24.6.2022 FIAMMETTA BORSELLINO: “Io accuso”
Fiammetta Borsellino: «Non partecipo agli anniversari di via D’Amelio. Mio padre fu lasciato solo e tradito» La figlia di Paolo Borsellino diserterà le cerimonie. E a L’Espresso dice la sua su magistrati, depistaggi e riforme. «Una parte si è appropriata della memoria, anche indebitamente, monopolizzandola. Quando ho denunciato la solitudine di mio padre e il tradimento da parte dei suoi colleghi ho sentito il gelo intorno a me»
Il trentennale della strage di via D’Amelio per Fiammetta Borsellino è cominciato così. Una mattina si è affacciata al balcone della sua abitazione, nel quartiere palermitano della Kalsa, lo stesso dove suo padre è nato e cresciuto. Sul muro di fronte, come una apparizione, ha visto un murales a colori che ritraeva il giudice Paolo Borsellino, in giacca e cravatta, con la mano sinistra in tasca e con la destra a reggere quella borsa che è stata sottratta il 19 luglio del 1992 dalla sua auto blindata ancora in fiamme, dopo l’esplosione dell’autobomba. È la stessa borsa dove c’era la famosa “agenda rossa”, nella quale il giudice annotava le cose più segrete. Quella borsa verrà poi restituita alla famiglia, ma priva dell’agenda, scomparsa per sempre nel gorgo dei misteri d’Italia. Quel murales, il giorno prima non c’era.
«Mi è venuto un colpo, nel vedermelo davanti all’improvviso», racconta Fiammetta. Cosa era accaduto? Per una coincidenza, oppure per uno strano incrocio del destino, il writer TvBoy lo aveva realizzato la notte precedente, ignorando di farlo proprio sotto la casa della figlia del giudice. Fiammetta si è poi messa sulle sue tracce e i due si sono infine conosciuti. Il murales è ben riuscito: Paolo Borsellino, con una espressione seria ma serena, sembra osservare tutto quello che è accaduto nei tre decenni successivi al suo sacrificio.
Le cerimonie legate al trentennale delle stragi siciliane sono in pieno svolgimento. «La verità? Provo un grande disagio. Penso che una parte si sia appropriata della memoria, anche indebitamente, monopolizzandola. Cinque anni fa avevo parlato per la prima volta pubblicamente, in occasione della diretta Rai sul venticinquennale. Avevamo deciso, con i miei fratelli Lucia e Manfredi, di riprenderci il diritto alla parola. Denunciai, sempre per la prima volta pubblicamente, la solitudine di mio padre, il tradimento da parte dei suoi colleghi magistrati. Avevo espresso un altro punto di vista. Ho sentito il gelo intorno a me. Nei giorni successivi mi si rispose che i familiari delle vittime sono privi di qualsiasi forma di prudenza verbale. Invece del dialogo, ci fu immediatamente una chiusura».
Da allora sei considerata «verbalmente imprudente»? «Ho deciso di andare avanti per la mia strada, altrimenti si rischia di farsene una malattia».
In questi anni ci siamo incontrati tante volte. Mi hai sempre detto che alla tv e alle interviste sui giornali preferisci parlare nelle scuole. «È l’unico posto dove mi trovo a mio agio a raccontare di papà. Solo il contatto con menti pure, disinteressate, senza secondi fini, mi dà serenità».
Quest’anno non parteciperai a nessuna cerimonia ufficiale? «Mi impegno ogni giorno dell’anno. Non mi sento obbligata dagli anniversari. L’enormità delle richieste di partecipazione… alla fine provo quasi un senso di violenza… È giusto che le cerimonie vengano fatte, ma è più giusto per gli altri. Per noi familiari non può essere che si prema un bottone e si facciano partire i ricordi. Molti non capiscono quanto per noi si tratti ancora di una cosa molto seria e dolorosa. Il bisogno che abbiamo è quello del raccoglimento, del silenzio, dell’evitare le apparizioni».
Tranne che nelle scuole. Quanti incontri hai fatto? «Fino a tre in una settimana. Lontana dai riflettori. Al massimo finisco nelle pagine Facebook dell’istituto o nei giornalini scolastici. Ci credi? Non mi sono mai rivista in uno schermo, quando sono apparsa in tv. Non mi sono mai riletta sui giornali quando ho rilasciato interviste».
A quante cerimonie ufficiali sei andata in questi trent’anni? «L’unica cerimonia ufficiale è stata quella promossa da Claudia Loi, la sorella di Emanuela, la prima agente della polizia italiana morta in servizio proprio in via D’Amelio, scortando mio padre. E un’altra volta sono andata a Marsala, dove mio padre è stato procuratore, quando hanno dedicato una piazza proprio a Emanuela».
Eppure si dice che cerimonie e anniversari servano a coltivare la memoria… «Ho deciso che è inutile andare allorquando ho avuto chiara certezza che personaggi di primo piano delle istituzioni non avevano fatto il loro dovere. La piena consapevolezza di questo l’ho avuta quando le prime sentenze hanno documentato l’esistenza del più grande depistaggio nella storia della Repubblica italiana oggi noto a tutti, quello relativo alle indagini sulla strage di via D’Amelio, per la quale era stato costruito un finto pentito ed erano stati condannati degli innocenti. Mio padre diceva sempre che molte cose non si possono provare, tuttavia se ne possono trarre conseguenze. All’indomani di via D’Amelio, mia madre aveva rifiutato i funerali di Stato. Allo stesso modo, noi figli abbiamo deciso di non partecipare mai più a cerimonie e celebrazioni di Stato finché non sarà chiarito, anche fuori dai processi penali, tutto quello che è accaduto. Per me fare memoria è avere risposte in termini di cose concrete, che ci avvicinino alla verità. Fare memoria non è dire vuote parole».
Insisti sempre sul tradimento nei confronti di tuo padre e di Giovanni Falcone… «Dopo trent’anni resta chiarissima la percezione della grande solitudine in cui sono stati lasciati. Una solitudine che è rimasta anche dopo le stragi, sempre da parte dei colleghi. Le inchieste che sono state svolte hanno rivelato quanto il lavoro investigativo sia stato mal condotto da magistrati e inquirenti. Il percorso verso la verità è stato precluso dai colleghi di mio padre e di Falcone. Hanno remato contro. Per questo parlo non solo di solitudine, ma anche di tradimento».
Nei vari processi avete insistito sul dossier mafia-appalti, su cui tuo padre e Falcone volevano lavorare e che invece è stato archiviato dopo la strage di Capaci e in coincidenza di quella di via D’Amelio. «Quel dossier avrà avuto molti limiti, ma oggi risulta che mio padre era ben intenzionato a lavorarci. E per quanti limiti potesse avere, se fosse finito nelle mani di mio padre, come lui avrebbe voluto e come gli è stato impedito, non ho dubbi che avrebbe dato risultati».
Attorno a quel dossier lo stesso Falcone, in due convegni pubblici e in un intervento relativo ai “paradisi fiscali”, aveva fatto riferimento alla “mafia che si è quotata in Borsa”. Il pm di Mani Pulite Antonio Di Pietro ha poi detto che Tangentopoli a Milano era partita perché Falcone e Borsellino gli avevano riferito quanto detto dal superpentito Tommaso Buscetta: i miliardi del traffico internazionale di droga dalla Sicilia erano stati riciclati e investiti al Nord. E aveva parlato a questo proposito della holding di Raul Gardini, l’imprenditore suicidatosi nel 1993… «La pista dei soldi. Non risulta che nei tre decenni successivi alle stragi qualcuno se ne sia mai occupato».
Chissà dove saranno finiti tutti quei narco-miliardi del traffico di droga… «Dalla mafia il tradimento te lo aspetti. Ma non te lo aspetti dalle istituzioni. Per noi figli di Borsellino questo è stato motivo di una grande rottura. Ci sono magistrati che stanno lavorando e che lo fanno bene, ma per vederlo si è dovuti arrivare al processo Borsellino quater, che doveva essere un punto di arrivo e non di partenza, come invece è stato, e dopo un iter tortuosissimo costato anni e anni. Se tocchi certi poteri, si arena tutto quanto. Neppure le procure più volenterose possono fare qualcosa, se poi anche i testimoni pensano solo a difendere il loro operato, ma non danno nessun contributo per farci comprendere cosa davvero non ha funzionato nel sistema».
All’indomani del venticinquennale delle stragi, tu hai formulato tredici domande per avere verità su via D’Amelio. Hai avuto risposte? «Nessuna».
Qualche istituzione dello Stato ha chiesto scusa alla famiglia Borsellino per il depistaggio? «No, solo io ho chiesto scusa agli innocenti condannati ingiustamente. Non sono mai stata avvicinata da nessun addetto ai lavori per un qualsivoglia chiarimento, neppure sul piano personale e umano. In questo c’è stata molta disumanità. Anche quando ho espresso la mia necessità di compiere un percorso di giustizia compensativa o riparativa, sono stata isolata».
Intendi quando hai deciso di incontrate in carcere i fratelli Graviano, condannati quali esecutori della strage di via D’Amelio? «Sì, l’avevo fatto sull’onda di una urgenza emotiva, che credo sia stata la stessa che mi aveva spinto a parlare per la prima volta».
Oggi c’è una riforma della giustizia all’ordine del giorno. «Non sono una tecnica, ma penso che quando si varano delle belle e nuove prescrizioni normative, poi resta sempre un altro modo in cui vengono date le risposte concrete. Io avevo deciso di intraprendere quel percorso che mi ha portato a incontrare in carcere i fratelli Graviano. Ma mi sono stati posti ostacoli non motivati di ogni tipo. Tutte le procure competenti avevano dato parere negativo. Nessun addetto ai lavori mi ha mai spiegato il perché».
Però, alla fine, sei riuscita a incontrarli. «Sì, ma dopo che l’allora procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho ha voluto incontrarmi riservatamente, per convincermi a rinunciare. L’ho ritenuta una intromissione nell’ambito di un percorso dentro il proprio dolore che non compete a quel tipo di istituzioni».
Che percorso avevi voluto intraprendere? «Ci si deve fare carico di qualcosa e poi gestirla anche con degli aiuti. Questo è previsto dalla giustizia compensativa. Ma dalle istituzioni ho avuto solo disprezzo. Così ho cercato aiuto da sola presso quelle persone che avevano fatto un analogo cammino, anche se in altri ambiti, come quello del terrorismo. Tra gli altri, la figlia di Aldo Moro».
Ma cosa ti ha spinto a incontrare i carnefici di tuo padre? «A volte l’opinione pubblica considera noi figli di Borsellino quelli forti, quasi dovessimo avere nelle cellule il coraggio di papà. Tante volte siamo noi a dover consolare gli altri. In realtà, la nostra vicenda è stata estremamente triste e circondata da una grande miseria umana. A un certo punto abbiamo reagito, spinti da una esigenza di verità. Personalmente ho avuto una urgenza emotiva di denunciare l’ingiustizia, altrimenti non avrei trovato la forza di raccontare la storia di mio padre. Senza questa spinta non avrei avuto neppure la percezione della verità e delle dinamiche per insabbiarla. E non mi sarei accorta che quelle dinamiche avevano dei volti e dei nomi. La mia sarebbe stata la generica denuncia di un depistaggio, e in quanto generica sarebbe stata meno efficace. Una parte di questo percorso ha comportato anche incontrare chi ci aveva fatto del male».
Cosa ti è rimasto di questa esperienza? «Il sistema carcerario è incapace di generare percorsi di cambiamento. Gli incontri tra detenuti e vittime, invece, possono innescare tentativi nuovi. Altrimenti il malessere collettivo nelle carceri diventa una bomba a orologeria, generando solo suicidi e recidività. Lo stesso carcere duro per i mafiosi non è più adeguato, se non favorisce percorsi di cambiamento, che non devono passare necessariamente per una collaborazione. È un’altra idea di giustizia, che ho imparato da mio padre». L’ESPRESSO 26.6.2022
22.5.2022 – Intervista a CHE TEMPO CHE FA
19.5.2022 – Fiammetta Borsellino: “Amo follemente la mia città, non è Palermo che ha ucciso papà”
La figlia minore del giudice ammazzato dalla mafia: “Mio padre diceva che il Palazzo di giustizia era un covo di vipere Ho messo le radici qui. Mai pensato di andarmene, l’unica volta che ci ho provato sono tornata presto”
“Non abbiamo più bisogno di sentenze di condanna che lo affermino e che tanto – purtroppo lo abbiamo ormai capito – non arriveranno mai. Per noi ormai sono chiare le connivenze, le omissioni, le menzogne, i depistaggi, le condotte sbagliate di uomini e donne delle istituzioni che non hanno avuto rossore a presentarsi in un’aula di tribunale e a balbettare monosillabi e sfilze di ‘non ricordo’. Ad essere offesi non siamo solo noi familiari ma l’intelligenza dell’intero popolo italiano”. Sono le parole, taglienti, di Fiammetta Borsellino, la figlia minore del giudice Paolo Borsellino, che firma l’introduzione del libro ‘Visti da vicino’ di Alessandra Ziniti e Franco Viviano, due cronisti palermitani che da quarant’anni seguono i fatti di cronaca più importanti.
“Lo diceva anche mio padre che il fatto di non riuscire ad arrivare ad una sentenza, che non si riescano a trovare le prove, non significa che non ci siano colpe – dice Fiammetta -. E credo che per politici o magistrati anche avere una sola ombra sulla testa sia una colpa”. “Per me presenziare alle udienze dei processi per la strage di via D’Amelio è stato come un affacciarsi alla miseria umana, di magistrati e poliziotti che si vantano di successi che non hanno mai conseguito e non ricordano nulla di vicende che avrebbero dovuto segnare le loro vite ed essere scolpite nella loro memoria, impegnati come sono a difendersi spasmodicamente – aggiunge Fiammetta Borsellino -. Dopo 30 anni ormai miracoli non ce ne aspettiamo più, l’evidenza per noi è già una verità e una consapevolezza ma certo me ne sarei andata da quel palazzo di giustizia con uno stato d’animo diverso dal disgusto per questa miseria umana. Una consapevolezza che, d’altra parte, aveva anche mio padre quando parlava a mia madre del Palazzo di giustizia di Palermo come di un covo di vipere. Un giorno le disse: ‘La mafia mi ucciderà quando i miei colleghi glielo permetteranno, quando Cosa nostra avrà la certezza che sono rimasto davvero solo’”.
Fiammetta Borsellino da Palermo non ha mai pensato di andar via, come peraltro i suoi fratelli, e che alla città che le ha portato via il padre resta legatissima. “Non è Palermo che l’ha ucciso – dice affondando nel pozzo dei suoi ricordi di bambina -. Io non ho mai pensato di lasciare questa città come peraltro non fece mai neanche mio padre in quegli anni. Nutro una passione viscerale anche se piena di conflitti nei confronti di questa città. A 15 anni andavo con padre Cosimo Scordato, il sacerdote dell’Albergheria, in giro per Ballarò a raccattare bambini da portar via dalla strada e quando potevo ci trascinavo anche mio padre che la domenica, quando era possibile, ci portava sempre a passeggiare nei vicoli del centro storico. Certo, Palermo è una città dalla quale sento il periodico bisogno di allontanarmi, sento ogni tanto questa cappa di oppressione, ma mi basta qualche giorno in campagna, i miei viaggi, ma non ho mai pensato di andare a vivere altrove. L’unica volta che ci ho provato è stato quando mi sono iscritta all’Università a Pavia, facevo giurisprudenza e prendevo ottimi voti ma non riuscivo a capire se me li davano perché mi chiamavo Fiammetta Borsellino o perché me li meritavo. E sono tornata presto. E ho messo le radici qui, nel centro storico di Palermo che amo follemente, con i miei bambini con cui lavoro da anni e che riuscivo persino a portare a casa quando ancora c’era papà. Glieli facevo trovare lì e riempivo la casa. E a lui piaceva tanto “. PALERMO TODAY 19.5.2022
19.5.2022 – Il j’accuse di Fiammetta Borsellino: «L’omertà è nello Stato, questa è una certezza»
di Fiammetta Borsellino
È accettabile che i mafiosi si trincerino dietro i «non ricordo». Ma è inaccettabile il silenzio di pezzi delle istituzioni
No che non mi sentirò appagata dall’esito dei processi sulla morte di mio padre e, soprattutto, su quel che è successo dopo: il più grande depistaggio della storia, come è stato definito. E so che tanta parte dell’opinione pubblica la pensa esattamente come me.
Nonostante l’encomiabile sforzo di pochi, pochissimi, magistrati come Stefano Luciani e Gabriele Paci, la verità giudiziaria non potrà dare conto dell’omertà di Stato che ha coperto e copre chi ha lavorato nelle istituzioni per inquinare tutto. Più mi addentro in questa melma e più il marcio risulta evidente. So però che anche questa è una verità, patrimonio ormai di tutti. O quasi.
È accettabile, fa parte della loro natura, che i mafiosi si trincerino dietro i «non ricordo». Ho incontrato i Graviano, loro negano perfino la loro stessa esistenza, negano l’evidenza. I mafiosi preferiscono morire in galera anziché parlare.
È inaccettabile però constatare il silenzio di pezzi dello Stato. I “non ricordo” di magistrati e poliziotti. L’ostinata negazione delle loro omissioni e delle loro manipolazioni. Per queste, non solo non hanno pagato ma, al contrario, sono stati premiati con riconoscimenti di carriera. Sono tutti giunti all’apice dei loro uffici. E anche questa è una verità che ci viene spiattellata davanti con violenta evidenza.
Nessuno può veramente credere che solo un manipolo di poliziotti abbia depistato le indagini sulla strage senza avalli e coperture da parte di chi ha orchestrato tutto. Senza connivenze di poteri istituzionali e della magistratura. Perché in definitiva è per questa gente che mio padre è morto. Sono le stesse persone, gli stessi settori delle istituzioni che hanno ostacolato, isolato e mandato a morire un uomo che aveva una incrollabile fede nello Stato.
Per questo, anche nell’amarezza, non resta che andare avanti, facendo tesoro di quanto abbiamo capito fin qui. La nostra consapevolezza è la spinta che mi porta a rifuggire dalle commemorazioni di facciata, anche da quelle con il crisma dell’ufficialità, e aderire con slancio, al contrario, a tutte le occasioni di confronto diretto e franco con i giovani delle scuole.
Ho ricevuto nei giorni scorsi l’invito a partecipare a un evento da parte del procuratore generale della Cassazione. Quando mi ha cercato, credevo volesse darmi conto delle doverose iniziative istituzionali adottate per sanzionare chi ha permesso che nelle istituzioni si lavorasse contro la verità. Mi ha spiegato che la prescrizione impedisce qualsiasi intervento. Ho ribattuto che dovrebbe sentire la responsabilità di spiegarlo al Paese che ha il diritto di sapere. Dovrebbe avvertire l’onere di informare tutti noi sulle ragioni che non permettono di punire gli errori commessi. Sarebbe quantomeno un atto di onestà intellettuale.
In assenza di questo, ogni altra richiesta suona come offensiva. Se il cancro della menzogna e dell’omertà infesta i palazzi, c’è una speranza che viene dal senso di giustizia e dalla purezza che constato nei giovani che incontro. Raccolgo con loro il principale insegnamento di mio padre e li invito, malgrado tutto, a considerare lo Stato come amico e non come un nemico. Perché non possiamo correre il rischio di cedere alla sfiducia, di cadere nel disfattismo. Tradiremmo il senso dell’impegno di Paolo Borsellino.
Noi stessi, noi figli siamo andati avanti e crediamo ancora nell’essenza di quello stesso Stato in cui credeva mio padre. Nell’impegno per fare della nostra terra, della nostra città un posto dove è bello vivere e per il quale vale la pena spendersi.
Dobbiamo tutti quanti andare avanti, andare oltre. Senza mai dimenticare. E se il depistaggio rende impossibile il miracolo della completa verità giudiziaria, abbiamo già tutti gli elementi per giudicare e comprendere ciò che è realmente accaduto.
L’ESPRESSO 18.5.2022
19.5.2022 – Fiammetta Borsellino: “Mio padre e Falcone consegnati alla mafia dai loro colleghi”
di Alessandra Ziniti – La figlia del magistrato ucciso in via d’Amelio: “Da quando abbiamo deciso di parlare siamo rimasti soli. Dello stuolo di magistrati che ci stava attorno non si vede più nessuno”
Dalla sua terrazza nel centro storico, Fiammetta Borsellino guarda Palermo senza alcun rancore. «Non è questa città che ha ucciso mio padre e Giovanni Falcone. Sono passati 30 anni e ormai ci siamo rassegnati all’idea che noi familiari di tutte le vittime delle stragi non avremo mai una verità giudiziaria. Perchè nessuno ha voluto guardare dove si doveva guardare da subito: a quel palazzo di giustizia covo di vipere, come lo chiamava mio padre. Lui e Giovanni Falcone, almeno nell’ultimo anno della loro vita ne avevano piena consapevolezza».
Lei era ancora una ragazzina nel 1992. Si ricorda cosa diceva suo padre?
«Dopo la strage di Capaci disse a mia madre: “La mafia ucciderà anche me quando i miei colleghi glielo permetteranno, quando Cosa nostra avrà la certezza che adesso sono rimasto davvero solo”»,
E così è stato?
«Senza dubbio. C’è stata la mano armata di Cosa nostra ovviamente ma anche chi a questa mano armata ha spianato la strada, consegnando le teste di Falcone e Borsellino su un piatto d’argento. L’ormai famosa convergenza di interessi di cui parlava Falcone. Io oggi da figlia sono consapevole che mio padre è morto perchè è stato abbandonato dai suoi colleghi».
Parole dure le sue
«Che occorreva dire. E dirò anche di più. Fin quando siamo stati zitti, il salone di casa nostra era pieno di presunti amici di mio padre che venivano a raccontare balle a mia madre. Da quando invece io ho deciso di parlare, di dire senza peli sulla lingua che le responsabilità delle stragi di Capaci e via D’Amelio sono a più livelli, da quel momento ci siamo improvvisamente ritrovati soli. Di tutto quello stuolo di magistrati che ci stava attorno non si vede più nessuno. Qualche settimana fa sono andata a Marsala, la città dove mio padre è stato procuratore, per l’intitolazione di una strada ad Emanuela Loi, una degli agenti di scorta uccisi con lui. Sono rimasta sola. Nessuno, dico nessuno dei magistrati presenti, mi ha avvicinato anche solo per salutarmi. Ma a me sta bene così».
L’ultimo processo, quello sul depistaggio, andrà a sentenza proprio in coincidenza con i 30 anni delle stragi. Non crede che riuscirà a stabilire la verità?
«Ho assistito a decine di testimonianze di magistrati, avvocati, investigatori, una sfilata di reticenza, di “non ricordo” di fatti che avrebbero dovuto segnare anche le loro vite. Una cosa, dal punto di vista umano, veramente inaccettabile, misera, pietosa. Dall’aula della corte d’assise di Caltanissetta sarei potuta uscire con un sentimento umano diverso se solo avessi percepito una disponibilità alla ricerca della verità che non ho visto».
Tanta amarezza dunque in questo trentennale dalle stragi?
«Mi creda, ormai, abbiamo trovato pace. Tutto finalmente è chiaro. Non abbiamo più bisogno di sentenze di condanna che tanto non arriveranno mai. Per noi ormai sono chiare le connivenze vere, le omissioni, le menzogne, le condotte sbagliate di uomini e donne delle istituzioni che non hanno avuto rossore a presentarsi in un’aula di tribunale e a balbettare monosillabi. A essere offesi non siamo solo noi familiari ma l’intelligenza del popolo italiano».
Come ha raccontato alle sue figlie la storia del nonno e di Giovanni Falcone?
«Capisco che può sembrare strano ma non c’è stato bisogno di raccontare loro nulla. In casa siamo stati sempre circondati dai nonni anche quando non c’erano più. C’è la bicicletta di mio padre appesa a una parete, la vecchia insegna della farmacia di famiglia, le foto della cena di riappacificazione di mio padre e Leonardo Sciascia. Ne parliamo sempre con grande serenità. Posso dire che i nostri figli hanno vissuto quel passato come presente. Certo, a scuola, qualche volta è capitato che gli abbiano detto: “Tuo nonno è morto con un’autobomba” ma anche loro hanno imparat o a gestire questa parte pubblica».
Qual è la più grande eredità che le ha lasciato suo padre?
«La faccia pulita dell’Italia, io oggi mi sento ricca, non sola, per la grandissima relazione che ho con tantissima gente onesta, vera. Ricca non certo materialmente. Quando papà è morto sul suo conto corrente abbiamo trovato un milione di lire. Perchè oltre alla nostra famiglia portava avanti quella di una sua sorella rimasta sola con sette figli e aiutava anche quelle di alcuni uomini delle forze dell’ordine a lui vicini. Era il papà silenzioso di tanti». LA REPUBBLICA 19.5.2022
3.5.2022 – VIDEO – Fiammetta Borsellino al Cenacolo di Lecco
Via D’Amelio, l’accusa dei pm: “Sulla strage il depistaggio dei poliziotti”. Fiammetta Borsellino: “Omertà di Stato”
FIAMMETTA BORSELLINO: “Un Paese che vive nella menzogna non ha futuro, diamo un faro ai giovani” IL POPOLO 6.4.2022
21.3.2022 VIDEO Intervista Corriere della Sera
17.2.2022 Fiammetta Borsellino: «Provo rabbia contro certi magistrati…» «Mio padre tradito dai colleghi» Fiammetta Borsellino: «Provo rabbia contro certi magistrati…»
Ci avviciniamo al trentennale della strage di via D’Amelio. Sarai nostra compagna di viaggio nei Corsi di Scienze politiche e delle Relazioni internazionali dell’Università di Palermo in un percorso ricostruttivo, guidato dai nostri professori di storia, che abbiamo chiamato appunto «Officina 92/22» e che si snoderà durante l’intero anno accademico con diversi appuntamenti. Che ne dici di cominciare ad avviare la riflessione, partendo dalla questione più rovente, forse: dopo tutto questo tempo non abbiamo ancora una verità giudiziaria sul quel che accadde, se non la prova che vi furono depistaggi. Da questo punto di vista, sei una vittima della mafia che ti ha ucciso il padre ma anche della giustizia penale che non ha saputo e talora voluto accertare tutte le responsabilità per quella strage.
Fiammetta Borsellino
Sono passati trent’anni, ma i primi quindici o venti anni sono stati caratterizzati da incredibili anomalie sia dal punto di vista delle indagini, sia dal punto di vista dei processi che ne sono scaturiti. La cosa veramente sconfortante è che i vari depistaggi che hanno impedito di giungere a un qualche risultato sono in buona parte dovuti a uomini delle forze dell’ordine e degli stessi vertici della magistratura. Non solo errori su errori da parte degli inquirenti, ma pure una precisa volontà di allontanarci dalla verità da parte di molti. E anche chi avrebbe dovuto rimanere vigile e intervenire per evitare che le cose andassero come sono andate, è rimasto inerte. Si tratta di anomalie lampanti, che erano evidenti a tutti, e tuttavia solo di recente cristallizzate dalla sentenza del processo Borsellino quater.
Il più grande depistaggio della storia repubblicana, così lo hanno definito i giudici di Caltanissetta.
Un depistaggio grossolano, anche. Addirittura la sentenza afferma chiaramente che il pentito ha dichiarato il falso perché è stato indotto da coloro che lo gestivano, che si sono resi autori di una serie di forzature. Poi ci sono stati molti filoni di indagine incomprensibilmente trascurati. Si è sprecato molto tempo nel seguire piste investigative improbabili o mal impostate (ad esempio il processo della cd Trattativa arenatosi in appello), a scapito di altre verosimilmente più promettenti. Oggi, a distanza di tanti anni, la possibilità di raggiungere risultati apprezzabili è assai compromessa. Da questo punto di vista possiamo dire che l’obiettivo del depistaggio è stato raggiunto. E non è un problema che riguarda solo la mia famiglia, che anzi ha trovato gli strumenti per andare avanti. È un problema del Paese tutto, che in qualche modo deve essere affrontato per costruire con fiducia l’avvenire nostro e dei nostri figli soprattutto.Ecco, quel che mi colpisce è che nel tuo percorso personale di elaborazione non sei mai rimasta intrappolata nelle doverose recriminazioni sul passato, ma tendi sempre a volgere lo sguardo verso il futuro.
F.B.
Penso che questo derivi dagli insegnamenti che ho ricevuto in famiglia. L’esempio di mio padre, più che altro. Anche nei momenti più bui, quelli in cui il pericolo lo toccavamo con mano, non abbiamo mai perduto passione per le cose belle della vita. Questo non significa che non ci pesasse l’incombere costante del pericolo. E tuttavia mio padre non ha mai posto dei limiti alla libertà di noi figli di muoverci liberamente, di uscire e di vivere le nostre esperienze. Eppure lo vedevo che era molto in pensiero per noi. La notte quando ci ritiravamo ci aspettava sveglio consumando centinaia di sigarette! Basti pensare che il 19 luglio ero addirittura in Thailandia con amici di famiglia e quel viaggio fu proprio un compromesso raggiunto con papà. Io in realtà volevo andare in Africa, in una missione, insieme a un gruppo di volontariato con cui ero in contatto. Mio padre quella volta mi chiese di cambiare meta e quasi scherzando disse: «Fiammetta, se mi ammazzano come ti raggiungono laggiù?».
La tua determinazione a non lasciarti sopraffare dagli eventi ti ha portato non solo a trasformare il dolore in impegno civile, ma a compiere un percorso non comune: tu sei andata in carcere a incontrare gli assassini di tuo padre e guardarli negli occhi.
F.B.
È una decisione che ho preso parlandone prima con i miei fratelli. Sono stati due incontri. La prima volta ho incontrato sia Filippo che Giuseppe, nella stessa giornata. La seconda volta solo Filippo.
Parli dei Graviano. È la seconda volta che ascolto da te questo racconto e li hai sempre chiamati per nome. Devo dire che la cosa mi impressiona parecchio.
F.B.
Sento che bisogna avere rispetto sempre per le persone, nonostante tutto quello che ci divide e ci separa. Non posso riferire in poche frasi il contenuto del nostro colloquio, che d’altronde è impossibile da riassumere.
Però è una scelta che rivendichi. Ti ha aiutato?
F.B.
Sì. Ne sono uscita certamente fortificata. Il confronto con quelle due persone, così diverse da me, che hanno inciso così profondamente nella mia vita mi ha fatto crescere. Chissà se l’incontro è servito anche a loro, ma in qualche modo sono convinta di sì. Poi come lo sapranno elaborare non lo so. Sia a loro che a me hanno ucciso il padre. Loro sono cresciuti in un determinato contesto e hanno perpetuato vendetta e violenza. Io, figlia di un magistrato, ho seguito una strada opposta. Beninteso, ciò non li assolve dalle loro terribili colpe. Ma in ogni caso penso che bisogna smettere di porre la questione in termini di «perdono» o di «vendetta». Io preferisco parlare di percorsi di cambiamento che mi possano avvicinare a una persona che mi ha fatto del male. Il confronto può anche essere doloroso, ma è anche la strada verso la riconciliazione interiore. Convivere con pulsioni di vendetta provocati dal delitto è una cosa pesantissima. Del resto è ciò che ha portato i Graviano e tutti gli altri come loro ad uccidere. Si entra in una spirale che genera sempre violenza, odio e vendetta. Una spirale tossica.
Né perdono, né vendetta, quindi, nei confronti dei mafiosi. E neanche rabbia?
F.B.
La rabbia in realtà è un sentimento che ho provato e continuo a provare non nei confronti dei mafiosi, piuttosto nei confronti di chi mafioso non è ma non ha fatto il proprio dovere. Dal mafioso il male te lo aspetti. Non dovresti aspettartelo da chi è chiamato ad amministrare la giustizia. Mi fa male pensare che mio padre abbia potuto definire il suo luogo di lavoro, quello in cui passava la gran parte delle sue giornate, come un covo di vipere. Mi fa male anche pensare che mio padre dovesse difendersi anche dai suoi stessi colleghi. E mi fa male prendere atto che nei tanti anni trascorsi dopo la strage di via D’Amelio, molti che avrebbero dovuto indagare o capire che era in corso un depistaggio diabolico invece sembravano voltarsi dall’altra parte, forse impauriti dal pericolo che un accertamento a tutto tondo avrebbe messo in discussione quantomeno la linearità di molti magistrati. Sei severa, oltre che arrabbiata
F.B.
Forse, ma è anche sotto gli occhi di tutti che troppo spesso parte della magistratura ha abbandonato il tanto osannato «Metodo Falcone e Borsellino». Io non ho mai visto mio padre scrivere o promuovere libri su attività giudiziarie in corso. L’uomo che ho conosciuto io lavorava in silenzio e quando capitava non mancava di aiutare gli uomini della scorta a cambiare la ruota della macchina blindata che si era forata in autostrada. Io conservo quest’esempio. Mio padre ha rilasciato pochissime interviste e solo quando non ne poteva fare a meno. Piuttosto, dedicava molto tempo all’incontro dei giovani. Ci teneva. L’esempio era anche quello di Rocco Chinnici: come non ricordare i suoi interventi sulla droga! E poi mio padre guardava l’uomo prima del criminale: questa secondo me è stata anche la chiave del suo successo investigativo e professionale.
Ma torniamo alla questione mafiosa. La Corte costituzionale ha chiesto al parlamento di rivedere il regime del carcere duro e di prendere in considerazione la possibilità di concedere alcuni benefici anche ai mafiosi non collaboranti. Secondo alcuni questo costituirebbe un cedimento pericoloso.
F.B.
A me è capitato di frequentare anche alcune carceri italiane per partecipare ad alcuni incontri con i detenuti. Mi rendo conto che non possiamo non porci il problema del senso della detenzione, specie in un sistema carcerario come il nostro, così pieno di problemi. Riesce davvero il carcere a provocare un cambiamento nelle persone? Se rispondiamo negativamente il carcere è una sconfitta. Questo vale anche per il 41 bis. Anche rispetto alle persone che più mi hanno fatto male come i Graviano, io non mi sento più appagata se loro restano segregati in una cella, ma se si accende una miccia di cambiamento. Attenzione: non necessariamente questa deve condurre a una collaborazione. A me interessa che si produca un mutamento profondo nelle persone. Per il resto, a me mio padre non lo restituirà mai nessuno.
Un ricordo privato. Cosa hai ereditato da tuo padre?
F.B.
Ho sempre condiviso con lui la passione della lettura.
Che lettore era Borsellino?
F.B.
Mio padre era un lettore onnivoro. Leggeva di tutto. Soprattutto era appassionato di letteratura tedesca. Kafka lo catturava. Poi i grandi polizieschi. Ho ereditato la sua grande collezione di Simenon. E i siciliani, non ultimo Sciascia, che era per lui un punto di riferimento.
Vuoi consigliare un libro ai nostri lettori?
F.B.
Un libro che sto leggendo adesso, molto intenso: «Una vita come tante» di Hanya Yanagihara.
a cura di Costantino Visconti Giornale di Sicilia 17 febbraio 2022
17.2.2022 Borsellino, la figlia: «Mio padre tradito dai colleghi magistrati» Fiammetta: «Chi poteva evitare che le cose andassero come sono andate è rimasto inerte. Dal mafioso il male te lo aspetti. Non dovresti aspettartelo da chi è chiamato ad amministrare la giustizia»
L’accusa di Fiammetta Borsellino: «Mio padre tradito dai suoi colleghi»
Fiammetta Borsellino, figlia di Paolo, il magistrato ucciso a Palermoil 19 luglio 1992, in un colloquio con il giurista Costantino Visconti, docente dell’Università di Palermo, pubblicato sul Giornale di Sicilia, parla di quanto sia »sconfortante« vedere che »i vari depistaggi sono in buona parte dovuti a uomini delle forze dell’ordine e degli stessi vertici della magistratura. Chi avrebbe dovuto rimanere vigile e intervenire per evitare che le cose andassero come sono andate, è rimasto inerte». Quello che i giudici di Caltanissetta hanno definito «il più grande depistaggio della storia repubblicana, per Fiammetta Borsellino è «anche un depistaggio grossolano. Il pentito (Vincenzo Scarantino, ndr) ha dichiarato il falso perché è stato indotto da coloro che lo gestivano. Poi ci sono stati molti filoni di indagine incomprensibilmente trascurati. Si è sprecato molto tempo nel seguire piste investigative improbabili o mal impostate (ad esempio il processo della cosiddetta “Trattativa” arenatosi in appello), a scapito di altre verosimilmente più promettenti». Fiammetta Borsellino ha incontrato in carcere i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano, gli assassini del padre. «Sia a loro che a me hanno ucciso il padre. Loro sono cresciuti in un determinato contesto e hanno perpetuato vendetta e violenza. Io ho seguito una strada opposta. Beninteso, ciò non li assolve dalle loro terribili colpe. Ma in ogni caso penso che bisogna smettere di porre la questione in termini di “perdono” o di “vendetta. Convivere con pulsioni di vendetta è pesantissimo. Del resto è ciò che ha portato i Graviano e tutti gli altri come loro ad uccidere. Si entra in una spirale tossica». «Dal mafioso – aggiunge – il male te lo aspetti. Non dovresti aspettartelo da chi è chiamato ad amministrare la giustizia. Mi fa male pensare che mio padre abbia potuto definire il suo luogo di lavoro come un covo di vipere.Molti che avrebbero dovuto indagare o capire che era in corso un depistaggio diabolico invece sembravano voltarsi dall’altra parte, forse impauriti dal pericolo che un accertamento a tutto tondo avrebbe messo in discussione quantomeno la linearità di molti magistrati».
«Troppo spesso parte della magistratura ha abbandonato il tanto osannato “Metodo Falcone e Borsellino”. Io non ho mai visto mio padre scrivere o promuovere libri su attività giudiziarie in corso». Quanto alla richiesta fatta al Parlamento dalla Corte costituzionale di rivedere il regime del carcere duro, la figlia del magistrato spiega che «anche rispetto alle persone che più mi hanno fatto male come i Graviano, io non mi sento più appagata se loro restano segregati in una cella, ma se si accende una miccia di cambiamento. Attenzione: non necessariamente questa deve condurre a una collaborazione». IL DUBBIO
Mafia, figlia Borsellino: “Mio padre tradito dai colleghi”. Definito da giudici di Caltanissetta, “il più grande depistaggio della storia repubblicana”
Fiammetta Borsellino, figlia di Paolo, il magistrato uccico a Palermo il 19 luglio 1992, in un colloquio con il giurista Costantino Visconti, docente dell’Universita’ di Palermo, pubblicato sul Giornale di Sicilia, parla di quanto sia “sconfortante” vedere che “i vari depistaggi sono in buona parte dovuta a uomini delle forze dell’ordine e degli stessi vertici della magistratura.
Chi doveva rimanere vigile e intervenire per evitare che le cose andassero come sono andate, e’ rimasto inerte”. Quello che i giudici di Caltanissetta hanno definito “il piu’ grande depistaggio della storia repubblicana, per Fiammetta Borsellino e’ “anche un depistaggio grossolano. Il pentito (Vincenzo Scarantino, ndr) ha dichiarato il falso perche’ e’ stato indotto da coloro che lo gestivano. Poi ci sono stati molti filoni di indagine incomprensibilmente trascurati. Si e’ sprecato molto tempo nel seguire piste investigative improbabili o mal impostate (ad esempio il processo della cosiddetta ‘Trattativa’ arenatosi in appello), a scapito di altre verosimilmente piu’ promettenti”.
Fiammetta Borsellino ha incontrato in carcere i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano, gli assassini del padre. “Sia a loro che a me hanno ucciso il padre. Loro sono cresciuti in un determinato contesto e hanno perpetuato vendetta e violenza. Io ho seguito una strada opposta. Beninteso, cio’ non li assolve dalle loro terribili colpe. Ma in ogni caso penso che bisogna smettere di porre la domanda in termini di ‘perdono’ o di ‘vendetta’.
Convivere con pulsioni di vendetta e’ pesantissimo. Del resto e’ cio’ che ha portato i Graviano e tutti gli altri come loro ad uccidere. Si entra in una spirale tossica”. “Dal mafioso – aggiunge – il male te lo aspetti. Non aspettartelo da chi e’ chiamato ad amministrare la giustizia. Mi fa male pensare che mio padre abbia potuto definire il suo luogo di lavoro come un covo di vipere. Molti che devono dover indagare o capire che era in corso un programma diabolico invece sembravano voltarsi dall’a ltra parte, forse impauriti dal pericolo che un accertamento a tutto tondo messo in discussione quantomeno la linearita’ di molti magistrati.
Troppo spesso parte della magistratura ha abbandonato il tanto osannato ‘Metodo Falcone e Borsellino’. Io non ho mai visto mio padre scrivere o promuovere libri su attivita’ giudiziarie in corso”. Quanto alla richiesta fatta al Parlamento dalla Corte costituzionale di rivedere il regime del carcere duro, la figlia del magistrato spiega che “anche rispetto alle persone che piu’ mi hanno fatto male come i Graviano, io non mi sento piu’ appagata se loro restano segregati in una cella, ma se si accende una miccia di cambiamento. Attenzione: non necessariamente questa deve condurre una collaborazione”. IL FATTO NISSENO 17.2.2022