Il 416 BIS deve diventare europeo

 

 


Sarebbe un errore colossale pensare che le mafie sono un problema italiano. Non è così. Io mi auguro che gli stati europei non facciano l’errore fatto dalle regioni del Nord Italia dove nei decenni passati prevalse l’idea che la mafia fosse un problema del Mezzogiorno d’Italia. Fu un errore che stiamo pagando ancora adesso. (Enzo Ciconte)

 

“Per un 416 BIS europeo” (a cui aderiscano anche Svizzera e Gran Bretagna) SI CHIEDE  che la Commissione Europea promuova una proposta legislativa di DIRETTIVA ANTIMAFIA EUROPEA


Art. 416-bis, codice penale – Associazione di tipo mafioso 

Chiunque fa parte di un’associazione di tipo mafioso formata da tre o più persone, è punito con la reclusione da tre a sei anni. Coloro che promuovono, dirigono o organizzano l’associazione sono puniti, per ciò solo, con la reclusione da quattro a nove anni.
L’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per
acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri.
Se l’associazione è armata si applica la pena della reclusione da quattro a dieci anni nei casi previsti dal primo comma e da cinque a quindici anni nei casi previsti dal secondo comma.
L’associazione si considera armata quando i partecipanti hanno la disponibilità, per il conseguimento della finalità dell’associazione, di armi o materie esplodenti, anche se occultate o tenute in luogo di deposito.
Se le attività economiche di cui gli associati intendono assumere o mantenere il controllo sono finanziate in tutto o in parte con il prezzo, il prodotto, o il profitto di delitti, le pene stabilite nei commi precedenti sono aumentate da un terzo alla metà.
Nei confronti del condannato è sempre obbligatoria la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prezzo, il prodotto, il profitto o che ne costituiscono l’impiego. Decadono inoltre di diritto le licenze di polizia, di commercio, di commissionario astatore presso i mercati annonari all’ingrosso, le concessioni di acque pubbliche e i diritti ad esse inerenti nonché le iscrizioni agli albi di appaltatori di opere o di forniture pubbliche di cui il condannato fosse titolare.
Le disposizioni del presente articolo si applicano anche alla camorra e alle altre associazioni, comunque localmente denominate, che valendosi della forza intimidatrice del vincolo associativo perseguono scopi corrispondenti a quelli delle associazioni di tipo mafioso


Il 13 settembre 1982 il Parlamento italiano approva la legge 646/92 e introduce l’art.416 bis nel codice penale. Essere mafiosi è finalmente reato.  La Legge Rognoni La Torre rappresenta una  grande conquista dello Stato nella lotta alla mafia la legge  ma che si lascia alle spalle un prezzo troppo caro.  Prima il sangue di  Pio La Torrepromotore della legge, il 30 aprile 1982, poi quello del Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, il 3 settembre 1982. “Questo particolare la dice tutta sull’impegno “schizofrenico” dello Stato nella lotta alla mafia: prima di avere le leggi giuste e i poteri giusti per combatterla sono sempre serviti i morti “eccellenti”. GIOVANNI FALCONE


11 dicembre 1986 Dall’audizione di Paolo Borsellino in Commissione Parlamentare Antimafia


A poco più di 5 mesi dall’omicidio di Pio La Torre e dopo 10 giorni dall’assassinio di dalla Chiesa, il 13 settembre 1982, venne promulgata la legge n. 646, nota come legge “Rognoni-La Torre”, che introdusse per la prima volta nel codice penale la previsione del reato di “associazione di tipo mafioso” (art. 416 bis) e la conseguente previsione di misure patrimoniali applicabili all’accumulazione illecita di capitali. Il primo rapporto giudiziario di denuncia per il 416 bis venne trasmesso all’A.G., dalla Sezione Anticrimine e dalla Squadra Mobile di Palermo, l’8 febbraio 1983, con la denuncia di Riccobono Rosario + 39.  Gen. ANGIOLO PELLEGRINI (già stretto collaboratore dei giudici Falcone e Borsellino)

 



“Entro in casa e gli taglio il cuore”, “In Svizzera non c’è il 416 bis”: così la ‘ndrangheta si è presa il mercato della coca in Europa
Grandi abbuffate e abiti gessati: imprenditori, politici e bassa manovalanza in un mix tra metodi arcaici e nuove frontiere. È la “Nuova Narcos europea” con al vertice la cosca Molè della piana di Gioia Tauro che ha dato il nome all’ultimo maxi blitz, con 104 arresti   
«Stanno bene in Svizzera… In Svizzera non esiste il 416 bis». Sono gli stessi indagati a parlarne intercettati: i tentacoli della ‘ndrangheta, dalla Calabria non sono più radicati solo nel Nord Italia, a partire dalla Lombardia. Ma hanno raggiunto ben altre latitudini, fino a creare una “locale Europea”, con propaggini soprattutto in Svizzera e in Germania. La “Nuova Narcos europea”, con al vertice la cosca Molè della piana di Gioia Tauro, ha dato il nome all’ultimo maxi blitz, con 104 tra arresti e fermi, e sequestri per oltre due milioni di euro, coordinato dalle Dda di Reggio Calabria, Milano, Firenze, e con la collaborazione delle autorità svizzere.  Tratto da LA STAMPA 16.11.2021


La crisi e le sue potenziali ricadute economiche e sociali minacciano di creare le condizioni ideali per la diffusione della criminalità organizzata nella Ue”, spiega Europol.
Due esempi emergono dal rapporto europeo: l’infiltrazione della criminalità organizzata nello smaltimento illecito di rifiuti sanitari, scoperta in Spagna, e nel commercio di prodotti sanitari anti-Covid contraffatti e illegali, che ha coinvolto anche l’Italia.
Dallo scoppio della pandemia, Europol ha individuato la potenziale crescita del trattamento e dello smaltimento illecito dei rifiuti sanitari, il loro stoccaggio, scarico e spedizione come un nuovo business per le mafie europee.
Il 25 settembre 2020, una maxioperazione sovranazionale ha scoperto e rimosso dal web 123 account di social media e 36 siti che vendono prodotti contraffatti, sequestrando merci illegali e contraffatte per quasi 28 milioni, con 10 persone arrestate in Grecia e altre 37 denunciate in Grecia, Italia e Portogallo.
L’indagine ha portato al sequestro, tra l’altro, di apparecchiature mediche contraffatte e non conformi, tra cui 27 milioni di mascherine scoperte in Italia dalla Guardia di Finanza. Ma i codici di molti Paesi Ue non contemplano ancora gli specifici reati di associazione mafiosa: oltre a un coordinamento delle polizie europee serve una nuova cultura penale. Perché dopo l’Italia, le mafie possono aggredire e impoverire anche il resto d’Europa. Nicola Borzi 27.12.2021 FQ



RELAZIONE

Presidenza del Consiglio dei Ministri Ufficio legislativo Commissione per l’elaborazione di proposte normative in tema di lotta, anche patrimoniale, alla criminalità organizzata (DPCM 30.5.2014) Relazione ed Articolato

 


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Cosa si intende per associazione mafiosa? Il 416 bis c.p.

L’articolo 416 bis è stato introdotto nel Codice Penale, tra i delitti contro l’ordine pubblico, con la L. 646/1982, altrimenti nota come “Rognoni-La Torre”, al fine di estendere la punibilità anche alle condotte non rientranti nell’associazione per delinquere ex 416 c.p., perché di per sé lecite o perché non connotate dalla volontà di realizzare singole fattispecie criminose.

Associazione mafiosa: quale bene giuridico tutela il 416 bis? In virtù del rapporto di specialità che intercorre tra gli articoli 416 e 416 bis, il bene giuridico tutelato dalla fattispecie de qua è sicuramente l’ordine pubblico, da intendersi nella sua accezione materiale. Parte della dottrina ha poi sostenuto che possa ritenersi protetto anche il bene della libertà morale dei cittadini, intesa come facoltà di autodeterminazione degli stessi. Inoltre, sono stati individuati altri beni giuridici che la norma tutelerebbe, definiti come “secondari”: la giurisprudenza si è uniformata a tale impostazione, specificando come i suddetti beni siano posti all’interno della fattispecie come alternativi e non cumulativi. Questo in maniera coerente con la finalità perseguita al momento della previsione legislativa, ovvero quella di ampliare la punibilità estendendola anche ad attività in sé formalmente lecite (Cass. pen., n°1793/1993). In particolare, il 416 bis tutelerebbe anche il corretto andamento dell’ordine economico, soprattutto in quanto l’attività di riciclaggio costituirebbe il trait d’union tra l’associazione di tipo mafioso e la finanza. Tutelerebbe, poi, il corretto funzionamento della Pubblica Amministrazione, che risulterebbe leso dall’attività dell’associazione mafiosa diretta ad influenzare la concessione di appalti, autorizzazioni e servizi. Infine, il corretto funzionamento del potere reale rispetto alla volontà dei consociati, ossia il generale ordine democratico, leso da quelle condotte non solo volte ad influenzare le consultazioni democratiche, ma anche l’infiltrazione mafiosa all’interno del sistema pubblico. Pertanto, il reato de quo ha natura plurioffensiva, ed è un reato a pericolo concreto, plurisoggettivo necessario comune, cioè realizzabile da chiunque.

  • Per conoscere le differenze con l’art. 416 c.p., clicca qui.

Quali sono gli elementi costitutivi del reato? La forza di intimidazione. Si discute se questa debba valutarsi a prescindere dalla sua effettiva utilizzazione o meno, in quanto sia dottrina che giurisprudenza risultano divise tra questi due orientamenti. Da un primo punto di vista, infatti, essa non sarebbe una modalità di realizzazione della condotta dei singoli associati, ma un elemento strumentale, legato all’in sé del vincolo associativo; per la giurisprudenza, accessorio rispetto all’attuazione dei fini alternativamente indicati nella fattispecie incriminatrice, che non deve essere necessariamente utilizzato dai singoli associati perché si realizzi la condotta di partecipazione (Cass. pen. n° 13070 e 3492 del 1987). Diversamente, non potendo discostarsi dal tenore letterale della norma, la condizione di assoggettamento ed omertà deve ricollegarsi al concreto avvalersi della forza intimidatrice che deriva dal vincolo; sarebbe quindi necessario che l’associazione abbia conseguito, in concreto, nell’ambiente circostante nel quale essa opera una effettiva capacità di intimidazione e che gli aderenti se ne siano avvalsi in modo effettivo al fine di realizzare il loro programma criminoso (Cass. pen. n°1612/2000). La latitanza sarebbe stata ritenuta un indice sintomatico della forza di intimidazione, per la diffusa sensazione di impunità che rende incombente la sensazione di pericolo in chiunque pensi di ostacolare il raggiungimento dei fini associativi (Cass. pen. n°2324/2000). La condizione di assoggettamento e di omertà. Esse sono le dirette conseguenze dell’effettivo manifestarsi della forza di intimidazione del vincolo associativo, risultano come elementi normativi inscindibili, in modo che la prima sia premessa necessaria della seconda (Cass. pen. n°1524/1986). L’assoggettamento consiste in uno stato di sottomissione o succubanza psicologica che si manifesta nelle potenziali vittime del sodalizio, e non è assolutamente da riferire ai singoli associati, ipotizzando un rapporto di soggezione tra questi e i capi. L’omertà costituisce un elemento tipico della fattispecie e si correla con un rapporto di causa a effetto, alla forza di intimidazione dell’associazione di tipo mafioso. Consiste nel rifiuto di collaborare con gli organi dello Stato. Tale atteggiamento  può derivare dalla paura di danni ala propria persona, ma anche dall’attuazione di minacce che possono realizzare danni rilevanti, di modo che sia diffusa la convinzione che la collaborazione con l’autorità giudiziaria non impedirà che si abbiano ritorsioni dannose, per la persona del denunciante, in considerazione della ramificazione dell’associazione, della sia efficienza, della sussistenza di altri soggetti non identificabili forniti del potere di danneggiare chi ha osato contrapporsi (Cass. pen. n° 1612/2000)

Le finalità. Il 416 bis è caratterizzato da una maggior ampiezza dello scopo perseguito, non limitato alla generica commissione di più delitti, ma che ricomprende anche attività volte all’infiltrazione dei sodalizi criminosi nella politica, nella Pubblica Amministrazione e nel mondo economico. Le finalità devono essere intese in senso alternativo, non cumulativo; inoltre, ai fini della configurabilità del delitto in questione non è necessario che le medesime siano effettivamente e concretamente raggiunte (Cass. pen. n°7627/1996).

Associazione mafiosa: l’elemento oggettivo È un reato di mera condotta e le condotte punibili, analogamente a quanto previsto alla fattispecie generale ex 416, e con esclusione della figura del costitutore, sono la partecipazione, la promozione, la direzione e l’organizzazione. Dottrina e giurisprudenza hanno ritenuto concordemente che l’articolo de quo preveda una pluralità di figure criminose dotate di carattere alternativo e di intrinseca autonomia. Per quanto concerne quella partecipativa, appurata la costituzione di una struttura dotata di un coefficiente minimo di organizzazione, essa consiste nell’apporto di un contributo non insignificante da parte dell’associato, inserito attivamente all’interno della stessa struttura. In particolare, deve sussistere un contributo apprezzabile e concreto sul piano causale al rafforzamento o alla mera esistenza dell’associazione, indipendentemente da ruolo assunto (Cass. pen. n°6203/1991), purchè diretto al perseguimento delle sue finalità divenute causa comune dell’agire del singolo e della struttura delinquenziale.

Per la descrizione delle condotte di promozione, direzione e organizzazione si rimanda al 416. Non è configurabile il tentativo, così come per il 416. Il reato, essendo a natura permanente, si perfeziona non appena sia raggiunto il minimum  di mantenimento della situazione necessaria per la sussistenza del singolo reato, e si consuma quando sia cessata la condotta volontaria di mantenimento.

Elemento soggettivo: il dolo specifico L’elemento soggettivo richiesto è il dolo specifico di voler far parte dell’associazione, con la consapevolezza degli scopi cui l’associazione medesima è finalizzata e dei mezzi intimidatori di cui è solita servirsi. Oggetto del dolo è la prestazione di un contributo utile alla vita del sodalizio, ed alla realizzazione dei suoi scopi: la differenza che intercorre tra il caso di partecipazione e di concorso esterno è che il primo lo fornisce all’interno dell’associazione, il secondo lo presta senza far parte della compagine sociale (Cass. pen. 4342/2004). Il conseguimento del controllo delle attività economiche non è un elemento costitutivo della fattispecie, ma una finalità nell’ambito del dolo specifico, di modo che non è necessario che il controllo venga realmente assunto per la consumazione del reato (Cass. pen. n° 1793/1993). È esclusa la configurabilità del dolo eventuale.

Varie Sono previste alcune circostanze aggravanti


In primis, la detenzione, anche potenziale, di armi: è sufficiente che riguardi alcuni degli associati, essendo di natura oggettive, e quindi estendibile a tutti. È sufficiente la detenzione o l’occultamento, non essendo necessaria l’effettiva utilizzazione delle stesse (Cass. pen. n°2131/1987 e 1896/1987).

In secundis, il finanziamento delle attività economiche con il prezzo, il prodotto e il profitto di delitti. Si vuole punire quelle associazioni che siano state in grado di raggiungere lo scopo criminoso prefissato e che intendano reinvestirne i profitti (G. Spagnolo, cit. 123). Ha natura oggettiva, e quindi a riferita all’associazione complessivamente, non ai singoli associati, che ne rispondono in virtù della mera partecipazione. Infatti, essa si presenta come attributo della specifica associazione, qualificandone la pericolosità alla pari del suo carattere armato, ed è quindi valutabile a carico di ogni componente del sodalizio ex art.59 co. II (Cass. pen. n° 856/1999). La natura di attività economica va identificata come un intervento in strutture produttive dirette a prevalere, nel territorio di insediamento, sulle altre strutture che offrano gli stessi. DIRITTO.IT


 





ANTIMAFIA, SERVONO NORME EUROPEE –
di Vincenzo Musacchio

In Europa, i ventotto Stati membri hanno altrettanti codici penali diversi tra loro e solo quello italiano prevede una normativa antimafia efficace e avanzata anche se da adeguare alle ultime metamorfosi mafiose. La situazione corrente richiede interventi normativi immediati a livello europeo al fine di porre freno alla diffusione delle organizzazioni criminali, combattere i reati più comunemente commessi dalle mafie e impedire le infiltrazioni nell’economia e nel mondo finanziario. Occorrerà lavorare sul requisito del “metodo mafioso” aggiornando la nostra fattispecie del 416-bis riguardo ai tradizionali elementi sociologici e ambientali tipici delle mafie italiane. In questo modo, soprattutto in Europa, sarà più semplice incanalare in questa nuova fattispecie incriminatrice le nuove evoluzioni delle mafie classiche. Dovremo comprendere nel nuovo reato quelle condotte che non includano necessariamente la violenza, ma inglobino ad esempio la corruzione. Le nuove organizzazioni criminali hanno spostato l’asse portante del loro sodalizio dalla militarizzazione alla corruzione. Le nuove mafie sono sistemi criminali complessi di cui fanno parte esponenti di settori diversi della società: politica, economia, finanza, pubblica amministrazione, istituzioni centrali e locali, colletti bianchi, imprenditoria, massoneria e così via. Questi sistemi criminali multiformi richiedono strumenti penali adeguati alla loro complessità soprattutto in ambito europeo. Le condotte contenute dagli articoli 416-bis (“i sistemi criminali non usano il metodo mafioso”) e 416 (“l’associazione per delinquere semplice è una norma riduttiva”) sono ormai obsolete anche in Italia. Conseguentemente sono indispensabili soluzioni di politica criminale in ambito europeo che tengano in considerazione queste continue metamorfosi. Personalmente penso a una nuova fattispecie incriminatrice che possa far rientrare nell’alveo dell’art. 416-bis c.p. anche le relazioni illecite fra apparati pubblici e crimine organizzato in forma stabile e associata. Alle mafie di oggi basta corrompere per ottenere ciò che vogliono. Lo strumento per far ciò è la corruzione che ormai si estende in molteplici settori economici e delle pubbliche amministrazioni. Le nuove mafie governano il territorio, acquisiscono pubblici servizi, appalti, interi comparti economici, senza l’uso di quelle che si ritenevano fossero le loro armi principali (intimidazione, violenza, minaccia), ma assoggettano le loro vittime (sia esso un imprenditore concorrente, un funzionario pubblico o un qualsiasi altro cittadino) senza fare ricorso all’uso della violenza mafiosa ma con metodi di persuasione economica (corruzione) o di rassegnazione (inglobando la vittima nel sistema criminale). Il metodo corruttivo, sulla base del nostro ragionamento, va collocato nell’alveo dei sistemi attraverso cui le mafie possono indurre assoggettamento. L’uso stabile e continuo del metodo corruttivo da parte delle associazioni mafiose, determina, di fatto, l’acquisizione in capo alle stesse, dei poteri dell’autorità pubblica che governa il settore amministrativo ed economico che è infiltrato. Va rivisto l’articolo 416-bis del codice penale italiano e contestualizzato in ambito europeo introducendo una nuova previsione normativa che possa colpire i colletti bianchi che agevolano o fanno affari con le mafie. Il mio maestro Antonino Caponnetto sosteneva che la mafia fosse un’entità criminale in continua evoluzione che si adattasse facilmente ai mutamenti dell’ambiente circostante. Ecco, dunque, il perché di un rinvigorimento dell’articolo 416-bis del codice penale con una modifica in ambito europeo che dal punto di vista tecnico-giuridico, potrebbe essere costruita dalla previsione proprio del metodo corruttivo. Ormai dobbiamo pensare alle mafie che manifestano la loro forza intimidatoria utilizzando un campionario di strumenti corruttivi duttile, invisibile e capace di infiltrarsi in profondità in ambito pubblico e privato. La loro enorme potenzialità, frutto di un’economia parallela a quella dello Stato, garantisce, silenziosamente, senza un colpo di pistola, ma in modo molto più efficace, il raggiungimento delle finalità mafiose. L’indagine italiana denominata “Mafia Capitale” ha rivelato un aspetto indubbiamente inquietante: quello delle attività tese a influenzare illecitamente le nomine dei dirigenti e dei responsabili dei servizi e degli uffici pubblici che governano il settore economico che il sodalizio intende controllare. Gli interessi economici in gioco sono enormi: i danni provocati dalle mafie nell’economia degli altri Paesi europei, privi d’idonei strumenti di contrasto sono smisurati. La necessità di un 416-bis a livello europeo è essenziale per sconfiggere la criminalità organizzata con regole comuni e condivise. 14 maggio 2020

Vincenzo Musacchio, giurista e docente di diritto penale, associato della School of Public Affairs and Administration (SPAA) presso la Rutgers University di Newark (USA). Presidente dell’Osservatorio Antimafia del Molise e Direttore scientifico della Scuola di Legalità “don Peppe Diana” di Roma e del Molise, è stato allievo di Giuliano Vassalli e amico e collaboratore di Antonino Caponnetto.

Associazione di tipo mafioso – TRECCANI


L’indagine si sofferma sulla struttura della fattispecie associativa di cui all’art. 416 bis c.p.,
incentrandosi sui mezzi e sui fini perseguiti dagli associati. Elemento tipico e fulcro fondante della norma è il metodo mafioso, la cui caratteristica consiste nella carica intimidatrice del vincolo associativo, da cui conseguono le condizioni di assoggettamento e di omertà
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  1. Premessa  La disposizione incriminatrice di cui all’art. 416 bis c.p. (Associazioni di tipo mafioso anche straniere) costituisce l’approdo di un lungo percorso giuridico, sociologico e storico, volto ad apprestare un’efficace tutela penale rispetto a fenomeni aggregativi di tale peculiarità da non essere sempre inquadrabili e sanzionabili alla stregua di altre figure di reato di natura associativa. Può fondatamente ritenersi che l’origine della fattispecie associativa di tipo mafioso debba individuarsi nell’insufficienza, conclamata dall’esperienza giudiziaria degli anni ’60-’70, della disposizione di cui all’art. 416 c.p., nel reprimere le multiformi manifestazioni del fenomeno mafioso, spesso caratterizzate da apparente liceità di condotte viceversa connotate da modalità attuative cui è strumentale la forza intimidatrice dell’associazione stessa. L’attuale testo normativo delinea e definisce il più esattamente possibile i comportamenti mafiosi tipici, conferendo una definizione giuridico-penale a una categoria criminologica di notevole complessità, con ovvie quanto inevitabili ricadute anche sul piano dell’accertamento processuale.
  2. Genesi della norma  La prima formulazione dell’art. 416 bis c.p., introdotta dalla l. 13.9.1982, n. 646, è frutto di una gestazione ventennale iniziata con la istituzione della Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia (l. 20.12.1962, n. 1720), i cui lavori costituirono una fondamentale premessa per la successiva ricerca di un’adeguata risposta politico-criminale al fenomeno mafioso. La prima relazione datata 7.8.1963 (Proposte della Commissione al termine della prima fase dei lavori) segnalava l’opportunità di modificare la legislazione penale e la disciplina delle misure di prevenzione di cui alla l. 27.12.1965, n. 1423. Il primo intervento normativo operò proprio in materia di misure di prevenzione, mediante l’approvazione della l. 31.5.1965, n. 575 (Disposizioni contro la mafia), costituente il primo momento di esplicita individuazione di un concetto normativo di associazione mafiosa che, seppur non espressamente tipizzato, menziona il modello criminologico mafioso (cfr. art. 1: «la presente legge si applica agli indiziati di appartenere ad associazioni mafiose»). Con l’introduzione della l. n. 575/1965 si iniziava ad apprezzare quale elemento caratterizzante dell’associazione mafiosa il concetto della intimidazione sistematica. Diversi anni dopo, con proposta di legge del 1980 (atto Camera n. 1581), si sosteneva l’esigenza di introdurre «misure che colpiscano la mafia nel patrimonio» e di colmare «una lacuna legislativa, non essendo sufficiente la previsione dell’art. 416 c.p. … a comprendere tutte le realtà associative di mafia». L’art. 1 della richiamata proposta di legge conteneva una prima formulazione del testo dell’art. 416 bis c.p. che, seppur estremamente generica, individuava un essenziale elemento costitutivo della fattispecie, rappresentato dal valersi gli associati della «forza intimidatrice del vincolo mafioso». Due anni dopo, con l. n. 646/1982, veniva approvato il testo dell’art. 416 bis c.p., il quale fissa il numero minimo dei membri dell’associazione, distingue i ruoli e le sanzioni in funzione della mera partecipazione ovvero dell’assunzione di una posizione dirigenziale, organizzativa o promotrice, delinea i caratteri che l’associazione deve possedere per essere riconducibile al concetto di associazione mafiosa, prevede e individua pene differenziate con riguardo all’ipotesi in cui l’associazione abbia disponibilità di armi, introduce la previsione di una circostanza aggravante con riferimento all’ipotesi in cui le attività economiche intraprese dagli associati siano finanziate a mezzo del prezzo, prodotto o profitto delle attività illecite, oltre a pene accessorie e all’introduzione della confisca obbligatoria delle cose che servirono a commettere il reato o che ne costituiscano il prezzo, il prodotto o il profitto.
  3. Le modifiche normative e l’oggetto di tutelaIl testo dell’articolo 416 bis c.p., introdotto dalla l. n. 646/1982, subiva la sua prima modifica con l. 19.3.1990, n. 55, che disponeva la soppressione della parte del co. 7, ove era prevista nei confronti del condannato per il delitto di associazione di tipo mafioso la decadenza ex lege di licenze, concessioni e iscrizioni ad albi di appaltatori, lasciando la disciplina di tali decadenze al disposto dell’art. 10 l. n. 575/1965. Il successivo intervento normativo sul testo originario veniva attuato dal d.l. 8.6.1992, n. 306, che inseriva al co. 3 dell’art. 416 bis c.p., tra le finalità tipiche delle associazioni di tipo mafioso, il condizionamento del libero esercizio del diritto di voto. Con l. 5.12.2005, n. 251, cd. ex Cirielli, venivano previste imponenti rimodulazioni aggravatrici dei limiti di pena edittali per le ipotesi di partecipazione, organizzazione, promozione e direzione, anche avuto riguardo all’ipotesi di associazione armata. Infine, con l’art. 1 d.l. 23.5.2008, n. 92 (conv. in legge, con modificazioni, dalla l. 24.7.2008, n. 125), venivano modificati sia l’originario nomen juris, da associazione di tipo mafioso ad associazioni di tipo mafioso anche straniere, sia l’ult. co. dell’art. 416 bis c.p.

Occorre altresì rappresentare come l’art. 416 bis c.p. configuri un reato plurioffensivo che, oltre ad aggredire l’ordine pubblico inteso come regolare andamento della vita sociale, incide direttamente sulla libertà morale dei consociati. E ancora, preponderante appare nella norma in oggetto la necessità di tutela dell’ordine economico, da intendersi come libertà di mercato e di iniziativa, del buon andamento e dell’imparzialità della pubblica amministrazione, nonché delle istituzioni democratiche (sull’argomento, cfr. De Vero, G., I reati di associazione mafiosa: bilancio critico e prospettive di evoluzione normativa, in La criminalità organizzata tra esperienze normative e prospettive di collaborazione internazionale, a cura di G.A. De Francesco, Torino, 2001, 35).

  1. Il metodo mafioso  

4.1 La forza di intimidazione del vincolo associativo  Con l’art. 416 bis c.p., come si è già accennato, il legislatore ha introdotto una particolare fattispecie delittuosa, strutturata come reato di pericolo, a dolo specifico e incentrata sulla valorizzazione di tre elementi caratteristici: la forza di intimidazione del vincolo associativo, la condizione di assoggettamento che ne deriva, l’omertà quale ulteriore conseguenza della forza di intimidazione. Come meglio si vedrà in seguito, il modello normativo è concepito essenzialmente sulla definizione della metodologia tipica delle associazioni mafiose e non sulla specifica realizzazione a opera della consorteria criminale di eventuali generiche finalità delittuose. L’associazione di tipo mafioso è associazione che delinque e non associazione per delinquere: il disvalore della condotta di chi, a qualunque titolo, faccia parte di un sodalizio di tipo mafioso non discende dal compimento di una serie indeterminata di delitti, ma si ricollega all’intrinseca metodologia che a essa è connaturata, indipendentemente dall’effettiva realizzazione di delitti fine. In altre parole, l’associazione è di per sé fenomeno delinquenziale penalmente rilevante. Così, adeguando il dettato normativo al fenomeno mafioso storicamente ben individuato, il legislatore ne ha offerto una nozione generale e astratta che si fonda sul concetto di metodo mafioso e non sull’esistenza di un programma criminoso. Tale nozione normativa, come accennato, ricomprende i tre elementi tipici descritti dall’art. 416 bis, co. 3, c.p., i quali debbono necessariamente coesistere affinché la fattispecie delittuosa in esame possa ritenersi configurabile. E infatti, «la forza di intimidazione del vincolo associativo», se esistente, è idonea a produrre quale effetto l’«assoggettamento» dei consociati o delle sue vittime al potere dell’organizzazione criminale; assoggettamento che, a sua volta, si qualifica sotto il profilo dell’«omertà» per un sostanziale rifiuto di coloro che percepiscono la forza del sodalizio di collaborare con le istituzioni. Quanto al primo dei tre elementi su cui è incentrata e strutturata la fattispecie criminosa, può osservarsi come il ricorso alla forza di intimidazione costituisca non una forma di realizzazione della condotta, bensì l’elemento strumentale tipico di cui gli associati si avvalgono per il conseguimento degli scopi propri dell’associazione. In altri termini, la forza di intimidazione del vincolo è requisito normativo che definisce una condizione oggettiva di concreta acquisizione da parte della compagine criminale di una sufficiente fama o notorietà di violenza e capacità di sopraffazione, idonea a incutere, anche ove non tradotta nell’esteriorizzazione di atti violenza, timore nei confronti di chiunque finisca per doversi rapportare a essa. L’associazione, dunque, deve avere acquisito una carica intimidatoria autonoma, indipendente dall’effettiva consumazione di specifici episodi di violenza o sopraffazione, ben nota nel tessuto sociale e territoriale in cui essa opera. In tale prospettiva, si è rilevato come, con le espressioni contenute nell’art. 416 bis, co. 3, c.p., «il legislatore abbia inteso riferirsi alla maggiore o minore capacità, propria di certe associazioni criminali, di incutere timore di per se stesse, sino ad estendere intorno a sé … un alone permanente di intimidazione diffusa, tale da mantenersi vivo anche a prescindere dai singoli atti intimidatori concreti posti in essere da questo o quell’associato … poiché ciò che conta è che … l’elemento della “forza intimidatrice” sia comunque desumibile aliunde da circostanze atte a dimostrare la capacità di incutere timore propria dell’associazione in quanto tale: una capacità ricollegabile alla “pubblica memoria” della sua pregressa attività sopraffattrice» (cfr. Turone, G., Il delitto di associazione mafiosa, Milano, 2008, 117 s.; Hess, H., Mafia, Bari, 1973, 78). L’elemento tipico che costituisce strumento essenziale dell’operatività dell’associazione va peraltro collegato all’espressione «si avvalgono», che sta a significare che la forza di intimidazione derivante dal vincolo debba essere attuale, effettiva e obiettivamente riscontrabile e non meramente potenziale, «capace di piegare ai propri fini la volontà di quanti vengano a contatto con i suoi componenti» (così, Cass. pen., sez. I, 16.5.2011, n. 25242). La forma verbale adoperata, infatti, non può che essere interpretata nel senso della necessità di un concreto e attuale utilizzo dell’apparato strumentale dell’organizzazione, essenzialmente costituito dalla sua carica intimidatrice autonoma. L’esperienza giudiziaria ha consentito di riscontrare, oltre le manifestazione di delinquenza mafiosa storica, l’esistenza di sodalizi criminali di più recente formazione o di diversa localizzazione territoriale; in particolare, sebbene il precetto normativo sia scaturito dalla trasposizione in ambito giuridico penale di concetti mutuati dall’indagine storico-sociologica sulla mafia siciliana, veniva a evidenziarsi sin dalle prime applicazioni sul terreno processuale l’autonomia della fattispecie incriminatrice sia da profili di ordine territoriale, sia da aspetti di carattere organizzativo propri degli ordinamenti mafiosi tradizionali. È certo, tuttavia, che il primo tema oggetto di accertamento ai fini della possibile qualificazione giuridica delle aggregazioni criminali di nuova costituzione debba essere quello afferente l’eventuale acquisizione in capo all’associazione di una capacità di intimidazione autonoma, tale da rendere immediatamente identificabile l’esistenza del sodalizio e della sua potenzialità sopraffattrice, riferibile al paradigma legale di cui all’art. 416 bis c.p.

 4.2 La condizione di assoggettamento  Come si è già accennato, effetto necessario della forza di intimidazione derivante dal vincolo associativo deve essere quello di produrre un significativo condizionamento nei confronti del tessuto sociale in cui il sodalizio opera. Il concetto normativo di assoggettamento concerne la rilevanza che l’entità associativa riveste al suo esterno ingenerando, in funzione della sua esistenza e pericolosità, «un comune sentire caratterizzato da soggezione di fronte alla forza prevaricatrice ed intimidatrice del gruppo» (cfr. Cass. pen., sez. I, 18.4.2012, n. 35627). Lo sfruttamento della carica intimidatrice del sodalizio deve rivelarsi, quindi, idoneo a influenzare in modo consistente e non occasionale la generalità dei consociati, cagionando sul territorio in cui tale sodalizio opera una situazione di sudditanza psicologica così rilevante da precludere un ordinario svolgersi delle comuni attività produttive, commerciali, imprenditoriali, economiche, politiche, ecc. (v. Cass. pen., sez. I, 23.4.2010, n. 29924). Non è, invero, sufficiente ai fini della configurabilità di un’associazione criminosa di cui all’art. 416 bis c.p. evocare il compimento di eventuali atti di violenza o sopraffazione, risultando indispensabile, perché la forza di intimidazione possa dirsi effettivamente esistente, che essa produca un dato fattuale concretamente realizzatosi, consistente nel requisito normativo della condizione di assoggettamento.

 4.3 L’omertà  Conseguenziale alla carica intimidatoria e al correlato condizionamento dell’ambiente esterno è l’omertà. Proprio lo sfruttamento della forza intimidatrice produce quale necessaria conseguenza esterna le condizioni specifiche di assoggettamento e di omertà funzionali alla realizzazione degli scopi propri del sodalizio. L’omertà, come concetto normativo, finisce per consistere in una piena accettazione delle regole di soggezione e non collaborazione, così capillarmente diffuso da non riguardare il singolo, bensì il tessuto sociale in cui l’organizzazione sia riuscita a infiltrarsi. In termini strettamente giuridici il significato di omertà può essere definito come un vero e proprio rifiuto a collaborare con gli organi dello Stato, scaturente dal timore (rectius, paura) nei confronti della consorteria criminale. Come si è opportunamente affermato, «è necessario che tale rifiuto non sia dettato da motivi contingenti, non abbia un carattere episodico ed occasionale (altrimenti sarebbe omertà qualsiasi comportamento reticente), non trovi una sua spiegazione esauriente sul piano processuale (altrimenti sarebbe omertoso qualsiasi imputato che mentisse per difendersi), non sia dovuto ad un interesse personale (altrimenti sarebbe omertoso chiunque mirasse a tener nascosta una circostanza per ragioni che gli sono proprie) e non possa quindi che ricollegarsi all’essenza stessa del vincolo associativo mafioso e alla naturale potenzialità intimidatrice che da esso promana» (così, Turone, G., Il delitto di associazione mafiosa, cit., 153 s.; in termini analoghi, v. Spagnolo,G., L’associazione di tipo mafioso, Padova, 1997, 43 ss.; in giurisprudenza, cfr. Cass. pen., sez. VI, 10.6.1989, Teardo).

 4.4 Il metodo mafioso e le associazioni «anche straniere»  Come si è avuto modo di accennare, la definizione di associazioni di tipo mafioso «anche straniere» coniata dal legislatore del 2008 unitamente alla modifica dell’ultimo comma dell’art. 416 bis c.p., non rappresenta un’innovazione suscettibile di assumere un concreto significato nell’individuazione degli elementi costitutivi della fattispecie. Come recentemente affermato dal massimo organo nomofilattico, «l’associazione di tipo mafioso viene qualificata come tale in ragione dei mezzi usati e dei fini perseguiti. Il terzo comma dell’art. 416 bis c.p. individua il “metodo mafioso” mediante la fissazione di tre parametri caratterizzanti – forza intimidatrice del vincolo associativo, condizione di assoggettamento e condizione di omertà – da considerare tutti e tre come elementi necessari ed essenziali perché possa configurarsi questo reato associativo» (cfr. Cass. pen., S.U., 27.2.2014, n. 25191). Appare dunque evidente come sia proprio il metodo mafioso a qualificare l’associazione, indipendentemente dalla sua origine territoriale ovvero dalla nazionalità dei suoi partecipi. Tale conclusione risulta del resto avvalorata da quanto la Corte di legittimità ha sostenuto con riferimento ad associazioni straniere. Di particolare interesse, sull’argomento, appare la sentenza Cass. pen., sez. I, 5.5.2010, n. 24803, nella quale la Corte ha esplicitamente riconosciuto come «il reato di cui all’art. 416 bis c.p. possa essere commesso anche da partecipi ad associazioni criminali, anche a matrice non locale, diverse da quella storicamente inverata in una Regione d’Italia (che ne costituisce solo il prototipo)». In quella stessa sede è stata ritenuta errata la prospettazione «secondo cui l’art. 416 bis c.p. potrebbe essere applicato solo alle associazioni mafiose quali conosciute in un determinato, e limitato, ambito storico-geografico. In tal senso, basterà riflettere come il reato, fin dalla sua introduzione nell’ordinamento penalistico, con la l. n. 646/1982, sia stato concepito – e soprattutto normativamente caratterizzato – in funzione di un’associazione di tipo mafioso (v. comma 1 in parola) a sottolineare che la mafia storica siciliana era solo il tipo (o l’archetipo) per cui il reato è chiaramente e decisamente applicabile ad ogni associazione delinquenziale che ne riproducesse le caratteristiche strutturali essenziali. Il dato è ribadito in modo quanto mai chiaro dal fondamentale comma 3 che, proprio nel delineare le indefettibili caratteristiche strutturali che l’associazione deve possedere, qualifica ancora l’associazione punibile ex art. 416 bis c.p. come di tipo mafioso. Ed infine, fin dall’introduzione della norma … l’art. 416 bis, u.c., prevede che il reato valga anche nei confronti della camorra e delle altre associazioni comunque localmente denominate» (per un’applicazione del reato in esame ad associazioni di tipo mafioso diverse da quelle storiche italiane, anche a matrice straniera cfr. Cass. pen., sez. VI, 30.5.2001, n. 35914, Hsiang Khe). Si può quindi affermare che il recente intervento legislativo con l’inciso «anche straniere», si sia limitato aa uniformare «la normativa al dato legislativo già acquisito al fine di chiarirla» (Cass. pen., sez. I, 5.5.2010, cit.), non introducendo alcun elemento di novità. La decisione riportata costituisce solo un esempio del consolidato orientamento secondo cui l’ultroneo intervento legislativo del 2008 non muta i connotati essenziali del delitto di cui all’art. 416 bis c.p., potendo quest’ultimo ritenersi configurabile ogni qual volta un’associazione si caratterizzi per il suo metodo, che ex se ne attesta l’esistenza.

  1. Le finalità dell’associazione e il dolo specifico Sul piano delle finalità perseguite, si evidenzia uno degli aspetti più peculiari del delitto di cui all’art. 416 bis c.p., rispetto all’ipotesi dell’associazione per delinquere comune. Le associazioni mafiose costituiscono, infatti, l’unico esempio di aggregazione criminale organizzata in cui alla finalità di commettere delitti si affianca l’ulteriore scopo di attuare una serie di obiettivi di per sé generalmente non suscettibili di assumere rilevanza penale, i quali divengono incriminabili in relazione al metodo adoperato per perseguirli. Sotto tale profilo, occorre evidenziare quanto affermato in sede giurisprudenziale, là dove si è rilevato che «mentre i tre parametri sopra menzionati, caratterizzanti la struttura associativa di stampo mafioso», descritti nella prima parte del co. 3 della disposizione in esame, «devono necessariamente e contemporaneamente sussistere affinché si possa ipotizzare il delitto associativo mafioso, non è così per le finalità tipiche dell’organizzazione mafiosa che sono previste dalla norma incriminatrice alternativamente, per cui è sufficiente che sussista anche una sola delle quattro finalità perché il reato possa configurarsi, né peraltro è necessario che i predetti scopi siano effettivamente ed integralmente raggiunti» (cfr. Cass. pen., 11.1.2000, Ferone; in termini analoghi v. Cass. pen., 31.2.1997, Alleruzzo, nonché Cass. pen., 15.4.1994, Matrone). Più specificamente, dopo avere delineato gli elementi caratterizzanti la tipologia associativa, il co. 3 dell’art. 416 bis c.p. elenca gli scopi cui la sua azione è funzionalmente orientata, indicando la generica finalità di compiere una serie indeterminata di delitti, cui si aggiungono le più peculiari finalità di acquisire la gestione e/o il controllo delle attività economiche, di concessioni, autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri, ovvero al fine di impedire od ostacolare il libero esercizio del diritto di voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali. L’elenco delle finalità della particolare forma associativa evidenzia come gli obiettivi da essa perseguiti rispondano essenzialmente a una strategia di ricerca e di controllo del potere economico, colpito dall’interno mediante un’azione costante e intensa, volta a infiltrarlo nelle sue dinamiche e nei suoi meccanismi. L’associazione di tipo mafioso, dunque, attraverso l’utilizzo del suo metodo tipico e il perseguimento dei suoi scopi, si propone, quale forma di istituzione parallela o alternativa ai poteri tradizionali sui cui poggia la società civile, l’obiettivo di conquistare taluno dei poteri fondamentali, primo tra tutti il potere economico. In questa visione essa non opera alcuna distinzione tra profitti criminali e profitti formalmente leciti, tutti egualmente perseguiti attraverso l’intimidazione e la violenza come ordinari strumenti di lavoro, ancorché il più delle volte impliciti, perché derivanti dalla semplice esistenza e notorietà del vincolo associativo (così, Cass. pen., sez. I, 27.11.2008, n. 6930; Cass. pen., 11.1.2000, Ferone, nonché Cass. pen., 16.3.2000, Frasca). In questa prospettiva, anche i delitti di diversa natura, non strettamente correlati all’ambito direttamente economico o patrimoniale, sono generalmente riconducibili alla visione ormai squisitamente imprenditoriale dell’associazione di tipo mafioso, inquadrandosi in condotte necessarie all’affermazione della sua supremazia in ogni ambito. L’analisi dottrinaria e giurisprudenziale sulla prima delle specifiche finalità si è soffermata sull’avvenuto riconoscimento a livello normativo della tendenza monopolistica propria dell’impresa mafiosa, evidenziata dall’esperienza giudiziaria. In tal senso si è innanzitutto opportunamente sottolineato che il riferimento all’acquisizione della «gestione o … controllo di attività economiche», cui è associato quello all’acquisizione di autorizzazioni, concessioni o appalti o servizi, è da intendere in senso non rigidamente formalistico, e dunque da interpretare come suscettibile di abbracciare qualunque attività economicamente apprezzabile o produttiva (cfr. Fiandaca,G., Commento agli artt. 1, 2, 3 legge 13 settembre 1982, n. 646, inLegisl. pen., 1983, 263). Anche i termini «gestione» e «controllo» debbono ritenersi intesi in senso ampio, e in particolare «il termine “gestione” va inteso nella sua accezione più lata e comune quale sinonimo di esercizio di attività aventi rilevanza economica, mentre il termine “controllo” esprime una particolare situazione di fatto, per effetto della quale si è in grado di condizionare l’attività relativa a un determinato settore economico» (cfr. Turone, G., Il delitto di associazione mafiosa, cit., 221). La gestione o il controllo possono essere, inoltre, ottenuti anche in via indiretta, mediante la realizzazione di meccanismi dissimulatori che rappresentano modalità assai diffuse nell’acquisizione di beni o nell’esercizio dell’impresa mafiosa. Quest’ultima può essere definita come «un’impresa commerciale nel cui patrimonio aziendale rientrano, quali componenti anomale dell’avviamento, la forza di intimidazione del vincolo associativo mafioso e la condizione di assoggettamento ed omertà che ne deriva» (così, ancora, Turone, G., Il delitto di associazione mafiosa, cit., 222). Particolare rilevanza assume, inoltre, tra gli scopi dell’associazione di tipo mafioso, la finalità legata all’acquisizione di concessioni, autorizzazioni, appalti o servizi pubblici, ambito nel quale la capacità di infiltrazione è risultata estremamente elevata, non tanto e non solo mediante l’impiego della metodologia tipica, ma anche attraverso il ricorso a strumenti che, in forme e modalità di frequente quasi implicite, finiscono per comportare il condizionamento della libertà di contrattazione della pubblica amministrazione. Le specifiche finalità sin qui descritte costituiscono espressione di un’omnicomprensiva tendenza monopolistica dell’associazione nell’acquisizione del controllo di concessioni e appalti, mirando alla realizzazione di situazioni di assoluto dominio. L’impiego della forza di intimidazione e la reazione dell’ambiente esterno al suo dispiegarsi divengono strumentali all’alterazione degli ordinari meccanismi del mercato ovvero delle regole della libera concorrenza, permettendo all’associazione di porsi come impresa mafiosa operante in regime monopolistico. In questa logica, del resto, si inserisce la previsione di autonoma fattispecie delittuosa delineata dall’art. 513 bis c.p., volta a sanzionare ogni comportamento che, mediante modalità violente e/o minacciose, sia potenzialmente suscettibile di alterare la concorrenza in ambito commerciale, industriale o comunque in qualunque settore produttivo. Pur non necessariamente ed esclusivamente applicabile nell’ambito della criminalità organizzata, tale disposizione incriminatrice valorizza con ogni evidenza atti di illecita concorrenza che siano posti in essere, «nell’esercizio di un’attività commerciale, industriale o comunque produttiva», sì da reprimere l’azione dell’associazione mafiosa nella sua forma più tipicamente imprenditoriale. Quanto alla diversa finalità politico-elettorale, questa, come già accennato in precedenza, veniva introdotta dall’art. 11 bis d.l. n. 306/1992. Le forme di manifestazione del fenomeno mafioso hanno reso evidente come esso persegua, attraverso la metodologia che gli è caratteristica, anche il controllo del voto politico, allo scopo di infiltrarsi a livello istituzionale e sfruttare possibili congiunture politiche in proprio favore. La diffusività e pervasività delle associazioni di tipo mafioso, dunque, non si arresta al controllo e alla gestione dei settori economici e produttivi in genere, ma si esprime a livelli anche più elevati mediante l’instaurazione di accordi sinallagmatici con esponenti della politica locale e nazionale. Tale finalità, sul piano normativo, è descritta attraverso la definizione di quattro distinte ipotesi, quella relativa all’impedimento nell’esercizio del diritto di voto, quella relativa alla frapposizione di ostacoli all’esercizio del diritto di voto, quella di procurare voti a se stessi, quella di procurare voti ad altri. Le singole condotte rientranti nella finalità politico-elettorale, ove poste in essere dagli associati avvalendosi della potenzialità intimidatrice che si ricollega al metodo mafioso, ancorché espressamente individuate nel co. 3 dell’art. 416 bis c.p., ricadono in ogni caso nella speciale disposizione di cui all’art. 97 del d.P.R. 30.3.1957, n. 361, che delinea la fattispecie di coercizione elettorale, con riferimento alle elezioni politiche alla Camera dei deputati, applicabile ex art. 2 l. 27.2.1958, n. 64, anche alle elezioni al Senato. Poiché, come si è già avuto modo di osservare, non è necessario che le finalità dell’associazione mafiosa risultino oggettivamente conseguite e realizzate, deve ritenersi che, quando detta associazione agisca con le sue modalità tipiche, ponendo in essere, mediante i suoi sodali, le condotte appena descritte, oltre a configurare il delitto di cui all’art. 416 bis c.p., potranno ragionevolmente ricadere anche nelle specifiche fattispecie previste dal d.P.R. n. 361/1957 (e dalla l. n. 64/1958), venendo così in rilievo la consumazione di autonomi reati-fine. Analogamente, la presenza di un accordo sottostante alle condotte volte a procurare voti, tra esponenti dell’associazione criminale e candidato politico, potranno ricadere nell’ambito della fattispecie di cui all’art. 96 del medesimo d.P.R. n. 361/1957 (corruzione elettorale). A chiusura del sistema che ruota intorno alla struttura della finalità politico-elettorale. l’art. 416 ter c.p., introdotto dal d.l. n. 306/1992, da ultimo modificato dall’art. 1 l. 17.4.2014, n. 62, punisce con la pena della reclusione da quattro a dieci anni «chiunque accetta la promessa di procurare voti mediante le modalità di cui al terzo comma dell’art. 416 bis in cambio dell’erogazione o della promessa di erogazione di denaro o di altra utilità», nonché «chi promette di procurare voti con le modalità di cui al primo comma». L’ultima parte del co. 3 dell’art. 416 bis c.p. enuclea la quarta finalità dell’associazione di tipo mafioso, ovvero quella di «realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri». Tale previsione conclusiva individua una norma di chiusura rispetto a tutte le possibili finalità delittuose dell’organizzazione mafiosa. Le considerazioni che precedono aiutano a delineare il contenuto del dolo specifico, che connota la fattispecie di associazione mafiosa, caratterizzandolo come cosciente volontà di partecipare al sodalizio con il fine di realizzarne il particolare progetto (che non deve concretizzarsi ma, semmai, riflettersi oggettivamente nei piani criminali) e «con la permanente consapevolezza di ciascun associato di fare parte del sodalizio criminoso e di essere disponibile ad operare per l’attuazione del comune programma delinquenziale con qualsivoglia condotta idonea alla conservazione ovvero al rafforzamento della struttura associativa» (Cass. pen., sez. I, 18.5.1994, Clementi); tutto ciò avvalendosi, quindi utilizzando, la forza intimidatrice del vincolo associativo, la quale rappresenta dunque un dato fattuale (oggetto di dolo generico), concretamente realizzatosi e non confinabile nella sfera del dolo specifico. L’esatta definizione da attribuire al dolo specifico non può risolversi in un fatto meramente psichico – non incidendo uno scopo non realizzato sulla realtà naturalistica – bensì occorre, in linea con un diritto penale del fatto, il riscontro dell’oggettiva adeguatezza del fatto rispetto al fine.
  2. Le condotte

6.1 La partecipazione  La disposizione incriminatrice, nello sforzo di tipizzare nel modo più preciso possibile i caratteri peculiari dell’associazione e di individuare un elenco che potesse ricomprendere un vasto numero di finalità cui le attività del sodalizio sono orientate, pecca invece di significativa indeterminatezza nella definizione della condotta di partecipazione. Il co. 1 dell’art. 416 bis c.p. si limita, infatti, a stabilire che è soggetto alla sanzione ivi indicata «chiunque fa parte di un’associazione di tipo mafioso formata da tre o più persone». Pertanto, il soggetto agente potrebbe essere chiunque; inoltre, la condotta di far parte è strutturata come condotta a forma libera. La genericità della definizione normativa ha imposto, nell’esperienza giudiziaria, la necessità di attribuire univoco contenuto al concetto di partecipazione, non essendo sufficientemente specificata quale debba ritenersi la soglia minima di rilevanza penale della condotta del partecipe all’associazione di tipo mafioso. È evidente, in tal senso, che la condotta del partecipe debba ricondursi ai principi di materialità e offensività cui è improntato il sistema penale, con esclusione di tendenze che valorizzino meri atteggiamenti psicologici; il dettato normativo, pur generico, richiede infatti che il soggetto agente faccia parte del sodalizio e dunque che «esplichi un’attività, svolga un ruolo all’interno di una struttura che lo abbia accettato in qualità di suo membro o affiliato. Il concetto di partecipazione, in sé estremamente ampio deve essere allora ricondotto al più ristretto ambito che la categoria assume se riferita ad un organismo specifico qual è un’associazione, ed in particolare, un’associazione di tipo mafioso. Il partecipe … è soprattutto un associato, un soggetto che unitamente ad altri rappresenta la componente “umana” di una struttura complessa che, pur differenziabile nelle sue parti (uomini, mezzi, risorse etc.) assume valenza unitaria sul piano giuridico e sociale, e proprio perché alla base della sua genesi vi è un “patto associativo”, che, prima ancora di prevedere l’impiego di determinati apparati strumentali o lo svolgimento di specifiche attività, comporta una solidarietà ed una coesione tra i suoi membri tale da far apparire questi ultimi parte di un unico organismo» (cfr. De Liguori, L., Concorso e contiguità nell’associazione mafiosa, Milano, 1996, 61). La concreta soglia minima di partecipazione penalmente significativa deve essere dunque individuata nella condotta di chi presti un consapevole contributo alla vita del sodalizio, conoscendone le caratteristiche e con l’intento di avvalersi della forza di intimidazione del vincolo associativo e delle condizioni di assoggettamento e omertà che ne derivano, per realizzare le finalità previste dal co. 3 della medesima disposizione. Costituendo, dunque, una tipica ipotesi di reato a forma libera, caratterizzata da dolo specifico, la condotta di partecipazione può consistere in qualsiasi contributo, purché non meramente occasionale, apprezzabile e concreto sul piano causale, all’esistenza o al rafforzamento dell’associazione, accompagnato dalla consapevolezza e volontà di associarsi per perseguire gli scopi del sodalizio criminoso, avvalendosi del metodo mafioso, scopi che, come si è visto, non necessariamente debbono essere effettivamente e concretamente raggiunti (cfr. Cass. pen., sez. I, 11.1.2008, n. 1470; Cass. pen., sez. I, 3.2.2004, n. 4034; Cass. pen., 13.6.1987, Altivalle). L’atto di associazione non presuppone indefettibilmente un formale inserimento nell’ambito dell’organizzazione criminosa, non potendosi escludere, anche in assenza di procedure di formale affiliazione o legalizzazione, che il soggetto agente ponga in essere condotte significative di una piena partecipazione al sodalizio, come può opportunamente desumersi, sul terreno dell’accertamento probatorio, dalla reiterazione di comportamenti coerenti con l’esercizio di funzioni rilevanti che possano assumere valenza di indici rivelatori, sotto il profilo psicologico, della cd. affectio societatis. Nell’applicazione pratica, pertanto, è stato ritenuto significativo dell’adesione anche un comportamento di semplice disponibilità manifestato, senza condizioni e limiti, nei confronti del pactum sceleris, ove tale modalità adesiva risulti in concreto idonea a offrire un contributo funzionale all’accrescimento della forza e della potenzialità del sodalizio (cfr. Cass. pen., sez. I, 16.6.1992, n. 6992; Cass. pen., sez. V, 10.8.2000, n. 9002; Cass. pen., sez. V, 16.2.2004, n. 6101). Sotto il profilo soggettivo, l’adesione dell’agente deve risultare sorretta dalla già indicata affectio societatis. In altri termini, è stata seguita, sia in dottrina (cfr. ad esempio, Turone, G., Il delitto di associazione mafiosa, cit., 354, e De Liguori, L., Concorso e contiguità nell’associazione mafiosa, cit., 61) che in giurisprudenza (cfr. Cass. pen., sez. II, 26.1.2005, n. 2350; Cass. pen., S.U., 20.9.2005, n. 33748; Cass. pen., sez. VI, 12.6.2009, n. 22446), un’impostazione improntata al modello causale, dovendosi privilegiare, nell’accertamento della condotta di partecipazione, l’effettiva prestazione di un contributo eziologicamente orientato – e concretamente idoneo – a sostenere l’operatività del sodalizio. È stato, peraltro, doverosamente e opportunamente evidenziato che la partecipazione di cui al co. 1 dell’art. 416 bis c.p. deve essere prestata nei confronti dell’organizzazione nel suo complesso, non essendo di per sé sufficiente a integrare il precetto la condotta di chi presti il proprio contributo in favore di un singolo associato (cfr., ad esempio, Cass. pen., sez. VI, 15.11.2005, n. 41261). La partecipazione del singolo, infatti, assume concreto rilievo quando essa sia suscettibile di inserirsi e riverberarsi nella sfera di operatività dell’associazione quale autonoma entità, dalla quale egli sia riconosciuto nel suo ruolo e per la sua attività. L’elemento della stabilità e della continuatività dell’apporto causale o della disponibilità manifestate dal soggetto agente costituisce momento determinante nella verifica della riconducibilità della condotta alla fattispecie di partecipazione piuttosto che alle diverse ipotesi agevolative di cui agli artt. 378 e 418 c.p. (cfr. Cass. pen., sez. III, 7.5.2013, n. 33243). La difficoltà di tratteggiare la soglia di rilevanza penale della condotta del partecipe ha mostrato chiare criticità della fattispecie di cui al co. 1 dell’art. 416 bis c.p., là dove nell’esperienza giudiziaria apparivano residuare spazi di impunità con riferimento a condotte, egualmente idonee a esprimere una rilevanza causale per la vita del sodalizio criminale, ma non suscettibili di ricadere nella definizione di partecipazione sin qui delineata. Al fine precipuo di sopperire ai margini di impunità individuati in presenza di condotte ritenute atipiche rispetto alla fattispecie di partecipazione, si è fatto ricorso alla figura del cd. concorso esterno, ricavata dal combinato disposto di cui agli artt. 110 e 416 bis c.p.

 6.2 Promozione, direzione, organizzazione  Il co. 2 dell’art. 416 bis c.p. individua, in aggiunta alla partecipazione, ulteriori condotte espressive di maggior disvalore, e pertanto sanzionate più rigidamente, descrittive di particolari ruoli che, in seno all’associazione, possano essere rivestiti dagli affiliati. La condotta, o meglio, il ruolo del promotore non risulta normativamente strutturato sul momento propriamente costitutivo del sodalizio, ma essenzialmente sulle fasi in cui il sodalizio medesimo opera, esiste e si consolida. Non vi è, infatti, nel testo della disposizione in esame, alcuna indicazione esplicita dalla quale desumere che le funzioni di promotore possano essere rivestite esclusivamente da chi abbia concorso a costituire l’organizzazione sin dalla sua genesi, tanto più che, per assumere rilevanza agli effetti di cui all’art. 416 bis c.p., la costituita associazione dovrà avere acquisito la forza di intimidazione necessaria, per potersi qualificare come associazione di tipo mafioso. Ne discende come la figura del promotore possa ritenersi configurabile allorquando all’interno di un gruppo criminoso, originariamente non qualificato, un soggetto abbia prestato un contributo particolarmente importante alla formazione e al consolidamento dell’apparato strutturale-strumentale mafioso, ovvero qualora si tratti di un gruppo già costituito, egli abbia concorso ad accrescerne la potenzialità e a diffondendone il programma associativo (sul punto, cfr. Cass. pen., sez. I, 23.4.1985, Arslan). In altri termini, la figura del promotore può ritenersi identificabile, quando il soggetto agente, in una fase evidentemente dinamica della neo-costituita associazione, ovvero dell’associazione già storicamente esistente, ponga in essere condotte idonee e sufficienti ad accrescerne il potere, affermarne più incisivamente la capacità criminale, ampliarne e rafforzarne l’apparato organizzativo. Riguardo alle figure del dirigente e dell’organizzatore, le stesse debbono intendersi riferite a coloro i quali dispongono, all’interno del sodalizio, di poteri di iniziativa o di comando ovvero di poteri decisionali o gestionali inerenti al conseguimento degli scopi sociali, eventualmente all’interno di ciascuno dei settori di operatività dell’associazione.

  1. Le circostanze aggravanti: l’associazione armata e l’impiego dei proventi delittuosi L’art. 416 bis c.p., ai co. 4-6, prevede alcune circostanze aggravanti, coessenziali alle finalità mafiose. Si tratta delle circostanze legate alla disponibilità di armi da parte del sodalizio (co. 4-5), ovvero all’impiego di proventi illeciti nelle attività economiche a esso riconducibili (art. 648 ter c.p.). Procedendo con ordine, si osserva che il co. 4 dell’art. 416 bis c.p. contempla una circostanza aggravante che determina un diverso e indipendente trattamento sanzionatorio in relazione alla condotta di partecipazione (da 9 a 15 anni) ed avuto riguardo alle condotte di promozione, direzione ed organizzazione (da 12 a 24 anni), quando l’associazione sia «armata». In particolare, l’associazione può considerarsi tale, secondo la definizione contenuta nel co. 5, «quando i partecipanti hanno la disponibilità, per il conseguimento delle finalità dell’associazione, di armi o materie esplodenti anche se occultate o tenute in luogo di deposito». Si è evidentemente al cospetto di una circostanza di natura oggettiva, imputabile quindi a tutti i membri del sodalizio, sempre che ne siano a conoscenza ovvero che l’abbiano ignorata per colpa o per errore dovuto a colpa. Quanto all’ulteriore circostanza aggravante di cui al co. 6, questa importa un aumento di pena «se le attività economiche di cui agli associati intendono assumere o mantenere il controllo sono finanziate in tutto o in parte con il prezzo, il prodotto o il profitto di delitti», rinvenendo la sua giustificazione nella ritenuta progressione criminosa realizzata rispetto al reato base e nella maggiore pericolosità di cui costituisce espressione un’associazione che abbia raggiunto in tutto o in parte gli scopi associativi e, quindi, nella più incisiva e articolata offesa agli interessi protetti. La sussistenza delle condizioni di fatto per cui le attività economiche, di cui l’associazione intenda assumere la gestione e il controllo, siano finanziate mediante proventi di illecita derivazione comporta che l’associazione medesima, anziché perseguire semplicemente i suoi obiettivi tipici, abbia effettivamente conseguito gli scopi che si prefigge. L’avvenuta realizzazione di una serie di delitti-scopo, da cui sia derivata l’acquisizione di risorse economiche oggetto di reimpiego nei settori di interesse, costituisce espressione di un maggior disvalore, dal quale discende l’elevatissimo trattamento sanzionatorio che l’aumento previsto dal co. 6 dell’art. 416 bis c.p. determina sulle pene già rigorose fissate nei commi precedenti. Il reato circostanziato, ai sensi del co. 6 della disposizione in esame, così come è strutturato, richiede l’investimento di proventi già acquisiti quale prezzo, prodotto o profitto di pregresse attività illecite. Va evidenziato, per completezza, che le condotte, che costituiscono il presupposto fattuale della configurabilità della circostanza aggravante in esame, possono assumere un rilievo autonomo ai sensi dell’art. 648 ter c.p., ma non anche dell’art. 648 bis c.p. Il dettato normativo, infatti, è esclusivamente riferito all’impiego di risorse finanziarie di illecita derivazione, così individuando, quale presupposto fattuale della circostanza aggravante, condotte di «impiego in attività economiche o finanziarie» di «denaro, beni o altre utilità provenienti da delitto», ricadenti nell’alveo della disposizione di cui all’art. 648 ter c.p. Non sembrano, invece, poter costituire presupposto fattuale della circostanza de qua le diverse tipologie di condotta, peraltro specificamente orientate a dissimulare la provenienza illecita delle risorse, descritte dall’art. 648 bis c.p. Le attività di sostituzione e trasferimento ovvero le «altre operazioni» destinate a ostacolare l’individuazione dell’origine illecita del denaro, dei beni o delle altre utilità, infatti, non appaiono intrinsecamente riferibili al concetto normativo di finanziamento da cui discende la configurabilità della circostanza aggravante. Quanto al possibile rapporto esistente tra delitto di reimpiego e delitto associativo aggravato a norma dell’art. 416 bis, co. 6, c.p., è da rilevarne una possibile incompatibilità, o meglio, l’operatività della clausola di esclusione di cui agli artt. 648 ter c.p., quando il delitto presupposto da cui derivino le risorse illecite sia rappresentato dal delitto associativo e l’autore delle condotte di reimpiego, che pure si riverberano sul trattamento sanzionatorio a norma dell’art. 416 bis, co. 6, c.p. venga a identificarsi nell’associato. Sull’argomento sono intervenute infatti le Sezioni Unite della Cassazione, con sentenza 27.2.2014, n. 25191, riconoscendo come il delitto di associazione mafiosa sia di per sé idoneo a generare ricchezza illecita, a prescindere dalla realizzazione di specifici delitti, rientrando tra gli scopi dell’associazione anche quello di trarre vantaggi o profitti da attività lecite per mezzo del metodo mafioso. Si sottolinea nella motivazione della sentenza della Suprema Corte la rilevanza delle più recenti dinamiche delle organizzazioni mafiose, «che cercano il loro arricchimento non solo mediante la commissione di azioni criminose, ma anche in altri modi, quali il reimpiego in attività economico-produttive dei proventi derivanti dalla pregressa perpetrazione di reati». Si è quindi affermata la non configurabilità del concorso tra i delitti di cui agli artt. 648 bis o 648 ter c.p. e quello di cui all’art. 416 bis c.p. quando la contestazione di riciclaggio o reimpiego riguardi denaro, beni o utilità provenienti proprio dal delitto di associazione mafiosa, chiarendo che: il delitto presupposto dei reati di riciclaggio e di reimpiego di capitali può essere costituito dal delitto di associazione mafiosa, riconosciuto di per sé idoneo a produrre proventi illeciti; l’aggravante prevista dall’art. 416 bis, co. 6, c.p. è configurabile nei confronti dell’associato autore del delitto che ha generato i proventi oggetto di successivo reimpiego da parte sua. L’art. 3, co. 3, l. 15.12.2014, n. 186 ha introdotto nell’ordinamento il tanto auspicato delitto di autoriciclaggio (art. 648 ter.1, c.p.); prevede la punibilità di chi «avendo commesso o concorso a commettere un delitto colposo, impiega, sostituisce, trasferisce, in attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative, il denaro i beni e le altre utilità provenienti dalla commissione di tale delitto, in modo da ostacolare concretamente l’identificazione della loro provenienza delittuosa». Tale disposizione dovrà essere necessariamente coordinata con l’aggravante di cui all’art. 416 bis, co. 6, c.p., probabilmente definendone la tacita abrogazione, almeno in riferimento all’ipotesi in cui il delitto presupposto, da cui dipendono i proventi illeciti oggetto del reimpiego da parte di un associato, sia proprio quello di associazione mafiosa. I fatti di autoriciclaggio e reimpiego sono comunque punibili, sussistendone i presupposti normativi, ai sensi dell’art. 12 quinquies d.l. n. 306/1992. Per le tematiche relative alla confisca e all’aggravante di cui all’art. 7 d.l. 13.5.1991, conv. in legge dalla l. 12.7.1991, n. 203, v. Criminalità mafiosa transnazionale.

Fonti normative Artt. 378, 416, 416 bis, 418, 612, 628, 648 ter.1 c.p.; l. 27.12.1965, n. 1423;l. 31.5.1965, n. 575;19.3.1990, n. 55; art. 12 quinquies d.l. 8.6.1992, n. 306; l. 5.12.2005, n. 251; l. 24.7.2008, n. 125; art. 3, co. 3, l. 15.12.2014, n. 186.

 Bibliografia essenziale Abbatista, G.-Montaruli, V.-Polignano, A., I reati associativi e gli strumenti di contrasto patrimoniale alla criminalità organizzata, Torino, 2010; Antolisei, F., Manuale di diritto penale, pt. spec., XIII ed., Milano, 1998, 239; Borrelli, G., Contiguità mafiosa e delitti di favoreggiamento dopo la sentenza Carnevale, in Cass. pen., 2005, 2252; Borrelli, G., Massime di esperienza e stereotipici socio-culturali nei processi di mafia: la rilevanza penale della “contiguità mafiosa”, in Cass. pen., 2007, 1074; Centonze, A., Il sistema di condizionamento mafioso degli appalti pubblici, Milano, 2005; De Francesco, G.A., Associazione per delinquere e associazione di stampo mafioso, in Dig. pen., I,Torino, 1987, 289; De Francesco, G.A., Gli articoli 416, 416 bis, 416 ter, 417, 418 c.p., in Corso, P.-Insolera, G.-Stortoni, L., Mafia e Criminalità organizzata, I,Torino, 1995, 5; De Liguori, L., Concorso e contiguità nell’associazione mafiosa, Milano, 1996; De Vero, G., I reati di associazione mafiosa: bilancio critico e prospettive di evoluzione normativa, in La criminalità organizzata tra esperienze normative e prospettive di collaborazione internazionale, a cura di G.A. De Francesco, Torino, 2001, 29; Grosso, C.F., Le contiguità alla mafia tra partecipazione, concorso in associazione mafiosa ed irrilevanza penale, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1993, 1185 ss.; Ingroia, A., L’associazione di tipo mafioso, Milano, 1993; Ingroia, A., Osservazioni su alcuni punti controversi dell’art. 416 bis c.p., in Foro it., 1989, 99, 57, II, 57; Insolera, G., L’associazione per delinquere, Padova, 1983; Insolera, G., Diritto Penale e criminalità organizzata, Bologna, 1996; Seminara, S., Gli elementi costitutivi del delitto di cui all’art. 416 bis c.p., in I delitti di criminalità organizzata, I, sez. II, Aspetti sostanziali, in Quaderni del CSM, n. 99, in www.csm.it; Scarpinato, R., La dimensione imprenditoriale della criminalità organizzata e le sue nuove forme di manifestazione: l’analisi sociologica, l’accertamento giudiziario e l’applicabilità della normativa di prevenzione ai nuovi fenomeni criminali, Relazione tenuta all’incontro di studio del CSM sul tema Le misure di prevenzione patrimoniali, Roma 28-29.4.2005; Spagnolo, G., L’associazione di tipo mafioso, Padova, 1997; Tranfaglia, N., La mafia come metodo, Bari, 1991; Turone, G., Il delitto di associazione mafiosa, Milano, 2008.   Fonte: Treccani


L‘ASSOCIAZIONE DI TIPO MAFIOSO è un reato previsto dal codice penale italianoFattispecie autonoma dal reato di associazione per delinquere, venne introdotta dalla legge 13 settembre 1982, n. 646 (detta “RognoniLa Torre” dal nome dei promotori) e quindi all’interno del V titolo della seconda parte del codice stesso, ossia nella parte disciplinante i delitti contro l’ordine pubblico.

Storia Fino al 1982 per contrastare il fenomeno della mafia in Italia, si faceva ricorso all’art. 416 c.p. che puniva l’associazione per delinquere, ma tale fattispecie risultò ben presto inefficace di fronte alla vastità e alle dimensioni del fenomeno mafioso, e le sue manifestazioni tipiche. Tra le finalità perseguite dai soggetti uniti dal vincolo associativo ve n’erano anche di lecite, e ciò costituì il più grande limite all’applicazione dell’art. 416 del codice penale. Ad introdurre nel codice penale l’articolo 416 bis (delitto di associazione a delinquere di stampo mafioso) fu la legge 13 settembre 1982, n. 646 promulgata, a seguito dell’omicidio del segretario del Pci regionale Pio La Torre, avvenuto il 30 aprile 1982, e di quello del prefetto di Palermo, Carlo Alberto dalla Chiesa, avvenuto il 3 settembre nella strage di via Carini.

Caratteristiche generali La nuova fattispecie prevede l’individuazione dei mezzi e degli obiettivi in presenza dei quali ci si trova di fronte a un’associazione di tipo mafioso. Il legislatore così prese atto della tipica manifestazione del fenomeno mafioso, definendone alcuni tratti specifici per la prima volta nel 1982.

Infatti la definizione normativa di associazione di tipo mafioso di cui al terzo comma dell’art. 416-bis è: «L’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri, ovvero al fine di impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali.»

Gli obiettivi sono: Il mezzo che deve utilizzarsi per qualificare come mafiosa un’associazione è quindi la forza intimidatrice del vincolo associativo e della condizione di soggezione e di omertà che ne deriva.

  • il compimento di delitti;
  • acquisire il controllo o la gestione di attività economiche;
  • concessioni;
  • autorizzazioni;
  • appalti o altri servizi pubblici;
  • procurare profitto o vantaggio a sé o ad altri;
  • limitare il libero esercizio del diritto di voto;
  • procurare a sé o ad altri voti durante le consultazioni elettorali.

Gli ultimi due obiettivi sono stati inseriti dalla legge 7 agosto 1992, n. 356, nell’ambito delle misure adottate a seguito delle stragi di Capaci e di Via D’Amelio. La norma prevede inoltre che anche nei casi di confisca di cui all’art. 444 del codice di procedura penale italiano, si applichino le disposizioni in materia di gestione e destinazione dei beni sequestrati e confiscati previste dalla legge 31 maggio 1965, n. 575 (Disposizioni contro la mafia). L’art. 416-bis dispone quindi la confisca dei beni, per tutte le associazioni riconducibili a quelle di tipo mafioso, comunque localmente denominate. Inoltre la legge 7 marzo 1996, n. 109 ha introdotto nell’ordinamento italiano la previsione del riutilizzo dei beni sequestrati per finalità sociali assegnandoli a enti locali, associazioni o cooperative.


Il CONCORSO ESTERNO IN ASSOCIAZIONE DI TIPO MAFIOSO e il concorso esterno in associazione mafiosa sono espressioni che indicano una forma di compartecipazione del reato di associazione di tipo mafioso. Dal punto di vista formale, non si tratta di una autonoma fattispecie di reato, bensì rientrano nell’ambito del concorso di persone nel reato base, cioè quello previsto e punito dall’art. 416-bis del codice penale italiano[1].

Le caratteristiche Si realizza con l’apporto di un contributo effettivo al perseguimento degli scopi illeciti di un’associazione di tipo mafioso senza però prender parte al sodalizio mafioso. L’applicabilità del reato di associazione a delinquere di tipo mafioso anche a carico di soggetti estranei al sodalizio mafioso è stata, ed è tuttora, questione discussa in dottrina. Il reato di associazione per delinquere (indipendentemente dalla sua configurazione come “mafiosa” ex 416 bis) è considerata da parte della dottrina fattispecie a concorso di persone necessario (ex art. 110 del codice penale che prevede la compartecipazione di più soggetti nella realizzazione della fattispecie), e ciò nonostante le sostanziali differenze sussistenti fra l’istituto del concorso e il reato di associazione a delinquere. In virtù di ciò tutti i soggetti aderenti all’associazione stessa dovrebbero essere legati dal vincolo associativo, ed avere la piena coscienza di far parte di tale associazione. Il concorso esterno in associazione mafiosa, invece, si configura come una sorta di “concorso nel concorso necessario”, ossia, come la condotta di soggetto esterno all’associazione a delinquere (e quindi di soggetto a cui non è richiesta l’adesione al vincolo associativo) che apporti un contributo effettivo al perseguimento degli scopi illeciti dell’associazione[2]. Tale contributo integrerà la fattispecie del reato in oggetto qualora sussistano una serie di requisiti, delineati, da ultimo, dalla sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n° 22327 del 21 maggio 2003:[3]

  1. funzionalità del contributo al perseguimento degli scopi associativi;
  2. efficienza causale del contributo al rafforzamento e al consolidamento dell’associazione;
  3. sussistenza, in capo al soggetto agente, del dolo generico, consistente nella consapevolezza di favorire il conseguimento degli scopi illeciti.

La normativa I reati associativi previsti dal codice sono quelli di cui al Titolo V “Dei delitti contro l’ordine pubblico“:

L’opportunità di introdurre per via pretoria una fattispecie autonoma, speciale rispetto all’associazione per delinquere di tipo mafioso prevista dall’art. 416-bis c.p., è stata talvolta contestata[4], sulla base di una presunta carenza di tipicità penale.

Per altri il concorso esterno dovrebbe essere – in quanto non prevede la partecipazione diretta all’associazione mafiosa – una semplice aggravante del reato di favoreggiamento personale (dove il favoreggiato sarebbe l’esponente mafioso o la stessa associazione mafiosa) e non rientrare nelle fattispecie di concorso associativo. In questo caso la pena sarebbe però minore in quanto non vi è il concorso per delinquere ma solo l’aiuto a delinquere o a sottrarsi alla giustizia.[5]

A tale riguardo, occorre rilevare che la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo sul caso di Bruno Contrada non condanna affatto la fattispecie del concorso esterno, ma la sua applicazione retroattiva: ciò dal momento che, all’epoca dei fatti contestati a Contrada (1979-1988), non si era ancora consolidato l’orientamento giurisprudenziale rispetto al concorso esterno in associazione mafiosa, orientamento che si sarebbe invece chiaramente profilato con la sentenza della Cassazione a Sezioni Unite Demitry (1994), Mannino (1995) e Carnevale (2002). In ogni caso, la Cassazione ha dichiarato che, per gli altri condannati che versavano nelle medesime condizioni cronologiche (anteriorità al 1994), la sentenza 4 aprile 2015 nel caso Contrada contro Italia non trova applicazione, non trattandosi di “sentenza pilota” ma di pronuncia che non spiega effetti oltre il caso concreto dedotto a Strasburgo[6].


Note

  1. ^ Tale articolo fu introdotto nel codice penale dalla legge n. 646 del 13 settembre 1982.
  2. ^ Manuale breve – diritto penale – S.D.Messina/G.Spinnato – Edizioni Giuffrè – 2009
  3. ^
  4. ^ Concorso esterno in associazione mafiosa: il reato che “non c’è” da panorama.it, 20 aprile 2015
  5. ^ La “contiguità” alla mafia e il problema del concorso “esterno”
  6. ^ Mafia, Cassazione: “La decisione della corte di Strasburgo su Bruno Contrada e il concorso esterno non si può applicare agli altri casi”, Il Fatto quotidiano, 25 ottobre 2019.

Il sogno di Falcone: l’alleanza degli Stati contro la criminalità organizzata transnazionale  Primissimi anni ’80. Ufficio di Istruzione Penale del Tribunale di Palermo. In un contesto storico-giudiziario fosco, oscuro in cui, anche da parte di rappresentanti delle istituzioni si affermava che la mafia non esistesse in quanto mera invenzione giornalistica o, addirittura, si sosteneva da altri che fosse un espediente mediatico del P.C.I. per screditare agli occhi dei cittadini la D.C., nasceva il pool antimafia dell’Ufficio di Istruzione di Palermo, un organo giudiziario non previsto dall’ allora vigente codice di procedura penale (ma posto in essere avvalendosi del disposto dell ‘art. 17 delle Disposizoni Regolamentari del codice Rocco), ideato e realizzato da due consiglieri dirigenti di quell’Ufficio, dapprima il compianto dott. Rocco Chinnici (ucciso dalla mafia il 29 luglio 1983 per mano di Giovanni Brusca, potente “uomo d’onore” della “famiglia” di San Giuseppe Jato) e, dopo, dal suo successore, l’indimenticato dott. Antonino Caponnetto (deceduto nel 2002), i quali concepirono, Rocco Chinnici, ed attuarono, Antonino Caponnetto, il disegno, del tutto innovativo, di affidare le indagini sul fenomeno della criminalità organizzata di tipo mafioso ad un gruppo di giudici di modo che, lavorando in stretto collegamento fra di loro, fosse possibile un scambio di notizie ed informazioni sui risultati delle indagini espletate da ciascuno di essi ed il patrimonio di notizie così acquisite da ognuno degli inquirenti non fosse disperso ma bensì portato a conoscenza degli altri colleghi.

La strategia che si era inteso attuare era, dunque, quella di formare un drappello di magistrati, all’inizio davvero sparuto, che esperisse il primo e serio tentativo di ripristinare, nel pieno rispetto delle norme penal-processuali, il primato del diritto e della legalità contro la violenza, l’arroganza e la tracotanza, divenute intollerabili, della criminalità organizzata di tipo mafioso, la “cosa nostra” come poi si apprenderà chiamarsi dalle rivelazioni di Tommaso Buscetta, storico collaboratore di giustizia, carismatico “uomo d’onore” della “famiglia” palermitana di Porta Nuova.

Le complesse indagini esperite ebbero ad oggetto gli anni settanta ed i primi anni ottanta sino al 1989; insieme con l’eliminazione di magistrati e funzionari dello Stato, le sentenze-ordinanze emesse dal pool hanno preso in considerazione le “attività” di “cosa nostra” quali il traffico di sostanze stupefacenti, i sequestri di persona, le rapine, le estorsioni consistenti nell’imposizione del “pizzo”, cioè del pagamento di somme di denaro, a commercianti, imprenditori e professionisti le cui attività si svolgevano nel territorio sotto la “giurisdizione” delle numerose “famiglie” mafiose operanti a Palermo e provincia.

Le indagini condotte dal pool antimafia hanno consentito, inoltre, di far luce sulla cd. guerra di mafia combattuta tra il 1980 ed il 1983 nel corso della quale vennero uccisi, ad opera dei corleonesi di Riina e Provenzano, “uomini d’onore” della fazione avversa, quali Stefano Bontate e Salvatore Inzerillo, nonché vennero consumati numerosi atroci delitti, una barbarica scia di vendette che insanguinò la città di Palermo in nome del predominio egemonico di una fazione di mafia, quella del c.d. clan dei Corleonesi.

Delitti che, purtroppo, sono stati considerati da troppi con indifferenza, oggetti del consumo delittuoso, quasi fossero una naturale conseguenza di un gioco violento che, comunque, andava consumato, o, ancora peggio, con la soddisfazione del cinismo, quasi che quei poveri corpi strangolati, sfigurati, incaprettati, cioè legati con una corda stretta tra il collo e gli arti inferiori, o sciolti nell’acido, uccisi nelle maniere più atroci non appartenessero anch’essi alla comunità umana e non fosse compito della società civile impedire quel massacro.

Il maggiore merito della incessante, complessa, articolata e difficile attività di indagine del pool antimafia è stato, dunque, quello di definire, una volta per tutte, la struttura interna dell’organizzazione mafiosa “cosa nostra” e tale impostazione è stata recepita nella sentenza della Cassazione del 30 gennaio 1992 con la quale si è formato il giudicato sul primo grande processo al Ghota mafioso, celebratosi a Palermo dal 10 febbraio 1986 al 16 dicembre 1987, a tutt’oggi il più grande processo mai celebrato al mondo contro appartenenti alla criminalità organizzata.

Venne, così, incontrovertibilmente e definitivamente accertato che “cosa nostra” è un vero potere criminale che si muove come anti-stato nello Stato, alla cui sicurezza attenta, apportandovi grave offesa con la commissione di efferati delitti che mirano a privarlo dell’opera di fedeli servitori (poliziotti, magistrati, funzionari pubblici) e mina alle sue fondamenta l’amministrazione della giustizia, l’ordine costituito e la sicurezza pubblica in molte zone del nostro paese, sì da fare apparire affievolito, se non addirittura compromesso, il ruolo delle Istituzioni della Repubblica, con effetti eversivi sulle Istituzioni stesse e sulla società civile. Pur in presenza di tale drammatica situazione, maturò la consapevolezza che sarebbe stata necessaria l’adozione non di provvedimenti eccezionali, nel senso di una deroga ai principi fondamentali del nostro ordinamento giuridico, ma di straordinarie misure politiche, amministrative e legislative che, sempre muovendosi nell’ambito dei principi costituzionali, consentissero alla magistratura ed alle forze dell’ordine di contrastare in modo più adeguato e stroncare la minaccia che la criminalità organizzata rappresentava per l’ordine costituito e per la sicurezza dei cittadini. Ma siffatta ardua impresa non poteva essere opera soltanto della magistratura e delle forze di polizia ma frutto di un condiviso, concorde e solidale impegno di tutte le componenti della società civile. Prevenzione e repressione a nulla sarebbero valse se non accompagnate da una profonda e sentita rivolta morale, cui però lo Stato avrebbe dovuto garantire un sufficiente grado di sicurezza e di operatività. Dopo le stragi di Capaci e Via D’Amelio c’è stata una grande mobilitazione, frutto dell’emozione suscitata da quegli eventi, da parte della società civile, quella avvertita, quella che rispetta le regole, quella che informa la sua condotta alla coltura e che non può non desiderare, con tutte te sue forze, che venga finalmente conseguita la definitiva liberazione da quelle gramigne infette, da quei bubboni malefici che si chiamano “cosa nostra”, “ndrangheta”, “camorra”, “sacra corona unita”, associazioni per delinquere di tipo mafioso, operanti anche in altre regioni dell’Italia, contro le quali non è sufficiente l’azione repressiva delle forze dell’ordine e della magistratura ma è anche e soprattutto necessario non l’interessato opportunismo di sedicenti paladini dell’Antimafia di cartone, dell’Antimafia parolaia, dell’Antimafia di chi cerca poltrone o vuole lucrare benemerenze ma bensì l’impegno serio, concreto, costante, diuturno delle componenti sane della società civile, di tutta la società civile, quella che denuncia il pizzo, quella che si costituisce parte civile in processi di mafia, quella che organizza convegni, come quello che stiamo vivendo, per farsi carico della protesta e capire come bisogna comportarsi, perché, è bene che lo si tenga presente una volta per tutte, la mafia non è un fenomeno criminale circoscritto alla Sicilia, ma ha travalicato i confini della Trinacria per espandersi in Italia là dove ha trovato terreno fertile, là dove ha potuto contare su reticoli di contiguità e connivenze ma anche di collusioni e complicità, grazie alle quali non ha quasi più bisogno di ricorrere alla violenza o alla intimidazione; ecco perché non bisogna mai, mai dimenticare che la mafia è una società per azioni criminali con sede illegale a Palermo e con filiali nel resto della Sicilia, in molte Regioni italiane e in alcuni paesi del mondo e che la società civile non si libererà dalla soffocante, non più tollerabile presenza della mafia, antistato nello stato, che inquina il tessuto socio-economico-imprenditoriale, sino a quando sarà auto-indulgente e tollererà facilmente al proprio interno, atteggiamenti paternalitistici, clientelari, conformistici, conservatori, illegali e “alegali”; insomma atteggiamenti mafiosi e paramafiosi. È necessario che si faccia strada la convinzione che la cultura della violenza, del privilegio e della sopraffazione debba essere combattuta sia sul versante repressivo, grazie al costante impegno delle forze dell’ordine e della magistratura, sia sul versante preventivo mediante la costante ricerca di un radicate cambiamento culturale che consenta il riconoscimento e l’affermazione di irrinunciabili valori quali la democrazia, la legalità, la solidarietà, la pace e la giustizia. Le cronache giudiziarie degli ultimi trent’anni, i processi a carico di importanti uomini delle istituzioni, basti ricordare quelli celebrati a carico di un sette volte primo ministro, nei confronti di un governatore della Sicilia e di alti funzionari di polizia, per limitarci a processi celebrati a Palermo e definiti con sentenze passate in giudicato, di condanna o di non doversi procedere perchè estinto il reato per intervenuta prescrizione, sono la cartina di tornasole di una pericolosissima commistione di interessi economici e di potere tra “cosa nostra” e rappresentanti delle istituzioni, grazie alla quale è possibile ai mafiosi infiltrarsi in nuovi settori economici ed imprenditoriali conseguendo in tal modo il controllo sempre più soffocante del territorio. Altrimenti, come sarebbe stato mai possibile a Riina e Provenzano, capi dei capi quasi analfabeti, impegnarsi anche in attività legali (imprese, appalti e altro) senza la collaborazione di altri soggetti del mondo delle professioni, delle imprese e delle istituzioni? E’ l’amara conferma di un potere mafioso in continua espansione come rilevato da numerose operazioni, condotte dalla magistratura nel Lazio, in Lombardia, Piemonte, Emilia-Romagna che hanno consentito di constatare, anche in queste regioni, la inquinante presenza di un “fenomeno” politico-mafioso già ben noto agli inquirenti che operano al Sud. Il rapporto tra mafie e politica è, dunque, un tema sempre più di grande attualità ed è indubbiamente uno degli aspetti più inquietanti e controversi del fenomeno mafioso e della storia dei partiti e delle istituzioni della nostra nazione. Tornando alle vicende del pool antimafia, per quello che interessa in questa sede, in quella iniziale, straordinaria stagione storica e giudiziaria, il consigliere Rocco Chinnici assegnava a Giovanni Falcone, giudice istruttore da poco approdato a quell’ufficio, l’incarico di istruire il procedimento penale a carico di Rosario Spatola, un costruttore e faccendiere siciliano, su cui gravava l’accusa di gestire un grosso traffico internazionale di sostanze stupefacenti tra Palermo e New York, dove coesistevano e prosperavano, commerciando in armi ed eroina, ben cinque “famiglie” mafiose. Nel corso di quel procedimento, a carico anche di altri soggetti, veniva accertato come alcune “famiglie” mafiose palermitane acquistassero in Turchia ingenti quantità di morfina base, la trasportassero a Palermo, dove veniva trattata in clandestine “raffinerie” e trasformata in eroina purissima, che veniva commercializzata preferibilmente a New York ma anche in altre città statunitensi ed il cui ricavato era oggetto di transazioni economiche presso istituti di credito svizzeri. Quel processo, in cui erano coinvolti importanti soggetti legati a “cosa nostra”, fece comprendere a Giovanni Falcone che la strategia sino ad allora seguita nel contrasto giudiziario alla criminalità organizzata andava abbandonata perchè del tutto inidonea a conseguire risultati soddisfacenti. Anche perchè, per moltissimi anni, la lotta alla mafia era stata quasi sempre emergenziale consistendo in estemporanee iniziative susseguenti a singoli fatti delittuosi come ad esempio la istituzione della commissione parlamentare antimafia del 1963 dopo la strage di Ciaculli, una borgata di Palermo, regno di Michele Greco, detto il “Papa”, in cui perirono sette carabinieri e due civili, dilaniati da una carica di tritolo nascosta nel portabagagli di una Alfa Romeo “Giulietta”. Per un lungo lasso di tempo, quindi, le singole manifestazioni criminose erano state viste in una ottica parcellizzante e disancorata dalla considerazione unitaria del fenomeno mafioso di certo sottovalutato forse inconsapevolmente ma certo colpevolmente da coloro i quali avrebbero potuto e dovuto occuparsene e preoccuparsene. Eppure, nel mese di marzo del 1973, Leonardo Vitale, il c.d. protopentito, giovane aspirante “uomo d’onore” e nipote del capo-mandamento Titta Vitale, aveva delineato, in un verbale di sommarie informazioni a firma dell’allora commissario della P.S. Bruno Contrada, l’organigramma della associazione mafiosa dell’epoca, naturalmente a livello delle sue ancora frammentarie ed incomplete conoscenze, facendo nomi e cognomi di numerosi sodali e di persone contigue all’associazione quali, ad esempio, Vito Ciancimino, a lungo assessore comunale e poi anche sindaco di Palermo sia pure per pochi giorni, anticipando di oltre dieci anni le analoghe, ma più precise e numerose rivelazioni di Tommaso Buscetta, contenute nel verbale del suo primo interrogatorio reso in Italia a Giovanni Falcone il 16 luglio 1984 e nei successivi. Ma Leonardo Vitaleessendo stato ritenuto non completamente sano di mente, venne condannato per i reati commessi e confessati e internato in un manicomio giudiziario dal quale, scontata la pena irrogatagli, verrà dimesso nel dicembre del 1984 mentre nessuna o quasi iniziativa giudiziaria venne intrapresa nei confronti delle persone dallo stesso chiamate in reità e correità. Qualche giorno dopo il suo rientro a Palermo, la mafia punirà con la morte il suo “tradimento”. Dunque, non avere prestato la dovuta attenzione, per usare un eufemismo, alle propalazioni di Leonardo Vitale ha ritardato di oltre dieci anni l’azione di contrasto a “cosa nostra” ed è stata una grande occasione colpevolmente persa. In una stagione giudiziaria, quindi, in cui le conoscenze dell’apparato strutturale e funzionale di “cosa nostra” erano ancora frammentarie e parziali e, correlativamente, episodica e discontinua era stata l’azione repressiva e punitiva dello Stato, diretta prevalentemente a colpire, con risultati ovviamente deludenti, le singole manifestazioni criminose (si pensi alle numerosissime assoluzioni per insufficienza di prove con le quali, negli anni ’60 e ’70 si erano chiusi i processi di Catanzaro, Bari e Palermo a carico di centinaia di mafiosi), un grandissimo e determinante contributo alle indagini svolte dal pool anti-mafia è stato fornito dalle collaborazioni di Tommaso Buscetta, Salvatore Contorno, Antonino Calderone, Francesco Marino Mannoia, “uomini d’onore” transitati dalla parte dello Stato, i quali hanno adottato tale decisione perché non hanno più creduto in “cosa nostra” ed hanno compreso che non valeva la pena di prestare ossequio ai principi di una organizzazione che aveva rivelato il suo vero volto di criminalità della peggiore specie e nei cui “valori” (da intendersi, ovviamente, in senso deteriore) più non si riconoscevano. Ma, attenzione, per sgomberare il campo da ogni malinteso, va sottolineato che non deve ritenersi che alcuno dei predetti sia stato spinto a collaborare perché folgorato “sulla via di Damasco” come Saulo (poi diventato San Paolo) o perchè convinto da ragioni morali o ideali né che abbia aderito a “cosa nostra” sull’erroneo presupposto che si trattasse di una organizzazione a difesa dei deboli. Si vuol dire, soltanto, che la degenerazione dei principi tradizionali di “cosa nostra” (le cd. “regole del gioco”) e la presa del potere da parte di spietati e feroci assassini (i “corleonesi” di Salvatore Riina, Bernardo Provenzano e Leoluca Bagarella) senza alcun vincolo solidaristico se non quello del lucro, hanno fatto comprendere che il rispetto dell’omertà era ormai un non senso. E l’esperienza maturata al riguardo convinse i componenti del pool di essere nel vero nel ritenere che, ormai, la omertà era sempre meno il frutto di una convinta adesione ad una determinata sub-cultura e, sempre più, il frutto del terrore, della paura, della violenza e dell’intimidazione da un lato, e del tornaconto egoistico e di mire utilitaristiche dall’altro. Le propalazioni di Tommaso Buscetta, Salvatore Contorno, Antonino Calderone e Francesco Marino Mannoia, supportate dagli obiettivi riscontri cercati sino allo sfinimento ed acquisiti nell’assoluto rispetto delle norme penal-processuali, hanno reso possibile, da un lato, infrangere il muro dell’omertà, che ha costituito uno dei pilastri portanti della stessa esistenza di “cosa nostra” da oltre centocinquanta anni, e dall’altro, di acquisire la reale conoscenza del fenomeno mafioso nella sua interezza, consentendo di alzare il sipario su di uno scenario fino ad allora soltanto immaginato, intuito o intravisto. Istruendo il procedimento a carico di Rosario Spatola ed altri, Giovanni Falcone comprese ben presto che la mafia era anche un fenomeno criminale internazionale, che la sua potenza economica aveva superato i confini della Sicilia, che era riduttivo e fuorviante indagare solo a Palermo e che, soprattutto, era necessario penetrare nei “santuari” degli istituti di credito, dovunque si trovassero, nei quali affluivano e venivano “puliti” gli ingentissimi capitali accumulati con i traffici internazionali di armi e droga. Ed allora era necessario fare un passo in avanti, dare una svolta definitiva alla strategia di attacco alla mafia economica e finanziaria operante anche all’estero, intensificando la collaborazione con gli organi investigativi e giudiziari degli Stati a livello europeo e mondiale, in una ottica di prevenzione e di contrasto alle più svariate attività criminali. Nel mese di ottobre del 1982 una delegazione italiana partecipò alla Conferenza internazionale delle forze dell’ordine tenutasi presso la sezione “Criminalità organizzata” del Federal Bureau of Investigation, nella sede della sua accademia a Quantico in Virginia. Di quella delegazione faceva parte Giovanni Falcone, la cui presenza fu l’occasione propizia per prendere contatti, ben presto favoriti da cordiali rapporti personali, con quelle autorità giudiziarie che, all’epoca, erano impegnate nell’inchiesta condotta dall’F.B.I, avente ad oggetto un grosso traffico di droga, denominata Pizza Connection, perchè pizzerie e ristoranti venivano impiegati per coprire l’importazione dell’eroina da Palermo. In quegli anni di febbrile attività investigativa, ben presto si intensificarono le rogatorie negli U.S.A. di Giovanni Falcone e degli altri componenti del pool antimafia e dei pubblici ministeri della Procura della Repubblica di Palermo al fine di acquisire elementi di prova da utilizzare nel processo pendente a carico dello Spatola e di altri trafficanti di armi e sostanze stupefacenti ma anche di trarre insegnamenti dall’esperienza maturata, già allora, da investigatori e funzionari dell’ F.B.I, il principale corpo della polizia federale statunitense, e della D.E.A., l’agenzia anti-droga statunitense, i quali avevano scoperto un maxi-traffico di eroina tra la Sicilia e gli U.S.A. gestito da mafiosi siciliani e “cugini” americani. Fu così possibile ottenere la preziosa collaborazione di Rudolph Giuliani, Procuratore Distrettuale e poi sindaco di New Jork, di Louis Freeh, componente prima e direttore poi dell’ F.B.I e di Richard Martin, procuratore del distretto di Manhattan, Nel corso delle numerose regotarie a New Jork, si aprì agli occhi di Falcone un mondo nuovo, un metodo investigativo all’avanguardia grazie, anche, alla esperienza maturata in tema di collaboratori di giustizia (figure introdotte nel nostro ordinamento soltanto nel 1991) ed alla disponibilità da parte degli investigatori statunitensi di strumenti di lavoro quali, ad esempio, le agende elettroniche, cioè i computers, mentre Falcone, gli altri giudici del pool ed i pubblici ministeri ancora annotavano i nomi degli imputati e le informazioni sul loro conto su calapini ed agende cartacee. Ma, soprattutto, l’indagine condotta dagli investigatori statunitensi, chiamata “pizza Connection”, fornì a Giovanni Falcone preziosissimi elementi utilizzati nel c.d. “maxi-processo” che si è concluso con la irrogazione di 19 ergastoli, 2665 anni di reclusione e molti milioni di lire di pene pecuniarie Trovò, così, conferma l’intuizione di quel giudice non “visionario” ma lungimirante sulla necessità della collaborazione tra gli Stati per fare fronte, sia sul versante preventivo che repressivo, alle organizzazioni criminali che, già allora, come ora, facevano “affari” anche fuori i confini nazionali spartendosi un mercato miliardario. Sulla scorta dell’esperienza maturata negli U.S.A.e di quella acquisita nel pool antimafia, Giovanni Falcone, lasciate le funzioni Procuratore Aggiunto presso la Procura di Palermo ed assunte quelle di responsabile della Direzione degli Affari Penali del Ministero di Grazia e Giustizia (chiamatovi da Claudio Martelli, titolare di quel Dicastero), si adoperò fattivamente, grazie alle opportunità offerte da quel privilegiato osservatorio, affinchè il legislatore adottasse, provvedimenti legislativi finalizzati a dotare la magistratura e le forze dell’ordine di innovativi strumenti di contrasto al crimine organizzato.

In particolare:

  • è stato costituito presso alcune Procure della Repubblica la Direzione Distrettuale Antimafia (D.D.A) in cui esercitano le loro funzioni magistrati scelti in relazione alle loro specifiche attitudini ed esperienze professionali, sulla falsariga dell’F.B.I. e della D:E.A. Nonché del vecchio pool antimafia del soppresso ufficio di istruzione a seguito dell’entrata in vigore del nuovo codice di rito;
  • è stata istituita la figura del Procuratore Nazionale Antimafia le cui funzioni consistono nell’attività di impulso e di coordinamento delle attività di indagine in tutto il territorio nazionale in relazione ai procedimenti per i delitti indicati nell’articolo 51 comma 3 bis del codice di procedura penale, in modo da assicurare anche il collegamento tra diverse Autorità Giudiziarie interessate ad indagini concernenti lo stesso reato o più persone coinvolte in vicende processuali di competenza di dette Autorità, spesso all’insaputa l’una delle altre per mancanza di collegamenti o scambio di informazioni;
  • è stata costituita la Direzione Investigativa Antimafia (D.I.A.), un gruppo interforze in cui operano qualificati ed esperti appartenenti alla Polizia di Stato, all’Arma dei Carabinieri ed alla Guardia di Finanza, il quale opera in stretto collegamento con le Procure della Repubblica, così come era già accaduto durante l’esperienza del pool antimafia che si era costantemente avvalso della fattiva e preziosissima collaborazione di esponenti delle forze dell’ordine senza dimenticare che un contingente di appartenenti alla Guardia di Finanza era stato stabilmente distaccato presso il c.d. “bunkerino”, come veniva chiamato l’ufficio in cui avevano lavorato Giovanni Falcone e Paolo Borsellino ed anche il sottoscritto dopo il trasferimento, a sua domanda, di Paolo Borsellino alla Procura della Repubblica di Marsala;
  • è stata approvata, sulla scorta dell’esperienza maturata da Giovanni Falcone negli U.S.A e nel pool, una legge premiale per i collaboratori di giustizia, i c.d. “pentiti”, le cui dichiarazioni avessero contribuito in modo determinante alla conoscenza delle dinamiche interne a “cosa nostra” e all’individuazione di appartenenti a quella associazione e di soggetti responsabili di gravi fatti di sangue in danno di magistrati, poliziotti, funzionari dello Stato, professionisti, avvocati, i c.d. “delitti eccellenti”;
  • è stato introdotto nell’ordinamento penitenziario l’art. 41 bis che prevede un durissimo regime carcerario per gli appartenenti a “cosa nostra” condannati alla pena dell’ergastolo o a pesanti pene detentive al fine di impedire loro qualsiasi contatto con l’esterno e trasmettere ordini agli affiliati ancora in libertà.

Queste provvide iniziative legislative nonché gli insostituibili, irrinunciabili e non negoziabili valori di giustizia, legalità, rispetto dei diritti umani, di condivisione e solidarietà, per i quali hanno sacrificato il bene supremo della vita, costituiscono l’eredità lasciataci da Giovanni Falcone e, come non ricordarlo, dall’altro grande protagonista di quella irripetibile stagione giudiziaria, Paolo Borsellino. Non una eredità fatta di beni, rendite o patrimoni ma bensì una eredità ricca di insegnamenti, di gesti, di parole, di comportamenti, di memoria lasciata da chi ci è venuto a mancare e tutti gli uomini di buona volontà, che si sono sentiti più soli dopo la loro morte, devono fare tesoro della loro testimonianza, del loro impegno, del loro sacrificio, del modo con il quale hanno provato a dare un senso alla loro esistenza. Non è una eredità di sangue ma è una eredità simbolica che, rendendoli presenti nelle nostre vite, ci infonde coraggio, ci consiglia di non arrendersi mai, ci invita a credere che un cambiamento è sempre possibile, ci insegna il loro modello di lavoro e di vita, ci ricorda che la presa di distanza dal malaffare e da ogni forma di criminalità è un impegno inderogabile da assumere da parte di tutti noi, ci fa comprendere che, in un contesto temporale in cui sembra smarrito il senso profondo dell’interesse generale, del futuro, dello Stato, della giustizia, si impone un soprassalto di fierezza e di dignità, ed è necessario uno sforzo comune da parte di tutte le componenti sane della società civile per realizzare una opera di bonifica morale e sociale che consenta a tutti di vivere ed operare in una società nella quale la forza del diritto abbia sempre la meglio sul diritto della forza. Fonte


 

Il 416 bis, quell’articolo che fa tanto discutere. Le parole del procuratore aggiunto Giuseppe Cascini aprono una recente problematica riguardo l’interpretazione o la giusta connotazione dell’articolo 416 bis, in luce dell’affermazione di nuove associazioni criminali in zone del territorio italiano in cui si pensava non vi fossero infiltrazioni mafiose, ma solo presenza e diffusione di delinquenza generica. Il processo definito “Mafia Capitale”, suscita l’attenzione di una diatriba giurisprudenziale e dottrinale riguardo il capo di imputazione dei soggetti coinvolti e per i quali la Procura di Roma contesta l’aggravante del metodo mafioso ai sensi dell’art. 416 bis, Codice Penale. In primo grado il Tribunale di Roma non ha accolto l’istanza della Procura (in Appello, qualche giorno fa, è avvenuto il contrario) riguardo l’ attribuzione al sodalizio criminale dell’aggravante del metodo mafioso, non classificando le attività dei consociati corrispondenti alla previsione legislativa contestata (416 bis). La motivazione della sentenza dimostra quanto la previsione della fattispecie astratta del 416bis non sia più adatta a prevedere nuove tipologie di mafie diverse da quelle affermatesi negli anni addietro in Sicilia e Calabria, le quali si connotavano per la forza di intimidazione con metodo sovversivo, l’assoggettamento e l’omertà come aspetto fenomenico consequenziale all’esercizio della forza di condizionamento mafioso che si manifesta nelle vittime potenziali dell’associazione. Nella formulazione dell’accusa, la Procura di Roma, a seguito di lunghe e dettagliate indagini, ha ricostruito un apparato criminale capillare infiltrato non soltanto nel mondo imprenditoriale, ma anche nel tessuto politico e amministrativo, operante secondo un metodo mafioso nuovo e camaleontico ed in grado di compiere svariati affari grazie ad un sistema corruttivo ad ampio raggio. Il vero punto di svolta a cui giunge la magistratura inquirente è la classificazione e l’affermazione di nuove condotte mafiose non sovversive nel rapporto tra mezzi usati e fini perseguiti dai consociasti del sodalizio criminale; non si assiste, infatti, a stragi ed omicidi per l’affermazione del potere, ma si costruisce un tessuto economico- politico illecito alternativo a quello statale finalizzato ad acquisire in modo diretto ed indiretto la gestione ed il controllo delle attività. E’ questo l’elemento che dimostra maggiormente l’inadeguatezza e l’arretratezza dalla fattispecie astratta del reato di associazione a delinquere di stampo mafioso, elaborata negli anni ‘90 per contrastare attività criminali che si manifestavano con caratteri violenti e stragisti; “La mafia è un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio e avrà anche una fine”. Con queste parole Giovanni Falcone ha dato un’importante connotazione umana ad un fenomeno criminale soggetto ad evoluzione storico-sociale. Ed è proprio a causa dello scorrere del tempo che previsioni legislative prodotte nei decenni precedenti possono non essere adeguate a disciplinare condotte mafiose “moderne” e “camaleontiche”, in grado di confondersi nel tessuto sociale ed economico dello Stato. Per far fronte a tali problematiche, la dottrina giuridica ha elaborato nuove teorie in tema di associazionismo mafioso, connotando con il termine “mafia silente” quel sodalizio che si avvale della forza d’intimidazione non attraverso metodi eclatanti, ma con condotte che derivano dal “non detto”, dall’“accennato” e dal “sussurrato”; questo concetto diventa penetrante nel processo “Mafia Capitale”, in quanto vi è una doppia interpretazione del 416 bis, letterale da parte del Tribunale, estensivo da parte della Procura. Secondo i principi del diritto penale in generale, e soprattutto secondo quello della certezza del diritto, la magistratura non può discostarsi dall’interpretazione letterale degli articoli del Codice, “ergo”, nel caso in cui non vi sia piena corrispondenza tra fattispecie astratta e fattispecie concreta, non si integrano gli estremi del reato contestato dalla Procura, in quanto codicisticamente non aggiornato all’evoluzione del fenomeno mafioso. Sarebbe opportuno, quindi, un intervento legislativo mirato ad ampliare i confini del 416bis, ormai vetusto e legato a vecchie ideologie e concezioni di mafia stragista ed intimidatoria, che non trova più riscontro nella società moderna, ed a garantire soluzioni più concrete ed efficaci che possano creare consenso tra dottrina e giurisprudenza. 18.9.2018 di Toty Condorelli e Giuseppe Nigroli. 


Mafie in Europa, ok del Parlamento Ue alla risoluzione. Ferrara (M5s): “Più vicino il reato comune di associazione mafiosa”  Via libera a Strasburgo al documento che chiede ai ventotto Paesi l’adozione di un Piano d’azione condiviso per combattere criminalità organizzata, corruzione e riciclaggio. Obiettivo, superare le differenze fra le normative nazionali che indeboliscono il contrasto ai boss e ai loro interessi economici. Tra i punti, la confisca a scopo preventivo, la tutela dei whistleblower e l’incandidabilità dei condannati. La relatrice: “La piaga riguarda tutta l’Unione. Ora speriamo in una proposta di legge della Commissione”  “La criminalità organizzata è una piaga che riguarda tutta l’Europa, non solo l’Italia. Bisogna contrastarla con linee guida comuni. E con questo voto l’introduzione nella legislazione europea del reato di associazione mafiosa è più vicina”. Con 545 , 91 no e 61 astensioni, gli eurodeputati riuniti in plenaria a Strasburgo hanno dato il via libera alla risoluzione che chiede ai ventotto Paesi l’adozione di un Piano d’azione europeo per combattere criminalità organizzata, corruzione e riciclaggio. Per Laura Ferrara, eurodeputata M5s e relatrice del testo, è un segnale che dà fiducia, anche se il percorso è ancora lungo. E la speranza è che la Commissione si attivi per una proposta legislativa. di Eleonora Bianchini | 26 OTTOBRE 2016


All’estero l’antimafia c’è, pensare il contrario è dannoso, sostiene la studiosa Anna Sergi


Una prospettiva per il domani  I corpi investigativi comuni, i magistrati di collegamento, gli accordi per l’utilizzazione di tecniche investigative speciali nelle indagini sulla criminalità transnazionale, la valorizzazione del ruolo della Convenzione di Palermo nel contrasto alle forme nuove ed emergenti di criminalità, come il cybercrime e i reati ambientali, la strategia delle indagini finanziarie di contrasto a criminalità organizzata, corruzione, riciclaggio e finanziamento del terrorismo fino all’utilizzo e il rafforzamento di strumenti come il portale “Sherloc” (acronimo di Sharing electronic resources and laws on crime): sono solo alcuni dei punti al centro del rafforzamento di una cooperazione internazionale più che mai necessaria e capace di informarsi e formarsi su fenomeni in continua evoluzione. Una conferenza che si chiude con una sfida tanto ambiziosa quanto complessa, mettendo al centro una Convenzione nata venti anni fa e che oggi ha bisogno di ritrovare linfa vitale sia nelle politiche di contrasto di ogni Paese, sia in quelle che ne rafforzano le maglie democratiche, a partire dalla promozione di misure di welfare, istruzione e sanità.  Per approfondire: The promise of Palermo. A political history of the UN Convention against Transnational Organized Crime LA VIA LIBERA 20.10.2020


Di Leonardo Guarnotta  La Convenzione di Palermo  La Convenzione delle Nazioni Unite contro il crimine organizzato internazionale, in vigore dal 2003, ha trovato la propria ragion d’essere in quelle ineludibili esigenze di contrasto della criminalità organizzata, in quanto fenomeno transnazionale, che riguardano. come è noto, non soltanto il profilo europeo ma anche, in una prospettiva più vasta, l’intera comunità internazionale. Non vi è chi non veda come, ormai, il crimine organizzato abbia assunto la dimensione di un fenomeno di portata mondiale, contro il quale nessuna iniziativa di contrasto e di prevenzione potrebbe raggiungere soddisfacenti, positivi risultati ove non fosse frutto condiviso di una coordinazione e di una maggiore armonizzazione, in materia di lotta contro la criminalità organizzata, tra più Stati a livello non solo europeo ma addirittura universale. L’esperienza dell’ONU verso una lotta coordinata al crimine organizzato si è condensata e realizzata nella Convenzione siglata a Palermo nel dicembre 2000 da 189 su 193 paesi con la quale si è inteso ampliare al massimo la portata della norma sovranazionale in cui rilevano le attività connesse al crimine organizzato. Forti di questa consapevolezza le Nazioni Unite si sono impegnate nell’adozione di strategie di contrasto su scala globale e, a seguito di un cammino a tappe graduali, sono pervenute all’elaborazione di veri e propri “standard normativi”, destinati a costituire il minimo comune denominatore dei sistemi penali degli Stati membri La Conferenza di Palermo si è adoperata, quindi, nell’opera di definizione del concetto di “gruppo criminale organizzato” inteso come un “gruppo strutturato che persegue reati gravi”, una formula questa che, in realtà, è stata ritenuta non molto chiara e viziata da eccessiva vaghezza. Ma la scelta operata dalla Convenzione si deve probabilmente all’influenza che in essa ha avuto la tradizione dei sistemi penali di Common Law, nei quali la figura della Conspiracy abbraccia tanto le forme di mero accordo volto a compiere un reato quanto la realizzazione di uno o più reati da parte di un gruppo organizzato. Una duplicità riprodotta perfettamente nella definizione delle condotte incriminate dal testo della Convenzione a titolo di partecipazione all’organizzazione criminale. Tuttavia, nel complesso, la definizione della Convenzione è apparsa soddisfacente sia perchè esclude che sia necessaria la rigida definizione di ruoli e compiti all’interno del gruppo criminale organizzato sia perchè può attagliarsi anche a fenomeni di organizzazione criminale diversi dal gruppo strutturato e consistere in “aggregazioni mutevoli di soggetti volti a perseguire le più svariate attività criminose”.

In sostanza la Convenzione ONU richiede per la punibilità dei singoli la partecipazione diretta alle attività criminali, la suddivisione dei compiti fra almeno tre sodali, la previsione del mero accordo tra gli stessi, finalizzato alla perpetrazione dei reati, la conoscenza da parte degli associati della attività illecite svolte dal gruppo o delle finalità illecite derivanti da esse. E’ palese l’intento della Convenzione di ampliare al massimo la portata della norma sovranazionale in cui rilevano le attività connesse al crimine organizzato. Era assolutamente indispensabile, quindi, che tale modello avesse piena attuazione negli ordinamenti nazionali perchè l’importanza della Convenzione risiede soprattutto nel messaggio che ha inteso trasmettere e cioè che la sua ragion d’essere non risiede tanto nell’introduzione di questa o quella singola misura di contrasto più o meno innovativa, più o meno efficace, quanto nell’avere ricercato e, in gran parte ottenuto un linguaggio comune nell’azione di contrasto al crimine organizzato.   Non c’è chi non veda, dunque, come la Convenzione delle Nazioni Unite contro il crimine organizzato transnazionale sia il principale strumento internazionale nella lotta contro tale crimine e rappresenti un importante passo avanti nella strategia di contrasto allo stesso perchè ha significato il riconoscimento da parte degli Stati membri della gravità dei problemi posti da una criminalità organizzata in tutte le sue articolazioni: dal terrorismo alle mafie, dal traffico di esseri umani al riciclaggio, dal traffico di armi a quello di sostanze stupefacenti.

Ma sbaglierebbe di grosso chi ritenesse che la lotta al crimine organizzato possa conseguire positivi risultati se non a medio-lungo termine perchè la ciminalità organizzata vive ed opera pienamente inserita nel XXI secolo ed è in grado di sfruttare sino in fondo tutte le opportunità offerte dal progresso tecnologico. Con l’abbattimento delle frontiere e la conseguente globalizzazione, beni, servizi e capitali circolano con grande facilità in ogni parte del mondo ed in Europa tutte le persone, anche quelle dedite ad attività illecite, possono liberamente spostarsi da uno Stato ad un altro dell’Unione, praticamente senza limite alcuno.      

Ed allora, era assolutamente necessario ed indefettibile che le Istituzioni adottassero una comune strategia globale di contrasto, cioè armonizzata a livello internazionale per compiere ogni sforzo al fine di individuare e aggredire l’oligopolio criminale.   Senonchè, a dispetto dell’internalizzazione e globalizzazione del crimine organizzato, sembra persistere, purtroppo, un carattere ancora prevalentemente e prettamente nazionale e nazionalistico delle normative penali finalizzate all’azione di contrasto. Si tratta di una differenza o disomogeneità dei sistemi penali vigenti nei vari Paesi interessati alla repressione del crimine organizzato che, non solo non facilita e non agevola, ma anzi inceppa l’efficacia e la tempestività degli interventi preventivi e repressivi sino a narcotizzarli e sclerotizzarli. Addirittura, la mancanza di cooperazione e coordinamento può persino operare come fattore criminogeno. Ed invece, in nessun altro campo come quello del contrasto alla criminalità organizzata transnazionale occorre che le Istituzioni dei Paesi interessati adottino una comune strategia globale di contrasto, cioè armonizzata a livello internazionale per compiere ogni sforzo al fine di individuare ed aggredire l’oligopolio criminale. Sottoscrivendo la Convenzione finale, circa due terzi degli Stati aderenti all’ONU hanno assunto il formale impegno di inserire nel proprio ordinamento una serie di misure “pensate” con riferimento alla realtà delle organizzazioni criminali, quale emersa dall’esperienza investigativo-giudiziaria acquisita e maturata in decenni di lotta alla organizzazione criminale di tipo mafioso in particolare nel nostro paese, ma più in particolare in Sicilia. La conferenza di Palermo, dunque, ha posto le basi per una solida piattaforma di integrazione internazionale nella lotta al crimine organizzato, premessa necessaria per rompere il muro dei confini, sino ad allora invalicabili, per le indagini e per la riduzione degli interstizi e delle zone grigie della “modernità” entro cui le mafie sanno bene incunearsi.

Conclusivamente, l’impegno dell’Unione Europea nella lotta alla criminalità appare ispirato da due linee guida.

La prima segnala che per una efficace lotta al crimine organizzato occorrono il dialogo e l’intesa tra gli Stati e con le Istituzioni comunitarie, non essendo più giustificabile, se non tollerabile, l’autarchia nelle scelte di politica criminale.

La seconda indica che nei rapporti di assistenza tra gli Stati è il principio dell’affidamento e non quello della indifferenza preconcetta e tanto meno della ostilità, a dover prevalere.

Ed in applicazione di tali linee che da tempo, in Europa, è in corso un processo lineare ed univoco di rafforzamento della cooperazione investigativa e giudiziaria tra gli Stati.

L’ultima tappa di questo percorso è stata Vienna dove, nel mese di ottobre 2018, si sono ritrovati i rappresentanti di 189 Paesi per fare il punto sulla sua applicazione.

Al termine dei lavori, è stata approvata all’unanimità la risoluzione che apre ad una revisione dell’accordo e ne rende ancora più stringenti gli impegni con la creazione di meccanismi di controllo volti ad accertare che tutti gli Stati abbiano adeguato i loro codici a quanto previsto dalla Convenzione. Uno strumento prezioso per colmare le ultime lacune legislative e per rafforzare la collaborazione tra le forze di polizia e le magistrature di tutte le Nazioni che Giovanni Falcone già 40 anni fa auspicava.


Il delitto di associazione per delinquere di tipo mafioso 416 bis c.p. tra “Littera legis” e giurisprudenza giuscreatrice. Il clan Fasciani di Ostia e le mafie non tradizionali ​  (Cass. pen., Sez. II, 29 novembre 2019 – 16 marzo 2020, sent. n. 10255)​

(del dott. Emilio Orlando giornalista e scrittore)

(dell’avv. prof. Leonardo Ercoli docente e avvocato penalista)

– Il fatto storico ​
– L’art. 416 bis c.p. – la fattispecie associativa ​
– L’art. 416 bis comma III associazione mafiosa ​
– Art. 416 bis comma III e il metodo mafioso ​
– Il metodo mafioso, il principio di legalità in materia penale ​
– Lo screening di mafiosità e gli indici sintomatici 

Introduzione

La piovra della ‘ndrangheta e della mafia sul litorale romano, laziale e nella Capitale: la conferma arriva dalle sentenze. Si riaprono anche i “cold case” legati alla malavita. ​ Tre sentenze abbastanza recenti scuotono il Lazio. Dopo quella di Mafia Capitale, e quella emessa dai giudici di Velletri che riconosciuto lo stampo mafioso nella sentenza del Processo Mysothis, giudicando colpevoli undici dei tredici imputati arriva anche quella legata al clan Fasciani di Ostia. ​ Omicidi, regolamenti di conti e delitti irrisolti tra i segreti delle n’drine trapiantate nel Lazio. Le rivelazioni del pentito Daniele Cretarola hanno fornito agli inquirenti importanti spunti investigativi con cui si possono rileggere i moventi di diversi omicidi, probabilmente di stampo mafioso, rimasti senza colpevole.​ Per gli undici condannati, è scattata anche l’associazione per delinquere di stampo mafioso, con pene che vanno dai ventiquattro ai trenta anni di carcere, nei confronti di appartenenti alla cosca n’dranghetista dei Gallace-Novella, clan malavitoso originario della Calabria e ramificato da anni nella capitale e lungo il litorale di Anzio e Nettuno, con propaggini estese anche nei quartieri periferici di Giardinetti ,Tor Bella Monaca e San Basilio.​ Queste sentenze riaprono fatti di sangue avvenuti a Roma e rimasti impuniti. Nuovi scenari d’indagine si sono riaperti su alcuni “cold case”. Per la seconda volta i giudici dei tribunali romani hanno accolto gli l’impianti accusatori dei pubblici ministeri della direzione nazionale antimafia e nel caso delle recenti condanne quello illustrato dal magistrato antimafia Francesco Polino relativamente al secondo filone dell’ inchiesta “Mythos” che nel 2013 vide condannati gli imputati per complessivi centonovanta anni di carcere.​

Sentenza per altro confermata nello scorso mese di giugno dalla corte d’ appello capitolina. Due sentenze che forniscono una fotografia precisa di come la mafia calabrese sia riuscita a colonizzare alcune zone del Lazio ed i quartieri romani, attraverso l’investimento di denaro sporco in settori strategici per l’economia. Secondo il collaboratore e pentito Daniele Cretarola, affiliato al clan Pizzata rivale dei gruppi dello Ionio Reggino, rientranti nella cosiddetta faida Di San Luca, una delle più sanguinarie di Gioia Tauro, i mandanti dell’esecuzione di Vincenzo Femia, boss indiscusso del narcotraffico tra la Calabria e Montespaccato freddato a Roma il 24 gennaio del 2013 in via della Castelluccia all’Ardeatino rientrano in quest’ ambito. Il pentito, durante l’ audizione protetta, racconta anche la genesi della criminalità organizzata di Gioia Tauro nella capitale.​ Secondo il racconto di Cretarola, un primo importante accordo tra la malavita romana e quella del sud avvenne negli anni settanta durante un pranzo al ristorante “Il Fungo” dell’ Eur. Riunione a cui partecipò Gianfranco Urbani detto “er pantera” affiliato alla banda della Magliana, che iniziò a tessere accordi con dei veri e propri accordi” commerciali” illeciti che riguardavano traffico di ingenti quantità di droga, eroina e cocaina, reinvestimento dei proventi derivanti dalle bische clandestine.​ Un ruolo fondamentale, emerso dopo le indagini della direzione nazionale antimafia, che hanno portato alle condanne emesse dal tribunale di Velletri, lo ha giocato l’infiltrazione delle cosche Gallace-Novella di Guardiagrele, Santa Caterina allo Ionio Badolato sul litorale di Anzio e Nettuno.​ Inoltre, il verdetto dei giorni scorsi si unisce a quello dei magistrati del tribunale di Latina che ha condannato i reggenti delle cosche che avevano “conquistato” il mercato ortofrutticolo di Fondi. Il quadro allarmante emerge anche nei regolamenti di conti che si sono verificati nella capitale negli ultimi anni. Il sequestro ” lampo” avvenuto il 27 novembre del 2013 nel quartiere Africano, dove venne rapito uno dei fratelli del boss del clan Coluccio di Gioiosa Jonica per intimidirli circa gli errati investimenti che avevano fatto con capitali illeciti.​ Gli altri omicidi n’drangheta, commessi da cellule mafiose calabresi nella Capitale sono quello di Angelo Di Masi, originario di Mileto la cui esecuzione avvenne al Prenestino dentro una sala slot in via Fumaroli. Il sicario lo freddò con undici colpi di rivoltella di cui due in pieno viso. Un anno prima, un meccanico di 43 anni, Teodoro Battaglia, originario di Satriano nella provincia di Catanzaro venne gambizzato in via di Rocca Cencia alla Borghesiana.​ ​In quegli anni, un altro misterioso omicidio è rimasto senza colpevole. Quello del fotografo dei vip, Daniele Lo Presti, originario di Palmi. Il paparazzo venne assassinato alla fine di febbraio del 2013, con un colpo d’ arma da fuoco alla testa, mentre faceva jogging sulla pista ciclabile che costeggia il Tevere all’ altezza di Ponte Testaccio. Il professionista, estraneo comunque ad ambienti malavitosi, potrebbe essere finito nel mirino dei clan della ndrangheta operanti nella capitale, per cause ancora da decifrare, come pure l’ esecuzione di Claudio D’ Andria avvenuta nello stesso anno a Tor Sapienza in via Giorgio Morandi. Dalle rivelazioni di qualche pentito gli investigatori potrebbero arrivare alla chiave di volta per risolvere questi casi​. Con la sentenza 10255 del 16 marzo 2020, epilogo della vicenda del clan Fasciani di Ostia, la Suprema Corte di Cassazione affronta con chiarezza e precisione ancora una volta il tema della configurabilità del delitto di associazione a delinquere di stampo mafioso (art. 416-bis c.p) in riferimento alle mafie ” non tradizionali”. Il paradigma è quello di cui al comma terzo dell’art. 416-bis c.p che prevede che è di tipo mafioso l’associazione i cui partecipanti si avvalgono della forza d’intimidazione del vincolo associativo, dell’assoggettamento e dell’omertà che ne deriva. Ma cosa ne è allora di quei sodalizi che non hanno una connotazione criminale storica? La Corte ci fornisce un catalogo di preziosi “indici di mafiosità” invitando a non perdere mai di vista i principi costituzionali in materia penale, di legalità di offensività, di determinatezza e della precisione della fattispecie penale che non devono mai essere sacrificati neppure davanti al crimine organizzato. ​ Il ragionamento svolto dagli Ermellini spiega perché maggiore attenzione dovrà essere prestata dall’organo giudicante nel caso in cui si abbia a che fare con una realtà associativa delinquenziale diversa dalle “mafie già note”. E’ noto che l’associazione mafiosa costituisca un pericolo per l’ordine pubblico ma ciò non toglie che il relativo metodo, per integrare la fattispecie incriminatrice deve essere posto all’attenzione scrupolosa del giudicante che non deve sconfinare dal “tipo normativo” in connotazioni meramente soggettivistiche. ​

Il fatto storico La sentenza in commento costituisce l’epilogo dell’inchiesta “Alba Nuova”, coordinata dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Roma ed eseguita dalla Squadra mobile nel luglio del 2013 e statuisce che il Clan Fasciani è un’associazione a delinquere di stampo mafioso riconoscendo la mafia a Roma per la prima volta nella storia criminale della città. Dopo che in primo grado era stata riconosciuta l’associazione di stampo mafioso, la Corte d’Appello di Roma ha negato l’applicazione dell’art. 416-bis c.p.; ​ La sentenza di primo grado ha riconosciuto la sussistenza in Ostia di un’associazione di stampo mafioso, ritenendo provato che gli imputati agirono in accordo tra loro per la commissione di un numero potenzialmente indeterminato di reati, relativi a plurimi settori, compreso quello dell’accaparramento delle attività economiche. La prima sentenza di appello ha, invece, escluso il carattere mafioso del sodalizio in ​ ragione dell’assenza di prova della pervasività sia dell’associazione criminosa che del suo potere coercitivo e del conseguente stato di assoggettamento e condizione di omertà. ​ Tale decisione, oggetto di ricorso per cassazione tanto degli imputati che del P.G. presso la Corte di appello di Roma, è stata annullata, in accoglimento del ricorso della parte pubblica, con rinvio dalla Sesta sezione di questa Corte sul rilievo del disconoscimento del carattere mafioso dell’associazione, avendo essa violato la norma incriminatrice di cui all’art. 416-bis c.p. ed essendo la motivazione risultata contraddittoria, quando non manifestamente illogica, rispetto alle acquisizioni probatorie date per conseguite dallo stesso giudice del merito. ​ Le difese di tutti gli imputati per i quali è stata affermata la responsabilità in ordine al delitto di cui all’art. 416-bis c.p. hanno avanzato motivi, tanto sotto il profilo della violazione di legge che del vizio di motivazione, in ordine alla ritenuta riconducibilità del clan Fasciani ad un sodalizio di stampo mafioso. Risulta, pertanto, opportuno soffermarsi, seppur brevemente, sui connotati tipici che caratterizzano tale fattispecie, al fine di verificare se il giudice del merito ne abbia fatto corretta applicazione, attraverso una congrua motivazione. ​

L’art. 416 bis c.p. – la fattispecie associativa ​  La Suprema Corte si sofferma inizialmente sui principi di diritto enunciati in tema di associazione mafiosa, di cui il giudice del merito ha fatto corretta applicazione mediante una ricognizione di tutti gli elementi fattuali, la cui combinazione logico-giuridica dà conto della sussistenza dei caratteri tipici della fattispecie incriminatrice. Visto che le difese di tutti gli imputati per i quali è stata affermata la responsabilità in ordine al delitto di cui all’art. 416-bis c.p. hanno avanzato motivi, tanto sotto il profilo della violazione di legge che del vizio di motivazione, in ordine alla ritenuta riconducibilità del clan Fasciani ad un sodalizio di stampo mafioso, si sofferma seppur brevemente, sui connotati tipici che caratterizzano tale fattispecie, al fine di verificare se il giudice del merito ne abbia fatto corretta applicazione, attraverso una congrua motivazione. ​ E’ noto che la fattispecie associativa delineata dall’art. 416-bis c.p., è stata introdotta nel “sistema” dei reati associativi dalla legge Rognoni-La Torre del 1982, per colmare quello che appariva essere un deficit di criminalizzazione di realtà associative più “complesse” delle ordinarie associazioni criminali, in quanto “storicamente” dedite alla “sopraffazione” di un determinato territorio per il conseguimento di obiettivi di potere e di utilità economica. ​ Tuttavia, con riferimento alle finalità perseguite gli elementi tipizzanti le varie compagini criminali sono fra loro eterogenei, in quanto gli scopi perseguiti dalle associazioni di stampo mafioso possono essere i più vari. Essi, infatti, spaziano dalla tradizionale realizzazione di un programma criminale, tipica di tutte le associazioni per delinquere, allo svolgimento di attività in se lecite, come l’acquisizione, in modo diretto o indiretto, della gestione o comunque del controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici; alla realizzazione di profitti o vantaggi ingiusti; all’impedimento o all’ostacolo del libero esercizio del diritto di voto o per procurare voti a sè o ad altri in occasione di consultazioni elettorali. ​ Un “mosaico” dunque, di finalità, tanto ampio che mal si concilia con l’individuazione di un elemento specializzante che possa definire il concetto di “tipo mafioso”. ​

L’art. 416 bis comma III associazione mafiosa ​  Come è ben noto il terzo comma dell’articolo 416 bis definisce l’associazione mafiosa ” L’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri, ovvero l fine di impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali”. Il nucleo della fattispecie incriminatrice si colloca dunque nell’art. 416-bis comma 3 del codice penale laddove il legislatore definisce il metodo e la finalità dell’associazione mafiosa che si qualifica solo se c’è uno specifico “metodo” che l’alimenta delineando in tal modo un reato associativo non soltanto strutturalmente peculiare, ma, soprattutto, una gamma applicativa assai estesa, perché destinato a reprimere qualsiasi manifestazione associativa che presenti quelle caratteristiche di metodo e fini. La Corte, innanzitutto, analizza la natura e gli elementi costitutivi del reato di associazione di ​tipo mafioso. A prescindere dalle varie finalità che un sodalizio di questo tipo può perseguire, finalità peraltro tutte contemplate dal legislatore e da sempre considerate alternative dalla giurisprudenza, è invece il metodo utilizzato che qualifica l’associazione mafiosa in quanto tale. In altri termini, sembra di poter rilevare come il delitto di associazione di tipo mafioso stia subendo un’opera di trasformazione, dal modello arcaico delle mafie tradizionali, dedite sostanzialmente alla violenza in un ambiente originariamente di tipo rurale, ad un modello molto diverso, di carattere imprenditoriale, nell’ambito del quale è evidente la svalutazione degli stessi concetti di intimidazione, assoggettamento ed omertà, che devono infatti sussistere ma solo in potenza perché evidentemente, come dimostrerebbe proprio il processo di Mafia Capitale, ormai le organizzazioni criminali sono soprattutto dedite all’attività di corruzione dei pubblici poteri. ​

Art. 416 bis comma III e il metodo mafioso ​  La Corte precisa che le associazioni che non hanno una connotazione criminale qualificata sotto il profilo “storico”, dovranno essere analizzate nel loro concreto atteggiarsi, in quanto per esse “non basta la parola” mafia, camorra, ndrangheta ma occorrerà porre particolare attenzione alle peculiarità di ciascuna specifica realtà delinquenziale, in quanto la norma mette in luce un problema di “assimilazione” normativa alle mafie “storiche” che rende necessaria un’attività interpretativa particolarmente attenta a porre in risalto “simmetrie” fenomeniche tra realtà fattuali, sociali ed umane diverse fra loro. ​ Il fulcro del processo d'”identificazione” non potrà, dunque, fare riferimento che sul paradigma del metodo: è di tipo mafioso – puntualizza, infatti, l’art. 416-bis c.p. – l’associazione i cui partecipanti “si avvalgono della forza d’intimidazione del vincolo associativo e dell’assoggettamento e di omertà che ne deriva”. ​ L’esistenza di un “metodo” che produce determinati effetti, costituisce, dunque, ordinario oggetto di prova, non diversamente dall’esistenza del sodalizio e delle finalità che, attraverso quel metodo lo stesso persegue. Il metodo mafioso, così come descritto dall’art. 416-bis c.p., comma 3 colloca la fattispecie all’interno di una classe di reati associativi che, parte della dottrina, definisce “a struttura mista”, in contrapposizione a quelli “puri”, il cui modello sarebbe rappresentato dalla “generica” associazione per delinquere di cui all’art. 416 c.p.. La differenza consisterebbe proprio in quell’elemento “aggiuntivo” rappresentato dal metodo, ma con effetti strutturali di significativa evidenza. La circostanza, infatti, che l’associazione mafiosa è composta da soggetti che “si avvalgono della forza d’intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva”, parrebbe denotare – come l’uso dell’indicativo presente evoca – che la fattispecie incriminatrice richieda per la sua integrazione un dato di “effettività”: nel senso che quel sodalizio si sia manifestato in forme tali da aver offerto la dimostrazione di “possedere in concreto” quella forza di intimidazione e di essersene poi avvalso. ​ Il metodo mafioso, in questa prospettiva, assumerebbe connotazioni di pregnanza “oggettiva”, tali da qualificare non soltanto il “modo d’essere” dell’associazione (l’affectio societatis si radicherebbe attorno ad un programma non circoscritto ai fini ma coinvolgente anche il metodo), ma anche il suo “modo di esprimersi” in un determinato contesto storico e ambientale. La forza di intimidazione, il vincolo di assoggettamento ed omertà rappresentano, dunque, secondo questa impostazione, strumento ed effetto tipizzanti, in quanto concretamente utilizzati attraverso un “metodo” che, per esser tale, richiede una perdurante efficacia, anche, per così dire “di esibizione”, pur se priva di connotati eclatanti. ​ “Assoggettamento” ed “omertà” rappresentano, dunque, gli “eventi” che devono scaturire dall’intimidazione: “fatti”, quindi, che devono formare oggetto di prova, e che chiaramente fuoriescono da qualsiasi ambigua lettura di tipo sociologico o culturale. ​​

Il metodo mafioso e il principio di legalità in materia penale ​  La Suprema Corte pone la questione di quale sia la portata da annettere al “metodo mafioso”, dal momento che l’estrema varietà degli approcci definitori scaturiti tanto da parte della dottrina che della giurisprudenza possa comportare il rischio nel definire in chiave giuridica nozioni, categorie e fenomeni che presentano connotazioni storico sociologiche, anch’esse non poco variegate. C’è infatti chi sostiene che la formulazione del reato di cui all’art. 416-bis c.p., in quanto descritto attraverso enunciati normativi asseritamente non del tutto satisfattivi dei principi di determinatezza e precisione delle fattispecie incriminatrici, possa in qualche modo essere in contrasto con il principio di legalità in materia penale. E’ anche ben noto che sotto il profilo dell’aderenza al principio di legalità penale, ci si interroga in che direzione ormai vada il diritto penale che secondo alcuni studiosi è destinato a mutare il proprio volto. ​ Una volta individuate le complesse ragioni dell’attuale crisi della divisione dei poteri dello Stato, si può comprendere come la proliferazione della giurisprudenza giuscreativa sia anche frutto di una maggiore erosione dell’attività parlamentare. ​ E’ noto, a questo riguardo, come il principio della riserva di legge, che la dottrina qualifica come “tendenzialmente assoluta”, sia consuetamente declinato secondo tre distinte, ma complementari, direttrici ovvero la precisione, la determinatezza e la tassatività della fattispecie penale. Anzitutto il principio di precisione, in virtù del quale le norme penali devono assumere la veste formale più chiara possibile, al fine di evitare interpretazioni creative e consentire a chiunque di prevedere le conseguenze delle proprie condotte (evidenti i riverberi sul versante della colpevolezza). La giurisprudenza costituzionale, come è noto, ha al riguardo costantemente ritenuto che l’esigenza di precisione nella descrizione della fattispecie, che scaturisce dall’art. 25 Cost., comma 2, non coincide necessariamente con il carattere più o meno descrittivo della stessa, ben potendo la norma incriminatrice fare uso di una tecnica esemplificativa oppure riferirsi a concetti extra-giuridici diffusi ovvero ancora a dati di esperienza comune o tecnica. Il principio di determinatezza non esclude, infatti, l’ammissibilità di formule elastiche, alle quali non infrequentemente il legislatore deve ricorrere stante la “impossibilità pratica di elencare analiticamente tutte le situazioni astrattamente idonee a “giustificare” l’inosservanza del precetto e la cui valenza riceve adeguata luce dalla finalità dell’incriminazione e dal quadro normativo su cui essa si innesta. Il problema è quello di stabilire, in concreto, quale sia la portata da annettere al “metodo mafioso”, dal momento che l’estrema varietà degli approcci definitori scaturiti tanto da parte della dottrina che della giurisprudenza mette a fuoco il rischio che si corre nel definire in chiave giuridica nozioni, categorie e fenomeni che presentano connotazioni storico sociologiche, anch’esse non poco variegate. Il che, ovviamente, ha lasciato spazio a quelle voci che hanno stigmatizzato la formulazione del reato di cui all’art. 416-bis c.p., in quanto descritto attraverso enunciati normativi asseritamente non del tutto satisfattivi dei principi di determinatezza e precisione delle fattispecie incriminatrici. Nella sentenza della Suprema Corte nel caso Fasciani, assistiamo ad un’evidente svalutazione dei requisiti di fattispecie dell’art. 416-bis c.p., ad esempio quando si afferma che l’associazione per delinquere di stampo mafioso può essere costituita anche soltanto da tre persone, il numero esiguo delle quali rende francamente problematica la realizzazione delle condotte indicate nel terzo comma dell’art. 416-bis c.p., il che costituisce un sintomo di quello che si osservava in precedenza, cioè a dire che per quest’ultimo orientamento della giurisprudenza la norma di legge è un punto di partenza e non di arrivo e soprattutto che compito del giudice penale non è quello classico ed esclusivo di sussumere la fattispecie concreta nella fattispecie astratta , ma, al contrario, quello di far aderire possibilmente la fattispecie astratta, estendendola oltre misura, al fatto in concreto verificatosi. Dunque, i profili definitori offerti a proposito del “metodo mafioso” vanno “estrapolati” sulla base del contesto normativo in cui gli stessi sono collocati, senza dover necessariamente attingere ai dati della “storia” e delle “esperienze” maturate alla luce delle manifestazioni offerte dalle mafie, per così dire, tradizionali. Accanto a ciò, viene però talvolta anche evocato il principio di determinatezza, dal momento che, richiamandosi “atteggiamenti” genericamente riconducibili ad una platea indifferenziata di soggetti, il ​ cui tratto comune sarebbe rappresentato da un mero connotato “soggettivo interiore” (stato di intimidazione, di assoggettamento e di omertà), sfuggirebbe alla possibilità di qualsiasi elemento empirico di “registrazione” e di prova. Dunque, in contrasto con il principio di determinatezza della fattispecie penale. Sul punto, infatti, la Corte costituzionale ha puntualizzato che la valutazione del testo normativo “è da condurre con un metodo di interpretazione integrato e sistemico e dovrà essere volta ad accertare, da una parte, la intelligibilità del precetto in base alla sua formulazione linguistica e, dall’altra, la verificabilità del fatto, descritto dalla norma incriminatrice, nella realtà dei comportamenti sociali. Infatti, come già precisato, a partire dalla sentenza Corte Cost., n. 96 del 1981, “nella dizione dell’art. 25 Cost., che impone espressamente al legislatore di formulare norme concettualmente precise sotto il profilo semantico della chiarezza e dell’intelligibilità dei termini impiegati, deve logicamente ritenersi anche implicito l’onere di formulare ipotesi che esprimano fattispecie corrispondenti alla realtà”. Infine per ciò che riguarda l’ultimo corollario che solitamente si desume dal principio di legalità, vale a dire, quello di tassatività della fattispecie, il cui fine, come è noto, è quello di precludere applicazioni analogiche della norma incriminatrice ai sensi dell’art. 14 preleggi, nonché degli artt. 1 e 199 c.p. e art. 25 Cost.. Sotto questo versante, si è osservato, sarebbero proprio i riferimenti di carattere sociologico, storico e culturale a permettere indebite “estensioni” alla fattispecie, in particolare sul versante delle associazioni non “tradizionali”, dal momento che per queste ultime non potrebbe farsi appello proprio a quei dati di comune esperienza che possono trarsi dai metodi – di antica “sperimentazione” – praticati nei territori “occupati” da mafia, camorra o ‘ndrangheta. Ancora una volta, infatti, è proprio facendo leva sulla lettura “oggettivistica” del dato normativo che è possibile scongiurare un simile epilogo. E’ di tutta evidenza, infatti, che se per raggiungere gli obiettivi descritti dall’art. 416-bis c.p., un’associazione “priva di storia” determina, in un certo alveo sociale e ambientale, un clima diffuso di intimidazione che genera uno stato di assoggettamento (con correlativa limitazione della sfera di autodeterminazione) e di omertà (qualcosa di cui non si deve parlare), non viene affatto in discorso un’applicazione “analogica” della fattispecie, ma una normale applicazione del “fatto” tipizzato. D’altronde quella che gli Ermellini propongono è un’indagine a tutto campo sull’origine, sulla struttura e sull’evoluzione storica del sodalizio di volta in volta considerato (nel caso di specie, il Clan Fasciani di Ostia), indagine da demandare ovviamente all’organo giudicante. Al giudice, dunque, il compito di analizzare, attraverso il suo prudente e rigoroso apprezzamento, se dal compendio probatorio raccolto nel singolo processo emerga la “mafiosità” della consorteria. ​

Lo screening di mafiosità e gli indici sintomatici  La Corte propone dunque un’indagine attenta sulla struttura del sodalizio criminale di volta in volta considerato. Al giudice penale spetta il compito di analizzare se dal compendio probatorio emerga la mafiosità. Sono dunque di particolare importanza i cd. indici di mafiosità come (l’intensità del vincolo di assoggettamento, la natura e le forme degli strumenti intimidatori, la caratura criminale dei soggetti coinvolti, la manifestazione esterna del potere decisionale, la sudditanza di professionisti e soprattutto la mancanza di denunce che rafforzano il clima di omertà). Ulteriore ed adeguato riscontro circa l’esistenza della pervasività si coglie nel riferimento alla c.d. “zona grigia”, ossia all’accertata succube sudditanza verso gli interessi del clan proveniente da professionisti di varia estrazione (dal direttore di banca ai custodi giudiziari ai funzionari pubblici, commercialisti), sempre pronti ad aderire o addirittura a prevenire con estremo zelo le richieste in ordine ai bisogni o alle aspettative più svariate, anche quando non compatibili con norme di legge o doveri deontologici, per il “rispetto” portato verso il capo della consorteria ed il desiderio di evitare qualsiasi genere di insoddisfazione dei temibili interlocutori. L’analisi della struttura associativa e dell’evoluzione criminale che ha caratterizzato il sodalizio di Ostia negli ultimi anni ha permesso, infatti, di evincere che quella che in origine appariva come una semplice associazione per delinquere si è lentamente mafiosizzata consentendo il passaggio dalla semplice associazione per delinquere al raggiungimento di quel “quid pluris” che ne ha permesso l’inquadramento in quella di tipo mafioso. Sulla base del compendio probatorio sopra delineato, la Corte conclude affermando che «anche la città di Roma ha conosciuto l’esistenza di una presenza “mafiosa”, sebbene in modo diverso da altre città del Sud, ma non per questo meno pericolosa o inquinante il tessuto economico-sociale di riferimento. Nell’attesa che le Sezioni Unite Penali intervengano nella loro funzione di nomofilachia, resta questo prezioso contributo delle singole Sezioni.
Fonte: Il delitto di associazione per delinquere di tipo mafioso ex art. 416 bis c.p. https://www.studiocataldi.it/articoli/38167-il-delitto-di-associazione-per-delinquere-di-tipo-mafioso-ex-art-416-bis-cp.asp#ixzz7G9cPYuDA  (www.Studio Cataldi.it)


IL RAPPORTO EUROPOL

Tratto dal Rapporto

KEY JUDGEMENTS

Mafia-type Italian organised crime is a clear and present threat to the European Union (EU). The basis of the power of the Italian Mafias resides in their control and exploitation of the territory and of the community. The contextualised concepts of family, power, respect and territory are fundamental to understanding the dynamics of the Mafias. The Mafias are capable of manipulating elections and installing their men in administrative positions even far away from the territories they control. From that perspective, the threat they pose is unparalleled by any other European Organised Crime Group (OCG). Exploiting legislative loopholes and using the services of corrupt administrators and professionals, they launder money and manage it through front companies and straw men. The four Italian Mafia-type organisations – Sicilian Mafia, Calabrian ‘Ndrangheta, Neapolitan Camorra and Apulian Organised Crime – present common traits but also specific individual characteristics that need to be appreciated. When operating outside their territory of origin, the Mafias modify their behaviours and modi operandi. Cosa Nostra is the oldest, most traditional and widespread manifestation of the Sicilian Mafia. Its international expansion has mainly been directed towards North America. In the EU its emissaries facilitate criminal operations and money laundering. Cosa Nostra’s present strategy of keeping a low-profile is valid both within the territories it controls and outside them. Cosa Nostra is increasing its involvement in cocaine trafficking, often cooperating with other Mafias. Extremely skilled Cosa Nostra money launderers manage legitimate business structures and have infiltrated the economy of some target countries, including South Africa, Canada, USA, Venezuela and Spain. Other Sicilian Mafia groups not affiliated to Cosa Nostra include the Stidda and the Cursoti and Laudani clans. They also present a threat at an EU level because of their involvement in violent crime, including hit-and-run armed robberies. The ‘Ndrangheta is among the richest and most powerful organised crime groups at a global level. It has a dominant position on the European cocaine market due to excellent relations with the producers. The ‘Ndrangheta is trying to colonise new territories and attempts to exert its influence over Calabrese migrant communities. It reproduces abroad perfect copies of its operational structures, the ‘Ndrine (or Clans) and the Locali, which still fall under the supreme authority of the Calabrian Crimine. The ‘Ndrangheta has a hierarchical structure and has repeatedly proven its skill in infiltrating political and economic environments and its remarkable capacity for corruption. Through the shrewd use of its immense liquidity (of criminal origin) in legitimate business structures it has been able to achieve a position of quasi-monopoly in selected sectors, such as construction, real estate and transport. The ‘Ndrangheta is mainly present in Spain, France, Belgium, the Netherlands, Germany, Switzerland, Canada, the USA, Colombia and Australia.  The Camorra is for the most part a horizontal cluster of Clans and Families engaged in constant internal strife. Their presence on the territory has a very high impact. Unlike their Sicilian and Calabrian counterparts, Camorra bosses tend to have a very high profile, with a flashy lifestyle and extravagant expenses. Outside its territory the Camorra is mainly involved in drug trafficking, cigarette smuggling, illicit waste dumping and particularly in the sale of counterfeit products, either procured via Chinese OCGs or directly manufactured by the Clans. It is also among the principal producers of counterfeit Euros, then sold to and placed on the market by other OCGs. The Camorra is present in Spain, France, the Netherlands, Germany, Switzerland, Eastern Europe, the USA and Latin America.  Apulian Organised Crime is frequently and wrongly identified with the Sacra Corona Unita (SCU), which is one of its components but by no means the only one. The Società Foggiana, the Camorra Barese and the Gargano’s Mafia are other criminal clusters belonging to Apulian Organised Crime. Traditionally engaged in smuggling, Apulian organised criminals evolved from trafficking cigarettes to human beings, drugs, weapons and illegal waste disposal. Outside of Italy, Apulian Organised Crime is present mainly in the Netherlands, Germany, Switzerland and Albania.

SENTENZE CHIAVE

La criminalità organizzata italiana di tipo mafioso è una minaccia chiara e attuale per l’Unione europea (UE). La base del potere delle mafie italiane risiede nel loro controllo e sfruttamento del territorio e della comunità. I concetti contestualizzati di famiglia, potere, rispetto e territorio sono fondamentali per comprendere le dinamiche delle mafie. Le mafie sono in grado di manipolare le elezioni e insediare i loro uomini in posizioni amministrative anche lontane dai territori che controllano. Da questo punto di vista, la minaccia che rappresentano non ha eguali in nessun altro gruppo europeo per la criminalità organizzata (OCG). Sfruttando scappatoie legislative e avvalendosi dei servizi di amministratori e professionisti corrotti, riciclano denaro e lo gestiscono attraverso società di facciata e uomini di paglia. Le quattro organizzazioni di stampo mafioso italiane – Mafia Siciliana, ‘Ndrangheta Calabrese, Camorra Napoletana e Criminalità Organizzata Pugliese – presentano tratti comuni ma anche specificità individuali che devono essere apprezzate. Quando operano al di fuori del loro territorio di origine, le mafie modificano i propri comportamenti e modi operandi.

Cosa Nostra è la più antica, tradizionale e diffusa manifestazione della mafia siciliana. La sua espansione internazionale è stata principalmente diretta verso il Nord America. Nell’UE i suoi emissari facilitano le operazioni criminali e il riciclaggio di denaro. L’attuale strategia di Cosa Nostra di mantenere un profilo basso è valida sia all’interno dei territori che controlla che al di fuori di essi. Cosa Nostra sta aumentando il suo coinvolgimento nel traffico di cocaina, spesso collaborando con altre mafie. Riciclatori di Cosa Nostra estremamente abili gestiscono strutture commerciali legittime e si sono infiltrati nell’economia di alcuni paesi target, tra cui Sud Africa, Canada, Stati Uniti, Venezuela e Spagna

Altri gruppi mafiosi siciliani non affiliati a Cosa Nostra includono i clan Stidda e Cursoti e Laudani. Rappresentano inoltre una minaccia a livello dell’UE a causa del loro coinvolgimento in crimini violenti, comprese le rapine a mano armata.

La ‘Ndrangheta è tra i gruppi criminali organizzati più ricchi e potenti a livello mondiale. Ha una posizione dominante sul mercato europeo della cocaina grazie agli ottimi rapporti con i produttori. La ‘Ndrangheta sta cercando di colonizzare nuovi territori e tenta di esercitare la sua influenza sulle comunità migranti calabresi. Riproduce all’estero copie perfette delle sue strutture operative, le ‘Ndrine (o Clan) e i Locali, che tuttora ricadono sotto la suprema autorità del Crimine calabrese. La ‘Ndrangheta ha una struttura gerarchica e ha più volte dimostrato la sua abilità nell’infiltrarsi negli ambienti politici ed economici e la sua notevole capacità di corruzione. Attraverso l’uso oculato della sua immensa liquidità (di origine criminale) in strutture commerciali legittime è stata in grado di raggiungere una posizione di quasi monopolio in settori selezionati, come l’edilizia, l’immobiliare ei trasporti. La ‘Ndrangheta è presente principalmente in Spagna, Francia, Belgio, Paesi Bassi, Germania, Svizzera, Canada, USA, Colombia e Australia.

La Camorra è per la maggior parte un gruppo orizzontale di Clan e Famiglie impegnate in continue lotte interne. La loro presenza sul territorio ha un impatto molto elevato. A differenza dei loro omologhi siciliani e calabresi, i capi camorristi tendono ad avere un profilo molto alto, con uno stile di vita appariscente e spese stravaganti. Al di fuori del suo territorio la camorra è principalmente coinvolta nel traffico di droga, contrabbando di sigarette, scarico illecito di rifiuti e in particolare nella vendita di prodotti contraffatti, acquistati tramite gruppi criminali organizzati cinesi o fabbricati direttamente dai clan. È anche tra i principali produttori di euro contraffatti, poi venduti e immessi sul mercato da altri gruppi CO. La camorra è presente in Spagna, Francia, Paesi Bassi, Germania, Svizzera, Europa dell’Est, USA e America Latina.

La criminalità organizzata pugliese viene spesso ed erroneamente identificata con la Sacra Corona Unita (SCU), che è una delle sue componenti ma non l’unica. La Società Foggiana, la Camorra Barese e la Mafia del Gargano sono altri gruppi criminali appartenenti alla criminalità organizzata pugliese. Tradizionalmente dedita al contrabbando, la criminalità organizzata pugliese si è evoluta dal traffico di sigarette a esseri umani, droga, armi e smaltimento illegale dei rifiuti. Fuori dall’Italia, la criminalità organizzata pugliese è presente principalmente in Olanda, Germania, Svizzera e Albania


Ue:Parlamento;estendere reato associazione mafiosa in Europa Commissione ad hoc approva rapporto finale, misure comuni. 17 settembre, 

BRUXELLES – Estendere la fattispecie di ”associazione mafiosa” ed armonizzare la definizione di criminalità organizzata in tutti i 28 Stati membri della Ue. Lo ha chiesto la Commissione speciale sulla criminalità organizzata, la corruzione e il riciclaggio di denaro (Crim) del Parlamento Ue approvando, con 29 sì e 7 astensioni, la relazione finale firmata da Salvatore Iacolino di Grande Sud. Il testo verrà votato il prossimo 22 ottobre dalla plenaria di Strasburgo, ma non è vincolante. ”Disciplinare giuridicamente la fattispecie mafiosa è fondamentale – commenta Iacolino subito dopo il voto – se la mafia non è riconosciuta, i provvedimenti di contrasto e di confisca non sono applicabili. Da questo riconoscimento nasce nella Ue una nuova forte cooperazione giudiziaria”. La relazione chiede inoltre a governi e istituzioni Ue l’abolizione del segreto bancario e dei paradisi fiscali, li invita a contrastare il traffico di esseri umani, ad ampliare la nozione di ”voto di scambio” anche ad ”altri benefici” non in denaro e ad escludere da tutte le gare di appalto le imprese con sentenze in giudicato per mafia e criminalità organizzata.

Particolare attenzione anche al fenomeno del match fixing, con la richiesta di approvare in tutta la Ue ”il reato di manipolazione sportiva” con conseguenze penali per chi vende le partite.

”Un voto importante – il commento di Paolo Tavarelli, Presidente di Federbet, Federazione che tutela gli operatori e consumatori del settore del gioco – è essenziale l’invito a incorporare il reato di manipolazione ed il riferimento alla prevenzione, intesa come controllo dei flussi anomali di scommesse”. Previsto anche lo stanziamento di 2 milioni per un progetto pilota di contrasto delle partite truccate.

“Questo non è un testo che resterà nel cassetto – ha sottolineato l’europarlamentare Sonia Alfano, presidente della commissione Crim – chi sarà eletto nella prossima legislatura avrà il compito di portare avanti la nostra battaglia”.

“Durante questi lunghi mesi di lavoro abbiamo acceso i riflettori sulla dimensione internazionale della mafia e della corruzione per trovare gli strumenti per contrastare questi fenomeni. Ora spetta alla Commissione Ue assicurare che le misure che abbiamo raccomandato vengano messe in pratica. Il Parlamento europeo continuerà a fare pressione per questo”.  ANSA


La legge antimafia italiana ha fatto scuola in tutta Europa.

Lo afferma il procuratore di Firenze Marcello Viola ma un sistema processuale connotato da lentezze e scarsa efficienza rischia di favorire le mafie e aprire le porte al ricorso, soprattutto in alcune aree del Paese, ad inaccettabili forme di giustizia alternativa da parte della criminalità organizzata.

Firenze – Nella seconda parte dell’intervista il magistrato siciliano analizza la normativa antimafia a livello europeo. Il modello italiano è considerato efficiente e di prim’ordine. Peccato che il sistema giudiziario del Bel Paese, cosi com’è, penalizzi molto le azioni di contrasto alla criminalità organizzata e numerose di queste norme andrebbero non solo snellite ma rivedute e corrette nella loro interezza.

– La legge antimafia italiana rappresenta un modello da imitare in tutta Europa ma oggi si rischia una sorta di indebolimento di quella struttura legislativa considerata efficiente, che ne pensa?

“…La legislazione dell’Italia in materia antimafia può dirsi abbia fatto veramente scuola e sia anzi tuttora fonte di studio e ispirazione per quella europea sul fronte dell’azione di contrasto alle organizzazioni mafiose e ciò ancor di più sul piano dell’adozione di norme finalizzate al contrasto alla accumulazione di patrimoni mafiosi. Per esempio, quest’anno è entrato in vigore il regolamento UE sul riconoscimento reciproco dei provvedimenti di congelamento e confisca, fondati sulla pericolosità sociale dei soggetti destinatari, che si inserisce nella scia della legislazione italiana, e segnatamente della Legge Rognoni-La Torre del 1982

…E si pensi che è stato un percorso lungo e tormentato quello che ha condotto lentamente il Parlamento europeo verso l’idea di un’unica legislazione antimafia, anche in tema di confisca dei beni in tutta Europa e di riconoscimento del concetto di reato di associazione mafiosa, quale attestazione del carattere globale assunto dalle organizzazioni mafiose, divenute ormai delle vere e proprie multinazionali del crimine

…In realtà, non mi sembra di vedere interventi da parte del legislatore che possano costituire fonte di incombente allarme nel senso di un arretramento della lotta alle mafie. Mi preoccupa di più, semmai, il diffondersi di un atteggiamento di complessiva sottovalutazione della questione, soprattutto nel presente momento di generale e grave crisi economica, in cui sembra sempre di più prevalere l’idea di considerare la legalità un inutile intralcio alle (peraltro legittime) esigenze di ripresa del Paese. Una sorta di fastidioso ostacolo rispetto a prevalenti fini di profitto, ancorché del tutto leciti; e insieme la mancanza di uno sforzo costante e concreto per opporsi definitivamente a ogni forma di corruzione e malaffare

…In definitiva, sono preoccupato per gli scarsi risultati fin qui ottenuti in termini di formazione di una coscienza sociale e politica che sappia farsi scudo rispetto alla penetrazione all’interno del sistema economico e finanziario del Paese di soggetti legati alla criminalità organizzata, con l’immissione di capitali illeciti e con il corrispondente inquinamento mafioso dell’economia pubblica e privata. È vero, inoltre, che un sistema processuale connotato da lentezza e scarsa efficienza, qual è il nostro, rischia di favorire la criminalità organizzata e aprire le porte al ricorso, soprattutto in alcune aree del Paese, ad inaccettabili forme di “giustizia alternativa” da parte della mafia…”.

– Lei ha iniziato a fare il magistrato in Sicilia negli anni 80 ed ha conosciuto Caponnetto. Che ricordo conserva di quel periodo?

“…Ho iniziato il mio servizio a Palermo all’inizio del 1981 e ho trascorso alcuni mesi, per il prescritto tirocinio (allora si chiamava uditorato), presso l’Ufficio Istruzione del Tribunale, all’epoca diretto dal Consigliere Istruttore Rocco Chinnici. Venni affidato allo stesso Consigliere, che ebbe per primo l’intuizione della necessità di realizzare una struttura di lavoro e di collaborazione fra i giudici dell’Ufficio in materia di indagini antimafia, al fine di contenere il profilo di esposizione di ciascuno degli stessi e il connesso rischio di isolamento. L’idea del Consigliere Chinnici fu poi concretamente ripresa e attuata dal suo successore, il Consigliere Antonino Caponnetto, grazie al cui apporto nacque quello che è a tutti noto come il pool antimafia dell’Ufficio Istruzione di Palermo, di cui fecero parte, tra gli altri, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino…”.

…Ebbi modo di incontrare in quegli anni il Consigliere Caponnetto e di lui mi colpirono, insieme, la sua semplicità e la sua innata autorevolezza, il suo spirito di sacrificio e la sua carica morale, oltre alla sua grande capacità di saper tutelare i giudici dell’Ufficio Istruzione. Anche dopo la sua partenza da Palermo e il successivo pensionamento, egli fu vero testimone di etica, giustizia e legalità, soprattutto verso i giovani…

…E mi piace ricordarlo usando le stesse parole che egli a sua volta pronunciò per ricordare Paolo Borsellino, cui era legato da un sentimento che andava oltre il mero rapporto di colleganza e del quale sottolineò la sua semplicità, perché sapeva essere uomo tra gli uomini, la sua profonda umiltà e immensa umanità e la carica d’amore che sapeva spargere intorno a sé, e l’aver messo insieme queste virtù così rare a incontrarsi: la semplicità, l’umanità, l’amore, il senso religioso del lavoro, tutte doti che oggi, purtroppo, si stanno sfrangiando e disperdendo…”.

– Una domanda del tutto personale: che rapporto ha con la paura? C’é stata qualche volta che ha avuto la meglio nei suoi anni da procuratore?

“…Le rispondo con le parole di Giovanni Falcone: «l’importante non è stabilire se uno ha paura o meno, è saper convivere con la propria paura e non farsi condizionare dalla stessa»; e con quelle di Paolo Borsellino, secondo cui «è normale che esista la paura, in ogni uomo, l’importante è che sia accompagnata dal coraggio. Non bisogna lasciarsi sopraffare dalla paura, altrimenti diventa un ostacolo che impedisce di andare avanti»…

…La paura è un sentimento umano, che non può non affiorare davanti a certe situazioni di pericolo, sovente connesse al serio svolgimento delle proprie funzioni professionali, che ti mettono di fronte alla scelta tra ciò che è giusto e ciò che è facile. Sarebbe stupido affermare il contrario, occorre saper gestire la paura come ogni altro sentimento. E mi piace a citare un noto scrittore, per il quale il coraggio senza prudenza è incoscienza, ma la prudenza senza coraggio è viltà…”.  IL GIORNALE POPOLARE 7.10.2021


«BENI CONFISCATI ALLA MAFIA, C’È CHI TENTA DI SMANTELLARE LA LEGGE: UN SEGNALE PREOCCUPANTE» di Daniela Mainenti
L’introduzione nel nostro ordinamento delle misure di prevenzione patrimoniali si deve, come sappiamo, alla legge Rognoni-La Torre del 1982 e alla misura della confisca, la cui peculiare caratteristica risiede nell’essere una misura sul patrimonio del tutto svincolata dalla condanna penale e dal processo penale. Si tratta cioè di una misura basata su requisiti, tra i quali non figura l’accertamento di un reato, che viene disposta in virtù di un procedimento autonomo e indipendente da quello penale.
Per quanto innovativa si sia dimostrata l’introduzione della confisca “di prevenzione” nel 1982, ben più risalenti nel tempo appaiono le sue origini, nonostante taluni sostengano erroneamente la sua incompatibilità con la nostra attuale civiltà giuridica. Ciò consentirebbe di parlarne sin già al diritto romano, con impressionanti analogie con la vigente confisca antimafia, nella figura dell’ademptio bonorum, il cui utilizzo già in epoca romana consentirebbe di constatare quanto antico sia (praticamente da sempre) l’interesse degli ordinamenti giuridici verso le misure patrimoniali: allora “strumento di purificazione della comunità”, oggi arma per il contrasto della criminalità economica, anche, di tipo organizzato.
I detrattori odierni, tra accademici e giuristi in corte, fanno perfino riferimento all’uso politico che ne fece il fascismo sottolineando la distanza della confisca dalle garanzie proprie di uno Stato di diritto. Solo all’inizio degli anni 80 sorse l’esigenza di apprestare nuovi e più efficienti strumenti di contrasto economico della criminalità organizzata che, proprio in quegli anni, stava destando un crescente allarme sociale e, contemporaneamente, il comprensibile timore che la legge potesse costituire un esempio di legislazione simbolica, volta a rassicurare i cittadini sulla volontà dello Stato di combattere la criminalità mafiosa.
Certo, non si può negare che tali eventi avessero influito sull’intervento del legislatore, ma anche che, col tempo, la legge Rognoni-La Torre abbia dimostrato di non essere un tipico prodotto della legislazione d’emergenza, bensì di rappresentare, al contrario, una radicale svolta nell’impegno dello Stato nella lotta contro tale forma di criminalità, rappresentando una scelta destinata a realizzare una svolta decisiva nella storia giudiziaria di Palermo e dell’Italia. Vista con la dovuta lucidità essa è stata un punto di partenza per l’apertura di un nuovo orizzonte internazionale dell’attività giudiziaria tale da cambiare per sempre il volto delle indagini di mafia.
Lo stretto collegamento, infatti, tra l’impulso dato da Giovanni Falcone alle indagini sulla dimensione economica della criminalità organizzata transnazionale, mediante la valorizzazione degli strumenti della cooperazione giudiziaria internazionale, e la decisione di ucciderlo, attuata mediante la strage di Capaci del 23 maggio 1992, è stato sottolineato dalle pronunce giurisdizionali emesse negli ultimi anni.
L’introduzione nel nostro ordinamento delle misure di prevenzione patrimoniali si deve, come sappiamo, alla legge Rognoni-La Torre del 1982 e alla misura della confisca, la cui peculiare caratteristica risiede nell’essere una misura sul patrimonio del tutto svincolata dalla condanna penale e dal processo penale. Si tratta cioè di una misura basata su requisiti, tra i quali non figura l’accertamento di un reato, che viene disposta in virtù di un procedimento autonomo e indipendente da quello penale.
Per quanto innovativa si sia dimostrata l’introduzione della confisca “di prevenzione” nel 1982, ben più risalenti nel tempo appaiono le sue origini, nonostante taluni sostengano erroneamente la sua incompatibilità con la nostra attuale civiltà giuridica. Ciò consentirebbe di parlarne sin già al diritto romano, con impressionanti analogie con la vigente confisca antimafia, nella figura dell’ademptio bonorum, il cui utilizzo già in epoca romana consentirebbe di constatare quanto antico sia (praticamente da sempre) l’interesse degli ordinamenti giuridici verso le misure patrimoniali: allora “strumento di purificazione della comunità”, oggi arma per il contrasto della criminalità economica, anche, di tipo organizzato.
I detrattori odierni, tra accademici e giuristi in corte, fanno perfino riferimento all’uso politico che ne fece il fascismo sottolineando la distanza della confisca dalle garanzie proprie di uno Stato di diritto. Solo all’inizio degli anni 80 sorse l’esigenza di apprestare nuovi e più efficienti strumenti di contrasto economico della criminalità organizzata che, proprio in quegli anni, stava destando un crescente allarme sociale e, contemporaneamente, il comprensibile timore che la legge potesse costituire un esempio di legislazione simbolica, volta a rassicurare i cittadini sulla volontà dello Stato di combattere la criminalità mafiosa.
Certo, non si può negare che tali eventi avessero influito sull’intervento del legislatore, ma anche che, col tempo, la legge Rognoni-La Torre abbia dimostrato di non essere un tipico prodotto della legislazione d’emergenza, bensì di rappresentare, al contrario, una radicale svolta nell’impegno dello Stato nella lotta contro tale forma di criminalità, rappresentando una scelta destinata a realizzare una svolta decisiva nella storia giudiziaria di Palermo e dell’Italia. Vista con la dovuta lucidità essa è stata un punto di partenza per l’apertura di un nuovo orizzonte internazionale dell’attività giudiziaria tale da cambiare per sempre il volto delle indagini di mafia.
Lo stretto collegamento, infatti, tra l’impulso dato da Giovanni Falcone alle indagini sulla dimensione economica della criminalità organizzata transnazionale, mediante la valorizzazione degli strumenti della cooperazione giudiziaria internazionale, e la decisione di ucciderlo, attuata mediante la strage di Capaci del 23 maggio 1992, è stato sottolineato dalle pronunce giurisdizionali emesse negli ultimi anni.
Al tempo stesso, però, proprio in quel processo di costruzione, ha preso avvio un metodo che è divenuto adesso il principale modello di riferimento su cui la comunità internazionale sta progettando il futuro del contrasto alla criminalità organizzata transnazionale. Da qui la reale funzione delle misure di prevenzione patrimoniale, ossia quella di “neutralizzazione dei vantaggi” prodotti dall’attività patrimoniale illecita e, in particolare, dall’impresa mafiosa o corruttiva, indipendentemente da qualsiasi giudizio in ordine alla pericolosità del titolare e alla idoneità a essere reimpiegati (in attività illecite o addirittura lecite) elementi la cui sussistenza è sostanzialmente accidentale.
In questa materia la Costituzione, la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (Cedu), la Corte di Strasburgo costituiscono i parametri di garanzia per il cittadino perché dalla loro giurisprudenza è emersa la piena legittimazione delle nostre misure di prevenzione quali strumenti necessari per il conseguimento di obiettivi pienamente compatibili con la Convenzione in virtù del fatto che la prevenzione è un compito essenziale dello Stato e agisce in una fase precedente alla repressione del crimine. Per questo bisogna riconsegnare alla Comunità degli italiani le ricchezze accumulate in maniera illegale, intaccando la criminalità nei propri interessi economici e nei conseguenti risvolti sociali e organizzativi.
E quindi, per quanto sopra esposto, non è dato comprendere quali siano le logiche dei promotori del disegno di legge a prima firma on. Giammanco, di Forza Italia, in direzione diametralmente opposta, volendo vincolare tali misure alla pena, se non, fuori da ogni lettura sociologica o politica, attraverso la stridente attualità delle parole con cui il giornalista e scrittore Giuseppe Fava, ucciso in un agguato mafioso a Catania nel 1984, rispondeva alle domande poste dal collega Enzo Biagi, durante l’ultima intervista documentata disponibile ad oggi: “I mafiosi stanno in ben altri luoghi e in ben altre assemblee, il problema della mafia è molto più tragico e più importante; è un problema di vertice nella gestione della nazione, ed è un problema che rischia di portare alla rovina e al decadimento culturale definitivo l’Italia…”.
(da “ilfattoquotidiano.it” https://bit.ly/3GrqOS3 – l’autrice è Professore Straordinario di Diritto Processuale Penale Comparato

 

 

LA CRIMINALITA’ ORGANIZZATA

 


A cura di Claudio Ramaccini – Direttore Centro Studi Sociali contro la mafia – PSF