Storie di MAFIA e IMPRENDITORIA collusa: il caso Lombardia

 

Imprenditori e criminalità organizzata: “un’azienda su tre cede per disperazione”

Il 35,9% delle imprese lombarde ritiene che gli imprenditori collusi con mafia e ‘ndrangheta “cedano” per non chiudere l’attività, mentre il 31,6% crede che le collusioni non siano frutto di necessità, ma siano invece causate dalla voglia di incrementare il proprio giro d’affari.
C’è chi cede alla criminalità organizzata perchè pensa di non avere altra scelta, per non dover chiudere l’attività, e chi invece si compromette con la mafia per allargare il proprio giro d’affari.
E’ questo che pensano le imprese lombarde sui rapporti tra imprenditori e criminalità organizzata. Secondo il parere del 35,9% delle imprese, gli imprenditori sono vittime della mafia mentre per 31,6% questa rappresenta proprio una delle opzioni per crescere. A rivelarlo è l’indagine “Imprese e illegalità”, condotta gli scorsi anni dalla Camera di commercio di Monza e Brianza
La maggioranza degli imprenditori lombardi crede che la presenza delle organizzazioni criminali di stampo mafioso in Lombardia sia un fenomeno favorito dalle infiltrazioni della malavita nella Pubblica Amministrazione per ottenere appalti (53,3%) mentre un imprenditore lombardo su quattro (19,9%) ritiene si tratti di un fenomeno naturale, legato alla ricchezza economica della Regione. C’è poi una percentuale pari al 14,9% che ritiene che mafia e ‘ndrangheta nel Nord del Paese siano derivate dalla presenza di detenuti al confino nel passato.


 

ALESSANDRA DOLCI: “FARE IMPRESA CON LE ‘NDRINE NON È MAI UN AFFARE”

C’é una domanda di mafia: è percepita come  un’agenzia di servizi, che risolve problemi senza l’impiccio delle regole,
fa impresa e rende prestazioni a prezzi  inferiori a quelli di mercato.

 

La dott.ssa Alessandra Dolci, procuratore aggiunto a capo della Direzione Distrettuale Antimafia di Milano, risponde alle domande del pubblico affermando che nella sua esperienza di magistrato in Lombardia 8 imprenditori indagati su 10 erano collusi e solo 2 vittime del fenomeno mafioso.


“C’è un’economia “fuorilegge”, non criminale, – spiega Alessandra Dolci coordinatrice della Dda di Milano – ma fatta di imprenditori propensi a non rispettare le regole del libero mercato e della correttezza fiscale e ci sono professionisti borderline che aiutano questo modello economico. In questa devianza si inserisce la criminalità mafiosa”

 

Che cosa vuol dire cambiare pelle? «I mafiosi, che in Lombardia per la mia percezione un po’ a spanne significano per l’80-90% ’ndrangheta con cosa nostra e camorra a spartirsi il restante 10-20%, sempre di più si presentano come imprenditori che fanno girare denaro e questo riduce la percezione del disvalore: finché sequestrano persone o trafficano droga tutti li avvertono come criminali, se fanno reati economici ricorrendo alla violenza solo in via residuale, molto meno».

Così è più difficile provare l’associazione mafiosa? «Il fenomeno evolve verso una “aterritorialità”: c’è un passaggio dall’occupazione di un territorio all’occupazione di settori economici, questo fatto, unito alla mancanza del requisito della violenza, può complicare la contestazione del reato di associazione mafiosa (articolo 416 bis), ma ci si può orientare per l’associazione a delinquere comune con l’aggravante dell’agevolazione mafiosa».

C’è chi nelle istituzioni vi accusa di vedere mafia dappertutto. «Constatiamo casi in cui parte del denaro ricavato da evasione e reati economici e tributari in genere, va a sostenere il “welfare mafioso” che dà assistenza legale ai detenuti per reati di mafia e mantiene le loro famiglie».

Parlava di occupazione di settori economici, quali? «Oltre alla tradizionale edilizia: pulizie, logistica, ristorazione, rifiuti, giochi e scommesse ma soprattutto noi vediamo il proliferare di imprese che cercano in ogni modo di accaparrarsi finanziamenti a fondo perduto o con garanzia pubblica, o imprese – spesso cartiere – che creano fittizi crediti di imposta che poi mettono sul mercato. C’è un’economia “fuorilegge”, non criminale, ma fatta di imprenditori propensi a non rispettare le regole del libero mercato e della correttezza fiscale e ci sono professionisti borderline che aiutano questo modello economico. In questa devianza si inserisce la criminalità mafiosa che si mette sul mercato offrendo strumenti finanziari/fiscali che diventano denaro contante».

L’usura in tempi di crisi è ancora un affare per le mafie? «Sì, perché è il modo più semplice di riciclare i proventi del traffico di droga. Ma gli usurati non denunciano, scopriamo che lo sono dalle intercettazioni ambientali o magari indagando per bancarotta».

Ha detto che 8 volte su 10 in Lombardia sono gli imprenditori chiedere ai mafiosi, conferma? «Sì, c’è una domanda di mafia: è percepita come un’agenzia di servizi, che risolve problemi senza l’impiccio delle regole, fa impresa e rende prestazioni a prezzi inferiori a quelli di mercato.
Il modello imprenditoriale è cambiato rispetto a 20-30 anni fa, molti servizi vengono esternalizzati e lì si inseriscono le infiltrazioni. Non a caso vediamo nascere e morire nel giro di 1-2 anni, in modo da sfuggire al controllo fiscale, società cooperative, che evadono del tutto o fanno indebita compensazione di crediti previdenziali con fittizi crediti Iva.
Il meccanismo funziona così: un’impresa anche medio-grande, il committente, fa un contratto con una “società filtro”, la quale subappalta a queste cooperative, meri contenitori di manodopera a bassissimo costo non qualificata. Di questo sistema si avvantaggiano il mafioso che fa impresa e l’impresa committente».

Chi ci rimette? «L’erario (e quindi la cittadinanza, meno introiti meno soldi per i servizi pubblici ndr.), i concorrenti e i lavoratori: sono i nuovi schiavi, vittime di caporalato, presi per fame, pagati miseramente in nero, senza sicurezza».

Tante imprese sono state “mangiate” dai mafiosi, chi li chiama non li teme? «Si illude di controllarli, ma non ce la fa. Alla lunga è un pessimo affare».

Hanno ascoltato i suoi timori per i cantieri di Milano-Cortina 2026? «Speravo si replicasse il modello Expo: una deroga normativa che aveva assegnato al prefetto di Milano la competenza delle verifiche antimafia per tutte le imprese coinvolte, stavolta non lo si è fatto, forse per la complessità della presenza di più Regioni».

Un’impresa che non voglia affidarsi alla cooperativa sbagliata come fa? «Stabilisce nel modello 231 che i costi dei servizi esternalizzati non siano inferiori a una certa soglia, in modo da escludere imprese illegali, così evita anche di giocarsi la reputazione finendo in amministrazione giudiziaria».

Le misure di prevenzione servono? «Spesso i prefetti sono il primo argine antimafia. La repressione non basta: mi capita di richiedere custodie cautelari per persone che hanno già scontato condanne per associazione mafiosa a seguito di miei procedimenti di anni prima. Ci ritroviamo».

Che cosa la preoccupa oggi? «La possibile saldatura tra le tre organizzazioni attorno alla convergenza di interessi economici».

31/03/2023  Intervista di Famiglia Cristiana, in occasione del 21 marzo, Giornata della memoria e dell’impegno per le vittime di mafia Elisa Chiari


L’imprenditore che trae vantaggio dall’incontro con Cosa Nostra è colluso, non partecipe

Lo ha affermato la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 37726, depositata il 15 settembre 2014.
Il caso. In primo grado, gli odierni imputati, tutti imprenditori, venivano riconosciuti, dal Tribunale, legati, a vario titolo, al sodalizio mafioso denominato Cosa Nostra. La Corte d’Appello, decidendo sulle impugnazioni del pubblico ministero e degli imputati, riformava parzialmente la decisione di prime cure e, seppur confermandone l’impostazione di base, pronunciava alcune assoluzioni, riduceva la pena nei confronti di alcuni imputati e ribadiva la condanna per partecipazione ad associazione mafiosa per altri. Quattro degli allora imputati proponevano ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte territoriale.
Il concorrente esterno. Secondo la giurisprudenza di legittimità, assume il ruolo di concorrente esterno colui che, non inserito stabilmente nella struttura organizzativa dell’associazione, quindi privo dell’affectio societatis, fornisce un concreto, specifico, consapevole e volontario contributo, che si configuri come condizione necessaria quantomeno per il rafforzamento delle capacità operative dell’associazione, anche in relazione ad un suo particolare


La mafia e gli imprenditori
Subappalto e mafia: analisi della disciplina a tutela dei subcontratti dalle infiltrazioni mafiose.

 

Il mutato atteggiamento nei confronti degli appalti ha comportato radicali modifiche nel comportamento della mafia. Non più semplice richiesta di pizzo, bensì un ruolo dinamico, volto all’ottenimento della commessa.
La mafia quindi è diventata imprenditrice. Chiaramente questo non significa che le organizzazioni mafiose partecipino alle gare pubbliche per vincere lealmente la competizione ed utilizzare i finanziamenti per realizzare le opere commissionate. In realtà l’appalto è uno strumento che la mafia utilizza per perseguire i propri vantaggi. Non ha alcun interesse allo svolgimento di una gara corretta, tantomeno di realizzare le opere commissionate nel rispetto del contratto di appalto.
Per individuare questo fenomeno, in cui la mafia da organismo parassita dell’attività d’impresa diventa essa stessa imprenditrice, si è utilizzato il termine “impresa mafiosa”.
Esso però designa tre diverse ipotesi. La prima è costituita dall’impresa costituita dall’organizzazione, che pone a capo un suo affiliato e utilizza i proventi delle attività illecite per sostenere la consorteria ed i suo consociati. La seconda è quella dell’impresa che non è diretta promanazione dell’organizzazione; è in capo ad un affiliato ma opera per conto proprio e non per l’organizzazione . La terza è quella più comune alla realtà degli appalti: l’impresa è formalmente nella titolarità di un imprenditore estraneo, non affiliato alla mafia ma instaura rapporti funzionali, soddisfacendo le richieste dell’organizzazione e traendo essa stessa vantaggi.
Per realizzare al meglio i propri interessi, si è assistito, come scrivevamo nel precedente paragrafo, ad un’alleanza tra le famiglie mafiose e parte del mondo dell’imprenditoria. Questi imprenditori si mettono d’accordo con le organizzazioni mafiose per partecipare alle gare, vincerle, e successivamente spartirsi il denaro pubblico. Si realizza dunque un accordo tra mafia ed imprenditoria i cui contenuti sono ben definiti.
L’imprenditore consegue, alleandosi con l’organizzazione mafiosa, innanzitutto la possibilità di creare situazioni di monopolio, in quanto nella zona di controllo della famiglia mafiosa potranno vincere solamente le imprese affiliate. Ad essa si deve aggiungere la possibilità di utilizzare risorse finanziarie di provenienza illecita, oggetto di riciclaggio. Tali risorse costituiscono, per l’imprenditore, dei veri e propri finanziamenti, ottenibili con maggiore facilità rispetto alle linee di credito concesse dalla banche.
Infine, l’imprenditore ottiene l’azzeramento di qualunque forma di conflittualità all’interno o all’esterno della sua impresa. I lavoratori o i sindacati presenti all’interno dell’impresa verranno “convinti” a non presentare rimostranze contro il datore di lavoro; le eventuali autorizzazioni necessarie per lo svolgimento di determinate lavorazioni potranno acquisirsi corrompendo i funzionari pubblici.
L’organizzazione mafiosa, invece, riesce a riciclare denaro di provenienza illecita e a conseguire maggiori finanziamenti per le proprie attività. L’appalto consente di controllare le principali forze produttive della zona e il denaro pubblico serve ad aumentare le attività del consorzio criminale. Più denaro significa maggiore potere.
Inoltre manipolare gli appalti le consente di estendere lo spettro delle conoscenze e di ampliare la rete dei soggetti che ad essa si rivolgono. Per far vincere un gara è ben possibile che si ricorra a tangenti per ingraziarsi gli amministratori pubblici e tessere future alleanze. In generale con il controllo degli appalti, la mafia riesce ad aumentare il controllo sul territorio, perché l’appalto è una delle principali fonti di lavoro, sia per gli imprenditori sia per i lavoratori, per cui chiunque vi abbia interesse deve passare per l’organizzazione mafiosa.
Da quest’alleanza chi subisce pregiudizio sono gli enti pubblici e gli altri imprenditori che non si sono alleati con l’organizzazione mafiosa. I primi infatti si ritrovano a finanziare con denaro pubblico opere che o non verranno mai realizzate oppure di scadente qualità (l’impresa aggiudicataria ben si guarderà, infatti, dall’adempiere alle obbligazioni contrattuali, per cui o realizza l’opera utilizzando materie prime scadenti o lavorazioni economiche oppure viene fatta fallire prima della conclusione dei lavori).
I secondi invece sono impossibilitati a partecipare ad una gara corretta e leale. Davanti ad un concorrente che dispone più facilmente dei finanziamenti, dietro cui si cela una macchina organizzativa invisibile ma spietatamente efficiente, l’imprenditore, in particolare quello medio-piccolo, non può che arrendersi. La scomparsa di concorrenti permette all’impresa affiliata di acquisire sempre più crescenti quote di mercato e a porsi come interlocutore privilegiato con le pubbliche amministrazioni. Si realizza quindi una situazione di monopolio, in cui il potere contrattuale dell’imprenditore aiutato dalle cosche diventa sempre più forte. TESIonline

 

‘Ndrangheta in Lombardia, i giudici di Como: “Imprenditori non solo vittime, fanno anche affari”

 

Nelle motivazioni della sentenza sull’inchiesta “Cavalli di razza” si legge che l’associazione mafiosa ha “trovato terreno fertile nel mondo imprenditoriale, politico e professionale locale”

La ‘ndrangheta in Lombardia è oggetto di numerose inchieste recenti. È un rapporto che assume due volti quello tra imprenditori lombardi e ‘ndrangheta.
Da una parte, c’è una sottomissione del mondo politico ed economico motivava dal “sistematico ricorso all’intimidazione mafiosa”. Dall’altra, invece, c’è una ben più preoccupante “reciproca convenienza con il sodalizio mafioso”
È questo, in estrema sintesi, il contenuto delle motivazioni dei giudici della sentenza nell’inchiesta “Cavalli di razza” hanno inflitto otto condanne fino a 16 anni di carcere, anche per associazione mafiosa, su richiesta dei pubblici ministeri Pasquale Addesso e Sara Ombra.
La ‘ndrangheta in Lombardia sfrutta una “fama criminale decennale”, “nuove reclute” e – hanno scritto i giudici – un modello organizzativo “di rete”, in cui “alla sostanziale stabilità degli organi di vertice si affianca l’autonomia delle strutture territoriali, e, in buona misura, delle distinte famiglie, capaci di convivere, dividendosi le aree di influenza, anche nel medesimo contesto territoriale, in cui talora non mancano forme di competizione e il perseguimento degli interessi individuali si fonde con il comune interesse alla sopravvivenza e prosperità dell’associazione”.
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La connivenza dell’imprenditoria

A 16 anni e 10 mesi è stato condannato Daniele Ficarra, pena di poco inferiore (16 anni) per Antonio Carlino e per Alessandro Tagliente, pesanti le condanne per un impianto accusatorio che ha retto davanti ai giudici di primo grado. Nelle oltre 300 pagine si riconosce al processo la capacità di aver consentito di osservare “l’espansione, le scissioni e il volto proteiforme assunto oggi dall’associazione in territorio lombardo”. Le famiglie criminali sono riuscite ad acquisire il controllo di grossi pezzi dell’economia locale “attraverso il sistematico ricorso all’intimidazione mafiosa”, complice anche un terreno “fertile offerto dal mondo imprenditoriale, politico e professionale locale, resosi disponibile, talora piuttosto sprovvedutamente, talaltra con malaccorta avidità ad entrare in rapporti di reciproca convenienza con il sodalizio mafioso”.

Non più infiltrazione, ma radicamento

L’inchiesta, di fatto, ha “sfatato il falso mito della ‘ndrangheta, che come un male serpeggiante si infiltra in un tessuto economico sano, contaminandolo.
La realtà restituita dal presente processo è quella di un’imprenditoria che non si limita a ‘subire’ la ‘ndrangheta, ma si pone in affari con la stessa, spesso prendendo l’iniziativa per il contatto con la criminalità organizzata e ricavandone (seppure solo momentaneamente) vantaggi”.
Siamo, in altre parole, ben oltre la logica dell’infiltrazione mafiosa: quello presente in Lombardia è un vero e proprio radicamento della ‘ndrangheta che é stato “determinato o, quantomeno, agevolato dal terreno fertile offerto dal mondo imprenditoriale, politico e professionale locale, resosi disponibile”. Nelle motivazioni della sentenza il Tribunale definisce anche “sconcertante” la “testimonianza dell’allora amministratore delegato” di Spumador, che “pur pienamente a conoscenza del clima instaurato dai Salerni e delle vessazioni subite, scelse di rimanere sostanzialmente inerte”.  
In un altro passaggio delle oltre 300 pagine della sentenza i giudici spiegano anche perché hanno assolto il figlio del boss Iaconis. È escluso, si legge, che l’appartenenza ad una associazione mafiosa “possa ritenersi trasmessa di padre in figlio per una sorta di proprietà transitiva automatica e sorretta da presunzione assoluta, in mancanza di qualsivoglia altro inequivocabile elemento”. IL GIORNO


COSÌ SONO FINITO NELLE MANI DELLA ‘NDRANGHETA

Era in difficoltà e ha chiesto soldi agli uomini sbagliati, quelli della ‘ndrangheta. Giulio, imprenditore edile del Varesotto, racconta la sua esperienza .

Con la crisi economica in corso diversi imprenditori lombardi non riescono a stare al passo con i pagamenti di finanziamenti o prestiti. Gli istituti di credito li marchiano come cattivi pagatori e non concedono più denaro liquido. È per questo che sono loro in prima persona a cercare il credito mafioso: “Non è una giustificazione ma una constatazione. È quello che ho fatto”, ci racconta Giulio (nome di fantasia), imprenditore edile del Varesotto. Questi soldi sono avvelenati non solo perché sono prestati a usura, ma perché sono il ponte con cui la criminalità mette radici in azienda, usata come lavatrice di soldi sporchi. Radici che Giulio non ha però permesso attecchissero: con l’appoggio dell’associazione antiracket e antiusura Sos Italia Libera, ha scelto la via della denuncia.
“Ho commesso un errore, all’inizio della pandemia il settore edile è entrato in una crisi ben più profonda di quella che già da una decina di anni affronta”. Giulio ha chiesto ad alcuni conoscenti dell’ambiente lavorativo come avere quel gruzzolo che la banca non concedeva per tappare la prima emorragia di liquidità. Questi lo hanno indirizzato verso chi il credito poteva concederlo. “Sapevo che quei soldi non erano puliti, ma con le banche era un muro di gomma. Così, pur di non mandare a casa i miei dipendenti, ho accettato. Pensavo di riuscire a tappare un buco. Restituire tutto e tornare alla mia attività”. Credeva fosse un compromesso a tempo. Ha iniziato con cinquemila euro di prestito per ripianare la prima falla ma nel frattempo, tra la pandemia che ha fermato tutte le attività produttive e i tassi da usura, la falla è diventata un buco nero: “Ho mancato qualche pagamento e alla fine mi sono ritrovato a dover pagare 600mila euro. All’inizio mi hanno proposto soluzioni alternative che mi sono sembrate vantaggiose per provare a rientrare, sempre nell’ottica del chiudere la falla. Ma non c’è soluzione con queste persone. È come uscire dalle sabbie mobili continuando ad agitarsi”, racconta Giulio con la voce rotta.

Gli appetiti della ‘ndrangheta sulle imprese

Giulio si è accorto tardi di chi fossero gli uomini a cui doveva i soldi. Uomini che non conosceva prima di questo bisogno dettato dalla pandemia e dalla disperazione. Così il dramma si è spostato dai probabili licenziamenti alle minacce alla sua famiglia: “Per il recupero crediti, queste persone si sono avvalse di affiliati alle locali di ’ndrangheta che hanno portato foto e video di mia figlia e di mia moglie minacciandole per obbligarmi a pagare. È per la loro sicurezza che ho deciso di denunciare”.
“Spesso il problema non sono nemmeno i tassi da usurai, ma quelli convenienti”, spiega Antonio Calabrò, vicepresidente di Assolombarda con delega alla legalità. A volte, i soldi che la criminalità organizzata presta non vengono neppure chiesti indietro perché l’obiettivo è un altro: “Mettere le mani sull’impresa pulita per vincere le gare d’appalto”. Nuovi appalti significano più soldi e coperture per il riciclo del denaro sporco.

Il ruolo delle banche nelle crisi aziendali

“Quando da risorsa diventi un rischio o anche solo una scommessa per i loro investimenti, le banche smettono di aiutarti – spiega Giulio –. Come è successo a me, quando mi hanno ritirato il fido (l’impegno a mettere una somma a disposizione, ndr). Ti lasciano solo appena sei difficoltà, ovvero proprio quando hai più bisogno di credito”. Ancora a metà settembre, davanti alla proposta di un piano per rientrare, Giulio si è visto rispondere: “O ci ridà tutta la cifra dovuta o passiamo al pignoramento”. Una situazione che il presidente di Sos Italia Libera, Paolo Bocedi, conferma essere diffusa, anche prima della pandemia. “Gli istituti di credito devono far funzionare l’intero sistema-Paese, senza una gestione del credito, che passa anche da alcuni dolorosi “no”, crolla il sistema”, chiosa in tutta risposta il vicepresidente di Assolombarda Antonio Calabrò.

La sfida della legalità

Cosa fare, allora, per non cadere nelle trame del credito mafioso? Innanzitutto partire da un dialogo con le banche per rivedere i paletti per l’accesso al credito. Bisogna poi “creare confidi, consorzi di garanzia collettiva dei fidi che si impegnino a fornire alle aziende le garanzie necessarie verso il sistema bancario per agevolarle nell’accesso ai finanziamenti”, suggerisce Calabrò. I confidi, essendo composti da vari soggetti del mondo produttivo, sono anche strutture che possono offrire consigli: quelli degli altri imprenditori, ma anche di uffici appositi, per uscire da situazioni economiche e psicologiche complicate.
Gli imprenditori devono capire che denunciare conviene, aggiunge Bocedi: “Una volta che il magistrato ha accertato l’appartenenza alla criminalità organizzata di chi ha prestato il denaro con modalità estorsive o usuraie, lo Stato garantisce all’imprenditore un prestito fino a un milione e mezzo di euro da restituire in dieci anni a tasso zero. Per le vittime del pizzo – come lo sono stato io in passato – lo Stato garantisce la stessa cifra a fondo perduto per ripartire con la propria attività. Io vendevo divani e, dopo aver denunciato i miei estorsori, i processi e la scorta, ho ancora la mia attività e in più ho fatto arrestare alcuni esponenti della ’ndrangheta”.
Attenzione però alla distinzione tra vittime e collusi: “Troppe volte mi sono sentita dire: ‘Mi sono rivolto alla criminalità organizzata perché conviene’ – spiega la procuratrice Alessandra Dolci, a capo della Dda di Milano –. Spesso sono gli imprenditori ad agganciare le mafie perché i loro prezzi sono più vantaggiosi”.  Da lavialibera  Luca Cereda


Arresti in Lombardia, procuratore Greco: “Sinergia tra ‘ndrangheta e imprenditori”

Il procuratore capo di Milano, Francesco Greco, ha lanciato un nuovo allarme sulle sinergie tra ‘ndrangheta e imprenditoria lombarda. Contatti emersi nell’ambito dell’indagine della Direzione distrettuale antimafia di Milano che ha portato a 43 arresti tra cui anche politici e amministratori. Centrale la figura dell’imprenditore D’Alfonso, che da un lato manteneva i contatti con le cosche e dall’altro aveva creato una rete tra politici e istituzioni.

“Da tempo in Lombardia, politici e imprenditoria locale si appoggiano, e a volte sono collusi, con cosche della ‘ndrangheta sul territorio. Il tema è stato affrontato da tantissime indagini della Direzione distrettuale antimafia. Anche in questo caso emerge una sinergia tra cosche e imprenditori“. Il procuratore di Milano, Francesco Greco, ha sottolineato così i legami tra mondo della criminalità organizzata e imprenditoria emersi nell’ambito dell’indagine coordinata dalla Dda milanese che ha portato oggi, martedì 7 maggio, a 43 arresti tra politici, amministratori pubblici e imprenditori, accusati a vario titolo di corruzione e associazione per delinquere aggravata in un caso dall’aver favorito un’associazione di stampo mafioso.

La rete della corruzione politici e imprenditori

Al centro della rete c’è, secondo gli inquirenti, l’imprenditore Daniele D’Alfonso. È lui la persona che “funge da cerniera” tra i diversi filioni della maxi-inchiesta. La sua rete, scrive il giudice per le indagini preliminari Raffaella Mascarino nell’ordinanza “avviata, con notevolissima rapidità ed efficienza” è “amplissima spaziando dai vertici della Regione Lombardia (Fabio Altitonante, sottosegretario regionale con delega, fra l’altro, al recupero dell’ex area Expo) a quelli di Amsa s.p.a. di cui coinvolge non solo figure dirigenziali (Mauro De Cillis) ma anche ‘operative’ (Sergio Salerno e Gian Paolo Riva)”. Per il giudice di Milano “il piano del giovane imprenditore è chiaro: sfruttare la campagna elettorale in corso per ‘mettere le basi’ all’espansione commerciale della sua società. Le sue mire non sono limitate alle gare che sono state monitorate nel corso dell’indagine, ma anche al futuro”. Per realizzare la sua azione, D’Alfonso avrebbe beneficiato dell’aiuto del consigliere comunale di Forza Italia Pietro Tatarella, “che aiuta D’Alfonso a muoversi nei paludosi mondi che spesso accompagnano la vita politica”. Tatarella “in virtù dei suoi rapporti politici, sa chi deve essere finanziato, chi è corruttibile, aiuta e assiste con continuità D’Alfonso”.
Proprio alla figura di D’Alfonso gli inquirenti attribuiscono l’inquietante “sinergia” con la criminalità organizzata. All’imprenditore viene contestata l’aggravante “di aver commesso il fatto per agevolare l’attività dell’associazione di stampo mafioso denominata ‘ndrangheta presente nel territorio di Corsico e Buccinasco“. L’imprenditore infatti avrebbe assunto nella propria azienda “operai addetti al ‘movimento terra’, molti dei quali con rilevanti pregiudizi penali, su indicazione di Giosafatto Molluso (già condannato per partecipazione ad associazione mafiosa)” e si sarebbe impegnato per reperire commesse lavorative, “anche violando la normativa antimafia, in favore dell’azienda della famiglia dello stesso”. Il gip evidenzia inoltre “un atteggiamento di D’Alfonso verso l’appartenente alla famiglia di spicco della ‘ndrangheta operante in Lombardia connotato, per un verso, da senso di rispetto e, per altro verso, dalla consapevolezza della pericolosità dei contatti telefonici diretti”. Elementi che hanno fatto emergere il fumus dell’aggravante “già dal tono delle prime telefonate e dalle modalità dei primi contatti registrati dal momento dell’avvio dell’indagine”. Simone Gorla FANPAGE 7.5.2019

 


L’allarme di Dolci (Dda): “Milano e Lombardia colonizzate dalle mafie, agli imprenditori conviene”



Rischi infiltrazione mafiosa imprese Nord Italia

 


DOCUMENTO

 

 


 

L’IMPRENDITORE MAFIOSO E LA PSICOLOGIA DELLA CONQUISTA

 

IL RAPPORTO MAFIA E IMPRESA:
IL CASO DELLA ‘NDRANGHETA NELL’ECONOMIA LOMBARDA

 

 

dalla Relazione conclusiva Commissione Parlamentare Antimafia

 

La criminalità organizzata, in particolare landrangheta radicata in Lombardia, ha ormai compreso che il controllo di realtà imprenditoriali determina una serie di vantaggi: è fonte di guadagno immediato; permette l’immissione nel circuito legale di denaro provento di attività illecite, attraverso operazioni di riciclaggio; garantisce, attraverso la gestione e la direzione della società, la disponibilità di posti di lavoro da assegnare per creare consenso sociale al sodalizio mafioso; il depauperamento del capitale aziendale è funzionale a implementare le illecite attività del gruppo mafioso o a mantenere le famiglie dei sodali detenuti o finanziare la latitanza di ‘ndranghetisti.
Peraltro, il controllo di un’impresa consente all’organizzazione criminale di assumere fittiziamente nell’azienda i propri sodali – specie se indagati, imputati o condannati – in modo che la retribuzione attribuita giustifichi la titolarità di beni in modo che non appaiano sproporzionati rispetto alla loro capacità reddituale, nonché di avere una rispettabilità sociale, trattandosi, formalmente, di normali imprenditori.
La presenza e il radicamento di organizzazioni criminali di origine calabrese in Lombardia è confermata dalle numerose indagini svolte dalla direzione distrettuale antimafia di Milano e di quelle condotte nel distretto.
È una ‘ndrangheta che ora, dopo anni di insediamento in Lombardia, ha acquisito un grado di indipendenza rispetto all’organizzazione di origine, con la quale ha continuato comunque ad intrattenere rapporti. 
I suoi appartenenti, dimorando al nord ormai da più generazioni, hanno progressivamente acquisito una piena conoscenza del territorio, così consolidando rapporti con le comunità locali e privilegiando contatti con rappresentanti della politica e delle istituzioni locali.
L’esistenza di una struttura criminale denominata “la Lombardia” avente carattere unitario e verticalizzato è stata definitivamente accertata nel giugno 2014 dalla Corte di cassazione che, nel confermare le condanne pronunciate nel procedimento “Crimine-Infinito”, ha posto in luce, da un lato, la spiccata connotazione mercatista della ‘ndrangheta lombarda (finalità di acquisizione di attività economiche, oltreché la commissione di delitti quali estorsione, usura, traffico di rifiuti, recupero crediti con attività intimidatorie) e, dall’altro, il suo avvalersi di un peculiare “capitale sociale” dove ha assunto enorme peso come driver per il suo radicamento nel territorio la disponibilità del mondo imprenditoriale, politico e delle professioni ad entrare in rapporti di reciproca convenienza con il sodalizio mafioso.
D’altro canto, l’esistenza della ‘ndrangheta in Lombardia è stata accertata giudiziariamente anche da altre successive sentenze. 
Nel 2015 è divenuta definitiva la sentenza relativa ai 41 imputati giudicati con rito ordinario nell’anzidetto procedimento “Crimine-Infinito” che ha ribadito l’unitarietà della ‘ndrangheta. 
Nel 2017 è diventata, poi, irrevocabile la sentenza della corte d’appello di Milano del 13 maggio 2016 nell’ambito dell’indagine Insubria importante anche per la già citata sentenza del 6 giugno 2014 con cui la Corte di cassazione – sezione VI, ha confermato le condanne pronunciate nel procedimento “Crimine – Infinito” in primo e secondo grado dal tribunale e dalla corte d’appello di Milano.

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Ciò premesso, le finalità spiccatamente economiche e le relazioni con il mondo dell’imprenditoria locale sono aspetti della ‘ndrangheta lombarda cui anche la Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo ha dedicato particolare attenzione anche nella sua ultima relazione annuale.
Si riconosce che la ‘ndrangheta è, tra le organizzazioni criminali, quella più orientata ad esportare le proprie condotte criminali dai territori di origine anche per realizzare finalità economico-imprenditoriali e condizionare gli apparati amministrativi.
Grazie alla crisi economica e alla conseguente restrizione del credito bancario, la ‘ndrangheta è riuscita a porsi come interlocutore privilegiato degli imprenditori in cerca di linee di credito non convenzionali, così entrando in affari con le imprese e spesso ottenendone l’assoluto controllo con estromissione sostanziale dei precedenti titolari, grazie anche all’omertà delle vittime determinata non solo da paura ma anche dai pregressi rapporti con i componenti del sodalizio (richieste di prestito, richieste di recupero crediti, altri favori).
In diverse indagini è stato accertato come, nell’attuale situazione economica caratterizzata dalla scarsità di lavori pubblici, dalla contrazione del credito bancario e dal contenimento dei costi, l’imprenditoria abbia ricercato contatti con la ‘ndrangheta allo scopo di fare affari con la stessa e di ricavarne (momentanei) vantaggi, rappresentati dall’acquisizione di capitali ingenti, dalla possibilità di disporre di metodi convincenti per il recupero di crediti anche di ingente valore, dall’imporsi nel territorio in posizione dominante a scapito della concorrenza, consentendo così alla ‘ndrangheta di acquisire il controllo, diretto o indiretto, di società operanti in vari settori (edilizia, trasporti, giochi, smaltimento rifiuti) e di appalti pubblici, riciclando capitali criminosi nell’economia legale.
In tal senso vanno letti i tentativi di infiltrazione, nel passato, nei lavori legati ad Expo 2015 e, nel presente, di acquisizione di attività economiche e imprenditoriali, utilizzando lo strumento della corruzione con alterazione dei principi di legalità, trasparenza, libertà di iniziativa economica e libera concorrenza.
Tra le condizioni di contesto che hanno consentito tutto ciò, assume un ruolo centrale, come detto, il “capitale sociale della ‘ndrangheta”, ovvero la disponibilità del mondo imprenditoriale, politico e delle professioni ad entrare in rapporti – per una reciproca convenienza – con il sodalizio mafioso. Particolarmente significativa, in tal senso, la condanna a dodici anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa, riportata nel processo “Infinito” dal direttore sanitario dell’epoca della ASL di Pavia che, oltre ad occuparsi dei problemi sanitari degli associati, indirizzava il pacchetto di voti calabrese in occasione delle competizioni elettorali, destinandolo al miglior offerente.
Nel procedimento Insubria in punto di rilevanza delle “mangiate” si è significativamente sottolineato come: “Il gesto del mangiare assieme, e massimamente del consumare insieme la carne di capra, ha il valore cerimoniale di una conferma dei valori di solidarietà ed amicizia reciproca (…) parte integrante di un momento significativo per la vita dell’organizzazione. 
Ad esempio, la cerimonia di conferimento di una dote trova il suo necessario complemento in una “mangiata” cui partecipa, esprimendo per la prima volta il suo nuovo status, l’uomo d’onore che ne è stato il beneficiario” (passo tratto dalla sentenza n. 1743/98 emessa dal tribunale di Milano – processo cosiddetto “I fiori della notte di San Vito”).
La dimensione collettiva del “mangiare assieme” si esprime in gesti dal forte contenuto sociale e di spessore comunicativo. Probabilmente per la prima volta, si è assistito in diretta al conferimento della “santa” a Giovanni Buttà, avvenuto il 12 aprile 2014 a Castello di Brianza (LC) e, il successivo 31 maggio 2014, al conferimento del “vangelo” a Raffaele Bruzzese, Luciano Rullo, Bartolomeo Mandaglio e Antonino Panuccio, captando con chiarezza la recita delle formula da parte dei conferenti.
Come già accennato, uno dei principali terreni di incontro tra organizzazioni mafiose, politica e imprenditoria è rappresentato dal settore degli appalti pubblici.
In ragione di presidi posti dalla normativa antimafia e dei controlli sull’imprese, oggi il modus operandi delle organizzazioni, finalizzato ad aggiudicarsi l’appalto, è divenuto quello di frapporre tra sé e l’amministrazione un terzo soggetto formalmente estraneo, una nuova società partecipata e amministrata da prestanome riconducibili alle famiglie malavitose, ma da loro formalmente distinta.
Ciò viene attuato attraverso la costituzione di: società di capitali, per lo più nella forma di società a responsabilità limitata, sottocapitalizzate; società cooperative, appositamente costituite per l’esecuzione specifica di un lavoro, il cui punto di forza è rappresentato proprio dalla temporaneità della durata del rapporto, limitato nel tempo alla realizzazione dell’opera; raggruppamenti temporanei di impresa, costituiti per occultare la presenza di società direttamente riconducibili ai sodalizi criminali. Assume altresì rilievo la forma di infiltrazione nell’economia operata attraverso l’imposizione alle maggiori realtà imprenditoriali, anche di carattere nazionale (interlocutori privilegiati per l’aggiudicazione degli appalti in ragione della loro storia economico-lavorativa), di imprese legate ad associazioni criminali per l’esecuzione di piccoli lavori di subappalto.
Ultimamente, e la vicenda Expo ne è uno degli esempi, l’infiltrazione nei cantieri avviene nella forma dell’“intrusione fattuale”.

COMMISSIONE PARLAMENTARE DI INCHIESTA SUL FENOMENO DELLE MAFIE E SULLE ALTRE ASSOCIAZIONI CRIMINALI, ANCHE STRANIERE

(composta dai deputati: Bindi, Presidente, Attaguile, Segretario, Bossa, Bruno Bossio, Carbone, Costantino, Dadone, Di Lello, Segretario, D’Uva, Garavini, Magorno, Manfredi, Mattiello, Naccarato, Nuti, Piccolo, Piepoli, Prestigiacomo, Sammarco, Sarti, Savino, Scopelliti, Taglialatela e Vecchio; e dai senatori: Albano, Buemi, Bulgarelli, Capacchione, Cardiello, Consiglio, De Cristofaro, Di Maggio, Esposito, Falanga, Gaetti, Vicepresidente, Giarrusso, Giovanardi, Lumia, Marinello, Mineo, Mirabelli, Molinari, Moscardelli, Pagano, Perrone, Ricchiuti, Tomaselli, Vaccari e Zizza).
RELAZIONE CONCLUSIVA (Relatrice: On. Rosy Bindi)
Approvata dalla Commissione nella seduta del 7 febbraio 2018



ANTONIO CALABRÓ – presidente della Fondazione Assolombarda

“ci sono imprenditori che si rivolgono alla criminalità organizzata come a un’agenzia di servizio”, per battere la concorrenza, risolvere una controversia, vincere una gara di appalto”  ma ha anche ricordato “la terribile solitudine dell’imprenditore a cui le mafie si rivolgono con un approccio… affettuoso”.


Vi è una sorta di abuso che non è visibile come la violenza. Alcuni imprenditori lombardi si rivolgono ai clan calabresi ottenere quei crediti che le banche non concedono o per realizzare truffe contro lo Stato.
Come afferma il Dott. Pasquale Addesso, il mondo dell’imprenditoria e il mondo della ‘ndrangheta conoscono la logica dei profitti che è il linguaggio comune di questi due mondi, inoltre vi è un rapporto timoroso tra imprenditoria e Stato, c’è una resistenza a rivolgersi a quest’ultimo.
Negli ultimi anni sono aumentate le imprese “nate per fallire”, si tratta spesso di bancarotta fiscale. Le società vengono create per durare pochi anni e consentire l’evasione, infine si avviano al fallimento.
Se inizialmente l’imprenditore crede di poter gestire la condizione di fragilità e dipendenza nei confronti delle organizzazioni ‘ndranghetiste, ben presto sarà assoggettato al gruppo criminale. In molti di questi casi le aziende vengono inglobate dalle organizzazioni mafiose per aggiudicarsi nuovi appalti.
Il danno non sarà più solamente per l’imprenditore ma per l’intero mercato.
Come ha dichiarato il Prefetto di Como Andrea Polichetti: “Il pericolo di condizionamenti ed infiltrazioni della criminalità organizzata nelle attività economiche è sempre presente. È, quindi, necessario porre la massima attenzione nell’attività di prevenzione antimafia, a difesa del fondamentale interesse alla tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica”.
Da una delle recenti indagini emerge un’imprenditoria che non subisce più la ‘ndrangheta ma fa affari con quest’ultima: sono gli imprenditori che prendono contatto con i clan ‘ndranghetisti, ricavandone dei vantaggi momentanei.
In questo rapporto giocano un ruolo fondamentale anche i professionisti, in particolar modo i commercialisti.
Sono questi ultimi a creare società destinate a fallire, raffinati meccanismi di evasione e di riciclaggio.
L’omertà o meglio la collaborazione de professionisti che non segnalano le operazioni sospette crea un grave danno alla collettività, poiché se da un lato vi è il timore delle ritorsioni dall’altro vi è una vera e propria partecipazione con le organizzazioni criminali.
Come afferma la Dott.ssa Alessandra Dolci, il professionista svolge un lavoro per la collettività oltre che per il proprio cliente. Il ricavato degli illeciti viene spesso reinvestito o trasferito all’estero e per gli ‘ndranghetisti operanti nella provincia di Como (e anche Varese) la Svizzera è la meta ideale.
Come si può notare dalla mappa, l’operazione Nova Narcos Europea ha consentito l’arresto di 6 persone appartenenti alle ‘ndrine del comasco nella Confederazione elvetica e tutte attive nei cantoni limitrofi alla provincia di Como. Anche in Svizzera i soggetti coinvolti nella citata operazione erano ben inseriti nel contesto locale, avevano legami con politici e imprenditori del luogo.

 


(…) Si conferma che la minaccia mafiosa in Lombardia è soprattutto legata alla sistematica avanzata della ‘ndrangheta. In tal senso anzi, alla luce dei fatti oggettivi, non appare affatto arbitrario considerare ormai la Lombardia la “seconda regione di ‘ndrangheta” d’Italia. Si tratta di una avanzata non sempre “silente” e pacifica, ma segnata piuttosto da un fenomeno di intimidazione strisciante e di violenza “a bassa intensità”. In alcune province appare in effetti eloquente il numero delle denunce per estorsione, che rappresentano tendenzialmente la punta di un iceberg. Tra le altre criminalità mafiose si nota un ritorno, che gli inquirenti ritengono significativo, di Cosa nostra siciliana. Mentre si colgono tendenze a emulare il modello mafioso da parte di alcune organizzazioni criminali straniere, alle quali i ricercatori riservano una apprezzabile attenzione in coda all’analisi di quasi tutte le province.Si accentua il dinamismo mafioso sui territori delle province nord-occidentali di Varese, Como e Lecco. La loro funzione sembra diventare via via più importante negli anni. Senz’altro per il livello di radicamento raggiunto e la ormai conclamata stabilità delle “famiglie” calabresi che le presidiano, con evidenti processi di ricambio generazionale. Ma anche per una nuova funzione di cerniera operativa da esse svolta (specialmente da Varese e Como) verso la Svizzera: meta, quest’ultima, di nuovi e rapidi spostamenti da parte dei clan, vuoi per meglio sfuggire alla repressione sul territorio lombardo vuoi per innestare nuove “colonie” nel complessivo tessuto della propria diffusione europea.


FONTE:

MONITORAGGIO 2022  Rapporto  Stralcio – PROVINCIA DI COMO

 


“L’usura in Brianza c’è, ma troppi non denunciano. Fuori dal mercato le imprese complici

Al convegno della Prefettura #AlessandraDolci della Dda non ha fatto sconti. Numeri inquietanti da Patrizia Palmisani e Claudio Gittardi
Monza, 14 dicembre 2021 – In pochi denunciano, drammaticamente in pochi. Perché troppo spesso le stesse vittime, nel mondo sommerso di un’imprenditoria brianzola un po’ sfacciata e un po’ inadeguata a stare sul mercato, sono diventate complici degli strozzini. Soprattutto di quelli che vengono dritti dritti dalla criminalità organizzata.
Concetti forti quelli usciti da un convegno organizzato ieri dalla Prefettura di Monza e Brianza e che si è tenuto nelle sale messe a disposizione dalla Provincia in via Grigna. Il tema “Strumenti e strategie di prevenzione e contrasto all’usura” prometteva faville e le attese non sono state deluse. Ha cominciato a squarciare il velo la padrona di casa, il prefetto Patrizia Palmisani. Che ha ricordato come l’usura sia “un reato sistemico che non riguarda solo le persone più fragili ma anche un territorio ricco come la Brianza”. E dopo aver ricordato la presenza endemica al Nord della criminalità organizzata, ha detto: “Soltanto nell’ultimo triennio la Prefettura ha emanato oltre 20 interdittive antimafia… e i due anni di pandemia hanno fornito l’humus migliore perché l’usura attecchisse ancora di più: nell’ultimo triennio sono pochissime le denunce che sono state presentate e le istanze di accesso al fondo anti-usura avanzate…”. E questo significa una sola cosa, “che sono pochissime appunto le persone che denunciano”.
Il carico da novanta ce lo ha messo però Alessandra Dolci, coordinatrice della Direzione distrettuale antimafia di Milano: “Le denunce si contano sulle dita di una mano, nel distretto di Milano sono state soltanto 17 nell’ultimo anno”. E ha ridisegnato decisamente il profilo dell’usurato. Spesso, di tratta “di imprenditori già border-line, basti pensare che l’80 per cento dei crediti concessi dal fondo anti-usura non viene restituito. Dobbiamo aiutare chi sa stare sul mercato, gli altri vanno invece espulsi”. “Perché non denunciano? – si chiede ancora il magistrato -: una buona parte nega di essere vittima di usura e spesso non per vergogna o timore”, ma perché è lo stesso usurato ad adoperarsi – spiega amareggiata – “per procacciare altre vittime… non denuncia perché è diventato complice. Abbiamo una criminalità organizzata che vuole inserirsi nel circuito economico” non per il provento dell’usura, che a volte viene concessa a tassi nemmeno troppo elevati, “ma per accaparrarsi le aziende che riesce ad avvicinare”. Con gli imprenditori che a volte mettono le proprie capacità “a disposizione della criminalità organizzata fornendo strumenti essenziali per inserirsi: la ‘ndrangheta si è evoluta, l’usura non viene praticata per metterla a reddito, ma fare sistema col mondo imprenditoriale”.
Ancora più amara la riflessione finale: “Un problema etico, per me inaccettabile, con imprenditori che provano a mettersi su un piano di parità con la criminalità organizzata”. E torna infine a ribadire: “Coloro che non sanno stare sul mercato, devono essere esclusi”.
Claudio Gittardi, procuratore capo a Monza, non si è discostato dal quadro a tratti inquietante dipinto: “L’usura è un reato sottostimato e sottovalutato per cui riscontriamo una scarsa denuncia”. E ha snocciolato i dati raccolti dalla Procura di Monza negli ultimi 3 anni: “Otto procedimenti per usura nel 2019, 5 nel 2020, 21 nel 2021”, con una quota molto elevata di sommerso. “L’usura è un reato grimaldello, utilizzato per entrare in aziende in crisi e impossessarsene. È spesso accompagnata dal reato di estorsione, come dimostrano due procedimenti attualmente in corso e sotto inchiesta a Monza”.
E l’usura è diventata per molte vittime – il parallelo di Gittardi – simile alla tossicodipendenza, con le vittime che non denunciano perché temono di interrompere il flusso di denaro.
Al convegno, davanti ai rappresentanti del mondo delle istuzioni (tanti i sindaci in platea) e delle forze dell’ordine, ha parlato anche il presidente della Provincia, Luca Samtambrogio, che ha messo in guardia fra le altre cose dallo smaltimento illecito dei rifiuti, che tanta gola fa alla criminalità organizzata e su cui la polizia provinciale ha aperto diverse inchieste negli ultimi tempi.
Per il mondo delle imprese ha parlato Antonio Calabrò, presidente della Fondazione Assolombarda, che ha ricordato che “ci sono imprenditori che si rivolgono alla criminalità organizzata come a un’agenzia di servizio”, per battere la concorrenza, risolvere una controversia, vincere una gara di appalto ma ha anche ricordato “la terribile solitudine dell’imprenditore a cui le mafie si rivolgono con un approccio… affettuoso”.  Da IL GIORNO
 

11.11.2018 – «La ‘Ndrangheta ha colonizzato il Nord Italia»

Alessandra Dolci, magistrato soresinese, capo della procura distrettuale antimafia di Milano, racconta il volto nuovo della mafia. «Attività variegate. Il traffico dei rifiuti l’ultimo business. Hanno un profilo basso per acquisire il consenso sociale» Venerdì mattina era a Reggio Emilia, al convegno organizzato dai commercialisti sull’attività dell’amministrazione giudiziaria nel contrasto alle attività delle organizzazioni criminali. Il pomeriggio, il procuratore aggiunto Alessandra Dolci, origini soresinesi, capo della procura distrettuale antimafia di Milano, vincitrice, ad ottobre, del prestigioso ‘Premio Borsellino 2018’ e da oltre trent’anni in prima linea nella lotta contro la ‘Ndrangheta, era a Cremona, a Palazzo Cittanova, all’incontro organizzato dallo Zonta Club (ne è presidente Cristina Piazzi), moderato da Francesca Morandi, giornalista de La Provincia. Il procuratore aggiunto Dolci ha, tra le altre, coordinato l’operazione ‘Crimine-Infinito’, la più importante indagine antimafia: oltre 200 arresti, da Milano a Reggio Calabria). Al Cittanova ha raccontato il volto nuovo della ‘Ndrangheta che più che «essersi infiltrata», ha ormai «colonizzato» il Nord Italia. Quel volto imprenditoriale con interessi variegati: edilizia, sanità, ristorazione, compravendite immobiliari. L’ultima frontiera del business, il traffico illecito dei rifiuti. «Hanno un profilo basso per acquisire il consenso sociale». LA PROVINCIA DI CREMONA

 


11.11.2015 – ‘Ndrangheta a Milano, l’allarme di Ilda Boccassini: “Colonizzata parte dell’hinterland

E’ un grido d’allarme quello che il procuratore capo di Milano, Edmondo Bruti Liberati, a quattro giorni dalla pensione, lancia nel suo ‘Bilancio di responsabilità sociale’, una sorta di analisi di un anno di lavoro della procura. Alla fine della sua relazione, Bruti – che ha ricordato anche le vittime della sparatoria in tribunale (“il modo migliore per onorarne la memoria, è impegnarsi ciascuno nel proprio ruolo”) – è stato applaudito da magistrati e avvocati che si sono alzati in piedi.
“Il servizio giustizia a rischio paralisi”. Le gravi carenze di organico amministrativo chiamano la politica a interventi urgenti, “altrimenti la procura rischia la paralisi”. Perché “si è giunti a un punto limite”, accusa Bruti. Serve “un intervento riformatore sul processo penale, in difetto del quale tutto l’impegno organizzativo rischia di diventare vano”. Il procuratore ricorda anche come il personale amministrativo “preveda 379 unità, mentre in servizio ce ne sono 295”. La “scopertura si attesta così al 22 per cento, ben superiore alla media nazionale (18,50)”. Una situazione molto critica, visto “che le carenze più gravi riguardano le qualifiche professionali fondamentali”.
Bilancio Procura Miliano, Bruti: “Intercettazioni strumento essenziale per le indagini”
Spese diminuite del 44 per cento. Le spese di gestione della procura “si sono ridotte del 44 per cento” nel quadriennio 2011-2014, a seguito di una diminuzione rilevante delle spese di giustizia (legate alle attività di indagine). Mentre sono aumentate del 128 per cento le entrate, un dato legato in particolare alle somme in sequestro “che hanno raggiunto i 120 milioni di euro”. Uno dei punti su cui ha puntato maggiormente il procuratore in questi anni, è stata anche la diminuzione dell’uso delle intercettazioni telefoniche nelle indagini. Nel quadriennio la riduzione “è stata del 48 per cento e del 14 per cento nell’ultimo anno. Nell’anno 2009-2010, i soggetti intercettate dalla procura erano 14.125 unità”. Nell’anno scorso – dati aggiornati a giugno – il numero è sceso a 7.277.
“Colonizzazione della ‘ndrangheta”. E’ impressionante il rapporto della Direzione distrettuale Antimafia di Ilda Boccassini. Secondo il rapporto di un anno di attività, soprattutto la ‘ndrangheta sembra aver messo radici in pianta stabile a Milano e nell’hinterland. Secondo Boccassini, “alcuni piccoli paesi della Calabria (San Luca, Vibo Valentia, Rosarno, Limbadi, Grotteria e Giffoni), hanno di fatto colonizzato alcuni comuni dell’hinterland. Si è trattato di una sorta di colonizzazione al contrario. Se di regola la colonizzazione presuppone una sorta di superiorità economica e culturale del colonizzatore sul colonizzato, la persuasiva presenza della ‘ndrangheta in territorio lombardo fa registrare un fenomeno esattamente inverso, dove una sottocultura criminosa ha la meglio in aree altamente industrializzate e ricche di servizi pubblici”.
Bruti: “Expo? Le indagini non si sono fermate”
Expo, “indagini rapide”. L’analisi del procuratore non poteva tralasciare Expo che ha impegnato anche i magistrati per mesi. La Procura di Milano si è mossa “con eccezionale rapidità” permettendo “alla struttura Expo 2015 di adottare tempestivamente i provvedimenti per la sostituzione dei manager” arrestati. Qualcuno, ha aggiunto Bruti nella sua relazione, “aveva detto: ‘bene arrestare i corrotti, ma si rischia di bloccare i lavori’, ma la Procura di Milano ha gestito la situazione e ciò non è avvenuto”.
“In 4 anni recuperati 3 miliardi e 600 milioni per frodi fiscali”. La lotta alla evasione fiscale ha segnato un recupero di denaro notevole. “A Milano – si sottolinea nel bilancio sociale – tra il 2010 e il 2014 relativamente a posizioni correlate a denunzie per frode fiscale, dichiarazione infedele ed omessa dichiarazione, gli incassi sono ammontati a 3 miliardi e 611 milioni di euro”. L’attività della procura – per molti aspetti – sembra rispecchiare anche l’andamento del Paese. Sempre il dipartimento per la lotta ai reati finanziari diretto da Francesco Greco, per esempio, registra “una leggera flessione delle dichiarazioni di fallimento e quella più marcata delle richieste di concordato preventivo e segnano indubbiamente una seppur timida inversione rispetto agli anni precedenti”. Mentre nella lotta ai reati fiscali, alcune indagini condotte con la collaborazione di Banca d’Italia, ha permesso di scoprire presunte evasioni da centinaia di migliaia di euro, che, in prospettiva potrebbero garantire entrate consistenti alle casse.

Imprenditori e criminalità organizzata: “un’azienda su tre cede per disperazione”

 

Il 35,9% delle imprese lombarde ritiene che gli imprenditori collusi con mafia e ‘ndrangheta “cedano” per non chiudere l’attività. Lo studio

Il 35,9% delle imprese lombarde ritiene che gli imprenditori collusi con mafia e ‘ndrangheta “cedano” per non chiudere l’attività, mentre il 31,6% crede che le collusioni non siano frutto di necessità, ma siano invece causate dalla voglia di incrementare il proprio giro d’affari. C’è chi cede alla criminalità organizzata perchè pensa di non avere altra scelta, per non dover ù presenza di detenuti al confino nel passato. I numeri sono stati presentati in occasione dell’incontro “Legalità e lotta alle mafie: la rete degli sportelli Riemergo e il servizio SOS Giustizia” promosso dalla Camera di commercio di Monza e Brianza. MONZA TODAY 4.2.2016


Mafia, al Nord gli imprenditori la scelgono per “convenienza”

 Se al Sud l’infiltrazione mafiosa in un’impresa è parte della “tradizione”, al Nord avviene ed è avvenuta per “convenienza”. Lo evidenzia la ricerca “Rischi di infiltrazione mafiosa nelle imprese del Nord”, svolta da Assolombarda con 30 interviste individuali a imprenditori e 460 questionari. Il 32% del campione sostiene che il primo passo dell’infiltrazione avvenga con meccanismi identici alla corruzione. In questo modo la mafia si mimetizza, appare il “normale” olio per ungere i meccanismi della burocrazia italiana. Perché questa è l’idea comune della corruzione: un meccanismo di cui non si può fare a meno e che in fondo non fa male a nessuno. Nulla di più sbagliato. Da quel primo avvicinamento, ci si porta in casa la criminalità organizzata che, come testimoniano tutte le 14 inchieste giudiziarie prese in esame nella ricerca di Assolombarda, alla fine estromette l’imprenditore e condanna un’impresa alla sua fine. Le autorità giudiziarie intervengono troppo tardi, quando ormai tutto è compromesso. E così l’esito non può che essere chiudere i battenti.
Non sono solo gli ambiti tradizionali come il movimento terra o l’edilizia a vivere il perenne rischio di infiltrazione. Dall’analisi dei dati emerge come logistica, produzione e vendita sono ugualmente sotto tiro. Lo stesso accade per la gestione del personale, per la scelta dei prodotti da acquistare e nella gestione dei servizi. Per quanto riguarda il Nord è comune a tutti gli intervistati l’ammissione di una profonda ignoranza soprattutto riguardo i rischi. Così gli imprenditori si lasciano avvicinare: un quinto pensando di incrementare il profitto, un quarto pensando di poter sopravvivere alla crisi, un altro quinto con l’idea di battere la concorrenza. La mafia si presenta alle imprese con un volto diverso da quello del boss o da quello della violenza.
Il decreto legislativo 231 del 2001 non è considerato sufficiente come strumento di prevenzione dall’infiltrazione mafiosa dal 54% del campione. Gli imprenditori chiedono maggiore controllo e difesa sociale da parte delle forze dell’ordine; l’incentivazione di reti di supporto che possano intervenire preventivamente, in anticipo rispetto alla segnalazione all’autorità giudiziaria e da ultimo una maggiore sensibilizzazione delle associazioni di categoria.
“Non abbiamo ancora notato un aumento delle denunce per casi di usura ed estorsione – afferma Antonio Calabrò, responsabile legalità di Assolombarda – ma non ci importa neppure. Il nostro vero obiettivo è aumentare la consapevolezza in modo che il contributo degli imprenditori, anche quando chiamati a testimoniare, possa essere più preciso e importante”. La speranza è che con la maggiore consapevolezza la strada della commistione con ambienti della criminalità organizzata sia esclusa fin dall’inizio. (lb) REDATTORE SOCIALE


L’ultima relazione della Commissione parlamentare antimafia cristallizza l’evoluzione dell’organizzazione connotata da «maggiore pericolosità»

 

La leadership mondiale nel narcotraffico, la dimensione sempre più globale e la capacità di infiltrarsi nell’economia e nelle istituzioni. Nella relazione conclusiva della Commissione parlamentare antimafia della passata legislatura, relazione pubblicata pochi giorni ifa, viene cristallizzata la forza della ‘ndrangheta: una forza desunta dalle audizioni dei rappresentanti della magistratura e delle forze dell’ordine e dai rappresentanti delle istituzioni e dalle risultanze delle missioni che la Bicamerale ha effettuato in Calabria (nelle città di Catanzaro e di Vibo Valentia, rispettivamente, il 28 e 29 settembre 2020 e il 19 e 20 ottobre 2020, nelle città di Cosenza e di Crotone in data 28 e 29 ottobre 2021 e, infine, in data 6 e 7 dicembre 2021 nella città di Reggio Calabria).

Sotto la lente della Commissione parlamentare antimafia anzitutto le dinamiche evolutive della ‘ndrangheta, in base all’analisi dell’allora ministro dell’Interno. Scrive l’Antimafia: «La ‘ndrangheta, organizzazione con strutturazione verticale e su base territoriale, le cui decisioni sono assunte da una apposita “Commissione”, con rispetto di usanze e ritualità consolidate, ha dimostrato propensione all’internazionalizzazione delle proprie attività, soprattutto con riferimento agli interessi criminali che collegano l’Europa e il Sud America. La vocazione imprenditoriale della ‘ndrangheta continua ad essere alimentata dalle ingenti risorse provenienti dal narcotraffico internazionale, dalle infiltrazioni negli appalti pubblici, dalle estorsioni e da altre fonti illecite, reinvestite nel circuito dell’economia legale. I riscontri investigativi e giudiziari ne confermano il primato nel narcotraffico mondiale, settore per il quale le attività di contrasto si sviluppano attraverso una intensa cooperazione internazionale, realizzata con scambi informativi ed operativi tramite Interpol, Europol, e con l’ausilio di task force e joint investigation team». L’Antimafia poi annota che «la ‘ndrangheta si è infiltrata in enti locali di regioni fino a poco tempo fa ritenute al riparo da tali rischi, come attestato da procedimenti penali (operazioni Aemilia, Minotauro, Crimine Infinito) e da scioglimenti di amministrazioni comunali (Sedriano in Lombardia, Brescello in Emilia) che hanno interessato aree diverse da quelle tradizionali».
«L’organizzazione connotata da maggiore pericolosità per la sua vocazione transnazionale e la capacità di allacciare rapporti con esponenti della finanza, dell’economia e delle istituzioni politico-amministrative». Così nelle loro audizioni i vertici delle forze dell’ordine hanno descritto la ‘ndrangheta approfondendo il quadro di insieme delineato sopra. Una organizzazione che – si legge nella relazione  – «ha una struttura unitaria, con un organismo di vertice (il “Crimine”) e una pluralità di articolazioni territoriali (“locali”), legate tra loro con strutture di coordinamento intermedio (“mandamenti”). Le indagini svolte documentano, nella provincia di Reggio Calabria, tre mandamenti: centro, ionico e tirrenico. Nel novembre 2020 è iniziato il processo “Rinascita Scott”, a seguito dell’operazione relativa alla cosca dei Mancuso di Limbadi coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro e svolta dall’Arma dei carabinieri, che ha condotto all’arresto di 334 soggetti e al sequestro di beni per 15 milioni di euro. La cosca, come ha riferito il Prefetto Giannini, aveva reimpiegato capitali illeciti per acquistare strutture turistico-alberghiere nel vibonese e nel foggiano, creando una serie di società nel Regno Unito, attraverso imprenditori e professionisti collusi. Altra importante indagine, condotta nel 2019 dalla Guardia di Finanza congiuntamente alla Drug Enforcement Administration (Dea) statunitense, ha consentito di individuare a Bogotà un soggetto appartenente al clan Alvaro di Sinopoli in trattativa con il cartello dei narcos per l’acquisto di 368 chili di cocaina, per un valore di oltre cento milioni di euro, poi sequestrati nel porto di Genova». Secondo il report «l’assetto organizzativo sopra indicato è stato replicato in tutte le regioni, anche del Nord, ove la ‘ndrangheta si è infiltrata e radicata (Piemonte, Lombardia, Trentino, Emilia-Romagna). Nuovi insediamenti delle cosche sono stati individuati tra la Liguria e la Costa Azzurra. Inoltre è confermata la presenza storica delle ‘ndrine in Australia, Germania e Canada. Nel 2019 la Corte Superiore di Giustizia di Toronto, a riprova della spiccata capacità espansiva internazionale delle cosche calabresi, ha riconosciuto, con sentenza di condanna, l’operatività della ‘ndrangheta in Canada. Peraltro il radicamento all’estero è sempre stato funzionale ad assicurare sicurezza ai latitanti e costituire le basi per lo sviluppo del narcotraffico». Dalle audizioni, soprattutto a Reggio Calabria, infine la Commissione parlamentare antimafia riporta che «si è poi dato atto di un aspetto che è sempre stato percepibile nell’operare della ‘ndrangheta, ossia l’esistenza di una componente segreta o riservata, occultata attraverso l’utilizzo strumentale dei vincoli personali, professionali, istituzionali o anche di tipo massonico». (redazione@corrierecal.it) 8.4.2023


Imperi criminali, Vito Roberto Palazzolo e la famiglia Cuntrera-Caruana

Nel 1982 vengono accertati altri trasferimenti di ingenti somme di dollari, attraverso un nuovo canale di intermediazione. Questa volta sono Della Torre, Rossini e Palazzolo che operano per il trasferimento di dollari. Si osservi che, secondo quanto dichiarato dall’Amendolito, il Tognoli ed il Miniati per conto del gruppo americano si erano già rivolti al Della Torre nel 1980-81 per operare detti trasferimenti, ma non avevano raggiunto l’accordo per la tangente troppo elevata richiesta dal Della Torre. Del resto pregressi contatti tra il Miniati ed il Della Torre si desumono dalla circostanza che entrambi hanno lavorato presso la Finagest. Il Rossini è il titolare della S.a. Traex, società finanziaria di Lugano, operante soprattutto nel campo delle operazioni su merci. Il Della Torre si rivolge al Rossini affinchè questi gli consenta di operare attraverso “i conti della Traex aperti presso due società di brokeraggio di New York, la Merryl Lynch e la Hutton. Il Rossini afferma che il Della Torre gli disse che operava per conto di ricchi clienti americani; in particolare gli precisò che le grosse somme con cui voleva compiere operazioni su merci sulla borsa di New York provenivano dalla vendita di stabili negli Stati Uniti, il cui ricavato non era stato dichiarato fiscalmente. Uno dei grossi clienti del Della Torre secondo le dichiarazioni del Rossini era il Palazzolo. Il Della Torre operava a mezzo della società P.G.K. Holding, che aveva sede negli stessi locali della Traex. Detta sede, e di conseguenza anche i locali della Traex, era abitualmente frequentata anche dal Palazzolo.
La partecipazione del Palazzolo alle operazioni di trasferimento si desume, oltre che dalla sua costante presenza nei locali della Traex e della P.G.K. e dalle dichiarazioni del Rossini secondo cui il Palazzolo era uno dei clienti del Della Torre che voleva trasferire denaro dagli Stati Uniti alla Svizzera, anche dalla circostanza che è il Palazzolo, che mette in contatto il Della Torre con Philip Salamone, colui che consegnerà materialmente in più occasioni il denaro “al Della Torre in New York, e uomo del gruppo Catalano-Ganci-Castronovo, ed inoltre il Palazzolo terrà continui contatti telefonici col medesimo Salamone. I trasferimenti di dollari ad opera del Della Torre iniziano nel marzo 1982. Il Della Torre si reca personalmente a New York, alloggia sempre in alberghi diversi, si muove quasi sempre con Philip Salamone, ed opera ingenti versamenti in contanti prima sul conto Traex presso la Merril Lynch, poi successivamente sul conto Traex presso la Hutton di New YorK. Durante tutti i soggiorni a New York il Della Torre è stato sotto osservazione della polizia americana, che ne riferisce al Giudice distrettuale con la postilla alla richiesta di mandati di cattura e con la clausola aggiunta ai mandati di perquisizione.
L’FBI ha accertato che i l Della Torre dal 24.3.1982 al 23.4.1982 ha effettuato diversi versamenti per la somma complessiva di 4,9 milioni di dollari presso la Merril Lynch e dal 27.4.1982 al 2.7.1982 versamenti per 5,2 milioni di dollari presso la Hutton per un totale di 10,1 milioni di dollari. Dal 6.7.82 al 27.9.1982 il Della Torre ha “effettuato ben undici versamenti per 8,25 milioni di dollari sul conto della “Acacias Development Corporation” presso la Hutton di New York. Si osservi che la Acacias era una società del Palazzolo, ovvero di fatto gestita dal medesimo. In totale quindi il Della Torre ha versato 18,3 milioni di dollari. Una parte di queste somme fu poi trasferita sul conto P.G.R. presso la Hutton.
Queste operazioni trovano in gran parte riscontro documentale nella documentazione della Traex prodotta dallo stesso Rossini. Da questa documentazione (v. fasc.commissione rogatoria al G.l. di Lugano del 13.12.1983 acquisizione documenti) risulta un flusso di accrediti in dollari per circa 8,5 milioni, in gran parte transitati dal Credito Svizzero di Chiasso. Di tali somme circa 3,4 milioni vengono trasferiti sul conto “Graziano” presso il Credito Svizzero di Chiasso di Della Torre Franco, circa 1,8 milioni vengono trasferiti sul conto 631770 presso la Unione Banche Svizzere di Bellinzona, intestato a tale Ajello Michelangelo; infine circa tre milioni di dollari risultano prelevati in contanti. Non è stato possibile effettuare il riscontro documentale per quanto riguarda i trasferimenti operati sui conti “della P.G.R. e della Acacias, in quanto la relativa documentazione, benchè sequestrata su richiesta di questo G.I., è tuttora giacente presso l’A.G. elvetica in attesa di definizione della pratica estradizionale di Palazzolo Vito. Durante il periodo di osservazione del Della Torre è stato rilevato che ad ogni viaggio a New York mutava alloggio e ciò evidentemente per sfuggire ad eventuale sorveglianza. Il Della Torre era in stretto contatto con Philip Salamone. Questi, a sua volta, risultava in continuo contatto telefonico con Giuseppe Ganci e Salvatore Salamone. Successive investigazioni ed appostamenti consentiranno all’F.B.I. di accertare contatti diretti di Philip Salamone con Salvatore Grec~;(fratello di Leonardo Greco n.d.r.); un incontro con Castronovo e Mazzara presso la Sal’s Pizza di Eptune City ed un incontro con persona sconosciuta presso la Pronto Demolition (soc. di Mazzurco, Bono e Ligammari). Non vi possono essere dubbi, pertanto, circa la provenienza del denaro dal gruppo Ganci-Catalano-Castronovo, mentre la fantasiosa storia dei misteriosi clienti arabi narrata “dal Della Torre in accordo con il Palazzolo (peraltro priva di ogni riscontro) deve ritenersi un mero espediente difensivo privo di ogni fondamento. Tale versione, inoltre, è in contrasto con quanto dichiarato dal Rossini secondo cui il Della Torre gli avrebbe riferito che lui operava per clienti americani e per conto del Palazzolo. E tale circostanza trova una indiretta conferma in quanto dichiarato dal Palazzolo, secondo cui sarebbe stato il Della Torre a riferirgli che Ganci, Catalano e Castronovo erano personaggi, che avevano contatti vecchi da anni in certi ambienti finanziari del luganese. Qui il Palazzolo riferisce una circostanza vera, risultando la stessa aliunde, ma mente quando afferma di averla appresa dal Della Torre, in quanto, come risulta dalle indagini dell’F.B.I., egli era in continuo contatto telefonico con Philip Salamone, che era appunto un semplice galoppino del gruppo Ganci-Castronovo-Catalano. Allo stesso modo dalle dichiarazioni del Palazzolo risulta che anche il Rossini conosceva “don Peppino Ganci”, proprietario di una catena di ristoranti in America, e lo stesso Rossini riferisce al Palazzolo che già in “precedenza in certi ambienti finanziari luganesi si era operato per trasferire capitali dagli Stati Uniti alla Svizzera.
La provenienza del denaro, le analoghe modalità di trasferimento, gli accertati rapporti del Della Torre con il Miniati, l’Amendolito ed il Tognoli, inducono a ritenere fondatamente che anche queste somme fossero destinate al medesimo gruppo mafioso, che era il gruppo Bono – Salamone, corrispondente in Italia del gruppo Catalano-Ganci-Castronovo.
In conclusione, alla stregua di quanto sopra esposto, risulta accertato documentalmente negli anni 80-81 e 82 un movimento di circa 30 milioni di dollari, proveniente dal gruppo Catalano-Ganci-Castronovo, transitante attraverso banche svizzere e destinato all’organizzazione criminosa operante in Milano, Roma e Sicilia, provento del traffico di stupefacenti.
Da elementi acquisiti a seguito di altre investigazioni sono emersi poi altri movimenti di denaro in Svizzera ed in Italia ricollegabili all’attività dell’organizzazione e relativi, verosimilmente, attesa l’elevatezza delle cifre, a riciclaggio di danaro proveniente da traffico di stupefacenti.
“In data 20 e 21 luglio 1982 vengono registrate sull’utenza palermitana intestata a Masi Adalgisa ed in uso a Salamone Nicolò due telefonate: la prima tra Nicolò Salamone e Renato Giussani, la seconda tra il medesimo Nicolò ed Alfonso Caruana. Il Salamone dice al Giussani che effettuerà un versamento su di un conto di questi in Svizzera, quindi il Giussani dovrà dare la somma ad una persona di cui fornisce l’utenza svizzera, utenza risultata intestata ad Alfonso Caruana. Nell’altra, il Salamone parla direttamente con Alfonso Caruana e gli annuncia che riceverà una telefonata del Giussani relativa alla somma da consegnare. Informazioni della polizia americana rendevano noto che proprio il 21.7.1982 veniva effettuato un versamento di 60.000 dollari sul conto Agape 220-168 del Credito Svizzero di Chiasso. La circostanza troverà, poi, conferma documentale a seguito dell’acquisizione della relativa documentazione bancaria a mezzo rogatoria internazionale. Il Giussani ha ammesso di essere il titolare del suddetto conto, di aver ricevuto il bonifico dal Salamone e di aver consegnato la somma di 60.000 dollari al Caruana, anche se “afferma di non conoscerne l’identità. Si consideri, inoltre, che nello stesso mese di luglio l’utenza del Caruana risulta chiamata da Parigi da tale Rocca, che è il falso nome con cui viaggiava Alfredo Bono.
Si evidenzia dunque la continuità dell’attività di riciclatore del Giussani che va dall’80 fino alla data dell’arresto, attività svolta in diretto contatto con i membri più influenti dell’associazione (Bono, Salamone). Al contempo emerge la presenza ed il ruolo, nell’ambito del riciclaggio, di Alfonso Caruana, membro della famiglia Caruana, strettamente legata alla famiglia Cuntrera di cui risulta il permanere dei contatti con i Salamone. Anche detti contatti risultano dalla documentazione bancaria acquisita (v. assegni di Cutrera A. incassati da Salamone) (rogatoria Zurigo).
Nei giorni del luglio 1982 in cui i fratelli Salamone si trovavano a Zurigo (dal 14.7 al 19.7 il Nicolò e fino al 22.7 Antonino) furono oggetto di sorveglianza da parte di agenti della D.E.A. (all.23 e segg. al rapporto). Gli stessi hanno avuto contatti telefonici con Caruana Alfonso e Giussani Renato, hanno viaggiato su di “un’auto intestata al Caruana, sono stati visti entrare in diverse banche ed incontrarsi personalmente con tale Garbani, impiegato della Sogenal (Banque Societè Alsacienne). Sentito come teste il Garbani ha precìsato che fratelli Salamone erano clienti della Sogenal, presso cui avevano conti e depositi, ed erano (o erano stati) clienti della V.B.S. di Horgen; che gli stessi movimentavano sui loro conti ingenti somme di dollari spesso provenienti da banche svizzere del Ticino, e che, a suo parere, i Salamone intrattenevano rapporti con parecchie grosse banche in Svizzera. La documentazione acquisita a mezzo rogatoria dalla Sogenal nonchè dalla V.B.S. di Horgen confermava quanto dichiarato dal Garbani in ordine alla presenza di conti intestati ai due fratelli ed alla loro movimentazione. In particolare si notavano rimesse per somme ingenti (400.000/500.000 dollari), si notava anche un accredito di 400.000 dollari proveniente dalla Discount Bank di Lugano, banca sulla quale operava abitualmente Nunzio Guida, il quale alla stregua delle dichiarazioni del Garavelli, risulta strettamente legato a Salamone A., nel grosso affare di droga progettato in Brasile.


 

 

 

 

 

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Relazione_Sem_II_2021-1