRUSCA – Sì, perché in quel momento io sono una delle persone più vicine con Leoluca Bagarella. Sono vicino a lui, conosco dove abita, ci vado a casa tutti i comuni, quindi sono quasi a disposizioni… no sono, sono a disposizione… tolgo questo quasi, ero a disposizione sua ventiquattro ore su ventiquattro ore. La mia… allento un pochettino quando vengo tratto in arresto per le dichiarazioni di Buscetta, ma fino a quel momento gli facevo da autista, lo andavo a prendere, lo accompagnavo da Michele Greco quando andava a Mazara, ci dormivo a casa… tutti i giorni. Difficilmente io avevo qualche momento libero».
Il Brusca ha, poi chiarito che, in epoca anteriore al “maxiprocesso”, le ragioni poste alla base della intenzione di eliminare il Dott. Borsellino si ricollegano al suo intransigente rifiuto di ogni condizionamento e alla sua mancanza di ogni “disponibilità” rispetto alle vicende giudiziarie riguardanti il Bagarella e l’omicidio del Capitano Basile («Il Dottor Borsellino sì, ma nella sua qualità di Giudice… ancora non era successo il maxiprocesso, non era successo… successivamente poi si sono aggiunti gli altri elementi, però fino a quel momento era perché non si era messo a disposizione, credo per il fatto di Bagarella e qualche altro fatto che in questo momento non mi ricordo. (…) Del Capitano Basile… c’era qualche altra cosa che non si era messo a disposizione»). Nella medesima deposizione, Giovanni Brusca ha affermato che l’intenzione di uccidere il Dott. Borsellino aveva radici lontane nel tempo e ad essa erano interessati i Madonia, proprio in relazione all’omicidio del Capitano Basile, per il quale era imputato Giuseppe Madonia, fratello di Salvatore Mario Madonia. 09 luglio 2021 • A CURA DELL’ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA
”La mafia è un antistato. Si distingue dagli altri poteri criminali perché tende ad affermare la propria supremazia su un territorio. (La droga è un accidente storico). Essa è territorio. La famiglia mafiosa non sarebbe tale se non avesse il territorio fra i suoi elementi costitutivi. Sul territorio tende a esercitare le stesse potestà di imperio che ivi legittimamente esercita lo Stato (e gli enti pubblici che ne costituiscono l’articolazione territoriale).
Prime fra tutte :
- la giustizia
- l’ordine pubblico
- il controllo delle risorse economiche.
Questa sua tendenza è alternativa alle potestà pubbliche esercitate dallo Stato e quindi teoricamente le due istituzioni sono in insanabile conflitto. Solo che il conflitto non viene normalmente risolto con lo scontro armato. La mafia non dichiara guerra ma tende al condizionamento delle persone fisiche che impersonano le istituzioni perché la loro attività pubblica venga dirottata dal fine del bene comune all’interesse proprio dei gruppi mafiosi. Questa è la normale via attraverso cui la mafia cerca e trova la sua supremazia. Chi non si piega come ultima ratio viene fatto fuori perché non sta al gioco.E’ evidente che l’eliminazione e il contenimento di questo cancro non passa soltanto attraverso la via repressiva, ma postula l’eliminazione di tutte le cause socio-economiche e politiche in forza delle quali questo antistato riesce ad affermarsi. Necessità di interventi legislativi di riforme delle istituzioni (enti locali innanzi tutto), di interventi socio-economici che elimino la manovalanza-trasparenza nella distribuzione delle pubbliche risorse al fine di evitare l’inserimento parassitario e così via (tutto ciò è mancato del tutto o in gran parte) a giudicare dalle più diffuse e accreditate opinioni. In ultimo l’attività repressiva, cui non vanno attribuiti poteri taumaturgici.” Palermo 3 settembre 1990 – Paolo Borsellino , dal libro “oltre il muro dell’omertà”
Ti dico che loro possono uccidere il mio corpo fisico e di questo sono ben cosciente. Ma sono ancora più cosciente che non potranno mai uccidere le mie idee e tutto ciò che io credo! Si erano illusi che uccidendo il mio amico Giovanni, avrebbero anche ucciso le sue idee e quel gran patrimonio di valori che stava dietro di lui. Ma si sono sbagliati, perché il mio amico Giovanni tutto ciò che amava e onorava, lo amava così profondamente da legarselo nel suo animo, rendendolo dunque immortale. PAOLO BORSELLINO
“Non sono nè un eroe nè un Kamikaze, ma una persona come tante altre. Temo la fine perché la vedo come una cosa misteriosa, non so quello che succederà nell’aldilà. Ma l’importante è che sia il coraggio a prendere il sopravvento. Se non fosse per il dolore di lasciare la mia famiglia, potrei anche morire sereno.” PAOLO BORSELLINO
Il fresco profumo della libertà che si contrappone al puzzo del compromesso… “La lotta alla mafia, (primo problema da risolvere nella nostra terra, bellissima e disgraziata) non doveva essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale, anche religioso, che coinvolgesse tutti, che tutti abituasse a sentire il fresco profumo della libertà che si contrappone al puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità” Paolo Borsellino 23/06/1992, durante la commemorazione un mese dopo la strage di Capaci
Questa stagione del <> sembrò durare poco, perché ben presto sopravvennero il fastidio e l’insofferenza al prezzo che la lotta alla mafia, alla lotta al male, doveva essere pagato dalla cittadinanza. Insofferenza alle scorte, insofferenza alle sirene, insofferenza alle indagini, insofferenza a una lotta d’amore che costava però a ciascuno, non certo i terribili sacrifici di Falcone, ma la rinuncia a tanti piccoli o grossi vantaggi, a tante minime o consistenti situazioni fondate sull’indifferenza, sull’omertà o sulla complicità. PAOLO BORSELLINO
PAOLO BORSELLINO: «Ma secondo te, perché i colleghi di Caltanissetta non mi chiamano, non mi interrogano?», riferisce l’amico Antonio Tricoli. Da “Visti da Vicino. Falcone e Borsellino gli Uomini e gli Eroi” di Francesco Viviano e Alessandra Ziniti.
Cè chi dice che non fa sconti a nessuno… mentre di fatto, pratica veri e propri saldi (al 100%) etici e morali… “ma non sono stati condannati”…“L’equivoco su cui spesso si gioca è questo: si dice quel politico era vicino ad un mafioso, quel politico è stato accusato di avere interessi convergenti con le organizzazioni mafiose, però la magistratura non lo ha condannato, quindi quel politico è un uomo onesto. E no! Questo discorso non va, perché la magistratura può fare soltanto un accertamento di carattere giudiziale, può dire: beh! Ci sono sospetti, ci sono sospetti anche gravi, ma io non ho la certezza giuridica, giudiziaria che mi consente di dire quest’uomo è mafioso. Però, siccome dalle indagini sono emersi tanti fatti del genere, altri organi, altri poteri, cioè i politici, le organizzazioni disciplinari delle varie amministrazioni, i consigli comunali o quello che sia, dovevano trarre le dovute conseguenze da certe vicinanze tra politici e mafiosi che non costituivano reato ma rendevano comunque il politico inaffidabile nella gestione della cosa pubblica. Questi giudizi non sono stati tratti perché ci si è nascosti dietro lo schermo della sentenza: questo tizio non è mai stato condannato, quindi è un uomo onesto. Ma dimmi un poco, ma tu non ne conosci di gente che è disonesta, che non è stata mai condannata perché non ci sono le prove per condannarla, però c’è il grosso sospetto che dovrebbe, quantomeno, indurre soprattutto i partiti politici a fare grossa pulizia, non soltanto essere onesti, ma apparire onesti, facendo pulizia al loro interno di tutti coloro che sono raggiunti comunque da episodi o da fatti inquietanti, anche se non costituenti reati.” PAOLO BORSELLINO
PALO BORSELLINO: «È una constatazione che io faccio all’interno della mia famiglia, perché sono stato più volte portato a considerare quali sono gli interessi e i ragionamenti dei miei tre figli, oggi tutti sui vent’anni, rispetto a quello che era il mio modo di pensare e di guardarmi intorno quando avevo quindici – sedici anni. A quell’età io vivevo nell’assoluta indifferenza del fenomeno mafioso, che allora era grave quanto oggi. Addirittura mi capitava di pensare a questa curiosa nebulosa della mafia, di cui si parlava o non si parlava, comunque non se ne parlava nelle dichiarazioni degli uomini pubblici, come qualcosa che contraddistinguesse noi palermitani o siciliani in genere, quasi in modo positivo, rispetto al resto dell’Italia. Invece I ragazzi di oggi (per questo citavo i miei figli) sono perfettamente coscienti del gravissimo problema col quale noi conviviamo. E questa è la ragione per la quale, allorché mi si domanda qual è il mio atteggiamento, se cioè ci sono motivi di speranza nei confronti del futuro, io mi dichiaro sempre ottimista. E mi dichiaro ottimista nonostante gli esiti giudiziari tutto sommato non soddisfacenti del grosso lavoro che si è fatto. E mi dichiaro ottimista anche se so che oggi la mafia è estremamente potente, perché sono convinto che uno dei maggiori punti di forza dell’organizzazione mafiosa è il consenso. È il consenso che circonda queste organizzazioni che le contraddistingue da qualsiasi altra organizzazione criminale». Da “Epoca”, a cura di Antonietta Garzia del 14 ottobre 1992 (pubblicata postuma dopo la Strage di Via D’Amelio del 19 luglio 1992)
L’INDICIBILE DI PAOLO BORSELLINO Il procuratore capo arrivò al punto di tenere all’oscuro Paolo Borsellino anche di una informativa che annunciava i progetti di morte che lo riguardavano e che si sarebbero concretizzati di lì a poco. All’esterrefatto Borsellino, che aveva appreso tale notizia solo casualmente e che gli chiedeva conto del perché non fosse stato messo al corrente, fu risposto che l’informativa era stata doverosamente trasmessa a chi di competenza. Risposta che nella sua palesata sufficienza equivaleva a dire: <>. Non sappiamo se Paolo negli ultimi tumultuosi giorni della sua vita annotò anche questi episodi sull’agenda rossa dalla quale non si separava mai e che riempiva di appunti riservati. Annotazioni che non si sentiva di trascrivere nell’agenda destinata invece agli appuntamenti e agli impegni ufficiali. Così come prima di lui era accaduto a Chinnici, al generale dalla Chiesa e a Falcone, anch’egli affidava al segreto del suo diario una sorta di promemoria sull'<>. E forse fu proprio quell’ <> a fargli esclamare, parlando con la moglie poco prima di essere massacrato: <>. Frase che, detta da uno come lui che la mafia l’aveva ininterrottamente vista in diretta sin dagli inizi dal 1980, quando aveva iniziato a occuparsene insieme a Giovanni Falcone nell’ufficio istruzione, appare rivelatrice di un improvviso e traumatico disvelamento, come se per la prima volta avesse visto il vero volto della mafia, cioè il volto orribile del potere che si cela dietro la maschera degli assassini. Erano i giorni nei quali fervevano febbrili e segrete trattative, giorni nei quali Riina diede ordine di soprassedere agli omicidi in fase avanzata di esecuzione di alcuni politici della Prima repubblica che dovevano essere puniti perché avevano voltato le spalle. Improvvisamente diviene assolutamente prioritario uccidere Paolo Borsellino. Ai magistrati di Caltanissetta, Agnese Borsellino, ricordando quella frase e quei giorni del giugno 1992, ha dichiarato che Paolo, turbatissimo, le aveva confidato: <<C’è una trattativa tra la mafia e lo Stato dolo la strage di Capaci, c’è un colloquio tra la mafia e alcuni pezzi infedeli dello Stato, mi dice che c’è questa contiguità tra mafia e pezzi deviati dello Stato. Mi ucciderà la mafia, ma saranno altri che mi faranno uccidere, la mafia mi ucciderà quando altri lo consentiranno. (Le ultime parole di Falcone e Borsellino)
LA LETTERA AL MINISTRO DELL’INTERNO VINCENZO SCOTTI – Dopo essersi consultato con il suocero Angelo Piraino Leto, ex presidente del tribunale, con fama di insigne giurista, Paolo Borsellino prende carta e penna e scrive al ministro degli Interni: Onorevole signor ministro, mi consenta di rispondere all’invito da Lei inaspettatamente rivoltomi nel corso della riunione per la presentazione dellibro di Pino Arlacchi. I sentimenti della lunga amicizia che mi hanno legato a Giovanni Falcone mi renderebbero massimamente affittiva l’eventuale assunzione dell’ufficio al quale non avrei potuto aspirare se egli fosse rimasto in vita. La scomparsa di Giovanni Falcone mi ha reso destinatario di un dolore che mi impedisce, infatti, di rendermi beneficiario di effetti comunque riconducibili a tale luttuoso evento. Le motivazioni addotte da quanti sollecitano la mia candidatura alla Direzione nazionale antimafia mi lusingano, ma non possono tradursi in presunzioni che potrebbero essere contraddette da requisiti posseduti da altri aspiranti a detto ufficio, specialmente se fossero riaperti i termini del concorso. Molti valorosissimi colleghi, invero, non posero domanda perché ritennero Giovanni Falcone il naturale destinatario dell’incarico, ovvero si considerarono non legittimati a proporla per ragioni poi superate dal Consiglio superiore della magistratura. Per quanto a me attiene, le suesposte riflessioni, cui si accompagnano le affettuose insistenze di molti dei componenti del mio ufficio, mi inducono a continuare a Palermo la mia opera appena iniziata, in una procura della repubblica che è sicuramente quella più direttamente e aspramente impegnata nelle indagini sulla criminalità mafiosa. Lascio ovviamente a Lei, onorevole signor ministro, ogni decisione relativa all’eventuale conoscenza da dare a terzi delle mie deliberazioni e di questa mia lettera. RingraziandoLa sentitamente. PAOLO BORSELLINO
IL SEGRETO DEL MINISTRO Scotti riceve la lettera, ma non ne fa parola. Il ministro cheha lanciato a sorpresa la candidatura di Borsellino al vertice della Superprocura trasforma il documento in un foglio «riservato», e neppure una volta fa pubblicamente cenno al rifiuto del magistrato siciliano. Il procuratore aggiunto di Palermo rimane ufficialmente candidato, l’azione giudiziaria antimafia di un paese intero si concentra simbolicamente sul nome di un uomo solo. La Dna che voleva FalconeBorsellino ha rifiutato, e nessuno lo sa. Contesta il metodo, ma ora inizia a difendere nel merito quella stessa struttura che, vivo Falcone, aveva criticato insieme con la grande maggioranza dei suoi colleghi. La strage di Capaci è lo spartiacque che ribalta i ragionamenti, scardina le convinzioni più solide, costringe a guardare in faccia una Cosa nostra mai vista prima, che con il tritolo punta al cuore dello stato.Borsellino è solo, non c’è più Falcone con cui scambiare notizie e impressioni, ma del suo amico, adesso, si sente in dovere di difendere pubblicamente le strategie antimafia. Intervistato dal Grl dice: la Superprocura voluta da Giovanni Falcone «avrebbe, anche se per via diversa, ricreato le condizioni in cui operò nel suo periodo migliore il pool antimafia di Palermo».Borsellino sottolinea la continuità tra il pool antimafia e la Superprocura, nella metodologia di lavoro adottata da Falcone, e ricorda come erano state proprio le conseguenze della gestione «del tutto insoddisfacente» delle rivelazioni del pentito Antonino Calderone, dopo la dissoluzione del pool, ad avere «inciso enormemente sulla decisione di Giovanni Falcone di lasciare la Procura di Palermo, perché si era reso conto che con una visione così parcellizzata del fenomeno mafioso [il procedimento che ne scaturì venne diviso in dodici tronconi, N.d.A. da un’unica sede giudiziaria non fosse possibile ripetere quello che era successo nella fase originaria e di sviluppo del maxiprocesso. Da L’Agenda rossa di Paolo Borsellino”
Paolo Borsellino torna a Palermo dopo aver parlato col ministro (dell’Interno, Virginio Rognoni. n.d.r.) e convoca il suo capo di gabinetto, Maria Grazia Trizzino, che è persona fidata. Quando la signora Trizzino entra nella grande aula verde dell’Ucciardone per essere ascoltata dai giudici che stanno celebrando il processo per l’omicidio Mattarella, capisco perché il Presidente Mattarella si fida solo di lei. E una donna essenziale, precisa nelle parole che usa, ma non sono le parole di un freddo burocrate le sue. Dice: «Verso la fine di ottobre 1979, il Presidente, di rientro da Roma con l’aereo del primo pomeriggio, venne direttamente alla Presidenza. Contrariamente alle sue abitudini non era passato da casa. Appena in ufficio mi chiamò personalmente, senza ricorrere all’usciere». quasi di entrare dentro il palazzo del potere in Sicilia, il Palazzo d’Orleans, che ha tutta l’aria di essere una corte di tanti signorotti piuttosto che la sede del governo. E ogni signore ha i suoi servi che ascoltano, che tramano. «Aveva un’aria molto grave, il Presidente – spiega la dottoressa Trizzino -; Mi disse testualmente: “Le sto dicendo una cosa che non dirò né a mia moglie né a mio fratello. Questa mattina sono stato con il ministro Rognoni ed ho avuto con lui un colloquio riservato sui problemi siciliani. Se dovesse succedere qualche cosa di molto grave per la mia persona, si ricordi questo incontro con il ministro, perché a questo incontro è da collegare quanto di grave mi potrà accadere”». Da “I Pezzi Mancanti” di Salvo Palazzolo
Paolo Borsellino porta la bara di Falcone nell’atrio del Palazzo di Giustizia adibito a camera ardente. Poggiato il feretro, si rivolge ai suoi colleghi indicando le bare: «Chi vuole andare via da questa Procura se ne vada. Ma chi vuole restare sappia quale destino ci attende. Il nostro futuro è quello. Quello lì. Ragazzi vi parlo come un padre, come un fratello maggiore, ho il dovere di dire che non possiamo farci illusioni, se restiamo, il futuro di alcuni di noi sarà quello» e con una mano indica le bare di Giovanni Falcone e Francesca Morvillo. Poi aggiunge: «Io resto e resto solo per loro e con una mano indicò la folla. Non posso lasciarli soli!» .da “Gli Ultimi Giorni di Paolo Borsellino” di Giorgio Bongiovanni e Lorenzo Baldo
Carissimo Paolo, al di là dei saluti ufficiali, anche se sentiti, un momento privato, un colloquio tra noi. Noi tutti siamo qui a Marsala con te fino dal tuo arrivo, ma ognuno di noi porta nel suo cuore un pezzetto di storia da raccontare sul lavoro a Marsala, nella procura che tu hai diretto. Ci piacerebbe ricordare tante situazioni impegnative o tristi o buffe che ci sono capitate in questa esperienza comune, ma l’elenco sarebbe lungo e, allo stesso tempo, insufficiente. Possiamo comunque dirti di aver appreso appieno il significato di questo periodo di lavoro accanto a te e le possibilità che ci sono state offerte: l’esperienza con i pentiti, i rapporti di un certo livello con la polizia giudiziaria, sono situazioni rare in una procura di provincia, e la tua presenza ci ha consentito di giovarci di queste opportunità. Abbiamo goduto, in questi anni, di un’autorevole protezione, i problemi che si presentavano non apparivano insormontabili perché ci sentivamo tutelati. Qualcuno ci ha riferito in questi giorni che tu avresti detto, ironizzando, che ogni tuo sostituto, grazie al tuo insegnamento, superiorem non recognoscet. Sai bene che non è vero, ma è vero invece che la tua persona, inevitabilmente, ci ha portati a riconoscere superiore solo chi lo è veramente. Ci sono state anche delle incomprensioni, e non abbiamo dimenticate nemmeno quelle: molte sono dipese da noi, dalle diversità dei caratteri e dalla natura di ognuno; altre volte, però, è stata proprio la tua natura onnipotente a vedere ogni cosa dalla tua personale angolazione, non suscettibile di diverse interpretazioni. Tuttavia, anche in questo sei stato per noi un “personaggio”, ti sei arrabbiato, magari troppo, ma con l’autorità che ti legittimava e che mai abbiamo disconosciuto. Anche nel rapporto con il personale abbiamo apprezzato l’autorevolezza e la bontà, mai assurdamente capo, ma sempre “il nostro capo”. E poi te ne sei andato, troppo in fretta, troppo sbrigativamente, come se questo forte rapporto che ci legava potesse essere reciso soltanto con un brusco taglio, per non soffrirne troppo. Il dopo Borsellino non te lo vogliamo raccontare: pur se uniti tra noi, in tantissime occasioni abbiamo sentito che non c’eri più, e in molti abbiamo avvertito il peso, talvolta eccessivo per le nostre sole spalle, di alcune scelte, di importanti decisioni. E adesso il futuro, il tuo, ma anche il nostro. Noi ti assicuriamo, già lo facciamo, siamo all’erta, sappiamo che cosa vuol dire “giustizia” in Sicilia ed abbiamo tutti valori forti e sani, non siamo stati contaminati, e se è vero che “chi ben comincia…”, con ciò che segue, siamo stati molto fortunati. Per te un monito: è un periodo troppo triste ed è difficile intravederne l’uscita. La morte di Giovanni e Francesca è stata per tutti noi un po’ la morte dello stato in questa Sicilia. Le polemiche, i dissidi, le contraddizioni che c’erano prima di questo tragico evento e che, immancabilmente, si sono ripetute anche dopo, ci fanno pensare troppo spesso che non ce la faremo, che lo stato in Sicilia è contro lo stato, e che non puoi fidarti di nessuno. Qui il tuo compito personale, ma sai bene che non abbiamo molti altri interlocutori: sii la nostra fiducia nello stato. I “tuoi sostituti”
GLI ATTENTATI PROGETTATI E IL TRASFERIMENTO A PALERMO Nel settembre del 1991, cosa nostra aveva già abbozzato progetti per l’uccisione di Borsellino. A rivelarlo fu il collaboratore di giustizia Vincenzo Calcara, mafioso di Castelvetrano a cui il suo capo Francesco Messina Denaro aveva detto di tenersi pronto per l’esecuzione, che si sarebbe dovuta effettuare mediante un fucile di precisione o con un’autobomba. Tuttavia Calcara fu arrestato il 5 novembre e la sua situazione in carcere si fece assai pericolosa poiché, secondo quanto da lui stesso indicato, aveva in precedenza intrecciato una relazione con la figlia di uno dei capi di Cosa Nostra, uno sbilanciamento del tutto contrario alle “regole” mafiose e sufficiente a costargli la vita; se da latitante poteva ancora essere utilizzato per “lavori sporchi”, da carcerato invece gli restava solo la condanna a morte emessa dall’organizzazione. Prima che finisse il periodo di isolamento, Calcara decise di diventare collaboratore di giustizia e si incontrò proprio con Borsellino, al quale, una volta rivelatogli il piano e l’incarico, disse: “lei deve sapere che io ero ben felice di ammazzarla“. Dopo di ciò, raccontò sempre il pentito, gli chiese di poterlo abbracciare e Borsellino avrebbe commentato: “nella mia vita tutto potevo immaginare, tranne che un uomo d’onore mi abbracciasse“.da Wikipedia
25 giugno 1992 Altre minacce di morte Gli allarmi sulla sorte di Paolo Borsellino, sempre più esposto, intanto, si moltiplicano. E «radio carcere» lo dà per morto. L’ennesimo segnale lo raccoglie il maresciallo dei carabinieri Antonino Lombardo, morto “suicida” tre anni dopo in una caserma di Palermo, che insieme agli ufficiali Umberto Sinico e Giovanni Baudo dei carabinieri di Palermo si reca al carcere di Fossombrone per interrogare il detenuto Girolamo D’Adda, sulla strage di Capaci e i possibili sviluppi futuri. Sinico e Baudo non partecipano al colloquio, ma apprendono dal maresciallo Lombardo che «negli ambienti carcerari si dà il dottor Borsellino per morto». Non appena rientrato a Palermo il capitano Sinico riferisce la notizia a Borsellino che afferma di essere a conoscenza di questo progetto di attentato ai suoi danni, ma fa capire che preferisce accentrare su di sé i pericoli per risparmiarli alla propria famiglia. Da L’agenda rossa di Paolo Borsellino – gli ultimi 56 giorni nel racconto di familiari, colleghi, magistrati, investigatori e pentiti.
“Noi eravamo preoccupati, stavamo attenti ai segnali di pericolo, ma chi era adibito a garantire la sicurezza di Paolo evidentemente non lo era altrettanto, era distratto o pensava ad altro. È una cosa che mi ha sempre colpita dolorosamente e che mi ha sempre fatto molta rabbia. Nonostante tutti sapessero che il prossimo sarebbe stato Paolo, nonostante lui stesso avesse confidato a un paio di persone che a Palermo era arrivato l’esplosivo per lui, qui, in via D’Amelio (l’unico posto, oltre alla sua casa, dove si recava regolarmente) non era stata presa nessuna misura precauzionale, anche se questo era stato sollecitato, sia dagli uomini della scorta sia da altre segnalazioni”. Rita Borsellino Da L’agenda rossa di Paolo Borsellino – gli ultimi 56 giorni nel racconto di familiari, colleghi, magistrati, investigatori e pentiti)
Una mattina, mentre sono in caserma, scoppio a piangere. Sarà il destino, ma pochi minuti dopo arriva Borsellino, quel giorno non è prevista una sua visita. Mi trova in lacrime, mi chiede: «Cosa c’è Piera, hai paura? Temi che qualcuno possa avere capito cosa stai facendo? Dimmelo, troviamo subito un rimedio, ma dimmi cosa ti passa per la testa». Io smetto di piangere, mi asciugo le lacrime, gli racconto tutto: non ce la faccio a stare nel villaggio turistico con i ragazzi che mi vengono dietro mentre mia figlia è lontana da me. Basta, voglio finirla qui, smetto tutto. Gli annuncio che voglio stracciare tutti i verbali che ho compilato e tornarmene a casa. Basta. Sono sconsolata, non ho più speranze, penso che per me la vita sia finita. Ho subito troppi traumi in poco tempo. Vedo tutto nero. La morte di mio marito ha fatto finire tutto. Ho solo mia figlia, e per giunta adesso non è accanto a me. Borsellino a questo punto mi prende per le braccia, mi spinge con dolcezza e mi mette davanti allo specchio che ho già visto accanto alla porta d’ingresso della caserma. Mi tiene stretta, vedo la mia immagine riflessa e dietro di me l’immagine di Borsellino. Il giudice mi fa questa domanda: «Piera, tu cosa vedi allo specchio?». E io: «Vedo una ragazza con un passato turbolento, un presente inesistente e un futuro con un punto interrogativo grande quanto il mondo. Che futuro posso avere io, zio Paolo?». Lui mi guarda fissando i miei occhi che si riflettono sullo specchio. E dice: «Io vedo una ragazza che ha avuto un passato turbolento, che però si è ribellata a questo passato che non ha mai accettato. Vedo una ragazza che ha un presente e avrà un futuro pieno di felicità. Non per altro: hai diritto ad avere felicità per tutto questo che stai facendo». da “Maledetta Mafia” di Piera Aiello e Umberto Lucentini
FUORIGIOCO Alle sette del mattino di giovedì 16 luglio Borsellino è già sull’aereo che lo porterà a Roma. Due ore dopo è alla Dia ad ascoltare nuovamente Gaspare Mutolo, insieme ai colleghi Guido Lo Forte e Gioacchino Natoli. Il collaboratore di giustizia intende proseguire il suo viaggio nel tempo dentro Cosa nostra. È un percorso fatto di omicidi, tragedie, tradimenti. Ma anche di uomini delle istituzioni legati a doppio filo con Cosa nostra. Fino a venerdì il giudice si trattiene prevalentemente alla Dia dove, tra l’altro, si incontrerà anche con l’allora vicecomandante Gianni De Gennaro. Mutolo conferma di voler parlare dei rapporti con Cosa Nostra di Bruno Contrada e del giudice Domenico Signorino. Vista la complessità dei temi da affrontare verrà deciso di proseguire determinati capitoli la volta successiva. Racconterà anni dopo Guido Lo Forte: «Dopo una lunga giornata di lavoro, dato che ci trovavamo tutti nello stesso albergo, ci chiedemmo cosa fare. Dovevamo andare a cena e Paolo disse: “Ragazzi, senza che nessuno se ne accorga, facciamoci una passeggiata a piedi”. Naturalmente, lui soffriva, come tutti coloro che si sono trovati nelle medesime condizioni, la limitazione di libertà che lo stato di protezione comportava. Per noi, invece allora era diverso. Ricordo questa lunga passeggiata durante la quale abbiamo attraversato un ponte sul Tevere e ricordo che Paolo, per un momento, aveva dimenticato tutti i problemi del lavoro ed era spensierato e allegro all’idea di fare due passi come tutti gli altri esseri umani». Il giorno dopo Borsellino torna a Palermo. Nel primo pomeriggio di venerdì 17 luglio l’aereo atterra a Punta Raisi. In macchina il giudice tira fuori il suo cellulare e compone un numero di telefono, poi un altro. L’autista riferirà in seguito che il magistrato era “stravolto”. Riuscirà a captare solo poche parole: «Io ho finito, adesso tocca a voi».da “Gli Ultimi Giorni di Paolo Borsellino” di Giorgio Bongiovanni e Lorenzo Baldo
SABATO 13 GIUGNO 1992 – PAOLO BORSELLINO INCONTRA A PALERMO L‟EX-PRESIDENTE FRANCESCO COSSIGA che lo invita a candidarsi alla guida della Superprocura. “Glielo dissi chiaro e tondo – ricostruisce oggi Cossiga – è inutile che si agiti: lei è il successore e l‟erede di Falcone. Lei e nessun altro”
LUNEDÌ 1 GIUGNO 1992 – Alla sera qualcuno suona al campanello della casa di Paolo Borsellino in via Cilea a Palermo. È una processione di carabinieri e poliziotti che vogliono chiedere al giudice una “raccomandazione” per essere annessi alla sua scorta. Ad aprire la porta di casa è Lucia, mentre Borsellino è ancora al lavoro in ufficio. Lucia fa accomodare tutti in salotto. Quando il giudice torna a casa ha però una reazione inaspettata: vede questi estranei in casa, chiama i familiari nella stanza più lontana e comincia a gridare contro di loro perché colpevoli di aver fatto entrare queste persone, non sopporta di vedere gente in casa, è stanchissimo. Solo dopo qualche minuto i familiari riescono a spiegargli il perché di quella inconsueta visita. Borsellino fa in tempo a bloccare il gruppo che, capita l’antifona, sta per andarsene. Il giudice chiede scusa e dà appuntamento per l’indomani in procura: “Parliamone lì ragazzi”, acconsente. «Si parlava di Falcone, delle indagini su Capaci, dei nuovi equilibri dentro Cosa Nostra. Terminiamo di cenare, ed il proprietario del locale si avvicina a Paolo, gli sussurra in un orecchio che il cuoco vorrebbe conoscerlo, nulla di più. Paolo mi sembra imbarazzato dalla insolita richiesta, ma dice di sì. Si alza, va incontro al cuoco, un uomo anziano, dal viso buono. Appena gli stringe la mano, questi si mette a piangere come un bambino. Paolo resta pietrificato per pochi secondi. Poi, commosso, lo abbraccia. I due escono dal ristorante, cominciano a passeggiare parlando fitto fitto, come vecchi amici, in palermitano stretto. “Sai Antonio”, mi racconta in auto mentre rientriamo a Palermo, “stavo per mettermi a piangere anch’io. Ha voluto dirmi che i palermitani onesti, i padri di famiglia, sono al nostro fianco”. Quella cena con i carabinieri, Borsellino, la ricorderà per sempre. La chiamerà “la cena degli onesti”. (Da Capaci a via D’Amelio ricordando i 57 giorni – Venerdì 5 giugno 1992 – Antonio Ingroia racconta che alla sera, durante una cena a Terrasini, organizzata dai carabinieri, il calore delle gente raggiunge Paolo Borsellino in pieno.)
1 LUGLIO 1992– PAOLO BORSELLINO SI RECA A ROMA. HA RICEVUTO NOTIZIA CHE IL PENTITO GASPARE MUTOLO HA DELLE RIVELAZIONI IMPORTANTI DA FARE. Vuole parlare direttamente con Borsellino, l’unico giudice di cui si fida e che considera di integrità morale assoluta. L’interrogatorio “segreto” inizia alle ore 15:00 negli uffici della DIA (Direzione Investigativa Antimafia). Mutolo parla a ruota libera delle commistioni tra mafia e istituzioni. In particolare, fa i nomi del giudice Signorino e del numero tre del SISDe Bruno Contrada. Li definisce “avvicinabili”, ovvero pronti ad obbedire docilmente alle richieste di Cosa Nostra. L’interrogatorio prosegue per circa tre ore fino alle 18:00, quando Paolo Borsellino riceve una chiamata dal Ministero. Gli viene fatto sapere che deve recarsi urgentemente negli uffici del neoministro dell’interno Nicola Mancino. L’interrogatorio viene interrotto. L’avvocato generale di Palermo Vittorio Aliquò accompagna Borsellino “fin sulla porta del ministro”. Alle 18:30 il giudice è negli uffici del Ministero. A sorpresa, però, non ci trova Mancino, ma il capo della Polizia Vincenzo Parisi e Bruno Contrada, personaggio citato poco prima dal pentito. Sempre l’agente del Sisde avrebbe riferito al giudice : “Se gli serve qualcosa a Gaspare fammi sapere”. Ma come faceva a sapere dell’incontro, visto che doveva essere segreto? Alla fine, verso le 19:30, finalmente, compare anche Mancino. La conversazione col ministro dura una mezz’ora. Verso le 20:00 Borsellino torna alla DIA per riprendere l’interrogatorio. Mutolo vede il giudice sconvolto, talmente agitato da accendersi due sigarette alla volta. Gli chiede scherzosamente se non è contento di aver visto il ministro. Borsellino risponde adirato: “Ma quale ministro e ministro! Sono andato dal dottor Parisi e dal dottor Contrada!”. Tornato a casa la sera, la moglie ricorderà di averlo visto vomitare: “Sto vedendo la mafia in diretta”.
ANTONINO CAPONNETTO: Allora dissi: “Paolo, arrivederci a presto”. Non è facile descrivere, né dimenticare lo sguardo che mi dette Paolo […] “Ma sei sicuro” -disse- “Antonio, che ci rivedremo?”. La domanda mi turbò, mi turbò molto, cercai di mascherare il mio turbamento, la volsi un po’ in tono scherzoso: “Ma che stai dicendo, Paolo? Certo che ci rivedremo”. E allora mi abbracciò, ma mi abbracciò con una, con una forza… che mi fece male! Mi strinse, non se ne rendeva conto… ma mi abbracciò come… come a non volersi distaccare, come a volere… tenere avvinto qualcosa di caro e portarselo via. Ecco, quello è stato… lì ho sentito che era l’addio di Paolo.(tratto da un’intervista su Paolo Borsellino)
“IL TRITOLO È ARRIVATO CON UN CARICO DI ”BIONDE”, l’ha scoperto la finanza ed è arrivato per me, Orlando e un ufficiale dei carabinieri”. E’ la rivelazione che Borsellino fa in un giorno di giugno a padre Cesare Rattoballi […] il sacerdote che è diventato suo confidente nelle ultime settimane. Anche in quei giorni di luglio, mentre la città si sta svuotando per le ferie, don Cesare sente il bisogno di andare a far visita all’amico, senza una ragione precisa, guidato dall’affetto o dall’istinto. Il sacerdote è solo, varca il metal detector del Palazzo di giustizia, s’infila nel vecchio ascensore, sale al secondo piano, scivola silenzioso fino in procura. Bussa alla porta di Borsellino. Lo saluta, gli sorride. Si siede di fronte a lui. Non sa ancora che questo sarà il loro ultimo incontro. “Quella mattina non la dimenticherò mai – ricorda il sacerdote – era un giorno di luglio, me ne andai in procura, non ricordo per quale ragione, bussai alla porta di Borsellino, lo salutai, lui mi accolse con un sorriso, ci mettemmo a chiacchierare. Parlammo di tante cose, era sereno, preoccupato solo per il futuro dei suoi ragazzi. A un tratto mi disse: ”Io sono come quello che guarda i quadri, chissà se li potrò più vedere”. Più tardi, quando fui sul punto di andarmene, mi fermò di colpo e mi disse: “Aspetta, prima di andare via mi devi confessare”. E lì, nel suo ufficio, tra le sue carte, si raccolse e si confessò”. Rattoballi non era il suo confessore abituale. ”Paolo – ricostruisce oggi il parroco – sosteneva che il sacramento della riconciliazione si può ottenere da qualsiasi sacerdote, e quindi non aveva un confessore fisso.”. Quella mattina, chiacchierando con don Cesare, l’amico, ma soprattutto il sacerdote, Borsellino coglie al volo l’occasione. Si confessa. Vuole essere purificato. Vuole essere pronto. Palermo, martedì 14 luglio 1992. da “L’Agenda Rossa di Paolo Borsellino” di Giuseppe Lo Bianco – Sandra Rizza
SENZA IL CAMINO FA FREDDO… Pochi giorni prima di essere assassinato Borsellino incontrò lo scrittore Luca Rossi, cui raccontò diversi aneddoti della sua esperienza professionale, fra i quali uno riguardante degli accertamenti che insieme a Falcone aveva condotto in merito ad alcune delle rivelazioni di Tommaso Buscetta, che aveva descritto minuziosamente la villa dei cugini Salvo. Tale descrizione, cruciale per attestare l’attendibilità del teste (e ancora più cruciale dato il ruolo assai rilevante che quest’ultimo stava acquisendo nell’azione complessiva del pool, che su questo spendeva la sua credibilità operativa), parlava di un grande salone che aveva al centro un grande camino. Durante il sopralluogo nella villa, però, quasi tutto corrispondeva al racconto del pentito, meno che il camino, che non c’era. Falcone allora, guardando costernato Borsellino, fece il gesto della pistola alla tempia e gli disse “adesso possiamo spararci tutt’e due”. La discrepanza poteva infatti in rapida successione rendere inattendibile il teste, privare l’impianto dell’indagine di uno dei suoi tasselli centrali, esporre l’intero pool alle accuse già ventilate di approssimazione professionale o, peggio, di intenti persecutori nei confronti di cittadini estranei ai fatti. Borsellino avvicinò il custode della villa e, dopo averci chiacchierato di cose insignificanti, a un certo punto gli chiese per curiosità cosa usassero per scaldarsi d’inverno. Il custode rispose: “Col camino. Ma d’estate lo spostiamo in giardino… Fonte: Wikipedia Riassunto dal relato di Enrico Deaglio, Raccolto rosso: la mafia, l’Italia e poi venne giù tutto, Feltrinelli, 1993
“NON GLI RIFERITE TROPPI PARTICOLARI SULLE INDAGINI CHE STATE SVOLGENDO. NON MI FIDO DI LUI”. “DI LELLO? Sta assittato supra ‘ na cartedda ‘ e munnizza”. La prima frase è di Paolo Borsellino. Era rivolta ai colleghi della procura. L’ uomo di cui Borsellino non si fidava era Pietro Giammanco, il capo della procura. La seconda è di Giammanco. La urlò, battendo i pugni sul tavolo e bestemmiando, ai sostituti che, dopo la strage di Capaci, gli facevano notare come Giuseppe Di Lello, componente storico del pool antimafia, non fosse adeguatamente protetto. Significa “sta seduto su un mucchio di spazzatura”, si usa per indicare chi si dà delle arie. Sono le ultime stoccate inferte a Giammanco dai sostituti ascoltati ieri dal gruppo di lavoro antimafia del Consiglio superiore della magistratura. Che Borsellino non si fidava di Giammanco lo hanno riferito Vittorio Teresi e Antonio Ingroia, due dei dimissionari. La frase di scherno sul conto di Di Lello l’hanno ricordata in parecchi. Di Lello, come giudice per le indagini preliminari, è sovraccaricato di processi di mafia – ricordano i colleghi – ma gira con la “Fiat Uno” guidata dalla moglie, seguita da una macchina blindata. Ma per Giammanco è uno che non merita alcuna attenzione, è un montato. Ieri, le audizioni si sono concluse con Elio Spallitta, uno dei tre aggiunti, cioè dei vice di Giammanco, e con Maria Vittoria Randazzo, Luigi Patronaggio, Maurizio De Lucia e Salvatore De Luca. Ma nell’ aria aleggiava ancora vivissimo il ricordo delle dure parole usate poche ore prima da Maria Falcone, la sorella di Giovanni. “Le sue dichiarazioni sono state fondamentali per capire quale era il clima di quegli anni a Palermo”, dicono molti consiglieri. E Nino Condorelli, relatore della pratica, aggiunge: “Quello che ha detto la testimone è stato molto chiaro. Se Falcone se n’ è andato, preferendo lavorare al ministero, lo ha fatto solo perchè qualcuno lo ha messo in condizione di andarsene. Insomma, Falcone non ce la faceva più a stare a Palermo, dove c’era chi gli impediva di fare il suo dovere fino in fondo”. Martedì non si riunirà più la prima commissione, quella che si occupa dei trasferimenti punitivi dei magistrati, ma la terza, incaricata invece dei trasferimenti a domanda. Si dovrebbe così risolvere senza traumi il problema della procura di Palermo, superando anche l’ ostacolo rappresentato dal fatto che Giammanco è a capo dell’ ufficio che lascerà solo da due anni e non da quattro, periodo minimo previsto dalla legge per poter chiedere uno spostamento ad altra sede. La norma prevede una deroga per gravi motivi e la terza commissione giustificherà la deroga stessa con la drammatica situazione venutasi a creare a Palermo. La pratica passerà una settimana dopo al plenum, che si riunirà anche per bandire ufficialmente il nuovo concorso per la superprocura. Naturalmente, non manca chi vorrebbe lasciare Giammanco dove sta. I consiglieri laici dell’area governativa (Dc, Psi, Psdi) lo difendono, vorrebbero salvarlo, se possibile glorificarlo, magari accompagnando la normalizzazione con il trasferimento degli otto sostituti ribelli. Costoro trovano ampi appoggi fuori del palazzo dei Marescialli. A scendere in campo al fianco di Giammanco è, ad esempio, Cossiga, il quale, intervistato dal Gr1, ricorda che Falcone non volle candidarsi a procuratore capo di Palermo perchè “non avrebbe mai voluto scavalcare un magistrato molto valoroso come Giammanco, che gli aveva sempre dimostrato grande lealtà e solidarietà”. L’ex capo dello Stato ha anche rivendicato a sé l’ idea di portare Falcone a Roma, al ministero. Quanto ai sostituti dimissionari, infine, Cossiga ha detto: “Questi magistrati stanno scappando, dicono, perché non si sentono tutelati dalla polizia. Pensino ai poliziotti che sono morti insieme con i magistrati: è una vergogna”. Per quanto riguarda infine i problemi della sicurezza, oggi il ministro dell’ interno Nicola Mancino e il capo della polizia Vincenzo Parisi incontreranno a palazzo dei Marescialli il vicepresidente del Csm Giovanni Galloni, il presidente e il vicepresidente della commissione riforma, Giuseppe Ruggiero e Giovanni Palombarini. “Stiamo esaminando”, ha detto il ministro “i problemi del potenziamento, del rafforzamento, anche dal punto di vista qualitativo, dei mezzi di protezione oltreché degli uomini che vi sono addetti”. DI GIAMMANCO NON MI FIDO” – Repubblica del 1 agosto 1992.di FRANCO COPPOLA
CHE SCOCCIATURA QUESTE SIRENE… C’era sempre qualcuno che voleva farli spostare un po’ più in là. Un desiderio di rimozione in parte inconscio. Non proprio eliminarli, quegli scoccianti magistrati ma relegarli in un angolo in modo che non dessero fastidio. Non ci ha provato solo la mafia, che pure ha cercato di usare ogni metodo per metterli a tacere prima di ricorrere all’assassinio. In questo la consorteria ha trovato spesso la collaborazione involontaria di cittadini comuni poco interessati alle vicende criminali. La signora Santoro ebbe il suo quarto d’ora di celebrità nell’aprile del 1985, con una lettera sul «Giornale di Sicilia». Sono una onesta cittadina che paga regolarmente le tasse e lavora otto ore al giorno. Vorrei essere aiutata a risolvere il mio problema che, credo, sia quello di tutti gli abitanti della medesima via. Regolarmente tutti i giorni (non c’è sabato e domenica che tenga), al mattino, durante l’ora di pranzo, nel primissimo pomeriggio e la sera (senza limiti d’orario) vengo letteralmente assillata da continue e assordanti sirene di auto della polizia che scortano i vari giudici. Ora io mi domando: è mai possibile che non si possa, eventualmente, riposare un poco nell’intervallo del lavoro o, quantomeno, seguire un programma televisivo in pace, dato che, pure con le finestre chiuse, il rumore delle sirene è molto forte? Mi rivolgo al giornale per chiedere perché non si costruiscono per questi “egregi signori” delle villette alla periferia della città, in modo tale che, da una parte sia tutelata la tranquillità di noi cittadini-lavoratori, dall’altra, soprattutto, l’incolumità di noi tutti che, nel caso di un attentato, siamo regolarmente coinvolti senza ragione (vedi strage Chinnici) (in «Giornale di Sicilia», 14 aprile 1985). Scriveva che ne aveva abbastanza la signora. Abbastanza di quei magistrati sotto scorta che abitavano troppo vicino ai “cittadini-lavoratori”; abbastanza di non poter riposare in pace; abbastanza che nessuno si adoperasse per trovare una soluzione. Eppure era tanto semplice. Per garantire la tranquillità della gente per bene e dare la possibilità ai giudici di lavorare, era sufficiente inviare questi ultimi da qualche parte alla periferia della città. Così non avrebbero più reso le giornate impossibili a quei tranquilli cittadini che desideravano solo di poter vivere in santa pace. Tratto da “Uomini contro la mafia”
QUANDO MUORE IL CAPITANO BASILE, Lucia ha dieci anni, Manfredi otto, Fiammetta sei. Sono i tre figli di Paolo Borsellino. Ricorda sua moglie Agnese: <>. Poi è il finimondo. Paolo Borsellino è il primo magistrato siciliano con una scorta. Tre carabinieri e una sgangherata Alfa Romeo color amaranto che divide con Antonino Gatto, il sostituto procuratore della Repubblica titolare con lui dell’inchiesta sull’uccisione dell’ufficiale dei carabinieri. E’ una tranquilla vita borghese quella che viene sconvolta. Tutta la città è testimone della metamorfosi di un uomo e di un giudice. <>, gli dice qualche amico. <>, lo avvertono alcuni colleghi. Paolo Borsellino scuote la testa, perde il sorriso. Non gli piacciono quei discorsi. Non li manda giù. Sente un groppo in gola. E’ un magistrato, un uomo perbene, ha giurato di far rispettare la legge. Quelle chiacchiere non lo fermano. Ma neanche lui sa ancora in quale fossa si sta per infilare. Né Paolo Borsellino né nessun altro, in quegli ultimi mesi del 1980, può sospettare che dietro a quei tre sicari presi a Monreale ci siano i nuovi capi della mafia siciliana. C’è Totò Riina. (Da -UOMINI SOLI- di Attilio Bolzoni)
LE GIORNATE DI PAOLO BORSELLINO sono pressoché tutte identiche: sveglia alle ore cinque, arrivo in procura alle ore sette, permanenza in ufficio fino alle ore ventuno, rientro a casa, quindi cena e ancora lavoro fino a notte fonda. Questi ritmi così sostenuti si spiegano con una frase che Paolo è solito ripetere ai suoi familiari in quei giorni: <>.Il giudice è convinto che il prossimo obiettivo della mafia sarà lui: egli è l’erede naturale di Giovanni Falcone. Un rapporto dei ROS degli ultimi giorni di giugno segnala l’arrivo a Palermo di un carico di materiale esplosivo; Paolo ha pochi dubbi: il tritolo è per lui e il tempo che ha a disposizione per scoprire la verità sulla strage di Capaci è poco. La morte di Francesca lo ha sconvolto non solamente perché era una sua cara amica, ma anche perché egli vuole evitare che in un possibile attentato contro di lui possano essere coinvolti la moglie, i figli o gli uomini della scorta, che considera come figli adottivi. Per questo motivo Borsellino viola le più elementari norme di sicurezza: la mattina esce di casa da solo, senza scorta, facendo sempre il solito percorso per andare a comprare le sigarette e il giornale; inoltre, inizia a viaggiare da solo sulla sua Fiat Croma blindata, mentre gli uomini della scorta sono stipati dentro l’altra auto blindata. Così facendo il giudice vuole mandare un chiaro segnale ai suoi assassini: se lo vogliono colpire possono farlo quando lui è solo, la mattina a piedi o mentre si sposta in auto per andare in procura o per rientrare a casa la sera. (Paolo Borsellino un eroe semplice di Roberto Rossetti)
CI SAPEVA FARE CON I MAFIOSI PENTITI PAOLO BORSELLINO, così come Giovanni Falcone. Alcuni sostengono che una delle cause del delitto sia stata proprio l’essere vicino a scoprire i mandanti e gli esecutori della strage di Capaci. Voleva continuare a difendere Giovanni Falcone come aveva fatto quando l’amico era vivo. In ogni caso, Paolo Borsellino aveva certamente il senso di andare incontro alla sua morte. Avrebbe potuto cambiare strada, ne avrebbe avuto motivo più che in passato. Rimase per fedeltà a un’amicizia. Il 23 giugno del 1992, a Palermo, nella monumentale basilica di san Domenico, Borsellino tenne uno splendido discorso in memoria dell’amico Falcone, le sue parole, rievocate oggi, hanno ancora un timbro umano inconfondibile. Parlando di Giovanni Falcone, Paolo Borsellino ci parlava di se stesso. Perché non è fuggito, perché ha accettato questa tremenda situazione, perché non si è turbato, perché è stato sempre pronto a rispondere a chiunque della speranza che era in lui? Per amore! la sua vita è stata un atto d’amore verso la sua città, verso la terra che lo ha generato. Perché se l’amore è soprattutto ed essenzialmente dare, per lui, e per coloro che gli sono stati accanto in questa meravigliosa avventura, amare Palermo e la sua gente ha avuto e ha il significato di dare a questa terra qualcosa, tutto ciò che era ed è possibile dare delle nostre forze morali, intellettuali e professionali per rendere migliore la patria cui apparteniamo (da l’agenda rossa di Paolo Borsellino) Borsellino e Falcone sono stati testimoni -è questo il significato del termine <>- di una fede nella giustizia e di una speranza di redenzione che sole, al di là di ogni responsabilità dello Stato, possono cambiare la Sicilia e sconfiggere la mafia. (Vincenzo Ceruso -UOMINI CONTRO LA MAFIA-)
PAOLO BORSELLINO: LA FEDE DI UN UOMO GIUSTO
Per Paolo Borsellino l’attenzione all’uomo veniva prima di tutto. Si trattasse di un amico sincero, di un testimone di giustizia, di un criminale, il giudice ucciso nella strage di via D’Amelio il 19 luglio 1992 assieme ai suoi cinque “angeli custodi” – gli agenti di scorta Emanuela Loi, Claudio Traina, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Agostino Catalano – aveva una parola di sostegno, di incoraggiamento, di rispetto per la persona che aveva davanti. A distanza di 25 anni dalla terribile strage, costellata ancora da troppi misteri e buchi neri, ciò che resta sono i preziosi ricordi custoditi nella memoria di chi lo ha conosciuto nel quotidiano e ne può testimoniare una integrità morale fatta non di gesti eroici, ma di piccole azioni. Il rispetto per l’uomo e per la giustizia prevede che per mandare in carcere un accusato le prove debbano essere di ferro, altrimenti «meglio un criminale fuori che un innocente dentro». È il ricordo di Giovanni Paparcuri, ex autista del giudice istruttore Rocco Chinnici, solo per un caso scampato alla strage di via Federico Pipitone a Palermo, il 29 luglio 1983, diventato poi collaboratore informatico di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino per microfilmare gli atti dell’istruttoria del maxiprocesso a Cosa nostra.
SOLO PROVE CERTE. «Un giorno dobbiamo spiccare il mandato di cattura per alcune persone coinvolte nell’omicidio del capitano Basile. Nella stesura del mandato all’inizio ne sono indicate cinque. Io batto a macchina tutti i fogli, li porto al dottor Borsellino, li riprendo e vedo che la quinta persona è depennata. Penso a un errore, così riscrivo quella pagina e gliela riporto. Ma lui toglie di nuovo quel nome. A un certo punto, si alza e viene nella mia stanza: “Insomma, a cosa stiamo giocando? Giovanni, questo non lo devo arrestare. Se le prove non reggono al dibattimento, che figura facciamo?”. Lo guardo negli occhi, capisco cosa vuole dire». Quando Paparcuri racconta questo episodio al figlio del giudice, Manfredi Borsellino, oggi commissario di Polizia, questi lo ringrazia: «Hai fatto bene a dirmelo, perché episodi come questo mi fanno capire che mio padre non era forcaiolo». Un senso fortissimo della giustizia che tocca anche chi è al di fuori di quel mondo di fascicoli e leggi. «Forse l’eredità che mi ha lasciato Paolo è proprio il suo credere nella giustizia. Non ha mai infierito sulle persone, pur facendo bene il suo lavoro», osserva il cardiologo Pietro Di Pasquale, da cui quel terribile pomeriggio del 1992 il giudice doveva accompagnare la madre che aveva problemi al cuore. E don Cesare Rattoballi, parroco di periferia che nell’ultimo periodo fu molto vicino al giudice: «Vedo ancora gli occhi e il sorriso di Paolo, la conferma della sua vicinanza: un sorriso di accoglienza. Borsellino non tratta nessuno come un illustre sconosciuto. Ha una cordialità che mette a proprio agio, come se ti conoscesse da sempre».
FEDE E RISERVATEZZA Una cura per l’altro che probabilmente era frutto della sua profonda fede cristiana, mai ostentata, eppure vissuta ogni giorno, alimentata dalla partecipazione alla Messa domenicale, dalle assidue confessioni, dai colloqui con alcuni sacerdoti nei momenti più difficili della sua esistenza. Una voce “laica” come quella del suo giovanissimo sostituto alla procura di Marsala, alla metà degli anni Ottanta, Diego Cavaliero, lo descrive con efficacia: «Credo che la fede lo abbia aiutato in quello che è il concetto di morale, che va anche al di là della religione, ma individua ciò che è giusto o sbagliato in senso assoluto. Borsellino era credente, cattolico praticante, ciò gli indicava la strada nell’applicazione della pietas cristiana, nel rispetto dell’altro, perché Paolo era convinto che dietro a ogni imputato ci sia un uomo che va anche rispettato. La fede non faceva altro che rafforzare la sua personalità votata alla ricerca del rapporto con l’altro. Il suo rapporto con la fede era intimo. È certamente un uomo di misericordia». La domenica mattina, alla prima Messa delle 8.30 di Santa Luisa di Marillac, il dottor Borsellino manca raramente, proclama quasi sempre una delle letture. Oltre ai numerosi abitanti di questa zona residenziale, ne è testimone monsignor Francesco Ficarrotta, dal 1979 al novembre 1991 guida della parrocchia che si trova proprio davanti all’alto condominio di via Cilea in cui vive il giudice con moglie e figli. «Un giorno mi confessa il rammarico per non avere la forza, quando gli capita di partecipare ai funerali di uomini importanti, magari uccisi dalla mafia, di disporsi in fila per ricevere la Comunione», spiega Ficarrotta. «Vuole evitare di mettersi in mostra, ma così, e questo è il suo cruccio, non dà la giusta testimonianza di cristiano. Borsellino è veramente un uomo di fede» continua l’ex parroco.
PRONTO AL SACRIFICIO. Don Cosimo Scordato, rettore della chiesa di San Francesco Saverio all’Albergheria, un antichissimo quartiere del centro storico di Palermo, riesce a catturare un altro aspetto di questa figura di magistrato cristiano, ucciso a causa della giustizia. Di tanto in tanto, il giudice fa capolino all’Albergheria, attirato dall’intensa attività di volontariato che la figlia più piccola, Fiammetta, svolge con i bambini più poveri del quartiere. «In realtà, incontro Paolo in occasioni molto disparate. Ricordo un evento in particolare. Siamo negli anni Ottanta e stiamo celebrando i venticinque anni di matrimonio di un suo cugino omonimo, Paolo Borsellino», racconta don Cosimo. «Dopo la Messa, molto partecipata, andiamo a festeggiare tutti insieme. In quell’occasione ho scoperto che il giudice Paolo è una persona di grande carattere, ha voglia di divertirsi». Una ricchezza d’animo che don Cosimo impara a conoscere poco a poco. «Alcune volte Paolo si reca a San Saverio per partecipare alla Messa domenicale. Si siede quasi in fondo, durante la consacrazione, è tra i pochissimi fedeli a mettersi sempre in ginocchio. Rientra tra quelle persone il cui cammino di fede è segnato da un incontro particolare, magari un parroco, qualcuno che diventa determinante non per i tanti discorsi ma perché va all’essenziale. La dimensione religiosa la intravedo come il dato unificante della sua vita. E, nell’osservarlo, mi fa piacere vedere come quella persona riesca a tenere uniti due aspetti della sua vita apparentemente così lontani, ma invece vicinissimi. Sa essere un ragazzone scherzoso, che diverte con tutta la sua verve, e insieme un uomo con un’interiorità profonda». Il giorno prima della strage don Rattoballi incontra il magistrato al Palazzo di giustizia. Quello che si trova davanti è un uomo che ha consapevolezza di andare incontro all’estremo sacrificio: «Vado a trovarlo in Procura alla vigilia della sua morte e, dopo un lungo colloquio, mi dice: “Fermati, voglio confessarmi. Vedi, mi sto preparando”. Aveva un senso profondo di ciò che doveva accadere».
GLI AGENTI DELLA SCORTA. Nell’attentato di via D’Amelio insieme a Paolo Borsellino morirono cinque agenti di età compresa tra i 22 e i 43 anni. Tra le vittime, anche la prima donna a cadere in servizio nella Polizia italiana. Solo un poliziotto si salvò. Altre 23 persone rimasero gravemente ferite. Come mandante, insieme a numerosi altri mafiosi, è stato condannato Totò Riina.
Alessandra Turrisi 13/07/2017 FAMIGLIA CRISTIANA
ROCCO CHINNICI E BORSELLINO – Rocco Chinnici è uno di famiglia. Arriva a casa loro senza annunciarsi. E’ affettuoso, protettivo. Per Lucia, la primogenita di Paolo e Agnese, è come uno zio. La settimana prima, è andata con Chinnici e sua figlia Caterina in gita a Pantelleria in elicottero. Borsellino si ritrova ormai circondato da cadaveri. Boris Giuliano. Emanuele Basile. Mario D’Aleo. Rocco Chinnici. Si rintana nel Bunker con Giovanni Falcone, con Leonardo Guarnotta. Si immerge nelle indagini. Affoga fra le sue carte. Ha un debito d’amore verso gli amici che non ci sono più e verso se stesso. “Chi te lo fa fare..”? continuano a ripetergli conoscenti e colleghi. Taglia rapporti, seleziona le frequentazioni, si fa sempre più guardingo. Si tiene vicino solo gli amici veri. E’ un uomo diritto Paolo Borsellino, ha il culto della parola data, il senso dell’onore, è leale, generoso, sanguigno. L’uccisione di Rocco Chinnici l’ha scaraventato in una Palermo sempre più minacciosa che nasconde tanti tradimenti. Sfila come testimone davanti ai suoi colleghi di Caltanissetta che indagano sulla morte del consigliere istruttore, racconta gli ultimi giorni di Rocco Chinnici, trascina gli esattori Nino e Ignazio Salvo in un vortice. E’ solo anche in quel momento. Molti magistrati palermitani “dimenticano” quello che aveva in mente Chinnici, le sue indagini sui potenti cugini di Salemi, la sua intenzione di indagarli per mafia. Borsellino riferisce ogni dettaglio, spiega tutto. Palermo l’ha indurito, vive nel dolore. I suoi figli stanno crescendo in una città che non riconosce più. Lo sa che rischia lui e anche la sua famiglia. Ma Paolo Borsellino ha passione, sentimenti forti, resiste a ogni compromesso, è di una semplicità disarmante, vero, colto, capace di parlare per mezz’ora in un siciliano strettissimo e poi, all’improvviso, di recitare a memoria il Paradiso o i versi di Goethe sulla sua Palermo in tedesco. E’ un uomo che ha paura per sé e per i suoi figli ma non arretra mai. Non ci pensa un solo istante a mollare. E finisce giù anche lui. Muore neanche due mesi dopo la strage di Capaci. Come Giovanni Falcone, Paolo Borsellino viene dalla Kalsa. Da bambini hanno abitato a pochi passi l’uno dall’altro. (da -UOMINI SOLI- di Attilio Bolzoni)
Le autopsie “raccontano” l’atrocità del massacro Meno di due mesi dopo la strage di Capaci, si verificava un’altra azione terroristica per diffondere il terrore tra la popolazione e riaffermare nel modo più violento il potere di “Cosa Nostra”, con l’eliminazione del magistrato che era divenuto un grande punto di riferimento ideale per tutto il Paese «A poche ore dal fatto, il 20.7.1992 alle 00.25, il Pubblico Ministero di Caltanissetta in persona dei dott. Giovanni TINEBRA, Francesco Paolo GIORDANO e Francesco POLINO, ai sensi dell’art. 360 C.P.P., aveva affidato incarico di consulenza tecnica autoptica sui cadaveri delle vittime della strage a un collegio di esperti medici legali, costituito dal dott. Paolo PROCACCIANTE (rectius Procaccianti: n.d.e.), Direttore dell’Istituto di Medicina Legale dell’Università di Palermo, e dai dott. Livio MILONE e Antonina ARGO, assistenti nel predetto Istituto. L’ispezione esterna dei cadaveri e l’esame autoptico dei medesimi, per la determinazione delle cause della morte, sono stati effettuati nell’immediatezza del conferimento dell’incarico, come appare dai relativi verbali e relazioni autoptiche. Il cadavere di Paolo BORSELLINO, trovato con indosso una cintura in cuoio marrone con frammento in stoffa, residuo della cintola dei pantaloni e frammento di stoffa di cotone verde, residuo di maglietta tipo “polo”, si presentava depezzato, risultando assenti l’arto superiore destro ed entrambi gli arti inferiori. All’esame esterno si rilevava vasta area di ustione su buona parte dell’addome e del torace, nonché al viso, con colorito nerastro sulle regioni frontali e parietali. Al capo si riscontrava soluzione di continuo lineare interessante il cuoio capelluto dalla regione frontale al padiglione auricolare destro, con distacco pressoché completo del padiglione stesso ed esposizione del condotto uditivo e della sottostante teca cranica; ferita all’arcata sopraciliare destra, frattura alle ossa nasali, ampia ferita lacero-contusa al cuoio capelluto. Inoltre, si riscontrava asimmetria dell’emitorace destro con spianamento della regione mammaria, e fratture costali multiple; deformazione del profilo dell’addome; squarcio perineale; numerose soluzioni di continuo alla superficie cutanea del dorso. L’esame con il “metal-detector” rilevava in varie sedi la presenza di numerosi frammenti metallici di varie dimensioni, ritenuti superficialmente sino ai piani muscolari, in particolare rinvenuti al capo in regione temporo-occipitale e al dorso in regione lombare. Unitamente al cadavere si rinvenivano altri residui umani, verosimilmente appartenuti al medesimo, elencati e descritti nella relazione autoptica agli atti. I medici legali concludevano che il decesso di Paolo BORSELLINO era stato determinato “da imponenti lesioni cranio-encefaliche e toraco-addominali da esplosione”.
“Una nota riservata del comandante generale dell’Arma dei carabinieri, indirizzata al direttore del servizio segreto militare il 20 giugno 1992, certifica che a quella data c’erano precisi segnali sul successivo bersaglio di Cosa nostra: il procuratore aggiunto di Palermo Paolo Borsellino, per l’appunto, che «correrebbe seri pericoli per la sua incolumità a causa delle ultime inchieste sulla mafia trapanese che, fortemente colpita dai recenti successi investigativi, ha di molto ridotto la propria credibilità in seno ai vertici dell’organizzazione». Tratto da Corriere della Sera del 25.10.2014
“Non era un eroe, ma un uomo che non scendeva a compromessi”. – RITA BORSELLINO
Il Paolo Borsellino che è vivo nella mente di Alfio Lo Presti è il trentacinquenne giovane e brillante magistrato degli anni Settanta ancora senza troppi problemi sulle spalle. «Paolo è sempre rimasto tale e quale agli anni della gioventù, un uomo semplice. Gli piaceva stare con gli amici, a casa sua si mangiava in cucina il sabato sera, mai nella sala da pranzo, almeno tra di noi. Si parlava di politica, di calcio, gli piaceva stuzzicare suo figlio Manfredi che era interista e gli diceva che lui era milanista. Gli piaceva mangiare e bere, mangiava di tutto, ma anche questo con una certa sobrietà. Cucinare no, mai, anzi a casa era sbadato e pasticcione. E le rare volte che andavamo a cena fuori preferiva sempre le trattorie alla buona. La sua preferita si trovava in via Discesa dei Giudici, dove mangiava sempre bollito e involtini. Ogni tanto aveva dei battibecchi con Agnese. Magari lei, da donna, avrebbe preferito qualche volta prendere parte a ricevimenti, manifestazioni ufficiali dove erano invitati, ma lui non ci voleva andare assolutamente. Non amava queste mondanità e diceva che quello era un ambiente ipocrita e falso. Tantomeno andava a casa delle persone che lo invitavano, tranne gli amici veri naturalmente. Sfido qualcuno a dire di avere avuto Paolo ospite». Da “Visti da Vicino. Falcone e Borsellino gli Uomini e gli Eroi” di Francesco Viviano e Alessandra Ziniti.
[…] Era stato proprio Borsellino, da Procuratore della Repubblica di Marsala, a lanciare un allarme nel 1988, quando aveva cercato di sventare il tentativo di scompaginare il pool lasciato da Antonino Caponnetto: «Giungono inquietanti segnali di disarmo delle strutture giudiziarie che avevano cosi efficacemente espletato questa necessaria attività di supplenza…». Soffocate le legittime aspirazioni alla guida del pool da parte di Falcone, il CSM aveva nominato alla guida dell’ufficio il giudice Antonino Meli. E Borsellino poneva domande precise: «Il pool di Palermo svolge ancora il suo ruolo di punto di riferimento obbligato su ogni indagine su Cosa Nostra? Le trasformazioni personali che esso ha subito, specie nella direzione, hanno consentito quanto meno la continuità del lavoro?». Da. “Oltre il Buio”, di Rosaria Costa Schifani e Felice Cavallaro.
Borsellino arriva in famiglia nel tardo pomeriggio, teso, nervoso. A casa, però, trova spazio per un momento di ottimismo. Dice a Manfredi: «Sento che il cerchio attorno a Riina sta per chiudersi, stavolta lo prendiamo». Non fa il nome di Mutolo, non può farlo, ma confida a suo figlio che c’è un nuovo pentito, uno che sa tante cose, che ha fatto rivelazioni su uomini d’onore vicini a Riina. Ma c’è di più, anche se quel di più Manfredi lo verrà a sapere solo dopo: il giorno precedente, Mutolo ha promesso di verbalizzare le accuse su Contrada e Signorino. Ecco perché Borsellino è così nervoso. A un tratto propone ad Agnese: «Andiamo a Villagrazia, ho bisogno di un po’ d’aria, ma senza scorta, da soli». Agnese è stupita. «Da soli? Paolo, cosa c’è? È successo qualcosa?». «Andiamo», ordina. La moglie lo conosce, lo segue. In macchina, in silenzio, mentre cala la sera, Agnese lo guarda, capisce che è tormentato da mille angosce, mille dubbi. Riesce a fargli ammettere che qualcosa è successo: Mutolo ha parlato, ha detto cose gravissime, ha accusato personaggi al di sopra di ogni sospetto. Paolo è sconvolto, confida ad Agnese che alla fine dell’interrogatorio era cosi traumatizzato da avere addirittura vomitato. «Stavo malissimo» dice. Anni dopo, Agnese, sentita come teste nel processo Borsellino ter, ricorda: «Mutolo gli aveva annunciato che avrebbe dovuto parlare di Signorino, però mio marito ha detto pure: “Se ne riparla la prossima settimana, perché è tardi e dobbiamo […] abbiamo chiuso già il verbale, dunque se ne riparlerà lunedì”». La moglie di Borsellino afferma che Paolo quella sera non fa altri nomi. E lei non insiste con le domande, cogliendo il suo profondo turbamento. «Non gli ho fatto altre domande, sapevo che avrebbe significato ferirlo ancora di più. Capivo che dentro di lui provava un dolore immenso». Che ha detto di così sconvolgente Mutolo a Borsellino? Ha parlato solo di Contrada e Signorino? Ha parlato d’altro. Da “L’Agenda Rossa di Paolo Borsellino” di Sandra Rizza e Giuseppe Lo Bianco.
La farmacia è lì dalla fine dell’Ottocento Il palazzo dove vivono è proprio di fronte, in via della Vetreria. Al piano nobile ci sono i padroni, i marchesi Salvo, al secondo piano c’è la loro casa. Dieci stanze, pavimenti con i mosaici, soffitti altissimi, un grande terrazzo dal quale si scorge il mare del Foro Italico. Diego Borsellino e Maria Lepanto si sposano nel 1935. Nello stesso anno si ritrovano tutti e due dietro il bancone di legno della farmacia. Nel 1938 la prima figlia, Adele. Nel 1940 nasce Paolo. Nel 1942 Salvatore. Nel 1945 arriva Rita. È una famiglia rispettata alla Magione, quella dei Borsellino. […] Cominciano però i tempi duri, alla Kalsa. Quello che più di mille anni prima era approdo di emiri e condottieri, ora è un quartiere sopravvissuto ai bombardamenti. Paolo Borsellino cresce in una Palermo che fa fatica ad uscire dalla miseria. La farmacia di via della Vetreria non ha più i clienti di una volta, i Borsellino cambiano casa. Vanno ad abitare in una più piccola, in via Roma. Si laurea nel 1962. Quell’anno muore suo padre. Lo vede spegnersi. Paolo Borsellino ha ventidue anni. La farmacia ha bisogno di un titolare ma in famiglia non c’è. Viene data in affitto per una cifra bassissima, in attesa che la sorella Rita prenda la laurea in Farmacia. È un periodo difficile, di sacrifici . Da “Uomini Soli” di Attilio Bolzoni.
IL VALORE DELL’AMICIZIA PER PAOLO BORSELLINO «Eccola , è la sentenza di rinvio giudizio del maxi processo a Cosa Nostra», mi dice con una punta di orgoglio. «Quanto lavoro , quanta fatica , quanta passione , lacrime e sacrifici sono legati a quel processo», ripete. «Dalle pagine del “Maxi”, dai mille retro scena ad esso legati , ho avuto la certezza che la nuova mafia nasce qui , in provincia . Dei capimafia che la governano sappiamo ormai molto; sui loro sottoposti, “i sottopancia” li chiamano in gergo, c’è il buio totale. La stagione del maxi processo è finita , e io sono venuto a Marsala in cerca di nuovi stimoli , nuove frontiere. Con una certezza: gli anni del “maxi” continueranno seguirmi anche in questa Procura . Mazara , Partanna , Campobello , Salemi: è qui , nei paesi che ricadono sotto la mia competenza , la Roccaforte di cosa Nostra . Clan che con le cosche di Palermo , coi corleonesi di Totò Riina , hanno legame saldissimo: che io cercherò di recidere». La poltrona di pelle nera dove sono seduto , alla destra della sua scrivania , diventa da quel giorno la «mia» poltrona . Cominciamo a parlare un po’ anche di noi . Anzi , per la verità , io quasi non riesco ad aprire bocca . È lui che racconta. […] Così , dopo ogni incontro , dopo ogni cena con i suoi sostituti che arrivano o partono verso le città d’origine , diventiamo ogni giorno un po’ più amici . Ognuno nel rispetto del proprio ruolo , con un patto stipulato dopo un tacito accordo: il giornalista può cercare tutte le notizie che vuole , porre tutte le domande che crede , anche le più insidiose . Ma una sua frase , sempre la stessa , accompagnata da un suo gesto , sempre lo stesso , indica che il taccuino va chiuso: ogni confidenza , da quel momento in poi , non potrà essere usata per un articolo . Un «allora vabbene», con una marcata cadenza palermitana, le due «b» pronunciate tutto d’un fiato, è la parola d’ordine; i palmi delle mani che si poggiano sulla superficie della scrivania la conferma che tanto basta. Estratto da “Paolo Borsellino” di Umberto Lucentini, edizioni San Paolo.
Perché non è fuggito, perché ha accettato questa tremenda situazione, perché è stato sempre pronto a rispondere a chiunque della speranza che era lui? Per amore! La sua vita è stata un atto d’amore verso questa sua città, verso questa terra che lo ha generato. Perché se l’amore è soprattutto ed essenzialmente dare, per lui, e per coloro che gli sono stati accanto in questa meravigliosa avventura, amare Palermo e la sua gente ha avuto e ha il significato di dare a questa terra qualcosa, tutto ciò che era ed è possibile dare delle nostre forze morali, intellettuali e professionali per rendere migliore questa città e la patria cui apparteniamo. (G. Lo Bianco-S.Rizza, L’agenda rossa di Paolo Borsellino)
LE SUE DIFFOCOLTÁ E LE SUE SOFFERENZE – Le difficoltà professionali, e anche quelle personali, di Paolo Borsellino iniziarono il 4 maggio 1980. Quel giorno fu ucciso l’ufficiale dei carabinieri Emanuele Basile, che fu un collega e anche un grande amico di Borsellino. Dopo la sua morte, a Borsellino furono assegnate delle guardie del corpo, per una maggiore sicurezza. La morte di Rocco Chinnici fu un evento ugualmente difficile per Paolo Borsellino e anche per la sua famiglia. Manfredi Borsellino, riguardo alla morte di Rocco Chinnici, sostenne che: “La strage ha sicuramente segnato per mio padre e la sua famiglia un punto di non ritorno” All’inizio del 1987, Leonardo Sciascia scrisse un articolo contro la nomina di Paolo Borsellino a Capo della procura di Marsala. Quest’articolo fu all’origine di numerose polemiche riguardo ai professionisti dell’antimafia, come, infatti, era intitolato l’articolo di Sciascia59. Leonardo Sciascia era lo scrittore preferito di Borsellino, che percepì l’articolo come un duro attacco nei suoi confronti e una fonte di grande sofferenza. Nel suo articolo, Sciascia sosteneva che alcune persone stavano ricavando un personale tornaconto dallo scontro con la mafia siciliana: a suo avviso, una di queste era proprio Borsellino. Sciascia, inoltre, affermava che il nuovo Procuratore della Repubblica aveva ottenuto il posto grazie si molti incarichi ottenuti in precedenza. Sarebbe invece stato preferibile nominare Giuseppe Alcamo, il quale, secondo Sciascia, era più adatto a ricoprire questo incarico, data la sua maggiore anzianità. Il 23 maggio 1992, giorno in cui fu ucciso Giovanni Falcone, fu una data che provocò molta sofferenza a Paolo Borsellino. Egli non perse solo un collega di lavoro, ma anche un carissimo amico che si trovava nella sua stessa situazione professionale. Borsellino si ritrovò da solo e, di conseguenza, si sentì come un cadavere ambulante. Anche se si sentì intimorito da tutta questa situazione, egli riconobbe sempre i pericoli e le conseguenze del suo mestiere e, con questo suo atteggiamento, dimostrò molto coraggio. La morte di Falcone lo intimidì, ma nonostante ciò non si lasciò mai scoraggiare e continuò sempre a lavorare con il massimo impegno. Avrebbe voluto indagare sulla morte del suo amico, anche perché ciò lo avrebbe aiutato a colmare la sua sofferenza; però non gli fu possibile farlo in quanto la Procura di Palermo non era responsabile delle investigazioni sulla strage di Capaci. Trascorse molto tempo a esaminare e a valutare i fatti della strage e persino alcune conversazioni con Giovanni Falcone, risalenti al periodo immediatamente precedente alla disgrazia: queste gli fornirono alcune certezze riguardo alla dinamica di quell’evento disastroso. Borsellino continuò a cercare di scoprire qualcosa riguardo alla strage di Capaci e, nonostante i tanti momenti di sconforto, ci fu qualcosa che lo indusse a perseverare: il senso che la popolazione siciliana fosse con lui e con tutti i giudici onesti. In seguito alla strage di Capaci, Borsellino fu segnalato come la successiva vittima di Cosa Nostra. I segnali sul suo destino continuarono ad aumentare e nei corridoi dei penitenziari lo si diede già per morto. Ciò fu sostenuto dal maresciallo Antonio Lombardo, il quale si recò nella prigione di Fossombrone per interrogare Girolamo d’Adda, un detenuto, sull’esplosione di Capaci61. Il magistrato, a un mese dalla morte di Falcone, chiese a Mario Mori e Beppe De Donno, due ufficiali dei carabinieri, di cominciare un’investigazione segreta, guidata solo da lui, sui collegamenti tra mafia e appalti. Secondo questi due ufficiali, Borsellino prese questa decisione perché riteneva che i rapporti tra mafia e appalti potessero essere tra i motivi principali della strage di Capaci62. Ufficialmente, egli non poteva avviare alcuna indagine in tale direzione, dato che come procuratore aggiunto era responsabile solo delle cittadine di Trapani e Agrigento. Il permesso d’investigare sulla Cosa Nostra palermitana arrivò solo la mattina del giorno della morte del giudice Borsellino. Tuttavia, ad Antonio Ingroia sembrò strano che Borsellino fosse certo che la causa della morte di Falcone era proprio la connessione tra mafia e appalti. Oltre alle difficoltà professionali, alla morte del collega e al fatto di essere un bersaglio della mafia, Borsellino aveva un altro problema di cui si doveva preoccupare. Quest’altra fonte di malumore fu per Paolo Borsellino la decisione del Movimento Sociale Italiano di nominarlo Presidente della Repubblica. Egli venne informato di questa decisione da Guido Lo Porto, amministratore del partito e suo amico. Borsellino fu grato della fiducia che il partito mostrava nei suoi confronti, però a suo avviso sarebbe stato necessario scegliere persone maggiormente adatte alla politica e non fare delle mosse dimostrative. Ciò nonostante, il partito lo nominò ugualmente, andando così contro il desiderio di Borsellino; azione che il magistrato non apprezzò per niente. Dopo la morte di Falcone, arrivò anche la candidatura di Borsellino alla carica di Superprocuratore. In seguito alla strage di Capaci, il ministro di Grazia e Giustizia, Claudio Martelli, decise di rinviare la scadenza per la presentazione delle candidature a capo della Superprocura, per dare ad altri magistrati la possibilità di partecipare al concorso: Bisogna riaprire i termini del concorso alla carica di superprocuratore. Ci sono decine di magistrati validi e capaci che non avevano presentato domanda per concorrere alla carica. Non lo avevano fatto perché davano per scontato che nessuno meglio di Falcone fosse adatto per quel ruolo. È necessario dare la possibilità di concorrere. Il ministro degli interni, Vincenzo Scotti, a nome anche del ministro Martelli, volle proporre Paolo Borsellino per la carica di superprocuratore. Questa proposta fu imprevista persino per Borsellino che accolse questa candidatura indesiderata con un silenzio colmo di rabbia e di dispiacere. Egli sentì che candidarsi al ruolo di capo della Superprocura e, di conseguenza, diventare il successore di Giovanni Falcone, sarebbe stata, come poi si rivelò, una mossa rischiosa, che lo avrebbe messo in prima linea nella lotta antimafia e che, di fatto, lo avrebbe designato come la vittima successiva. Al contrario di ciò che sostenne il ministro Scotti, Claudio Martelli disse di non aver raccomandato alcuna nomina, ribadendo di aver soltanto proposto al Csm di attivare nuovamente le scadenze per altre possibili candidature. Il ministro Scotti, intervistato a tal proposito, ribadì di non aver presentato nessuna candidatura; egli sembrò solo cercare di convincere Borsellino a candidarsi65. Ingroia fu tra le persone contrarie alla nomina di Borsellino a capo della Superprocura, perché aveva il timore che ciò lo avrebbe reso ancora più vulnerabile. Riguardo alla candidatura di Borsellino a superprocuratore, Giuseppe di Lello commentò che questa nomina avrebbe rappresentato una minaccia per la mafia, ma aggiunse che Borsellino era un incomodo per i mafiosi anche a Palermo e ciò poteva essere la ragione per cui ebbero tanta urgenza di liberarsi di lui. Borsellino, dal canto suo, si considerava come un testimone e fu consapevole di certe situazioni che decise di rivelare soltanto all‟autorità giudiziaria. Tuttavia, non sapremo mai a quali situazioni si stava riferendo, dato che non ebbe mai l‟opportunità di riferirli all‟autorità giudiziaria prima della sua morte. Quando la sorella di Borsellino, Rita, venne a sapere di ciò, non capì il modo di agire del fratello; anche sua moglie, Agnese, rimase confusa tanto da arrivare a dire: “Se fa così, lo ammazzano”67. Durante quei giorni Borsellino lavorò moltissimo, senza un momento di pace, tanto da dimenticarsi quasi della propria famiglia. Il 28 giugno 1992 all‟aeroporto di Fiumicino, Borsellino incontrò per caso il ministro della Difesa, Salvo Andò, il quale lo informò che entrambi erano stati individuati come i prossimi probabili bersagli di un attacco mafioso, secondo un‟informativa del Ros mandata alla Procura di Palermo. Questa informazione colse il giudice totalmente alla sprovvista, anche perché Pietro Giammanco, capo della procura di Palermo, non gli aveva comunicato niente a tal proposito. Dopo quell‟evento, si recò immediatamente presso la procura per ottenere delle spiegazioni da Giammanco. Borsellino aveva tutto il diritto di conoscere le minacce espresse nei suoi confronti e anche di essere a conoscenza di altre informazioni che lo riguardava. Il procuratore Giammanco gli rispose precisamente che la competenza era di Caltanissetta: una risposta non molto gradita dal giudice. Il 13 luglio 1992, il magistrato rivelò a una sua guardia del corpo che a Palermo era arrivato l‟esplosivo destinato a lui e anche il suo desiderio di non coinvolgere nessuno. Borsellino era sconvolto da questa sua consapevolezza. Informò anche Don Cesare Rattoballi, cugino di Rosaria Schifani (vedova di uno degli agenti morti nella strage di Capaci), dicendogli che il tritolo era destinato a lui, a Leoluca Orlando e ad un ufficiale dei carabinieri, secondo quanto fu appreso dalla Guardia di finanza. Padre Rattoballi andò a visitare Borsellino alla procura ed egli colse quest‟opportunità per confessarsi, poiché volle redimersi prima che gli potesse accadere qualcosa. Il 19 luglio, il magistrato confidò anche al suo amico Pippo Tricoli dell‟esplosivo e fu questo il momento in cui Borsellino fu davvero consapevole di essere completamente abbandonato. Nei suoi ultimi giorni, Paolo Borsellino lavorò senza mai fermarsi, dicendo a sua moglie della sua “corsa contro il tempo”69. Egli volle arrivare alla verità nascosta dietro la morte di Giovanni Falcone prima che gli accadesse qualcosa, perché sapeva che non gli rimaneva molto tempo da vivere. Una verità, che sfortunatamente, non raggiungerà mai. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino: due eroi contro la Mafia Jessica Sacco B.A. (Hons.) June 2013 UNIVERSITÀ DI MALTA
LE SIGARETTE DI BORSELLINO – Siamo pronti a scendere. Con un gesto indico ai ragazzi di precederci, di bonificare la zona e seguirci nel percorso fino a piazza della Libertà, a Roma, nell’edificio che aveva già ospitato l’Alto commissario antimafia. Sono giorni che non ci muoviamo dall’appartamento. Così, con tranquillità, entro nell’autocivetta con Gaspare Mutolo. Faccio il percorso ripassando in testa il film dei racconti del pentito che mi aveva fatto in quelle lunghe settimane stipati nell’appartamento che avevo predisposto per custodire il pentito. Lui poteva costituire la svolta, era una delle memorie storiche di Cosa nostra. Ad aspettarci c’è Paolo Borsellino. Non ci vedevamo da quasi dieci anni. Quando arrivo e lo vedo, non dico una sola parola. Ci stringiamo la mano e subito dopo ci abbracciamo. Siamo rimasti in silenzio a guardarci negli occhi per un po’. Non c’era bisogno di aggiungere niente, sapevamo che il nostro compito era molto gravoso: dovevamo dare un nome agli autori della strage di Capaci. Bisognava mettersi al lavoro, immediatamente. C’era una strana sensazione diffusa, come se a disposizione avessimo veramente poco tempo. Borsellino poi mi ha presentato i suoi due colleghi, Gioacchino Natoli e Guido Lo Forte. Ci sediamo intorno alla scrivania, tutto è pronto per l’interrogatorio e Mutolo comincia a lamentarsi. Dice che non gli va bene la presenza degli altri due magistrati, che vuole parlare solo con Borsellino. Ed ecco che il magistrato, che stava leggendo alcuni appunti sulla sua agenda rossa, alza lo sguardo, si toglie gli occhiali e dice con decisione: «Questi due miei colleghi sono come i miei figli». Il tono della sua voce dice molto più delle sue parole. Mutolo non accenna neanche a continuare le sue rimostranze, così possiamo procedere senza che il pentito si lamenti oltre. Paolo Borsellino aveva l’abitudine di pianificare gli interrogatori secondo uno schema: prima l’organigramma di Cosa nostra, poi gli omicidi, infine le collusioni con le istituzioni. Del resto era la stessa metodologia usata dal giudice Giovanni Falcone, quando abbiamo interrogato Totuccio Contorno e Francesco Marino Mannoia. Un aspetto chiarito a me e a Mutolo, che valeva per ogni interrogatorio, fino all’ultimo, quello del 17 luglio 1992, due giorni prima della strage di via D’Amelio. Eravamo sempre a Roma, questa volta in via Carlo Fea. Mutolo parlava ormai da ore. La stanchezza era così tanta che neanche la sentivamo più. A un certo punto interviene Natoli, vuole i nomi dei collusi nelle istituzioni. Mutolo non tentenna neanche un secondo e li caccia fuori. Dice: «Bruno Contrada, il giudice Signorino… ». Borsellino si infuria. Non era quello il momento. Dice a Mutolo di tacere. Era furioso, preoccupato, nervoso. Tanto da accendere una sigaretta, mentre un’altra accesa era ancora appoggiata sul posacenere. A me li aveva già fatti quei nomi, ma facevano parte di quei segreti che ero chiamato a custodire, almeno fino a quando non fossero diventati dichiarazioni ufficiali. Io pure mi sono incazzato. Mutolo stava disattendendo il programma, così, per istinto, gli ho dato un calcio sugli stinchi. Il rumore sordo del colpo è riecheggiato nella stanza ancora assorta su tutto quanto significassero quei nomi. Il numero tre del servizio segreto civile, Bruno Contrada, e un collega di Borsellino, Natoli e Lo Forte: Domenico Signorino, pubblico ministero al maxiprocesso di Palermo a Cosa nostra. Roba da fare accapponare la pelle. Mutolo li doveva fare quei nomi, ma solo quando Borsellino glieli avrebbe chiesti. Doveva rispettare le regole, ormai era un ex mafioso, doveva sottostare alla legge. E io dovevo farglielo capire. Io li conosco bene gli uomini d’onore. Sono nato e cresciuto a Palermo, nella borgata di Acqua dei Corsari, porta d’ingresso orientale della città e, allo stesso tempo, periferia estrema. Mutolo era solo l’ennesimo pentito che veniva affidato alle mie mani. Ero appena arrivato alla Dia di Roma, dove ero stato trasferito subito dopo la strage di Capaci. Il direttore, Gianni De Gennaro, mi aveva informato che Gaspare Mutolo aveva appena saltato il fosso e di lì a qualche giorno mi sarebbe stato dato in consegna. Io allora ho cercato un luogo dove poterlo nascondere, trovando un anonimo appartamento a Roma. Sono andato a prendere Mutolo in Toscana con altri agenti della Dia che ci facevano da scorta. Siamo rimasti sempre tappati in quella casa, solo i ragazzi uscivano ma unicamente per comprare i viveri. La forzata convivenza con Mutolo mi ha concesso la possibilità di conoscerlo. La nostra giornata iniziava di buon mattino, facevamo colazione e con la memoria riattraversavamo le nostre esperienze parallele: la mia di sbirro e la sua di mafioso. Io, purtroppo, ricordavo i vari fallimenti quando mi sono messo sulle sue tracce e su quelle del suo padrino, Rosario Riccobono. Un pezzo da novanta di Cosa nostra, a capo della famiglia di «Partanna-Mondello» e boss di primo livello nel traffico di droga e anche nei rapporti «strategici». Non è un caso che sia stato proprio Mutolo, il suo braccio destro, a fare il nome di Bruno Contrada, con cui Rosario Riccobono era in contatto. E mentre parlavamo, la mia testa faceva mille collegamenti. Tante domande che nel corso della mia vita mi sono posto cominciavano ad avere una risposta credibile anche se difficile da accettare. Ecco come Mutolo e Riccobono riuscivano sempre a farla franca, a sfuggire ai nostri tentativi di catturarli. Come quella volta, era il 1982. Ninni Cassarà, il capo della sezione Investigativa della mobile di Palermo, chiama tutta la squadra in ufficio. Bisogna fare un blitz, non sappiamo ancora alla ricerca di chi o cosa. Il capo preferisce non dirlo, troppe volte da quell’ufficio erano uscite notizie importanti. Così partiamo in forze dalla mobile andando nella zona della Fiera, a Palermo. Ci fermiamo di fronte a un palazzo, in via Jung. Cassarà ci chiama intorno a sé. «Allora, qui c’è nascosto Rosario Riccobono», avverte e assegna a ognuno i compiti. Scatta l’operazione, io mi porto sul retro dello stabile, per controllare che non scappi. Altri cingono il perimetro del palazzo mentre si fa irruzione nell’appartamento. C’è silenzio, nessuno sparo, niente grida. Passano alcuni minuti e Cassarà viene fuori dal palazzo. «Non ci siamo riusciti», dice rabbiosamente. Lo vedo molto preoccupato. Lui mi prende in disparte e mi fa: «Pippo, qualcuno ha parlato». Nell’appartamento individuato c’erano ancora i piatti caldi sul tavolo. Il pranzo era servito, il latitante era stato lì fino a qualche minuto prima che facessimo irruzione. Ora, dopo una decina d’anni, nell’appartamento romano in cui lo tenevo al sicuro, Mutolo mi dice che è tutto vero. Conferma tutto. I pezzi si vanno mettendo in ordine. Riccobono quel giorno era insieme alla moglie e i figli. Stavano pranzando come una qualsiasi famiglia. Ma a un tratto è arrivata una telefonata e di corsa sono fuggiti, andandosi a rintanare in un altro appartamento dello stesso palazzo. Sarebbe bastato scendere di alcuni piani per beccarlo. E del resto la presenza di Contrada era una costante alla squadra mobile di Palermo, anche se lui non ne faceva più parte essendo già allora nei servizi segreti, a coordinare i centri di Sicilia e Sardegna. Quella volta non beccammo Riccobono, ma già la sua stella stava comunque smettendo di brillare. Le sorti della sua famiglia erano in decadenza, i «corleonesi» erano in piena ascesa e si erano impossessati di Palermo. La mia città. Quella dove sono sempre tornato, anche quando la mia vita era ormai sistemata. Nel 1980 stavo a Forlì, lavoravo alla squadra mobile. Poche indagini, furti in appartamento o di biciclette, tanti suicidi. Ogni tanto per ravvivare il turno arrivava una rapina in banca. Ero un brigadiere della polizia e nella cittadina romagnola avevo coltivato un mio piccolo orticello. Le mie operazioni erano sempre sulle prime pagine dei giornali locali. Ero rispettato e apprezzato dai colleghi e dai magistrati. Avevo la mia bella famiglia –una moglie e tre figli –e tutto andava per il meglio. Ma ciò non riusciva a frenare il mio spirito d’avventura. Eppure lavoravo alla mobile dove, per la stessa natura dell’ufficio, la noia non esiste. Avevo bisogno di dare sfogo al mio spirito nomade, sentivo come una chiamata, una terra che come una calamita mi stava chiamando a sé. Ho detto basta e fatto la scelta che ha cambiato la mia vita: il trasferimento a Palermo. Lì c’erano le mie radici, i miei genitori, i miei fratelli, il mio mare. E, anche lì, la squadra mobile. Quell’edificio in piazza Vittoria che da piccolo guardavo e ammiravo per la sua solidità. Mi intrigava, mi aveva sempre incuriosito da quando avevo conosciuto un cliente fisso della locanda di mio padre ad Acqua dei Corsari. Una borgata così chiamata per via della leggenda. I corsari approdavano dal mare sulla baia di Palermo per rifornirsi d’acqua da una sorgente che fluttuava dagli scogli. Da bambino ci andavo con gli amici a dissetarmi spesso alla fontana de ’u puricino. Quel cliente abituale di mio padre era un poliziotto ma lo vedevo arrivare vestito da sacerdote, postino, muratore. Io avevo solo 13 anni, non avrei mai potuto immaginare che avrei seguito quelle orme, che sarei diventato uno sbirro. Così ho fatto le valigie e sono tornato a casa. Da Forlì a Palermo c’erano oltre 20 ore di treno. Nonostante fossi stremato dal viaggio, una volta arrivato, sono entrato nella mia vecchia casa, ho abbracciato e baciato i miei familiari e sono subito salito in terrazzo, da dove si poteva ammirare tutta la costa di Palermo, da Monte Pellegrino a Capo Zafferano, con gli agrumeti alle mie spalle. Ricordo ancora l’odore di zagara misto a quello del mare che mi avvolgeva in quella sera. Erano passati vent’anni da quando avevo lasciato Palermo ma quello scenario non l’avevo mai dimenticato. Anzi, lo ricordavo periodicamente, come un film che scorreva su uno schermo immaginario. Rivedevo nitidamente le immagini gioiose della mia infanzia, le tante premure e le attenzioni dei miei genitori e gli occhi mi si riempivano di lacrime. Da bambino ero di costituzione gracile e spesso mi ammalavo: avevo bisogno di tanto amore. Amore che anche i miei fratelli non mi hanno mai fatto mancare. Ripensavo ai pellegrinaggi al santuario della Madonna di Tagliavia, a Corleone, circa 50 chilometri da Palermo. Si saliva a piedi per onorare il voto alla Madonna. Alla mia famiglia si aggregavano altri parenti e conoscenti, eravamo una carovana. Per viaggiare avevamo un carro a quattro ruote, ’u strascinu, come i coloni americani del Far West, con un telo bianco a fungere da copertura. E, dopo la visita al santuario, arrivava il momento conviviale, che noi siciliani non ci facciamo mai mancare. Ci mettevamo all’ombra di un carrubo per ripararci dalla calura. Mangiavamo pasta al forno e la salsiccia, arrostivamo tutto sul posto. E non potevano mancare le melanzane. Era una gran festa, un accampamento variopinto con fuochi sparsi qui e lì. Tante famiglie, unite, gioiose e spensierate. Un paesaggio arido con un intenso colore pastello, un po’ la rappresentazione della «sicilianità» dei contadini onesti e del loro duro lavoro nei campi. C’erano delle terrazze naturali che disegnavano un bellissimo saliscendi sul terreno. Con alcuni tratti verdi della macchia mediterranea. Le ombre delle terrazze sembravano pennellate messe un po’ a caso, un quadro disegnato per deliziare il pellegrino. In quello scenario mi perdevo, mi è entrato dritto nel cuore. Sì, ero un picciriddu, ma nel calore del sole cocente riconoscevo la mia appartenenza. La stessa che mi ha richiamato indietro da Forlì all’inizio degli anni Ottanta. E continuavo a domandarmi come fosse possibile che da quelle terre bellissime, da me tanto amate, potessero provenire persone che hanno scritto le pagine più nere della storia siciliana e dell’intero Paese. Gente come Totò Riina, Bernardo Provenzano, Leoluca Bagarella e tanti altri «corleonesi» di Cosa nostra. Con Paolo Borsellino, quando ero alla mobile di Palermo, non ho avuto molte occasioni di incontro come con Falcone. Gli interrogatori di Mutolo mi hanno permesso di intensificare i rapporti fino all’ultimo venerdì della sua vita, due giorni prima della strage di via D’Amelio. La mattina del 17 luglio del 1992 mi sono alzato presto, dovevo predisporre il trasporto di Mutolo alla sede della Dia a Roma. Il luogo dell’interrogatorio l’ho conosciuto soltanto la sera prima. Paolo Borsellino era al centro, fra Natoli e Lo Forte, dall’altra parte c’eravamo io e Mutolo. Borsellino ha acceso la prima sigaretta e tirato fuori l’agenda rossa dalla borsa con un fascicolo. Ha messo gli occhiali a ha cominciato a fare domande specifiche su alcuni mafiosi. Mutolo era un fiume in piena e Natoli, approfittando di una pausa di Borsellino che consultava gli appunti sull’agenda rossa, l’ha interrotto per chiedergli di parlare degli uomini delle istituzioni collusi con la mafia. L’iniziativa di Natoli non è stato affatto gradita da Borsellino che è andato su tutte le furie e, siccome Mutolo era diventato molto loquace, è stato lo stesso magistrato a interromperlo bruscamente. Certo, il giudice lo sapeva già, ma non voleva che i nomi uscissero prima della verbalizzazione. L’argomento era stato programmato per i giorni a seguire, in quel momento si stava ricostruendo l’organigramma di Cosa nostra. La decisione è stata categorica e abbiamo continuato l’interrogatorio mentre Borsellino si faceva serioso e contrariato. Mutolo i nomi ormai li aveva fatti: Bruno Contrada, Domenico Signorino. Mi ricordo che in un altro interrogatorio Borsellino, a un tratto, si è dovuto assentare perché doveva fare visita al ministero dell’Interno: ho saputo immediatamente che si era incontrato col capo della Polizia Vincenzo Parisi e proprio con Bruno Contrada. Probabilmente è vero quanto racconta Gaspare Mutolo, che al suo ritorno aveva acceso due sigarette contemporaneamente. Ma non sarebbe stata la prima volta. In altre occasioni avevo visto il magistrato accenderne una, mentre un’altra era appoggiata sul portacenere. Terminato l’interrogatorio, comunque, ci siamo congedati. Borsellino mi ha salutato con una stretta di mano e mi ha dato appuntamento alla settimana seguente. Lunedì ero nuovamente al centro operativo di Roma, ho incontrato Mutolo, con le lacrime agli occhi ci siamo abbracciati e fiondati sul lavoro. Dovevamo continuare e completare al più presto gli interrogatori. Avevamo sul collo il fiato dell’urgenza, abbiamo perso il conto delle volte che abbiamo cambiato posto e dei pranzi saltati. Se la strage di Capaci destava il sospetto che fosse coinvolta qualcosa oltre Cosa nostra, quella di via D’Amelio ne dava quasi la certezza. Da IL SOPRAVVISSUTO di Pippo Giordano Dipartimento Antimafia Polizia Palermo
DUE GRANCHI, LA PIOVRA E UN PACCHETTO DI SIGARETTE – Che bella che sei vista dall’alto amata Palermo. Quasi sembra un paradiso migliore in cui io mi trovo. I tuoi vicoli, le tue chiese, i tuoi palazzi, i tuoi colori, il tuo mare. Anche il cielo che ti sovrasta sembra essere più blu che altrove. Forse è per questo che ti ho difeso e protetto, o forse è perché quando ti porti dentro un profondo senso di giustizia essere onesti non è una scelta è un’ovvietà. Non è che il mio destino potesse essere diverso da quello che è stato, lo sapevo…e ti ho vissuto lo stesso. Mi dispiace di essere dovuto salire su una nuvola per vederti bella. Avrei preferito ammirarti dal basso….mentre mi avvolgevi con tutta la storia, i suoni, i sapori che fanno parte di te. Quando giocavo e avevo sogni di bambino, sogni puliti e semplici. Come semplice e pulita è la parola GIUSTIZIA. Quando ridevo senza preoccuparmi che il domani non ci fosse. Sono tornato a ridere da quando gioco con gli angeli. Perché qui in paradiso, la GIUSTIZIA esiste, e io sto bene e mi sento la normalità non l’eccezione. Perché deve esistere un posto in cui ci si sente a casa, e non importa se è sopra o sotto le stelle, non importa se è la cava con le sue barche o il cielo con le sue traiettorie. Sulla terra sono stato un uomo antimafia e mi sono sentito sbagliato. Qui sono giusto, dentro e fuori. Persino Dio mi accarezza e mi sorride, lo fa anche con Giovanni con il quale spesso parliamo di Antimafia, in quanti la usano questa parola…i politici nei loro discorsi, i giovani durante le manifestazioni, i professori all’ università, i Preti nelle loro omelie, gli avvocati nelle aule di tribunale. Tutti a dire che la mafia fa schifo. E a volte non ci si accorge che la mafia non è una pistola puntata…una bomba a comando…una lettera di minacce. La mafia è un pensiero, SOTTILE…INFIDO E MESCHINO. E’ il pensiero del giovane che cerca la raccomandazione convinto che sia la regola. E’ il pensiero del politico che esercita il voto di scambio a una fiaccolata, è il pensiero di chi si batte il petto in chiesa e non riesce a rimettere un debito, che sia uno al suo prossimo. La mafia si è evoluta spara alle coscienze prima che ai corpi, spara al coraggio prima che alle gambe, e non dubito che le nostre idee camminino sulle gambe di molti, ma mi chiedo: quanti di questi molti sarebbero disposti a farsi saltare in aria. A lasciare il loro cuore sulla terra, o riuscirebbero a sopportare l’idea di far soffrire chi gli è accanto solo in nome di un impalpabile ideale. Amare riflessioni per una Palermo da amare. E già è bella Palermo. Ho qui Giovanni, Francesca, adesso anche Agnese. Parte del mio cuore mi è accanto. Ma io, Paolo Borsellino, sarò felice quando tu, amata mia Palermo, smetterai di dire di essere antimafia, e inizierai a esserlo, perché solo allora nel silenzio della coerenza che non cerca clamori, io saprò che sei cambiata e che non devi dimostrarlo a nessuno. Io saprò che sei la città che ho difeso, e per la quale ridarei la vita mille volte ancora. (In ricordo di Paolo Borsellino da un’idea di Amantia Alessandro – Testo di Sofia Muscato. Con la collaborazione straordinaria di Dario De Santis (Io, Paolo Borsellino, e la mia amata Palermo.)
E’ L’UOMO ! – Ci sono Uomini che vivono pur essendo morti. La loro Onestà è linfa che alimenta il vivo ricordo che mai si spegnerà. Il loro sorriso ci accompagna nel dedalo dell’ingiustizia indicandoci la via della legalità. In tanti pretendono d’essere i prescelti per sostituire, seppure in modo interinale, la grandezza del loro agire. E no! Cari minus habens, non siete all’altezza, giacchè uno sciame di ipocrisia affolla la vostra mente e il vostro cuore. L’Uomo che vive tra noi rappresenta più che mai lo splendore dell’anima pulita e onesta. Altri minus habens tentarono di fermarlo nell’esercizio nobile della sua professione di Magistrato. Non ci riuscirono, ma poi Cosa nostra spezzò i suoi sogni. Sto parlando del magistrato Paolo Borsellino e la mia mente non può non ricordare momenti di lavoro insieme. Ricordo con tenerezza quelle sigarette fumate in angusti spazi, dal dottor Borsellino e da noi astanti. In quella piccola stanzetta sembrava d’essere in Val Padana, tanto ero il fumo che aleggiava. Tra un interrogatorio e l’altro, la sigaretta rappresentava per noi uno sfogo: era un modo per esorcizzare i drammi, che l’interrogato ci raccontava con dovizia di particolari. L’Uomo Borsellino, un Uomo che aveva perso l’ilarità: ilarità per anni palesata e che mutò dopo il drammatico 23 maggio del 1992. Paolo Borsellino, nel mese di luglio 92, era un Uomo ferito ma non vinto. Era un Uomo determinato a far trionfare la Giustizia, ma era anche un Uomo triste. Il suo amico Giovanni attendeva il suo impegno: aspettava verità e giustizia. Quella verità e giustizia tanto agognata, che ancora oggi non siamo stati capaci di offrire all’Uomo Borsellino. Non siamo nemmeno in grado di dire. GIUSTIZIA E’ STATA FATTA! Pippo Giordano
PAOLO BORSELLINO: LA FEDE DI UN UOMO GIUSTO Nell’anniversario della morte, un ritratto inedito del giudice antimafia che fondava il suo servizio per la giustizia su una vita cristiana profonda ma non ostentata Per Paolo Borsellino l’attenzione all’uomo veniva prima di tutto. Si trattasse di un amico sincero, di un testimone di giustizia, di un criminale, il giudice ucciso nella strage di via D’Amelio il 19 luglio 1992 assieme ai suoi cinque “angeli custodi” – gli agenti di scorta Emanuela Loi, Claudio Traina, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Agostino Catalano – aveva una parola di sostegno, di incoraggiamento, di rispetto per la persona che aveva davanti. A distanza di 25 anni dalla terribile strage, costellata ancora da troppi misteri e buchi neri, ciò che resta sono i preziosi ricordi custoditi nella memoria di chi lo ha conosciuto nel quotidiano e ne può testimoniare una integrità morale fatta non di gesti eroici, ma di piccole azioni. Il rispetto per l’uomo e per la giustizia prevede che per mandare in carcere un accusato le prove debbano essere di ferro, altrimenti «meglio un criminale fuori che un innocente dentro». È il ricordo di Giovanni Paparcuri, ex autista del giudice istruttore Rocco Chinnici, solo per un caso scampato alla strage di via Federico Pipitone a Palermo, il 29 luglio 1983, diventato poi collaboratore informatico di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino per microfilmare gli atti dell’istruttoria del maxiprocesso a Cosa nostra.
SOLO PROVE CERTE «Un giorno dobbiamo spiccare il mandato di cattura per alcune persone coinvolte nell’omicidio del capitano Basile. Nella stesura del mandato all’inizio ne sono indicate cinque. Io batto a macchina tutti i fogli, li porto al dottor Borsellino, li riprendo e vedo che la quinta persona è depennata. Penso a un errore, così riscrivo quella pagina e gliela riporto. Ma lui toglie di nuovo quel nome. A un certo punto, si alza e viene nella mia stanza: “Insomma, a cosa stiamo giocando? Giovanni, questo non lo devo arrestare. Se le prove non reggono al dibattimento, che figura facciamo?”. Lo guardo negli occhi, capisco cosa vuole dire». Quando Paparcuri racconta questo episodio al figlio del giudice, Manfredi Borsellino, oggi commissario di Polizia, questi lo ringrazia: «Hai fatto bene a dirmelo, perché episodi come questo mi fanno capire che mio padre non era forcaiolo». Un senso fortissimo della giustizia che tocca anche chi è al di fuori di quel mondo di fascicoli e leggi. «Forse l’eredità che mi ha lasciato Paolo è proprio il suo credere nella giustizia. Non ha mai infierito sulle persone, pur facendo bene il suo lavoro», osserva il cardiologo Pietro Di Pasquale, da cui quel terribile pomeriggio del 1992 il giudice doveva accompagnare la madre che aveva problemi al cuore. E don Cesare Rattoballi, parroco di periferia che nell’ultimo periodo fu molto vicino al giudice: «Vedo ancora gli occhi e il sorriso di Paolo, la conferma della sua vicinanza: un sorriso di accoglienza. Borsellino non tratta nessuno come un illustre sconosciuto. Ha una cordialità che mette a proprio agio, come se ti conoscesse da sempre».
FEDE E RISERVATEZZA Una cura per l’altro che probabilmente era frutto della sua profonda fede cristiana, mai ostentata, eppure vissuta ogni giorno, alimentata dalla partecipazione alla Messa domenicale, dalle assidue confessioni, dai colloqui con alcuni sacerdoti nei momenti più difficili della sua esistenza. Una voce “laica” come quella del suo giovanissimo sostituto alla procura di Marsala, alla metà degli anni Ottanta, Diego Cavaliero, lo descrive con efficacia: «Credo che la fede lo abbia aiutato in quello che è il concetto di morale, che va anche al di là della religione, ma individua ciò che è giusto o sbagliato in senso assoluto. Borsellino era credente, cattolico praticante, ciò gli indicava la strada nell’applicazione della pietas cristiana, nel rispetto dell’altro, perché Paolo era convinto che dietro a ogni imputato ci sia un uomo che va anche rispettato. La fede non faceva altro che rafforzare la sua personalità votata alla ricerca del rapporto con l’altro. Il suo rapporto con la fede era intimo. È certamente un uomo di misericordia». La domenica mattina, alla prima Messa delle 8.30 di Santa Luisa di Marillac, il dottor Borsellino manca raramente, proclama quasi sempre una delle letture. Oltre ai numerosi abitanti di questa zona residenziale, ne è testimone monsignor Francesco Ficarrotta, dal 1979 al novembre 1991 guida della parrocchia che si trova proprio davanti all’alto condominio di via Cilea in cui vive il giudice con moglie e figli. «Un giorno mi confessa il rammarico per non avere la forza, quando gli capita di partecipare ai funerali di uomini importanti, magari uccisi dalla mafia, di disporsi in fila per ricevere la Comunione», spiega Ficarrotta. «Vuole evitare di mettersi in mostra, ma così, e questo è il suo cruccio, non dà la giusta testimonianza di cristiano. Borsellino è veramente un uomo di fede» continua l’ex parroco.
PRONTO AL SACRIFICIO Don Cosimo Scordato, rettore della chiesa di San Francesco Saverio all’Albergheria, un antichissimo quartiere del centro storico di Palermo, riesce a catturare un altro aspetto di questa figura di magistrato cristiano, ucciso a causa della giustizia. Di tanto in tanto, il giudice fa capolino all’Albergheria, attirato dall’intensa attività di volontariato che la figlia più piccola, Fiammetta, svolge con i bambini più poveri del quartiere. «In realtà, incontro Paolo in occasioni molto disparate. Ricordo un evento in particolare. Siamo negli anni Ottanta e stiamo celebrando i venticinque anni di matrimonio di un suo cugino omonimo, Paolo Borsellino», racconta don Cosimo. «Dopo la Messa, molto partecipata, andiamo a festeggiare tutti insieme. In quell’occasione ho scoperto che il giudice Paolo è una persona di grande carattere, ha voglia di divertirsi».
Una ricchezza d’animo che don Cosimo impara a conoscere poco a poco. «Alcune volte Paolo si reca a San Saverio per partecipare alla Messa domenicale. Si siede quasi in fondo, durante la consacrazione, è tra i pochissimi fedeli a mettersi sempre in ginocchio. Rientra tra quelle persone il cui cammino di fede è segnato da un incontro particolare, magari un parroco, qualcuno che diventa determinante non per i tanti discorsi ma perché va all’essenziale. La dimensione religiosa la intravedo come il dato unificante della sua vita. E, nell’osservarlo, mi fa piacere vedere come quella persona riesca a tenere uniti due aspetti della sua vita apparentemente così lontani, ma invece vicinissimi. Sa essere un ragazzone scherzoso, che diverte con tutta la sua verve, e insieme un uomo con un’interiorità profonda». Il giorno prima della strage don Rattoballi incontra il magistrato al Palazzo di giustizia. Quello che si trova davanti è un uomo che ha consapevolezza di andare incontro all’estremo sacrificio: «Vado a trovarlo in Procura alla vigilia della sua morte e, dopo un lungo colloquio, mi dice: “Fermati, voglio confessarmi. Vedi, mi sto preparando”. Aveva un senso profondo di ciò che doveva accadere».
GLI AGENTI DELLA SCORTA Nell’attentato di via D’Amelio insieme a Paolo Borsellino morirono cinque agenti di età compresa tra i 22 e i 43 anni. Tra le vittime, anche la prima donna a cadere in servizio nella Polizia italiana. Solo un poliziotto si salvò. Altre 23 persone rimasero gravemente ferite. Come mandante, insieme a numerosi altri mafiosi, è stato condannato Totò Riina. DI ALESSANDRA TURRISI FAMIGLIA CRISTIANA 13.7.2017
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PIERA, LA RAGAZZINA CHE INCASTRO’ LA MAFIA DEL BELICE Il suo nome è Piera Aiello. Molti non conosceranno il suo nome, ma tanti sicuramente si. E tra i tanti ci sono anche esponenti mafiosi, tra cui anche alcuni della provincia di Agrigento, che Piera, con le sue dichiarazioni, contribuì a smascherare. Piera Aiello è una testimone di giustizia e vive da 25 anni lontana dalla Sicilia. Quando decise di dire tutto quello che sapeva aveva appena 24 anni. Piera ha rilasciato una intervista alla televisione svizzera e ha ripercorso la sua storia, la storia di una ragazza che nel 1991 decise di testimoniare contro gli assassini del marito, Nicolò Atria, assassinato, in un agguato mafioso all’ interno della sua pizzeria a Montevago. Grazie alle sue rivelazioni scattò un blitz tra Sciacca, Montevago e Marsala che portò in carcere dieci presunti boss e gregari, accusati di associazione per delinquere di stampo mafioso, omicidio ed altri reati. Piera Aiello, con la sua collaborazione permette, in concomitanza con quelle di un’altra ragazza, sua cognata, Rita Atria, di far arrestare numerosi mafiosi di Partanna, Marsala e Sciacca. Una lunga intervista, piena di amarezza e di ricordi struggenti. Tra questi quello di Paolo Borsellino, il procuratore che ascoltò le sue dichiarazioni. Un aneddoto pieno di significato è quello che Piera ha voluto raccontare: “Capivo che era una persona importante. Siccome nel mio paese tutte le persone importanti si facevano chiamare onorevoli, io faccio: «Senta, scusi onorevole.» Lui si gira: «Alt! Prima mi hai chiamato mafioso, ora onorevole. Con tutto il rispetto per la categoria, mi guardo bene dall’essere un onorevole. Sono un semplice procuratore della Repubblica. Ma tu chiamami zio Paolo.».. Questo era Paolo Borsellino. Piera Aiello ha scritto un libro: “Maledetta mafia”nel quale, in modo semplice ma efficace, racconta il coraggio di una donna che sceglie di “affrontare” la mafia.
QUANDO IL GIUDICE BORSELLINO “INTERROGO’ ” EZIA. Qualche mese fa trovammo un articolo del 2001 in cui il Dr Luciano Costantini, collega del Giudice Borsellino a Marsala, ricordandolo, parlava di una bambina bionda che fu “interrogata” da Paolo Borsellino a fine anni 80. La bimba era stata testimone di un incidente aereo avvenuto vicino Birgi. Dopo aver visto l’ accaduto si chiuse in un mutismo assoluto fin quando non arrivò lo ”zio Paolo” Siamo riusciti, tramite nostri canali , a rintracciare quella che nel 1989 era una bambina di soli 8 anni. Si chiama Ezia, ed ha accettato, in esclusiva per il gruppo Fraterno sostegno ad Agnese Borsellino, di rispondere a delle nostre domande raccontandoci quegli anni..
Come entrò il Dottore Borsellino nella vita della sua famiglia e come lo conosceste? Paolo Borsellino “entrò” nella nostra vita, mia e della mia famiglia, nel lontano 1987, quando era Procuratore Capo a Marsala. Avevamo un ristorante a Marsala, La Torre, vicino al mare, a San Teodoro. Un ristorante a conduzione familiare, e il Dr Borsellino veniva spesso a mangiare da noi. Io avevo appena 6 anni quindi i miei ricordi sono vaghi perché essendo piccola lo consideravo un cliente come gli altri. I miei invece hanno ricordi molto precisi perché sapevano chi fosse. A lui piaceva molto sia il posto, sia il fatto che ci fosse un clima familiare, con piatti semplici e caserecci e amava la nostra discrezione. Ricordo che le prime volte che sentii parlare e vidi il Giudice Borsellino, lui era in compagnia di altri magistrati, con le rispettive scorte. Successivamente iniziò a venire anche da solo, a volte in compagnia di due colleghe, assolutamente in incognito, a bordo di una 500 bianca viaggiando sul sedile dietro e coperto da uno scialle a quadrettoni. Prima di scendere dalla macchina, visto che era un orario insolito per la cena, una delle signore ci chiedeva di aprire la porta e solo allora lui scendeva ed andava ad occupare il solito posto, spalle al muro e occhi rivolti verso l’entrata. Solo molto tempo dopo mi spiegarono che lo faceva per questioni di sicurezza. Ero troppo piccola per capire, sembrava un gioco..
Che tipo di pietanze amava mangiare? A volte dei piatti tipici e diceva, in maniera scherzosa, che la Sig.ra Agnese non glieli avrebbe mai preparati in quanto molto ”pesanti ”come la pasta con il nero di seppia o frittura mista.
Ha un ricordo particolare di qualche serata al vostro locale? Veramente più di uno. Una sera, ad esempio, arrivò mentre noi cenavamo con pasta fresca condita con il sugo di pollo ruspante e con fare amichevole ci chiese se potesse sedersi con noi al tavolo. Per tutti noi fu una gioia ma anche un imbarazzo che superammo immediatamente perché lui incominciò a mangiare il pollo con le mani come si mangia il pollo ruspante e si sentiva a suo agio come fosse a casa sua. Quella sera iniziò un rapporto più confidenziale con tutti noi tanto che con i miei incominciarono a darsi del tu e mia madre, soprattutto, lo riprendeva quando lo vedeva arrivare da solo senza scorta.
Un’altra sera, verso le 19.30,arrivò in compagnia delle solite colleghe. Ordinò e dopo circa 10 minuti arrivarono tre ragazzi in vespa, entrarono e si accomodarono proprio davanti a loro, accanto alla porta di uscita con un sacchetto di plastica in mano.
In quel momento il giudice senza mettere in ansia le colleghe fece un cenno a mia madre con lo sguardo, il senso era:“ Cerca di capire chi sono..”.La prima cosa che fece mia madre fu quella di fare uscire noi bambini dal ristorante e, sempre con gli occhi e lo sguardo, chiese a mia zia di cercare di capire. Questa, con una scusa, si avvicinò ai ragazzi e chiese loro cosa avessero nel sacchetto di così misterioso da custodire così gelosamente. E, in quel momento si accorse che nel sacchetto c’erano solo attrezzi del vespino, stavano aggiustando la vespa proprio fuori dal mostro ristorante.. e così la paura, tanta paura, finì in una grande risata collettiva.
Lei fu “interrogata” dal dr Borsellino per un evento molto particolare. Le va di raccontarlo? Si, sono ricordi che resteranno indelebili nel mio cuore e nella mente, e che lo saranno per sempre, partendo dal giugno del 1989. Un aereo militare precipitò proprio di fronte al ristorante. In quel tratto di mare che tante volte il Giudice Borsellino ammirava dal suo tavolo. Io ero in punizione, non volevo asciugare i capelli, e guardavo gli aerei militari che facevano dei giochi in aria tipo le frecce tricolori, quando ad un certo punto uno di questi perse quota, toccò l’acqua del mare e cosa strana prese di nuovo quota ma per poi scoppiare in alto poco dopo pochi secondi. L’impatto fu tremendo tanto che mia madre accorse da me non sapendo cosa fosse successo. Io non riuscivo a rispondere ad alcuna domanda che mi faceva lei. Non mi usciva più la voce, ma segnalai con i gesti quanto era appena accaduto. Riuscivo solo a dire che era caduto un aereo. Dopo pochi minuti arrivarono tutti i soccorsi i giornalisti e operatori vari facendo delle domande a cui nessuno volle rispondere. Solo quando arrivò il Giudice Borsellino i miei genitori dissero, in forma privata, che io avevo assistito a tutto e che se lo avesse ritenuto opportuno, avrebbe potuto provare a parlare con me. Allora mi si avvicinò, aspettò che tutti fossero andati via, e con molta pacatezza, mi chiese se mi andava di raccontare allo “Zio Paolo” quella mia giornata particolare. Io a quel punto seduta sulle sue ginocchia raccontai tutto quello che avevo visto. Con il senno di poi, oggi da adulta, posso dire che il ricordo di quella nostra conversazione non solo non mi ha traumatizzata ma in quel momento fece sentire me, una bambina di soli 8 anni, la protagonista di un evento particolare dove io ero la protagonista di un racconto. Da quel momento, ”lo zio Paolo” divenne, per me, molto importante, compresi che se avessi avuto bisogno lui ci sarebbe stato. E infatti, da quel momento, ogni qual volta veniva da noi, io mi sedevo in braccio, o vicino, a lui e consumavamo la cena assieme e mi parlava della sua famiglia, mi raccontava dei suoi figli, della sua splendida moglie. Certo nel modo in cui si può raccontare a una bambina di 8 anni ma avevamo instaurato un rapporto di complicità come solo un grande Uomo può instaurare con una bimba così piccola. Amava i bambini, riusciva a diventare egli stesso bambino nel parlarci. Una grande complicità che non scorderò mai..
Poi il Dottore Borsellino andò a Palermo, tornò a trovarvi? Si tornò. Per questioni logistiche lo vedevamo di meno ma non per questo i nostri incontri erano meno piacevoli del solito. Per me lo zio Paolo non era l’uomo pubblico conosciuto da tutti, anche perché non sapevo il vero ruolo della sua professione, per me era un amico a cui riuscivo a raccontare le piccole cose della vita di una bambina. L’ultima volta che lo vidi mai avrei pensato che fosse l’ultima ma che ci sarebbero stati altri 10, 100 1000 incontri. Fu un arrivederci e non un addio. Pensavo che da li a poco sarebbe ritornato con un dono che lui pensava potesse rendermi felice, infatti mi disse:”Appena torna, lo zio Paolo ti porta una meravigliosa bambola come te”. Dopo un pò’ di tempo, in un caldo giorno di Luglio, mentre guardavo la TV appresi della morte dello zio Paolo e subito corsi dai miei a farmi spiegare cosa fosse successo. Le spiegazioni che mi diedero non mi convinsero perché dentro di me ero convinta che non esistesse persona al mondo che potesse fargli così tanto male visto che era una persona buona e altruista. Ma nello stesso momento, adesso mi vergogno quasi a raccontarlo, mi sentii quasi tradita non potendolo più rivedere, ero quasi offesa. Non potevo accettare che lo zio Paolo non ci fosse più e allora lo aspettavo. Speravo di vederlo arrivare, speravo di vederlo entrare. Fonte: Fraterno Sostegno ad Agnese Borsellino
PAOLO BORSELLINO, FERVENTE CATTOLICO, NON AVEVA MAI NASCOSTO ALLA FAMIGLIA LA SUA PAURA DI MORIRE. <>, diceva loro. Il lato peggiore di quella situazione era l’idea di non poterli più vedere: <>. La scomparsa prematura del proprio padre ancora gravava su di lui, e Borsellino voleva assicurarsi che i suoi figli sapessero cosa fare qualora fosse stato ucciso dalla mafia, un evento che reputava normale e scontato. Prima di un viaggio, disse loro che, in caso di incidente aereo, avrebbero dovuto aprire i suoi cassetti, dov’erano contenuti degli assegni firmati, e ottenere così dei sussidi come orfani di magistrato… Nelle settimane successive all’attentato, quando i figli gli raccontarono del modo in cui avevano risolto un problema, sorrise e bisbigliò: <>. Secondo Lucia, il padre si sentiva in colpa per avere sacrificato al lavoro gran parte del tempo che avrebbe dovuto passare con loro. I figli non riuscivano a capire come facesse a continuare a vivere giorno dopo giorno, sapendo che la sua vita poteva finire in qualsiasi momento. Ogni suo ritorno a casa era motivo di gioia. <<Papà, sembra un miracolo che anche oggi tu sia riuscito a tornare>>, gli dicevano. <<E’ vero, anche a me sembra un miracolo>>, rispondeva. (I 57 giorni che hanno sconvolto l’Italia di JOHN FOLLAIN)
Alfio Lo Presti, amico di Paolo Borsellino «Aveva premura, era evidentissimo che aveva premura di sistemare alcune cose. In quelle settimane si chiuse in un silenzio totale e non si confidava più. Aveva chiarissima l’ostilità del palazzo. Di quei giorni, e fu una delle ultime volte che lo vidi, ricordo uno scontro quasi violento. Eravamo a casa sua, un…a sera, come spesso accadeva. Io lo invitai a fermarsi un poco, a riflettere, a essere particolarmente prudente e lui mi rispose malamente. Io e la mia famiglia avevamo già fatto i biglietti per un viaggio in Indonesia. Con noi sarebbe venuta anche Fiammetta. Fu quella sera, a conclusione di quel diverbio, che Paolo mi disse: “Tu mi devi fare solo un gran favore: ti devi portare via Fiammetta, lontano da qui”. A quel punto io capii tante cose e decisi di non insistere più di tanto. Paolo era assolutamente cosciente del gran pericolo che correva e la sua grande angoscia era la famiglia, i figli. ¶ Da sempre Lucia, Manfredi e Fiammetta erano il cruccio di Paolo Borsellino. Sembrava non avere altra paura se non quella di mettere a rischio l’incolumità dei ragazzi. Lui andava in bicicletta senza scorta, ma appena uno dei ragazzi ritardava perdeva la testa. Soprattutto Manfredi, quando erano al mare, spesso non tornava all’orario previsto e Paolo diventava pazzo. Quante volte è uscito di casa per cercare i suoi figli nei bar, nei locali, a casa degli amici. Sarebbe andato da solo anche nei covi dei peggiori mafiosi se pensava che i ragazzi fossero in pericolo. Era un padre molto affettuoso e non particolarmente severo, auto
La Bicicletta – Da “Visti da Vicino. Falcone e Borsellino gli Uomini e gli Eroi” di Francesco Viviano e Alessandra Ziniti
Terra bellisssima e disgraziata…
INTERVENTI – INTERVISTE – DISCORSI
- Autodidatti contro la mafia
- Borsellino e gli Scout
- Borsellino parla dei pentiti Buscetta e Vitale
- Chinnici: un uomo che andava contro corrente
- Conferenza ad Agrigento
- Contro i politici
- Contro lo smantellamento del Pool
- Conversazione sulla mafia
- Dietro il paravento della normalizzazione
- Dopo Capaci lo Stato si svegli
- Droga: un mercato di migliaia di miliardi
- E Borsellino ora attende
- I giorni di Giuda – testo
- I giorni di Giuda – l’ultimo intervento
- I giovani la mia speranza
- I ragazzi delle scorte
- I segreti sull’intervista su Berlusconi
- Il consenso della società civile, arma contro la mafia
- Il discorso in memoria di Giovanni Falcone
- Il mio ricordo di Giovanni Falcone
- Il volto socio economico della criminalità organizzata
- Intervento pubblico dopo Capaci
- Intervista 13.7.1992
- Intervista 19.5.1992
- Intervista 1988
- Intervista 21.5.1992
- Intervista 24.6.1992
- Intervistato da Lamberto Sposini
- Intervistato dalla “Voce di New York”
- Intervistato dalla Televisione Svizzera 1992
- Intervistato di Mauro Rostagno
- Io sono Paolo Emanuele Borsellino
- La borsa della mafia
- La condizione di un magistrato – 1984
- Le due interviste
- Le parole di Paolo Borsellino
- Legalizzare la droga non combatte la mafia
- L’evoluzione della mafia
- Lezione sulla mafia
- L’intervista dimenticata
- L’intervista nascosta
- L’intervista smarrita
- Lo Stato non ha mai voluto combattere veramente la mafia.
- L’ultima intervista servizio de L’Espresso
- Mafia e politici corrotti 1P
- Mafia e politici corrotti 2P
- Mafia: il nodo politico.
- Palermo 12 dicembre 1989
- Paolo Borsellino, l’uomo e quel mestiere scottante di giudice
- Paolo Borsellino parla dei pentiti Vitale e Buscetta
- Processo alla mafia
- Quando la mafia è alternativa allo Stato
- Riforme e indipendenza della magistratura
- Siamo dei cadaveri che camminano
- Speciale TG la7
- Speciale TG1
- Sulla condanna dei Greco
- Un mafioso può cambiare
- VG8 Speciale Borsellino
- Archivio Repubblica
- Archivio ArticoloTre
- Archivio audio interventi di Paolo Borsellino – Radio Radicale
ARCHIVIO C.S.M.
- verbale della I commissione referente, in seduta congiunta col Comitato Antimafia, relativo all’audizione di Paolo Borsellino (31 luglio 1988) con allegati:
- relazione a firma Paolo Borsellino indirizzata all’Ispettorato del Ministero della Giustizia (30 luglio 1988)
- appunti manoscritti di Borsellino relativi all’incontro del 16 luglio 1988 presso il centro culturale Lombardo Radice
- lettera al Direttore del quotidiano Repubblica
- verbale plenum 14 settembre 1988 relativo alla situazione dell’ufficio istruzione di Palermo
- verbale plenum 25 gennaio 1990 relativo alla pratica aperta sulle dichiarazioni di Borsellino
- relazione ispettiva del Ministero di Grazia e Giustizia 31 agosto 1988 con allegati:
- estratti di stampa relativi alle dichiarazioni rese da Borsellino
- relazione del Procuratore generale di Palermo (29 luglio 1988)
- relazione Paolo Borsellino (22 luglio 1988)
- relazione Paolo Borsellino (28 luglio 1988)
- nota a firma Antonino Meli (capo ufficio istruzione di Palermo) (26 luglio 1988)
- nota a firma Antonino Meli (16 giugno 1988)
- nota di trasmissione atti a firma S. Curti Giardina, Procuratore di Palermo (28 luglio 1988)
- nota del CSM (30 maggio 1988)
- nota a firma S. Curti Giardina (30 maggio 1988)
- nota del Presidente del Tribunale di Palermo (12 luglio 1988)
- lettera a firma Giovanni Falcone (30 luglio 1988)
Paolo Borsellino, il coraggio della solitudine
A cura di Claudio Ramaccini – Direttore Centro Studi Sociali contro la mafia – PSF