PM ANTONINO DI MATTEO: la ritrattazione di SCARANTINO é “sicuramente falsa”
Gaspare Spatuzza non doveva essere protetto. Le incredibili affermazioni del dottor Antonino Di Matteo
FIAMMETTA BORSELLINO/ANTONINO DI MATTEO
ANTONINO DI MATTEO – Audizione Commissione Parlamentare Antimafia 13 e 19 settembre 2017
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DI MATTEO: ”SULLE CHIAMATE DI NAPOLITANO ABBIAMO LA COSCIENZA A POSTO”
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DEPISTAGGIO BORSELLINO / NINO DI MATTEO, L’INTOCCABILE
20.5.2021 Intervento Avv. Trizzino al Processo depistaggi rif. a DI MATTEO
21.5.2022 Al processo depistaggio l’arringa “fake” dell’avvocato Trizzino per i figli di Borsellino Giorgio Bongiovanni 21 maggio 2022 ANTIMAFIA DUEMILA
Le cittadinanze onorarie a Di Matteo
5 maggio 2020 – Carceri. Spataro: “solidarietà a Bonafede. Di Matteo non è nuovo a certe affermazioni”
Di Matteo ha infatti accusato pubblicamente il responsabile della Giustizia di avergli prima proposto, nel 2018 (governo Lega-M5S), il posto di capo del Dipartimento delle carceri, ma di aver fatto poi marcia indietro – questa la ricostruzione del magistrato – alla luce delle registrazioni della polizia penitenziaria di importanti boss che temevano l’arrivo di Di Matteo al Dap. Si tratta di registrazioni, viene sottolineato in ambienti di governo come sostenuto dallo stesso Bonafede, di cui il Guardasigilli era già a conoscenza prima di proporre a Di Matteo di entrare in squadra.
“Depistaggi” Borsellino, CSM lunedì 17 settembre 2018 sentirà Di Matteo lunedì in seduta pubblica. L’ audizione del pm del processo sulla trattativa Stato-mafia, era slittata proprio per acconsentire alla richiesta del magistrato di essere sentito pubblicamente. La Prima Commissione del Csm ha convocato per lunedì prossimo il pm del processo sulla presunta trattativa Stato-mafia Nino Di Matteo nell’ambito del fascicolo aperto su sollecitazione della figlia di Paolo Borsellino , Fiammetta, che ha chiesto di far luce sulle “disattenzioni” che ci sarebbero state sulle dichiarazioni del falso pentito Vincenzo Scarantino. Di Matteo doveva essere ascoltato la scorsa settimana, ma la sua richiesta che la seduta fosse pubblica, aveva fatto slittare l’audizione, ora fissata a lunedì.
CSM rinvia l’audizione di Nino Di Matteo Diventa un caso il rinvio deciso dal Csm dell’audizione del pm del processo sulla trattativa Stato- mafia Nino Di Matteo. Di Matteo doveva essere ascoltato oggi dalla Prima Commissione, nell’ ambito del fascicolo aperto sulla base dell’ esposto di Fiammetta Borsellino sui depistaggi sulle indagini sulla strage in cui persero la vita suo padre Paolo e gli agenti di scorta. E aveva chiesto di parlare in una seduta pubblica. Proprio “a causa della sua richiesta, pervenuta solo lunedì, “é stato necessario il rinvio, spiega in una nota la Commissione, chiarendo che è stato dovuto solo a ragioni “tecniche e regolamentari”. Un concetto ribadito dal vice presidente Giovanni Legnini, che avverte: “Ogni altra ricostruzione dietrologia è destituita di fondamento”. Quando un magistrato chiede di essere ascoltato in seduta pubblica “il regolamento Interno del Csm (agli artt. 27 e 29) prevede precisi obblighi procedurali – sottolinea la Commissione, presieduta dal laico Antonio Leone – poiché le sedute delle commissioni di norma non sono pubbliche e solo eccezionalmente la Commissione ne può disporre la pubblicità”. La Prima Commissione si è “pronunciata favorevolmente sulla richiesta di Di Matteo, nella seduta di ieri ed ha trasmesso la decisione al Comitato di Presidenza. Inoltre, poiché per espressa previsione regolamentare, la stampa e il pubblico, possono essere ammessi a seguire le sedute solo in separati locali, attraverso impianti audio-visivi (Art.29 comma 2), ciò richiede misure organizzative adeguate”. “Le ragioni tecniche e regolamentari indicate dalla commissione, conseguenti alla richiesta del dott. Di Matteo, sono quelle che hanno determinato la necessità del differimento dell’audizione”, ribadisce a sua volta Legnini. “Se la Prima Commissione farà in tempo o no prima della fine della Consiliatura lo si valuterà in relazione alle attività ed adempimenti previsti dal regolamento”, conclude il vice presidente.
Sulla vicenda interviene una delle figlie del magistrato ucciso, Fiammetta Borsellino. «Per me è una questione marginale che Nino Di Matteo abbia chiesto al Csm di essere sentito in seduta pubblica. Più importante è invece che si trovi il modo di fare chiarezza, e anche al più presto, sui depistaggi e su ciò che è accaduto nella gestione dell’inchiesta sulla strage di via D’Amelio». «Vedo – aggiunge Fiammetta Borsellino – che sulle procedure e sulle modalità degli accertamenti da fare vanno sorgendo polemiche collaterali. Sono del tutto secondarie rispetto al fine ultimo dell’obiettivo perseguito dalla famiglia: chiarire tutto quello che c’è da chiarire».
AL BORSELLINO QUATER DI MATTEO RACCONTA SCARANTINO Il pm palermitano sentito come teste a Caltanissetta SEGUE
“25 anni alla ricerca di una scomoda verità”. Lodato intervista Di Matteo
A venticinque anni di distanza dalle stragi di Capaci e via d’Amelio, che hanno portato alla morte di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Paolo Borsellino e gli agenti di scorta, Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani, Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina, sono ancora diversi i pezzi mancanti che si intravedono sotto le macerie. Quali sono queste “verità scomode” celate? Si potrà mai raggiungere una completa verità? Perché quello della mafia è un fenomeno che resiste nel nostro Paese da oltre 150 anni? Sono questi alcuni temi affrontati a Pavia, nella meravigliosa aula del ‘400, in occasione dell’ultimo incontro organizzato per la XIII edizione di “Mafie, Legalità ed Istituzioni” 2017, dedicato alla memoria del Prof. Grevi, ed intitolato “25 anni alla ricerca di una scomoda verità”.Da una parte Saverio Lodato, giornalista, scrittore, autore del best seller “Quarant’anni di mafia” ed editorialista della nostra testata. Dall’altra Nino Di Matteo, sostituto procuratore nazionale antimafia, pm di punta del pool impegnato nel processo sulla trattativa Stato-mafia e per anni pm nella indagini sulla ricerca dei mandanti delle stragi. A seguito della condanna a morte di Totò Riina, e con l’arrivo a Palermo di duecento chili di tritolo per compiere un attentato nei suoi confronti, Di Matteo è diventato il magistrato più scortato d’Italia. Con le sue domande, di fronte ad una platea composta soprattutto da giovani universitari, Lodato e Di Matteo hanno fatto il punto sulla lotta alla mafia sottolineando come l’impegno nel contrasto sia un preciso dovere non solo per gli addetti ai lavori ma, soprattutto, per la politica. da ANTIMAFIA DUEMILA
AUDIO 1950 INTERVENTI da Radio Radicale
- Salvatore Borsellino chiede scusa a Di Matteo per gli attacchi di Fiammetta Borsellino – VIDEO – ARTICOLO
- ”Depistaggio di Stato, il Csm lasci stare Di Matteo” – 10 Settembre 2018. Lettera di Salvatore Borsellino al Vicepresidente CSM Professor Legnini, le scrivo, nella sua qualità di rappresentante apicale dell’Organo di autogoverno della magistratura. Ho appreso che per domani il Csm ha convocato, per audirli e per valutarne eventuali responsabilità, Antonino Di Matteo, Anna Maria Palma e Carmelo Petralia, tutti magistrati che due decenni fa e più si occuparono di indagini e processi relativi alla strage di via D’Amelio del 19 luglio 1992, nella quale furono uccisi mio fratello Paolo e cinque agenti della scorta. Nel processo Borsellino quater definito con la sentenza emessa dalla Corte di Assise di Caltanissetta – la cui motivazione è stata depositata il 30 giugno scorso – mi sono costituito parte civile e, al momento delle conclusioni, il mio difensore ha chiesto la condanna di tutti gli imputati a eccezione di Vincenzo Scarantino (il falso pentito di via D’Amelio, l’uomo che si autoaccusò, salvo poi ritrattare, della strage, ndr): condanna del quale, non ho esitato a dire, che avrebbe costituito una vergogna per l’Italia. In effetti la Corte di Assise di Caltanissetta ha condannato tutti gli imputati a eccezione di Scarantino: i giudici hanno ritenuto che egli fosse stato determinato da terzi a eseguire le calunnie, che con certezza erano state ideate da altri, e in particolare da infedeli rappresentanti delle istituzioni. Proprio a tale riguardo, mi sono speso in questi anni sia quale parte civile nel processo, sia per dovere civico fuori dal processo, a lottare perché emergessero le responsabilità di coloro che, dall’esterno (collocati in posizioni di potere ufficiale), hanno concorso con i mafiosi di Cosa nostra nella strage di via D’Amelio, e di coloro che (sempre annidati nei gangli del potere) si sono resi responsabili di “uno dei più gravi depistaggi della storia”, per riprendere le parole della Corte di Assise. In questo ho dovuto perfino assumere posizioni di conflitto con la procura di Caltanissetta, nella sua composizione di questi ultimi anni. Quell’ufficio requirente, proprio nel corso del processo Borsellino quater, aveva chiesto e ottenuto l’archiviazione per gli esponenti della polizia individuati come possibili corresponsabili del depistaggio. Lo stesso ufficio – solo dopo la conclusione del giudizio di primo grado, e dopo che la Corte di Assise aveva trasmesso l’intero incartamento ai pm – si è trovato costretto a esercitare l’azione penale per alcuni appartenenti alla polizia che, sotto la guida del defunto Arnaldo La Barbera, avrebbero realizzato la fase esecutiva del “depistaggio Scarantino”. Com’è evidente a chiunque, tuttavia, quel criminoso depistaggio, per dispiegare appieno tutti gli effetti, ha avuto l’avallo formale o la convalida postuma, se non addirittura la condivisione, da parte di esponenti della magistratura, non solo requirente ma anche giudicante. Limitando qui l’analisi alla magistratura requirente, ho potuto accertare chi abbia avuto un ruolo attivo nelle indagini finalizzate alla falsa collaborazione con la giustizia da parte di Scarantino e nella cura delle relazioni con La Barbera, al quale fu dato – fuori da ogni ragionevolezza giuridica e pratica – il ruolo di assoluto dominus nello svolgimento di tutte le indagini. Le prove raccolte nel Borsellino quater dimostrano, al di là di ogni ragionevole dubbio, che i due magistrati della procura di Caltanissetta con i quali La Barbera ebbe un rapporto oltremodo privilegiato e preferenziale furono Giovanni Tinebrae Ilda Boccassini. È risultato anche come Nino Di Matteo nella vicenda giudiziaria della strage di via D’Amelio con La Barbera non ebbe alcun tipo di rapporto. Del resto, in qualità di parte civile del processo Borsellino quater, ho fornito alla Corte d’Assise – che ne ha disposto l’acquisizione facendolo divenire patrimonio probatorio – un documento che ha una forza dimostrativa enorme su chi siano stati, alla procura di Caltanissetta del tempo, i magistrati che si assunsero pubblicamente la paternità della “collaborazione con la giustizia” di Scarantino. Quel documento consiste nell’audioregistrazione della conferenza-stampa svoltasi il 14 luglio 1994, e indetta su iniziativa della procura di Caltanissetta, per riferire agli organi di informazione sull’ordinanza di custodia cautelare che era stata eseguita il giorno precedente, e fondata sulle “rivelazioni” di Scarantino (che aveva iniziato a “collaborare con la giustizia” il 24 giugno 1994, subito dopo un “risolutivo” colloquio investigativo con La Barbera). Professor Legnini, le segnalo che in quella conferenza-stampa – ove il Csm, che immagino abbia fatto un qualche accertamento prima di scegliere quali magistrati (requirenti) convocare quali possibili responsabili del “depistaggio Scarantino”, non ne abbia ancora fatta formale acquisizione, sebbene sia online sull’archivio di Radio radicale – i magistrati che declamarono come una vittoria della Giustizia il “pentimento” di Scarantino furono Tinebra, Boccassini e, con pochissime parole, Francesco Paolo Giordano. Prendo atto che il Csm, non potendo convocare il defunto Tinebra, ha omesso di convocare Boccassini e Giordano, cioè gli unici magistrati che si assunsero pubblicamente il merito della “collaborazione con la giustizia” di Scarantino. Soprattutto, le segnalo che Di Matteo al momento di quella penosa conferenza-stampa non era ancora nemmeno stato assegnato alla trattazione dei fascicolo sulla strage di via D’Amelio. Quel che si vuole imputare a Di Matteo è altro, e in particolare il ruolo che egli ha avuto, quale magistrato della procura di Palermo, nei processi per la “trattativa Stato-mafia” e per la mancata cattura di Bernardo Provenzano. La invito a evitare che il Csm si presti a compiere quella che non potrebbe che essere considerata una rappresaglia ai danni di Nino Di Matteo. IL FATTO QUOTIDIANO 11.9.2018
Strage di via d’Amelio, Di Matteo al Csm: “Il depistaggio cominciò con il furto dell’agenda rossa. E non furono i mafiosi”
“La prima azione del depistaggio sulla strage è rappresentata dal furto dell’agenda rossa. E a rubarla non possono essere stati i boss di Cosa nostra“. Dopo il rinvio di cinque giorni fa, Nino Di Matteo è comparso davanti al Consiglio superiore della magistratura. L’audizione del sostituto procuratore della Direziona nazionale antimafia era stata fissata il 12 settembre scorso. Il pm del processo sulla Trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa nostra, però, ha inviato una lettera a Palazzo dei marescialli per chiedere che la seduta fosse pubblica e non segreta. Una richiesta che ha fatto slittare la sua convocazione per parlare delle indagini che indagini che hanno portato, immediatamente dopo la morte del magistrato Paolo Borsellino e dei cinque agenti di scorta, al depistaggio culminato con il falso pentito Vincenzo Scarantino.
“Siamo a un passo dalla verità” – “Sulla strage di via d’Amelio siamo a un passo dalla verità. Mai come ora siamo vicini alla verità. E questo grazie a me e ad altri magistrati. Non è vero che in 25 anni non si è mai fatto niente. Ci sono 26 condanne. Mai messe in discussione e non interessate dal processo di revisione. Il pericolo che io intravedo oggi è che tutto il dibattito si concentri solo sulla gestione del falso pentito Scarantino. Gli elementi che abbiamo oggi portano a circostanze che potrebbero essere chiarite in via definitiva”, ha detto Di Matteo. Che ha spiegato il suo ruolo nei vari processi celebrati sulla strage. “Il primo processo Borsellino non l’ho seguito io e del bis mi sono occupato solo della fase dibattimentale. E non è vero che quel processo é basato solo sulle dichiarazioni di Scarantino”, ha detto Di Matteo al Csm. “Noi ci siamo resi conto che l’attendibilità di Scarantino era limitata , tant’è che nei confronti di 3 dei 7 soggetti chiamati in causa da Scarantino abbiamo chiesto l’assoluzione e lui non lo abbiamo inserito tra i testi”, ha aggiunto il magistrato. Il Borsellino bis, infatti – dove Di Matteo rappresentava la pubblica accusa insieme ad Annamaria Palma – è quello depistato dalle dichiarazioni di Scarantino. E poi diventato oggetto di un processo di revisione, dopo le dichiarazione di Gaspare Spatuzza, che ha ricostruito la fase esecutivo dell’eccidio. “La strage di Via D’Amelio- dice Di Matteo – è in Italia quella con il più alto numero di condannati. Non è giusto che questi magistrati siano oggi accostati a depistaggi e questa accusa è strumentale a chi non vuole che si vada avanti” ha detto sempre Di Matteo, parlando di “prezzi altissimi” pagati da lui stesso e dai suoi familiari per l’accertamento della verità. Per quelle false dichiarazioni che inquinarono le prime indagini su via d’Amelio sono recentemente finiti accusati di calunnia tre poliziotti: il questore Mario Bo, sugli ispettori Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo.
di Alberto Sofia
“Depistaggio cominciò con furto agenda rossa” – Il pm della Trattativa Stato-mafia si è poi soffermato su uno dei tanti interrogativi rimasti senza risposta sulla strage del 19 luglio 1992. “Non c’è alcun dubbio che Paolo Borsellino tenesse un’agenda rossa che gli era stata regalata dai carabinieri e che quel giorno l’avesse con sé. Non c’è alcun dubbio che avesse annotato con particolare ansia circostanze che aveva scoperto, cose molto gravi”, ha detto Di Matteo mettendo in fila gli avvenimenti di quell’estate di ventisei anni fa e contenuti nella motivazioni della sentenza sul Patto tra pezzi delle Istituzioni e Cosa nostra. “E non c’è alcun dubbio che in quel momento c’era una trattativa tra il Ros e Riina con l’intermediazione e Ciancimino. Oggi si sa anche che Borsellino il 15 luglio aveva parlato alla moglie di un alto ufficiale del Ros che prima gli era amico. I mafiosi hanno fatto la strage ma il furto dell’agenda rossa non può essere stato fatto da chi ha premuto il pulsante”. Per questo motivo, ha concluso il magistrato “per arrivare alla verità sulla strage di Via D’Amelio la prima cosa da approfondire e il furto dell’agenda rossa sulla quale lui scriveva cose molto gravi, parole sue”.
“Sentite Boccassini” – Il pm ha poi polemizzato, in un certo senso, con i consiglieri. “Non ho visto chiamare qui i magistrati che hanno fatto le indagini che hanno portato all’arresto di Scarantino”, ha detto facendo i nomi di Ilda Boccassini, Fausto Cardella e Francesco Paolo Giordano. Erano loro che si occuparono delle prime indagini sulla strage di via d’Amelio e con lui giovane pm, dice Di Matteo, loro nemmeno parlavano. “Non ho mai parlato nemmeno con La Barbera” allora a capo del pool investigativo, “ci tiene a precisare il pm. E il presidente della Prima Commissione, Antonio Leone, ha replicato: “Non abbiamo voluto scegliere qualcuno ed escludere qualcun’altro. Il completamento della fase preistruttoria aveva previsto la fisiologica audizione dei magistrati Fausto Cardella, Francesco Paolo Giordano, Roberto Saieva, Ilda Boccassini. Questo programma istruttorio potrà essere concluso dalla prima Commissione nella prossima consiliatura”. Il depistaggio di via d’Amelio, dunque, sarà tra i primi atti sul tavolo del nuovo Consiglio. FQ 17.9.2018
LA TRATTATIVA NON E’ PRESUNTA L’ESISTENZA DI UNA VERA E PROPRIA TRATTATIVA DI TIPO POLITICO CON LA MAFIA, BASATA E FINALIZZATA SUL CONCETTO DEL DO UT DES E’ COSTITUITA DALLE STESSE PAROLE PRONUNCIATE DA MORI E DA DE DONNO, SENTITI NEL PROCESSO DINANZI ALLA CORTE DI ASSISE DI FIRENZE. E NON SOLO IN QUEL PROCESSO.
PM Di Matteo – dalla requisitoria 15 dicembre 2017 processo Trattativa Stato-mafia “Rispetto a quella che viene definita sempre la “fantomatica” trattativa, la messinscena della trattativa, la pseudo trattativa e quant’altro, andiamo ad esaminare tutti quegli elementi che ci inducono ad affermare che quei dialoghi, quegli incontri riservati, nella casa di Roma, costituirono il terreno privilegiato di una vera e propria trattativa politica. E non certo come vogliono far credere gli odierni imputati, di una ordinaria, se pure eventualmente temeraria e spregiudicata iniziativa investigativa. Non c’entra nulla. Su questo processo si è detto e si continua a dire tutto. Non soltanto per criticare, che sarebbe ovviamente perfettamente comprensibile, ma per delegittimare, ridicolizzare il lavoro del Pubblico Ministero e l’onestà concettuale del Pubblico Ministero. Siamo abituati non solo a sentire parlare di presunta trattativa , ma a leggere ed ascoltare quotidianamente giudizi impietosi che definiscono l’ipotesi della trattativa una messinscena, una bufala, un teorema di magistrati politicizzati privo di qualsiasi appiglio probatorio completo. Questa continua, costante, pressante attuale ricostruzione mediatica stride clamorosamente con dati di fatto di solare evidenza e di dirompente forza dimostrativa E voglio partire da ciò che tutti dimenticano o fingono di dimenticare. Al di là e ancor prima di dichiarazioni di pentiti e dichiaranti, delle ricostruzioni di Massimo Ciancimino, delle affermazioniazioni di Brusca o di Cancemi, c’è ed assume oggi una forza incredibile nella sua chiarezza indiscutibile ed inequivocabile un elemento di prova acquisito quando nessuno ancora aveva nemmeno semplicemente ipotizzato di poter aprire un’indagine sui vertici del Ros e sui loro rapporti con Vito Ciancimino. Quell’elemento di prova, quella confessione dell’esistenza di una vera e propria trattativa di tipo politico con la mafia, basata e finalizzata sull’elementare concetto del do ut des, è costituita dalle stesse parole pronunciate da Mori e da De Donno allorquando vennero sentiti nel processo Bagarella + 25 dinanzi alla Corte di Assise di Firenze. Parole molto chiare, inequivoche assolutamente antitetiche rispetto a quelle rese in questa sede con le spontanee dichiarazioni. Parole e ricostruzioni che recuperiamo attraverso il testuale riferimento nelle sentenze alla Corte di Firenze che non lasciano spazio e dubbi ad interpretazioni diverse da quelle di un’ammissione di una vera e propria trattativa con i capi di Cosa Nostra attraverso Vito Ciancimino. Andiamo a leggere alcuni passaggi di queste dichiarazioni rese all’udienza pubblica in Corte di Assise a Firenze del 27 gennaio 1998. Leggo alcuni passaggi virgolettati. Teste Mori “Andammo da Ciancimino e dicemmo “Signor Ciancimino, che cos’è questa storia qui. Ormai c’è un muro contro muro . Da una parte c’è Cosa Nostra, dall’altra parte c’è lo Stato. Ma non si può parlare con questa gente?“. Guardate, basterebbero queste parole per dire: Ma quale attività investigativa? Ma quale pseudo trattativa? Il rappresentante del Comando Operativo del reparto di eccellenza dei Carabinieri del Ros va da un soggetto che sa essere in contatto con Riina e Provenzano e e gli dice “Ma cos’è questo muro contro muro?” come se fosse strano che ci sia muro contro muro tra l’organizzazione mafiosa più pericolosa al mondo e che poco tempo prima aveva fatto saltare in aria un pezzo di autostrada a Capaci e lo Stato. Che cos’è questa Signori Giudici Popolari se non già proprio subito una proposta di metterci d’accordo per fare venire meno il muro contro muro? Altro che Scotti alle Camere che dice che non ci può essere nessuna ipotesi di mediazione, di compromesso… Ha ragione Riina quando dice “Mi hanno cercato loro”. La sentenza Tagliavia ha perfettamente ragione quando dice che il dialogo con la mafia è stato cercato …non dallo Stato, lo Stato è un concetto molto più alto, ma da alcuni esponenti deviati dello Stato. Che cos’è questo muro, non si può parlare con questa gente? Non lo dice un pentito, lo dice Mori. Poi vedremo perché in quel momento, fra virgolette, se lo lascia scappare. Il 27 gennaio 98 in una Corte di Assise che giudicava i responsabili degli eccidi di Roma, Firenze e Milano, davanti alle parti civili, davanti ai parenti dei morti. “Ciancimino mi chiedeva se io rappresentavo solo me stesso o anche altri. Gli disse lei non si preoccupi, lei vada avanti. Lui capì e RESTAMMO D’ACCORDO CHE VOLEVAMO SVILUPPARE QUESTA TRATTATIVA” La trattativa non esiste, la trattativa è il frutto avvelenato di giudici politicizzati…la presunta trattativa, la pseudo trattativa…la bufala della trattativa, la patacca della trattativa… MORI IL 27 GENNAIO 1998 (la Corte si sbaglierà -dopo leggo alcuni passi della sentenza- dicendo che di quella trattativa ha parlato solo De Donno) DI TRATTATIVA HA PARLATO MORI E NON SOLO IN QUESTO PASSAGGIO, NE LEGGERO’ ALTRI, E LEGGERO’ ANCHE SCRITTI IN CUI MORI DEFINISCE QUESTA COSA UNA TRATTATIVA. C’è un altro passaggio molto importante che Mori sottolinea che i giudici della Corte di Assise annotano: la richiesta di Ciancimino di avere un passaporto. Testuali parole del Colonnello Mori. QUANDO PARLA DEL PASSAPORTO MORI DICE “CE LO CHIESE PER SEGUIRE ALCUNE FASI DELLA TRATTATIVA ALL’ESTERO.“ CAPITANO DE DONNO, sempre lo stesso giorno, 27 gennaio 98 “GLI PROPONEMMO DI FARSI TRAMITE PER NOSTRO CONTO DI UNA PRESA DI CONTATTO CON GLI ESPONENTI DELL’ORGANIZZAZIONE MAFIOSA COSA NOSTRA AL FINE DI TROVARE UN PUNTO DI INCONTRO, UN PUNTO DI DIALOGO finalizzato -De Donno è ancora più esplicito- alla immediata cessazione di queste attività di contrasto netto e stragista nei confronti dello Stato.” Troviamo un punto di dialogo, finitela con questo contrasto netto e stragista nei confronti dello Stato, si capovolgono i termini della questione. Signori giudici popolari, questo significa acquisire informazioni? Questo significa fare un’attività investigativa? O questo significa, come qui diciamo, condurre in maniera spregiudicata una scellerata e spregevole trattativa con i vertici della mafia mentre c’era ancora il sangue dei morti in terra? Proseguo nel citare alcune delle affermazioni rese sotto giuramento da De Donno “Successivamente Ciancimino ci fece sapere che VOLEVA INCONTRARCI E CI DISSE CHE L’INTERLOCUTORE, E CIOE’ LA PERSONA CHE FACEVA DA MEDIATORE FRA LUI E SALVATORE RIINA (quindi sapevano già tutto, sapevano che Ciancimino parlava con Riina) VOLEVA UNA DIMOSTRAZIONE, UNA PROVA CONCRETA DELLA NOSTRA CAPACITA’ DI INTERVENTO. QUESTA PROVA CONSISTEVA NELLA SISTEMAZIONE DELLE VICENDE GIURIDICHE PENDENTI DEL CIANCIMINO E NELLA CONSEGUENTE CONCESSIONE DI PASSAPORTO AL CIANCIMINO.“ Quindi De Donno dice ai giudici della Corte di Assise di Firenze che, avendo parlato con Riina, per capire fino a che punto fossero affidabili interlocutori istituzionali, affidabili dal punto di vista mafioso, Riina chiese “vediamo fino a che punto si spingono: dategli un passaporto a Ciancimino”. Ciancimino a sua volta aveva detto “mi può essere utile per proseguire la trattativa all’estero, perché poi nel frattempo, aveva spiegato bene Vito Ciancimino che il suo interlocutore principale era Provenzano e che forse poteva essere utile anche qualche incontro all’estero. Io mi permetto per l’ultima volta di sottolineare che, veramente, i primi a spiegare cosa fosse la trattativa, e che quella che loro hanno fatto è stata una trattativa con i vertici della mafia, sono stati proprio Mori e De Donno il 27 gennaio 1998. Io mi permetto di leggere solo alcuni passaggi della sentenza definitiva del 6 giugno 1998, quindi non c’era ancora praticamente nulla su quello che è il quadro probatorio oggi gravante nei confronti degli imputati carabinieri Alcuni passaggi delle valutazioni della Corte di Assise di Firenze: L’esame congiunto di ciò che hanno detto testi e collaboratori dimostra in maniera indiscutibile che nella seconda metà del 1992 vi fu un contatto fra i Ros dei Carabinieri e i capi di Cosa Nostra attraverso Vito Ciancimino. Andiamo alle parti maggiormente significative. Vanno dette senz’altro alcune parole non equivoche L’iniziativa del Ros, perché di questo organismo si parla, posto che vide coinvolto un capitano, il vicecomandante e lo stesso comandante del reparto, aveva tutte le caratteristiche per apparire come una trattativa. L’effetto che ebbe sui mafiosi fu quello di convincerli definitivamente che la strage era idonea a portare vantaggi all’organizzazione. Questo è scritto in una sentenza definitiva pronunciata da una Corte di Assise in nome del popolo italiano. Sotto questi profili, proseguono i giudici, non possono esservi dubbi di sorta, non solo perché di trattativa, dialogo, ha espressamente parlato il capitano De Donno, ma soprattutto perché non merita nessuna qualificazione diversa la proposta, non importa con quali intenzioni formulate, di contattare i vertici di Cosa Nostra PER CAPIRE COSA VOLESSERO IN CAMBIO DELLA CESSAZIONE DELLE STRAGI. Qui la logica si impone con tanta evidenza che non ha bisogno di essere spiegata. Quanto agli effetti che ebbe sui capi mafiosi, soccorrono assolutamente logiche, tempestive, congruenti le dichiarazioni di Brusca, poi ci torneremo. Intanto la conclusione. IL CONVINCIMENTO DI UNO STATO CHE VA A CERCARE, VA IN GINOCCHIO A DIRE “CHE COSA VOLETE PER FINIRE LE STRAGI?” rappresenta anche il frutto più velenoso dell’iniziativa in commento che al di là delle intenzioni con cui fu avviata, ebbe sicuramente un effetto deleterio per le Istituzioni, confermando il delirio di onnipotenza dei capi mafiosi e mettendo a nudo l’impotenza dello Stato. Si deve dire quindi che alla fine del 1992 si erano verificate le tre condizioni fondamentali per l’esplosione di violenza dei mesi successivi giacché metodo ed oggetto così come le finalità erano già presenti con sufficiente precisione alla mente di coloro che muovevano le fila di Cosa Nostra. Il disinganno susseguente alla stasi della trattativa e all’arresto di Riina faranno da detonatore ad una miscela già pronta e confezionata. E allora, altro che processo fondato sulle dichiarazioni di Massimo Ciancimino, altro che presunta trattativa, altro che teoremi accusatori di magistrati mossi da intenti politici. L’elemento di base, la piattaforma conoscitiva sulle quali si innesteranno le numerose successive acquisizioni per affermare che trattativa ci fu, è costituito proprio da quello che SOLO QUANDO DOPO LE PRIME DICHIARAZIONI DI GIOVANNI BRUSCA, GLI UFFICIALI VENNERO CHIAMATI AL PROCESSO DI FIRENZE, ESSI STESSI IN QUELLA SEDE AFFERMARONO , IN UN MOMENTO IN CUI CON LA TRACOTANZA CHE CON DIVERSI ASPETTI E’ CARATTERISTICA DI ENTRAMBI, ERANO CONVINTI DELLA LORO ASSOLUTA IMPUNITA’. E avevano anche in quel momento una giustificazione, avevano ragione in quel momento a sentirsi intoccabili, non a sentirsi rispettosi della legge e delle prerogative di un ufficiale giudiziario, ma SENTIRSI INTOCCABILI.
Quella convinzione trovava ragione d’essere nella incredibile inerzia della magistratura fronte a quello di cui quelle persone, Mori in particolare, si era già reso protagonista con la vicenda della mancata perquisizione del covo di Riina e con l’inganno alla Procura di Palermo circa la prosecuzione del servizio di osservazione sull’abitazione del Riina, con l’incredibile vicenda della mancata cattura di Nitto Santapaola a Barcellona, con il tragico epilogo della vicenda Ilardo dopo che il confidente aveva portato con mano il Ros alla possibilità non sfruttata di catturare Bernardo Provenzano… Quando il 27 gennaio 1998 Mori e De Donno si siedono davanti alla Corte di Assise di Firenze sono forti di tutto questo. Sono forti della vicenda che non era successo niente nei loro confronti sostanzialmente, neppure all’emergere della doppia refutazione sulla questione mafia-appalti. E in quel momento, forti di quel convincimento di impunità, seppur ovviamente omettendo il particolare decisivo della ricezione della trasmissione dell’elenco delle richieste di Riina, Mori e De Donno in quel momento forti del loro convincimento avevano parlato di trattativa per porre fine alle stragi e al muro contro muro tra lo Stato e la mafia. La verità è che in quel momento con l’instaurarsi dell’interlocuzione con Ciancimino si è venuta a determinare una situazione che dal punto di vista mafioso viene plasticamente descritta da ciò che Provenzano riferisce a Nino Giuffrè: Vito Ciancimino è in missione per conto di Cosa Nostra. Dal punto di vista chiamiamolo istituzionale, Mori e De Donno con l’avvallo e la copertura decisiva del comandante del Ros generale Subranni erano a loro volta in missione segreta per conto non del Governo, non dello Stato, ma di quella parte del potere rappresentato anche da uomini che rivestivano incarichi istituzionali, che deviando dagli interessi e dai comportamenti istituzionali VOLEVA ABBANDONARE LA LINEA DELLA CONTRAPPOSIZIONE FRONTALE SENZA SE E SENZA MA CON COSA NOSTRA PER ABBRACCIARNE UNA DI SEGRETA MEDIAZIONE. Erano in missione in funzione di porre fine o comunque ammorbidire quella strategia di Cosa Nostra che proprio la parte trattatista dello Stato aveva fatto finta di non comprendere quando il ministro Scotti era andato a riferire in Parlamento.
E QUELLA SEGRETA E INDECENTE MEDIAZIONE VENNA AUSPICATA, IDEATA, ORGANIZZATA E IN CONCRETO COLTIVATA DIETRO LE QUINTE SFRUTTANDO LA SPREGIUDICATEZZA DI UN UFFICIALE, COME IL COLONNELLO MORI, DA SEMPRE ABITUATO A MUOVERSI PIU’ NELL’OTTICA DI ESPONENTE SENZA SCRUPOLI DEI SERVIZI DI SICUREZZA ED IN SOSTANZIALE DISPREZZO DI QUEI PRINCIPI DI OSSERVANZA DELLA LEGGE, DEI CODICI, DI SUBORDINAZIONE FUNZIONALE ALL’AUTORITA’ GIUDIZIARIA IL CUI RISPETTO INCOMBE o dovrebbe incombere su ogni ufficiale di polizia giudiziaria. Mori dopo avere lasciato il servizio, da ufficiale dei Carabinieri ha continuato a muoversi in quell’ottica propria del periodo in cui era ai servizi. L’ufficiale di polizia giudiziaria è un’altra cosa. Non si comporta a prescindere dall’autorità giudiziaria, nascondendo le cose all’autorità giudiziaria, ingannando l’autorità giudiziaria. C’è un episodio emblematico. Una frase riferita dal Dottor Canali in quest’aula. Il dottor Canali dopo la sparatoria del 6 aprile 93 aveva necessità di avere un colloquio con i superiori di quegli ufficiali, Sergio De Caprio e De Donno, che avevano esploso i colpi di pistola giusto giusto il giorno dopo si era avuta la notizia della presenza di Santapaola. Canali aveva chiesto un incontro tramite il maresciallo Scibilia con il colonnello Mori per cercare di capire meglio la situazione. Dopo più rifiuti Scibilia gli riferisce che Mori gli ha risposto dicendo che non ha tempo da perdere per parlare con il magistrato. Il totale disprezzo, la totale ritenuta indifferenza, rispetto delle regole. Lì c’era stata una sparatoria, c’era un procedimento per tentato omicidio nei confronti di Imbesi Salvatore.
L’INTOCCABILITA’. IL MUOVERSI AL DI SOPRA E AL DI FUORI DELLA LEGGE PER SCOPI POLITICI QUALI ERANO QUELLI DI PORRE FINE AL MURO CONTRO MURO FRA LO STATO E LA MAFIA.
Una conferma indiretta ma ulteriormente significativa del fatto che il rapporto con Ciancimino non fosse finalizzato ad acquisire notizie bensì a trattare con la mafia, è costituito dalle risultanze dell’acquisizione che nel 2009 scaturì dall’ordine di esibizione che congiuntamente noi PM di Palermo e di Caltanissetta nello stesso giorno notificammo senza preavviso ai servizi. Andammo direttamente al Ros dei Carabinieri. Noi chiedevamo di consultare con quell’ordine di esibizione da una parte tutto quanto fosse contenuto negli archivi, rispettivamente dei servizi e del Ros sulla persona di Vito Ciancimino dei suoi stretti congiunti, e dall’altra parte sulla strage di Via D’Amelio. Ogni tipo di documentazione.
Un passo indietro. Della sentenza Tagliavia sulle stragi di Firenze, Roma e Milano, più recente, un’altra Corte, un altra istruzione dibattimentale, altri Pubblici Ministeri, voglio leggervi questo passaggio “Una trattativa ci fu e venne quantomeno inizialmente impostata su un do ut des -si mettano il cuore in pace coloro che continuano a parlare sempre di pseudo trattativa, potranno continuare a farlo legittimamente però avessero almeno l’onestà concettuale di dire che una sentenza definitiva afferma che una trattativa ci fu e venne inizialmente impostata su un do ut des- L’iniziativa fu presa dai rappresentanti delle istituzioni e non dagli uomini di mafia. l’obiettivo era trovare un terreno di intesa con Cosa Nostra per far cessare la sequenza delle stragi. Vito Ciancimino corleonese amico di gioventù di Riina e Provenzano fu ritenuta la persona più adatta a far giungere il messaggio alla cupola. La trattativa si interruppe con l’attentato di Via D’Amelio di fronte al persistere del programma stragista. Proprio per queste ragioni l’uccisione di Borsellino è nelle motivazioni e nella tempistica una variante anomala. Per tutto il resto del ’92 Cosa Nostra restò in attesa di riaprire i canali di comunicazione e sospese l’iniziativa offensiva per stimolare la riapertura dei contatti e dare prova di determinazione anche per reazione contro l’arresto di Riina. DAL ’93 SU DECISIONE DELL’ALA OLTRANZISTA RAPPRESENTATA DA BAGARELLA, GRAVIANO, MESSINA DENARO, FU AVVIATA LA STAGIONE DEGLI ATTENTATI. ESSENDOSI ORAMI ATTESO TROPPO TEMPO PER DARE ULTERIORE SMOSSA, SI PENSO’ DI DARE IL COLPO DI GRAZIA SECONDO L’IDEA DI GIUSEPPE GRAVIANO RIPORTATA NEL PROCESSO DA SPATUZZA. LA SCELTA DI COLPIRE DEI CARABINIERI ORIGINO’ ANCHE DAL RANCORE PER L’ABBANDONO DEL NEGOZIATO INTAVOLATO DAI CARABINIERI MORI E DE DONNO, INIZIATIVA ACCOLTA ENTUSIASTICAMENTE DA RIINA. TRATTATIVA, NEGOZIATO, INIZIATIVA DEI CARABINIERI E NON DI RIINA, TERMINI UTILIZZATI E CONSACRATI DA UNA SENTENZA DEFINITIVA. Per quello che qui ci interessa di più, siamo andati al Ros centrale a Roma. e ci è stato messo a disposizione tutto quanto c’era agli atti del Ros su Vito Ciancimino. E anche quello che in gergo viene definito fascicolo P, dove P sta per personale, fascicolo che non riguarda una vicenda processuale in particolare ma riguarda e raccoglie tutto quello che su un determinato soggetto è archiviato dalla struttura investigativa. Nella nostra esperienza abbiamo apprezzato la meticolosità estrema che ogni reparto dei Carabinieri mette nell’archiviare le notizie, anche quelle apparentemente più inutili. Qualsiasi cosa viene molto diligentemente, normalmente, conservata e archiviata nel fascicolo personale, soprattutto se quel fascicolo si riferisce ad una persona che, come Vito Ciancimino, nel ’92, era già una persona assolutamente nota, con una proiezione politica importante ma più volte arrestato e sotto processo per fatti di mafia. L’esame della documentazione è importante nella misura in cui consente di verificare ciò che non esiste. Ciò che era talmente segreto e fuorilegge da non potere essere nemmeno consacrato in un riservato appunto interno da contrarre agli atti quantomeno per lasciare una traccia di ciò che era stato fatto. Non c’è nulla. Una riga. Un’annotazione. Una relazione di servizio. Nulla che si riferisce ai rapporti, agli incontri fra mori, De Donno e Ciancimino nel 1992 a Roma. Vedremo che c’è un’annotazione postuma, si capisce fatta da Mori, anche se non è firmata, ma è postuma perché fa già riferimento agli interrogatori di Ciancimino resi nel ’93 all’autorità giudiziaria, che è una ricostruzione postuma, che si capisce perfettamente essere di molto successiva e probabilmente postuma rispetto alle dichiarazioni di Brusca nel ’97 al processo di Firenze. Ma nel ’92 quando per loro stessa ammissione si incontravano a casa di Vito Ciancimino dopo averlo intercettato per vedere di far venire meno il muro contro muro tra la mafia e lo Stato i carabinieri non lasciano nulla, non lasciano una traccia di quegli incontri. Di quegli incontri andavano a dire non certo ai magistrati, non certo alla DIA, non ai carabinieri. Andavano a dire a politici come Ferraro, Fernanda Contri, Luciano Violante e quant’altro. Ed è un dato che dobbiamo valutare appieno nella sua significatività volta a tutelare la segretezza di un rapporto illecito, alla luce delle prassi antitetiche normalmente seguite dal Ros. Il silenzio, il non lasciare traccia scritta, lo possiamo interpretare solo ed esclusivamente nell’ottica di una vicenda di cui non doveva restare alcuna traccia né in quel momento né per il futuro. E ciò proprio nella consapevolezza di una condotta, quella di trattare con il nemico, completamente estranea e contraria alla legge. Confrontate per cortesia il silenzio sul ’92 con la restante parte del fascicolo di Ciancimino con quello che è annotato rispetto agli anni 91, rispetto al periodo dal gennaio 93 in poi fino a quando Vito Ciancimino il 18 dicembre 92 torna in carcere. Vedrete che prima e dopo il 92 vengono conservate, archiviate anche le notizie più insignificanti. Tutto. Nel ’92 agli atti del Ros Vito Ciancimino non esiste. Veramente sembra rievocare quello che in quest’aula quel coraggioso e valoroso ufficiale, il colonnello Giraudo, ci ha detto circa il cosiddetto protocollo fantasma. C’è un appunto di Mori oggetto contatti con Vito Ciancimino fascicolo P che si capisce essere assolutamente postumo. Anche in quello che c’è, c’è qualcosa di interessante. Cosa scrive Mori riferendosi ai tempi passati. Ciancimino disse che i suoi interlocutori avevano accettato il dialogo che si sarebbe dovuto sviluppare con la sua mediazione partendo dalle seguenti irrinunciabili condizioni: trattativa da tenersi all’estero e quindi restituzione al Ciancimino che ne era stato privato, del passaporto. Mori, come dicevo, non solo ha parlato di trattativa ma lo ha anche scritto. Ci sono altri atti allegati dai quali si evince l’importanza del canale Ghiron. Con l’avvenuto arresto (Ciancimino venne arrestato per ordine della Corte di Assise di Palermo il 19 dicembre 92) ritenni che il dialogo con Ciancimino si fosse definitivamente interrotto. Invece nel gennaio 93, non ricordo se prima o dopo la cattura di Riina, ecco fui contattato dall’avvocato Giorgio Ghiron, difensore di Vito Ciancimino, il quale mi comunicò che il suo cliente desiderava incontrare me e il capitano De Donno. Abbiamo ancora degli allegati, importanti perché testimoniano che questo contatto Ciancimino Vito-Carabinieri, a prescindere dall’autorità giudiziaria di Palermo che invece nel febbraio 93 aveva iniziato gli interrogatori, si protrae nel tempo. Nel 95 Vito Ciancimino manda un telegramma al colonnello Mario Mori “urge incontrare lei insieme al capitano De Donno possibilmente in presenza procuratore Caselli oppure soli”. Con l’annotazione di Mori “informato l’avvocato Ghiron dell’intendimento dottor Caselli di incontrare il signor Ciancimino” Ancora, per dimostrare la possibilità di accedere al carcere nel quale era detenuto Vito Ciancimino da parte di Mori e De Donno al di là e al di fuori delle occasioni degli interrogatori con i magistrati vi segnalo un allegato dell’8 marzo 1994 conservato agli atti del Ros a firma Procuratore Caselli “A seguito mia nota del 25 gennaio 94 e successiva del 18 febbraio 94, mentre confermo autorizzazione a colloqui di personale del vostro ufficio con il signor Vito Ciancimino nonché la consegna al medesimo della documentazione oggetto della nota 25 gennaio 94, prego riferire allo stato degli atti con trasmissione al mio ufficio di copia del materiale da inoltrare o già inoltrato a Vito Ciancimino”. Da qui si deduce che comunque anche, non solo prima del primo interrogatorio, il colloquio investigativo che avevano fatto, ma anche nella costanza degli interrogatori fatti alla Procura di Palermo Mori e De Donno avevano perfettamente la possibilità di interloquire con Vito Ciancimino, di consegnare a lui materiale, di farsi consegnare materiale attraverso l’autorizzazione che il Procuratore Caselli gli aveva fatto. Qualche cenno ulteriore sul contenuto degli atti acquisiti al Ros nei fascicoli stavolta concernenti la strage di Via D’Amelio. Agli atti di quel fascicolo riservato spicca la presenza di annotazioni di notizie confidenziali su un attentato ritenuto imminente a Paolo Borsellino. Spicca la presenza di annotazioni relative a segnalazioni confidenziali fatte ai Carabinieri circa il coinvolgimento nella preparazione nell’esecuzione della strage di Pietro e Gaetano Scotto. Spicca la presenta di un’annotazione concernente notizie, leggo testualmente, informalmente acquisite a Palermo circa l’andamento e le prese di posizione dei singoli sostituti nel corso della prima riunione della DDA successiva alla strage, quindi c’è di tutto, pure quello che erano riusciti ad orecchiare sul contenuto di colloqui riservati e interni tra i magistrati di Palermo dopo la strage di Via D’Amelio.
Agli atti del Ros c’è tutto questo. MANCA COMPLETAMENTE OGNI, ANCHE GENERICO, RIFERIMENTO ALL’INCONTRO DEL 25 GIUGNO 1992 ALLA CASERMA CARINI DI PALERMO TRA IL DOTTOR BORSELLINO, MORI E DE DONNO. Del quale incontro l’autorità giudiziaria e in particolare per prima quella di Caltanissetta, venne a conoscenza dall’annotazione nell’agenda grigia del giudice, quella che non è scomparsa. Allora, voglio riflettere un attimo per quello che può riguardare questo processo e quello che è stato detto in questo processo, sul significato di questa assenza. Noi riteniamo che se, come gli imputati dicono, ma lo dicono dal 1997 in poi, quell’incontro avesse avuto come oggetto l’intenzione di Paolo Borsellino di approfondire il tema delle indagini di mafia-appalti dei Carabinieri, quell’assenza non si spiega. Se realmente il 25 giugno il colloquio tra Paolo Borsellino, Mori e De Donno avesse avuto ad oggetto l’interesse del giudice all’approfondimento di quell’inchiesta, Mori e De Donno avrebbero avuto non soltanto il dovere ma anche l’interesse professionale personale di rappresentare immediatamente il dato ai magistrati che si occupavano dell’indagine sulla strage e che quindi per determinarne la causale dovevano minuziosamente ricostruire le attività del Dottor Borsellino nel periodo immediatamente precedente. Se veramente Paolo Borsellino avesse detto “voglio approfondire l’indagine mafia-appalti, per favore consentitemi di farlo perché non mi fido di quello che stanno facendo i colleghi di Palermo”, il 20 luglio di mattina i Carabinieri si dovevano presentare ai magistrati di Caltanissetta per dire: attenzione giudici che Paolo Borsellino stava facendo questo. Tanto più che loro a quell’indagine attribuivano, giustamente, importanza. Niente. Silenzio. Nonostante gli ottimi rapporti con la Procura della Repubblica di Caltanissetta, perché poi ogni tanto esce fuori ma noi siamo stati zitti perché con la Procura di Palermo non c’erano buoni rapporti o per questo o per quell’altro motivo… no qui non c’è nessun tipo di dubbio. Avrebbero potuto e dovuto presentarsi per dire questo. Stanno zitti fino a quando nel 1997 dopo che si pente Siino e viene fuori nuovamente la polemica sulla famosa consegna abusiva del rapporto mafia-appalti sul possibile coinvolgimento di magistrati di Palermo, Mori e De Donno, De Donno in particolare, alla Procura di Caltanissetta chiamato per sapere cosa ne sapeva di quella cosa dice: guardate che Paolo Borsellino il 25 giugno ci ha detto di questa cosa di mafia-appalti. Come si fa a giustificare l’assenza di un’annotazione, se fosse stato questo il vero oggetto del dialogo o il vero scopo di Paolo Borsellino ammesso che abbia potuto fare rife (1) Facebook rimento al dialogo, mafia-appalti… E’ possibile che delle cose che assumono un rilievo importante non venga lasciata traccia? Voi potete mai credere -ora sta diventando quasi una moda dire io non ho detto niente allora perché nessuno mi chiamò- ma voglio dire, il vertice del Ros con il rapporto che avevano, anche di natura stretta, almeno fino ad un certo punto, almeno alcuni, con Paolo Borsellino, è possibile che se fosse stata vera quella versione dell’oggetto del colloquio del 25 giugno non lasciano una traccia scritta e soprattutto non si presenta l’indomani ai procuratori di Caltanissetta a riferire questa cosa?
Allora io ribadisco. La verità è un’altra su quell’incontro del 25 giugno 1992. Che ci fu. Poi nelle ore pomeridiane Paolo Borsellino andò a Casa Professa e PROBABILMENTE SEGNO’ ULTERIORMENTE LA SUA CONDANNA DICENDO CHE SI SAREBBE RECATO ALLA PROCURA DI CALTANISSETTA PER RIFERIRE FATTI CHE RITENEVA GRAVI E DOVEVA RIFERIRE. SPECIFICHERA’ POI AL GIORNALISTA DAVANZO CHE LO INTERVISTAVA SU QUESTO E CHE GLI CHIEDEVA MA LEI DOTTOR BORSELLINO ANDRA’ A CALTANISSETTA PER RIFERIRE LA SUA VERSIONE, PER RIFERIRE COSA PENSA DELLA CAUSALE DELL’OMICIDIO DEL GIUDICE FALCONE, E BORSELLINO RISPONDERA’ “NO. IO SONO UN MAGISTRATO E SO CHE UNA PERSONA INFORMATA DEI FATTI DEVE RIFERIRE FATTI. IO ANDRO’ A CALTANISSETTA PER RIFERIRE FATTI DI CUI SONO VENUTO A CONOSCENZA.”
Il 25 giugno del 1992 i Carabinieri del Ros non potevano certo riferire ai PM di Caltanissetta quale era stato l’oggetto vero, l’oggetto principale dell’interlocuzione con Borsellino, perché quell’oggetto prendeva spunto dal famoso anonimo Corvo due e quindi LAMBIVA TROPPO PERICOLOSAMENTE L’ARGOMENTO DELLA TRATTATIVA CHE MORI E DE DONNO AVEVANO GIA’ INTRAPRESO CON VITO CIANCIMINO. Perché quell’anonimo in sostanza nel suo nucleo centrale PARLAVA DI UN DIALOGO E DI UNA TRATTATIVA IN CORSO TRA UN’ALA DELLA DC IN PARTICOLARE RAPPRESENTATA COME ELEMENTO DI PUNTA DA MANNINO E SALVATORE RIINA.
Io vi prego di rileggere con attenzione le dichiarazioni, utilizzabili solo parzialmente, di uno dei testi i cui verbali sono stati prodotti, e per fortuna prodotti, anche questo signore poi è venuto ad avvalersi della facoltà di non rispondere. Mi riferisco a Carmelo Canale. Così come capiterà anche per Giovanni Ciancimino. Le dichiarazioni del 22 febbraio 2011, non c’è possibilità nemmeno di poter pensare che Canale sia stato suggestionato nelle sue risposte dalle domande perchè veniva chiamato come teste della difesa e rispondeva alle domande dei difensori degli imputati in quel processo. A proposito del 25 giugno Carmelo Canale dice “Un giorno eravamo al Tribunale, alla Procura. Dottor Borsellino mi chiese nella circostanza di incontrare ma molto riservatamente e all’interno non della Procura, ma della sezione anticrimine di Palermo l’allora colonnello Mori e il capitano De Donno, perché secondo quello che io ricordo e che mi riferì Dottor Borsellino, vi era una voce all’interno da parte dei colleghi suoi, -quindi dei magistrati, non mi ha detto il nome altrimenti lo avrei pure rivelato – una voce che dava il capitano De Donno come il compilatore di un anonimo, perché girava un anonimo. E allora io chiesi tramite un mio comandante della sezione di interpellare il colonnello Mori e di fissare un appuntamento con il Procuratore Borsellino. L’appuntamento ci fu poi Borsellino si guardò bene, né io gli chiesi, di dire di cosa avevano parlato. Ma il motivo per il quale il dottor Borsellino vuole incontrare riservatamente Mori e De Donno, non è certo il motivo dell’approfondimento dell’indagine mafia-appalti. Ma è il motivo relativo all’anonimo.
E’ L’ANONIMO NELLA CRUDA SOSTANZA FACEVA RIFERIMENTO AD UNA TRATTATIVA.Questi sono fatti. Questa è una versione, parziale, per carità, perché nessuno era presente all’interlocuzione tra il dottor Borsellino e gli ufficiali Mori e De Donno, ma noi sappiamo da un teste assolutamente -di cui non si può sospettare una vicinanza alla Procura, se non altro perché era stato processato dalla Procura di Palermo- il fatto è questo; borsellino chiede a Canale di attivarsi per l’incontro riservato con Mori per cercare di capire chi avesse compilato l’anonimo. E l’anonimo aveva ad oggetto sostanzialmente i contatti assolutamente impropri, fuorilegge rappresentati in questo modo, per trovare una soluzione al problema di politici -guarda caso Mannino e la mafia. Il 25 giugno 1992 si incontrano Mori e De Donno con Paolo Borsellino e si può ritenere sulla base di quello che dice Canale abbiano parlato anche dell’anonimo, mentre nello stesso momento, al di là dei teoremi fantasiosi dei Pubblici Ministeri, l’agenda di Contrada ci dice che Subranni e Contrada vanno a trovare il ministro Mannino nelle ore serali per discutere di Anonimo Corvo Due e situazione Sicilia
23.12.2020 Giornalismo sporco. Le false informazioni di Enrico Deaglio Denigrazione violenta, fango, bugie e falsità. Un metodo che viene applicato per screditare quei magistrati che, più di altri, cercano ed hanno cercato le verità scomode ed indicibili su stragi e delitti eccellenti. Attacchi diretti spesso provenienti da ambienti giornalistici e politici e, alle volte, persino dalla magistratura. Accadeva ieri, ai tempi di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Accade oggi, in particolare nei confronti del magistrato Nino Di Matteo, oggi consigliere togato indipendente al Csm, ma nel recente passato in primissima linea nella ricerca dei mandanti esterni delle stragi come sostituto procuratore a Caltanissetta, Palermo e alla Procura nazionale antimafia. I protagonisti di questa campagna mediatica di delegittimazione sono sempre gli stessi e ciclicamente tornano a sputare i propri veleni. Dopo gli attacchi del 2012 e del 2014 è il giornalista Enrico Deaglio a prestarsi al gioco sporco. Lo fa nel suo ultimo libro, “Patria 2010-2020” (ed. Feltrinelli) in cui analizza una serie di vicende inerenti il primo decennio del Ventunesimo secolo. Nel calderone di fatti e misfatti, tutt’altro che in buona fede, offre ai lettori e al pubblico italiano una serie di informazioni incomplete e mendaci sul lavoro del magistrato. Basta leggere alcuni passaggi del libro per comprendere i deliri delle contestazioni. Il consigliere del Csm viene accusato da Deaglio non solo di essere “coinvolto”, ma anche di aver “gestito il più grande depistaggio mai avvenuto sul delitto Borsellino”. E’ un fatto noto che lo stesso Di Matteo non ha ricevuto alcun avviso di garanzia dalla Procura di Messina, impegnata nelle indagini sul depistaggio contro i magistrati che al tempo indagarono sulla strage di via d’Amelio. Quella stessa Procura che ha chiesto l’archiviazione nei confronti dei magistrati Anna Maria Palma e Carmelo Petralia, accusati di calunnia aggravata, in quanto le indagini “non hanno consentito di individuare alcuna condotta posta in essere né dai magistrati indagati, né da altre figure appartenenti alla magistratura che abbiano posto in essere reali e consapevoli condotte volte ad inquinare le dichiarazioni, certamente false, rese da Vincenzo Scarantino”. Una richiesta di archiviazione, su cui dovrà decidere il Gip dopo l’opposizione delle parti civili e della famiglia Borsellino, che mette in evidenza quelle vicende ricostruite nel corso del processo per il depistaggio, in corso a Caltanissetta, contro i funzionari di polizia Bo, Mattei e Ribaudo. Lo abbiamo già detto in altre occasioni: è ovvio che i tasselli del mosaico sulla strage di via d’Amelio vanno messi al loro giusto posto, ma il depistaggio non rappresenta altro che un pezzo del puzzle che riempie i buchi neri sulle indagini ma non può rappresentare la chiave di risoluzione per capire o comprendere le verità nascoste nella loro interezza. In questo puzzle Nino Di Matteo non ha nulla a che fare con la vestizione del “pupo” Vincenzo Scarantino. E’ un fatto noto che si occupò solo marginalmente delle indagini poi scaturite nel “Borsellino bis” (dove entrò a dibattimento già avviato, ndr). Per questo motivo è più che mai necessario effettuare dei distinguo sull’operato dei vari magistrati e giudici che si sono occupati della strage di via d’Amelio. E se le parole hanno un peso affermare che un magistrato ha avuto un ruolo nel depistaggio significa dire che lo stesso ha collaborato con quei mandanti esterni che hanno voluto la morte di Paolo Borsellino. Tra questi certamente non vi è il pm Di Matteo che in più occasioni ha chiarito con fatti e carte alla mano, come fu valutata la vicenda Scarantino. Lo ha fatto ogni volta che è stato chiamato a riferire nelle sedi istituzionali competenti (nei processi, in Commissione Antimafia e davanti al Csm. Ma il travisamento della realtà di Deaglio prosegue anche su altri piani laddove volutamente non parla della sentenza trattativa Stato-mafia, che in primo grado ha portato alle condanne di boss, politici e uomini delle istituzioni, accennando solo all’assoluzione dell’ex ministro Mancino dal reato di falsa testimonianza e facendo riferimento a Massimo Cianciminoaccusando Di Matteo di essersi fatto “ugualmente fregare da un secondo pentito nello sgangherato processo della ‘Trattativa’”. Parole illogiche nel momento in cui la stessa Corte d’assise nelle motivazioni della sentenza ha spiegato come le dichiarazioni del figlio di don Vito abbiano avuto un “valore assolutamente neutro” nella sentenza di condanna. Deaglio afferma anche che Di Matteo avrebbe lasciato intendere che nelle famose telefonate tra l’ex ministro Mancino e l’ex Capo dello Stato, andate distrutte dopo il conflitto di attribuzione sollevato dal Quirinale contro la Procura di Palermo, vi fossero cose “anomale”. Partendo dal dato che mai Di Matteo ha fatto alcun cenno ai contenuti di quelle conversazioni, Deaglio dovrebbe rinfrescarsi la memoria, magari leggendo le motivazioni della sentenza, scritta dal Presidente Alfredo Montalto e dal giudice a latere Stefania Brambille, che per la posizione dell’ex ministro è divenuta definitiva dopo i mancati ricorsi della Procura e della Procura generale. Quelle telefonate, giustificate dal giornalista, vengono dichiarate come “irricevibili” dai giudici. “Ad un certo momento, – scrivevano i giudici – tra gli scopi perseguiti dal Mancino abbia assunto rilievo principale anche quello di sottrarsi ad un ulteriore confronto con l’Onorevole Martelli (relativo ai colloqui tra i carabinieri del Ros e Vito Ciancimino, che lo stesso Martelli avrebbe fatto a Mancino, ndr) nel timore che si potesse dare credito alla versione dei fatti di quest’ultimo e che da ciò potessero derivare conseguenze negative per lo stesso Mancino in tema di falsa testimonianza” come è poi effettivamente accaduto. Ma anche che “l’intendimento che ha mosso l’imputato sia stato quello di sottrarre, in qualche modo, alla Procura della Repubblica di Palermo le indagini sulla C.d. ‘trattativa Stato-Mafia”. “Non può esservi alcun dubbio – si aggiungeva – che le sollecitazioni del Mancino si pongono al di fuori di ciò che l’ordinamento consente”. Ma cosa aspettarsi da chi, come Deaglio, di quei processi non ha seguito neanche un’udienza? Noi a Palermo e a Caltanissetta, per le udienze del processo Stato-mafia, per il Borsellino quater o il Depistaggio c’eravamo e un’idea ce la siamo fatta sul campo. Senza pregiudizi. Quei pregiudizi che invece Deaglio ha nel momento in cui omette Di Matteo nell’elenco dei magistrati che “sono andati molto avanti nel lavoro, e hanno messo nel mirino Dell’Utri, Berlusconi, Raul Gardini”. Giustamente vengono fatti i nomi di Luca Tescaroli, Antonio Ingroia, Gabriele Chelazzi ed Augusto Lama, ma l’assenza di Di Matteo, (a cui possono aggiungersi anche altri come quello di Scarpinato) è tutt’altro che un lapsus. Eppure è noto che il magistrato palermitano istruì insieme ad Anna Maria Palma il “Borsellino ter”. In questo processo per la prima volta – congiuntamente con il processo sulle stragi del ’93 a Firenze,- si parlò di mandanti esterni sulla base delle dichiarazioni di pentiti di peso come Giovanni Brusca e Salvatore Cancemi. Non solo. Nelle motivazioni della sentenza si parla delle piste che portano al possibile collegamento tra l’accelerazione della strage di via d’Amelio e la trattativa Ciancimino-Ros dei Carabinieri; ma anche del fatto (così come riferiva Cancemi) che Riina citava Berlusconi e Dell’Utri come soggetti da appoggiare “ora e in futuro”, e rassicurava gli altri componenti della Cupola che fare quella strage sarebbe stato alla lunga “un bene per tutta Cosa nostra”. Partendo da quelle dichiarazioni proprio Di Matteo, assieme al collega Luca Tescaroli (oggi procuratore aggiunto a Firenze), aprì il fascicolo su “Alfa e Beta” (ovvero Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri). In pochi ricordano che nell’inchiesta nei confronti dell’ex senatore e l’ex premier Di Matteo e Tescaroli furono lasciati soli con uno scollamento di fatto con il resto della procura di Caltanissetta. Di Matteo indagò anche sulla presenza in Via d’Amelio di Bruno Contrada, che fu anche accusato di concorso in strage (e poi archiviato), e incriminò per false dichiarazioni ai pm l’allora funzionario di Polizia Roberto Di Legami. Una vicenda complessa ricostruita in più occasioni dallo stesso Di Matteo, quando è stato sentito nei procedimenti Borsellino quater e quello contro i poliziotti. A Palermo, con il processo Trattativa Stato-mafia, valorizzò le dichiarazioni di Gaspare Spatuzza, lo stesso collaboratore che aveva contribuito a riscrivere la storia della strage di via d’Amelio che era stato sentito già nel Processo d’appello per concorso esterno contro Dell’Utri, sull’incontro che ebbe a Roma con il bossGiuseppe Graviano al bar Doney in cui si fece riferimento a Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri come i soggetti grazie a cui Cosa nostra si era messa “il Paese nelle mani”. Si commentano da sole squallide considerazioni sul rafforzamento della scorta ricevuta dal magistrato a seguito della condanna a morte di Totò Riina. Affermazioni gravi nel momento in cui svariati collaboratori di giustizia hanno parlato, anche di recente, del progetto di attentato contro il pm. Un progetto che, scrivevano i pm nisseni nell’indagine archiviata “resta operativo”. Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande” diceva Giovanni Falcone in un’intervista rilasciata a Marcelle Padovani. E la solitudine e l’isolamento attorno ai magistrati passa anche da qui. Dall’operato di un giornalismo “sporco” capace solo di mistificare la verità tradendo il proprio fondamento. Giorgio Bongiovanni 23 Dicembre 2020 ANTIMAFIA DUEMILA
- Di Matteo querela Sgarbi, Ferrara, Facci e Deaglio: “Da loro aperta una campagna diffamatoria”
- Riina ordina: “Uccidete Di Matteo” (E adesso il CSM da che parte sta?)
27.12.2020 DEPISTAGGIO BORSELLINO / NINO DI MATTEO, L’INTOCCABILE. Osa documentare il comportamento di una delle icone antimafia, il pm Nino Di Matteo, soprattutto per quanto riguarda l’inchiesta sulla strage di via D’Amelio, poi la gestione del pentito taroccato Vincenzo Scarantino e quindi la fase del più clamoroso depistaggio giudiziario mai visto in Italia. E viene crocefisso da Antimafia Duemila, il sito ormai diventato la cassa di risonanza di tutta la Kasta dei magistrati di casa nostra. L’autore di cotanto scempio è uno dei pochi giornalisti di razza rimasti sul campo, Enrico Deaglio, fresco autore di “Patria 2010-2020”, edito da Feltrinelli. Non c’è bisogno di raccontare chi sia Deaglio, storico reporter e scrittore di sinistra, quella vera, quella che fino a qualche decennio fa esisteva, ed era forza militante. Ora viene accusato di lesa maestà, per aver osato ricostruire, in modo dettagliato e ‘storico’, la stagione delle false inchieste e dei depistaggi istituzionali.
DAGLI ALL’UNTORE DEAGLIOLe frasi utilizzate da Antimafia Duemila si commentano da sole. Eccone alcune, fior tra fiori. Teniamo presente che l’articolo (sic) di cui parliamo è firmato dal direttore, Giorgio Bongiovanni” e che si intitola “Giornalismo sporco – Le false informazioni di Enrico Deaglio”.Un incipit che è già tutto un programma. “Denigrazioni violenta, fango, bugie e falsità”. Non ha peli sulla lingua, il prode Bongiovanni, che così prosegue nella farneticante invettiva: “Un metodo che viene applicato per screditare quei magistrati che, più di altri, cercano ed hanno cercato le verità scomode ed indicibili su stragi e delitti eccellenti. Attacchi diretti spesso provenienti da ambienti giornalistici e politici e, alle volte, persino dalla magistratura. Accadeva ieri, ai tempi di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Accade oggi, in particolare, nei confronti del magistrato Nino De Matteo, oggi consigliere togato indipendente al Csm, ma nel recente passato in primissima linea nella ricerca dei mandanti esterni delle stragi, come sostituto procuratore a Caltanissetta, Palermo e alla Procura nazionale antimafia”. Una sola considerazione. È una totale bestemmia paragonare le figure di Falcone e Borsellino a quella di Di Matteo. Un oltraggio. Significa calpestare letteralmente e scientemente la memoria dei due eroi trucidati a Capaci e via D’Amelio. Continua l’autore delle bestemmie: “I protagonisti di questa campagna mediatica di delegittimazione sono sempre gli stessi e ciclicamente tornano a sputare i propri veleni. Dopo gli attacchi del 2012 e del 2014 è il giornalista Enrico Deaglio a prestarsi al gioco sporco. Lo fa nel suo ultimo libro, ‘Patria 2010-2020’, in cui analizza una serie di vicende inerenti il primo decennio del Ventunesimo secolo “. Prosegue la farneticante analisi firmata Bongiovanni: “Nel calderone di fatti e misfatti, tutt’altro che in buona fede, offre (Deaglio, ndr) ai lettori e al pubblico italiano una serie di informazioni incomplete e mendaci sul lavoro del magistrato (Di Matteo, ndr). Basta leggere alcuni passaggi del libro per comprendere i deliri delle contestazioni. Il consigliere del Csm viene accusato da Deaglio non solo di essere ‘coinvolto’, ma anche di ‘aver gestito il più grande depistaggio mai avvenuto sul delitto Borsellino’”. Deaglio, quindi, viene accusato di aver semplicemente raccontato un fatto storico: quel depistaggio che è ormai sotto gli occhi di tutti e accertato dalla stessa magistratura. Ma c’è chi non vede, come Buongiovanni: anzi non vuol vedere quella realtà (documentale) che è alla portata (e sotto gli occhi) di tutti.
TRE GIGLI IMMACOLATINon è certo finita, la farneticazione continua: “E’ un fatto noto che lo stesso Di Matteo non ha ricevuto alcun avviso di garanzia dalla procura di Messina, impegnata nelle indagini sul depistaggio contro i magistrati che al tempo indagarono sulla strage di via D’Amelio. Quella stessa Procura che ha chiesto l’archiviazione nei confronti dei magistrati Anna Palma e Carmelo Petralia, accusati di calunnia aggravata, in quanto ‘le indagini non hanno consentito di individuare alcuna condotta posta in essere né dai magistrati indagati, né da altre figure appartenenti alla magistratura che abbiano posto in essere reali e consapevoli condotte volte ad inquinare le dichiarazioni, certamente false, rese da Vincenzo Scarantino’. Una richiesta di archiviazione, su cui dovrà decidere il Gip dopo l’opposizione delle parti civili e della famiglia Borsellino, che mette in evidenza quelle vicende ricostruite nel corso del processo per il depistaggio in corso a Caltanissetta, contro i funzionari di polizia Bo, Mattei e Ribaudo”. Lasciamo ancora spazio ai pensieri in libertà firmati Bongiovanni. Scrive il Vate: Lo abbiamo già detto in altre occasioni: è ovvio che i tasselli sulla strage di via D’Amelio vanno messi al loro giusto posto, ma il depistaggio non rappresenta altro che un pezzo del puzzle che riempie i buchi neri sulle indagini ma non può rappresentare la chiave di risoluzione per capire o comprendere le verità nascoste nella loro interezza. In questo puzzle Nino Di Matteo non ha nulla a che fare con la vestizione del ‘pupo’ Vincenzo Scarantino. E’ un fatto noto che si occupò solo marginalmente delle indagini poi scaturite nel ‘Borsellino bis’, dove entrò a dibattimento già avviato”.
I DISTINGUO DEL VATE “Per questo motivo – argomenta il neo profeta dei processi Borsellino – è più che mai necessario effettuare dei distinguo sull’operato vari magistrati e giudici che si sono occupati della strage di via D’Amelio. E se le parole hanno un peso, affermare che un magistrato ha avuto un ruolo del depistaggio significa dire che lo stesso ha collaborato con quei mandanti esterni che hanno voluto la morte di Paolo Borsellino. Tra questi non vi è certamente il pm Di Matteo, che in più occasioni ha chiarito con fatti e carte alla mano come fu valutata la vicenda Scarantino”. Con ogni probabilità il solerte Bongiovanni non ha letto la penosa verbalizzazione resa dal suo idolo Di Matteo in occasione del processo di Messina che vede alla sbarra i tre poliziotti accusati di aver vestito e addobbato il ‘pupazzo’ Scarantino. Così come non avrà letto l’altra testimonianza resa del pm Anna Maria Palma che per primo – insieme a Carmelo Petralia – ha ‘gestito’ quel pentito taroccato. E quella, altrettanto penosa, dello stesso Petralia. Un vero tris d’assi. E a poco vale sostenere che Di Matteo è entrato in scena solo in un secondo momento, alcuni mesi dopo: non ha forse poi condiviso con i due colleghi tutto il seguito processuale? E poi. Non ha mai letto, il sempre solerte Bongiovanni, una delle tante parole di fuoco pronunciate dalla figlia di Paolo, Fiammetta Borsellino, durissime contro i tre magistrati, allo stesso modo, senza operare alcun distinguo rispetto a quell’icona antimafia che risponde al nome di Nino Di Matteo? Potete leggere tre inchieste della Voce dedicate ai pm cliccando sui link in basso. Per ricostruire la verità storica di quello scientifico depistaggio che non è solo parte di un puzzle, ma ne rappresenta una parte fondamentale. Perché si tratta – ricordiamolo bene – di un Depistaggio di Stato. 27 Dicembre 2020. di: Andrea Cinquegrani LA VOCE DELLE VOCI
Fiammetta Borsellino a Di Matteo: «Di mio padre non avete capito nulla»Fiammetta Borsellino e Nino Di Matteo. La memoria e il teorema. Che tuttavia non coincidono. Piuttosto divergono. L’ex pm, oggi al Csm, ripete i suoi convincimenti a verbale a Caltanissetta. Depone al processo sui depistaggi per la strage di via D’Amelio, l’attentato a Paolo Borsellino. Ma la figlia del magistrato assassinato dalla Mafia non ci sta. E non tace. Anzi, lo dice chiaro e tondo: «Mi sento delusa, amareggiata e arrabbiata». La tesi di Di Matteo è nota: 1) l’attentato non fu solo Mafia; 2) i depistaggi ci sono stati; 3) Scarantino non era del tutto credibile; 4) la sparizione dell’agenda rossa di PaoloBorsellino; 5) il possibile ruolo dei Servizi o di parte di essi. Tutto già noto e ribadito adesso in udienza. Ma, appunto, la figlia del giudice ammazzato non mostra alcuna soddisfazione.
L’accusa di Fiammetta Borsellino. “Mi veniva quasi di mettermi in gabbia in quell’aula di giustizia – dice fuori dall’aula- mi sento ingabbiata. Penso che c’è un’enorme difficoltà a fare emergere la verità. Non ho constatato da parte di nessuno una volontà di dare un contributo al di là delle proprie discolpe personali per capire quello che è successo e questo mi fa molto male. Io penso che di mio padre non abbia capito niente nessuno di questi magistrati“. In effetti quella dell’ex pm è stata la riproposizione di un teorema. Che da anni ha l’onore delle prime pagine. E che però non ha ancora portato alla verità.
Di Matteo: più filoni di indagine. “Noi avevano chiara una cosa: rispetto ai programmi originari di Cosa nostra di uccidere Paolo Borsellino era intervenuto un fatto improvviso di accelerazione delle stragi mafiose” ha detto Di Matteo. Che faceva parte del pool che indagava a Caltanissetta sulla strage di Via D’Amelio. “C’era una fretta di uccidere Borsellino. Parallelamente si attivarono una serie di investigazioni che riguardavano alcune anomalie o alcune acquisizioni relative alla strage di Capaci o di presenze di soggetti diversi da coloro che erano stati individuati all’interno di Cosa nostra”. “Sulle causali ci furono più filoni – dice ancora il consigliere del Csm – uno dei quali si cominciò a concretizzare nell’ultimo periodo che ero a Caltanissetta”. Cita anche il processo trattativa Stato-mafia, “un altro filone era quello del rapporto mafia-appalti, però noi avevamo chiara una cosa, cioè che rispetto ai programmi originari della mafia era intervenuto un fatto improvviso di accelerazione delle stragi”.
«Scarantino, affidabilità limitata». “Noi, alla fine, su Vincenzo Scarantino abbiamo dato un giudizio di attendibilità assai ma assai limitata, perché nel processo ter non lo abbiamo neppure inserito nella lista dei testimoni, nemmeno lo abbiamo voluto inserire nella lista dei testimoni. E nei confronti di chi era accusato esclusivamente da Scarantino abbiamo chiesto l”assoluzione di tre dei revisionati. Questo non viene detto da nessuno”.
“Ipotesi di coinvolgimento dei Servizi” nell’assassinio di Borsellino. All’epoca l’ipotesi investigativa era che ci fosse un coinvolgimento dei Servizi di sicurezza nelle stragi. Ma noi non ci siamo fatti aiutare dai Servizi, noi abbiamo indagato sui Servizi o almeno su parte di questi. E alcuni soggetti li abbiamo anche mandati a processo”. Di Matteo, rispondendo alle domande dell’avvocato di parte civile, Rosalba Di Gregorio, ha ribadito di avere indagato “sui servizi, o su parte di essi” ma di non avere collaborato con essi nelle indagini. Gli imputati per calunnia aggravata sono i poliziotti Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, ex componenti del gruppo ‘Falcone-Borsellino’ della Squadra mobile di Palermo che si occupò di gestire proprio Vincenzo Scarantino.
La replica della figlia di Borsellino. “Sembra che tutto quello che riguarda la vicenda di Scarantino e del depistaggio sia avvenuto per le virtù dello spirito santo – dice – Sembra che la vicenda Scarantino si solo un segmento molto piccolo di una indagine, anzi ha dato una incidenza molto importante. Ci si riempie la Bocca del lavoro in Pool, ma tutte le volte in cui si chiede come mai non sapessero nulla dei colloqui investigativo cadono tutti dalle nuvole”. “Tutti dicono che sono venuti in un momento successivo – conclude – ma ciò non vuol dire non venire a sapere ciò che accadeva prima”. IL SECOLO D’ITALIA 3 febbraio
Processo depistaggio, l’accusa di Fiammetta Borsellino: “Delusa dalla deposizione del pm Di Matteo”.Il consigliere del Csm ha deposto al processo sulle indagini della strage di via D’Amelio che vede alla sbarra tre poliziotti: Mario Bo, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei
“Penso ci sia una enorme difficoltà a fare emergere la verità – è il nuovo atto d’accusa di Fiammetta Borsellino, al termine dell’udienza del processo per il depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio – Non ho constatato da parte di nessuno la volontà di dare un contributo, al di là la delle proprie discolpe, a capire cosa è successo”. Oggi, a Caltanissetta, ha deposto come testimone l’ex pm Nino Di Matteo, oggi consigliere del Csm. “Sembra che quello che riguarda Scarantino e il depistaggio delle indagini sia avvenuto per virtù dello spirito santo – dice la figlia del magistrato assassinato nel 1992 al termine dell’udienza – Si tende a stigmatizzare la vicenda Scarantino come un piccolo segmento di una questione più grande. Io non penso che quello di Scarantino sia un segmento così piccolo”. E ancora: “Ci si riempie la bocca con la parola pool ma io di pool non ne ho visto nemmeno l’ombra – aggiunto Fiammetta Borsellino – perché quando ai magistrati si chiede come mai non sapessero dei colloqui investigativi, della mancata audizione di Giammanco, cadono dalle nuvole”.
Un riferimento anche alla deposizione di Di Matteo: “Ho ascoltato molto attentamente le cose che ha detto e rimango sempre stupita da questa difesa oltre che personale a oltranza di questi magistrati e poliziotti che si sono occupati dell’indagine sulla strage. Ma sembrano tutti passati lì per caso”.
La deposizione di Di Matteo. “C’erano dubbi molto seri sulla credibilità di Vincenzo Scarantino”. A dirlo è il consigliere del Csm Nino Di Matteo deponendo al processo sul depistaggio delle indagini sulla strage di Via D’Amelio che vede alla sbarra tre poliziotti, Mario Bo, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei. I dubbi su Scarantino, secondo Di Matteo, che fece parte del pool sulle stragi, “non era tanto riferito ai primi verbali” resi, ma “sulla concretezza su quanto dichiarato” in riferimento a collaboratori come Mario Santo Di Matteo e Salvatore Cancemi.
“Io non ho mi partecipato a una riunione, a un incontro tra colleghi in cui si facesse riferimento sulle indagini, di cui sapevo solo dalle cronache dei giornali, fino al novembre 1994. Siamo a due anni e sei mesi dalla strage di via D’Amelio, quello che io considero l’inizio di un possibile depistaggio con il furto dell’agenda rossa”, ha detto Di Matteo. “Due anni e 4 mesi dopo l’arresto di Scarantino che come sapete è venuto dopo altre indagini, mi è stato detto di occuparmi anche delle stragi. In particolare di quella di via d’Amelio”.
“Nel mio ricordo ad occuparsi delle indagini e della gestione di Vincenzo Scarantino – ha aggiunto – c’era sicuramente Mario Bo e due ispettori, molto bravi, Ricerca e Maniscalchi. Ribaudo e Mattei, nel mio ricordo avevano un ruolo marginale”.
Di Matteo ricorda di avere indagato “fondo sulla presenza di Bruno Contrada in via D’Amelio dopo la strage”. Dice: “Fui io a riaprire le indagini su di lui sulla base delle dichiarazioni del pentito Elmo che ci aveva detto di averlo visto allontanarsi dal teatro dell’attentato con dei documenti in mano. A quel punto lessi tutto il vecchio fascicolo, acquisii le sue agende”.
Contrada era il numero tre del Sisde, il servizio segreto civile. A dicembre, venne arrestato dai pm di Palermo per concorso esterno in associazione mafiosa. “Vedendo quei vecchi atti – dice Di Matteo – mi accorsi che c’era stato un ufficiale del Ros, Sinico, che era andato in procura a Palermo e aveva riferito ad alcuni magistrati di aver saputo che la prima volante accorsa dopo l’esplosione aveva constatato la presenza di Contrada – ha aggiunto – I poliziotti aveva fatto una relazione che poi era stata strappata in questura. I colleghi avevano preso a verbale Sinico e mandato tutto a Caltanissetta, dove Sinico si era rifiutato di rivelare la sua fonte”.
“Si avviò una indagine molto spinta sui servizi segreti. – ha spiegato – Io stavo per chiedere il rinvio a giudizio del carabiniere che, poi, si decise a fare il nome della sua fonte che indicò in Roberto Di Legami, funzionario di polizia. Di Legami negò tutto. Rinviato a giudizio fu poi assolto”.
Di Matteo parla anche delle indagini del pool di Caltanissetta: “Seppi delle note della Boccassini e delle sue osservazioni critiche sulla gestione del pentito Scarantino solo tra il 2008 e il 2010 – ha aggiunto l’ex pm di Palermo -. Con la collega Boccassini non ho mai avuto la possibilità e la fortuna di parlare non solo delle stragi ma di indagini in generale. Per me era ed è un un magistrato da stimare moltissimo, ma con la quale la conoscenza si limitava a incontri al bar”.
“All’epoca delle indagini sulle stragi i collaboratori di giustizia vedevano nell’ufficio del pubblico ministero il luogo a cui rivolgersi per risolvere problemi spesso logistici. In quel periodo mi è capitato che mi chiamassero Mutolo e Cancemi ma nessuno si è mai sognato di dirmi cose inerenti alle dichiarazioni. L’attività di preparazione dei collaboratori di giustizia significava solo dare indicazioni ad esempio sul contegno da tenere in aula, sull’evitare polemiche coi legali, questo era preparare ed era una prassi seguita da tutti” 03 FEBBRAIO 2020 La Repubblica
20.2.2021 L’ACCUSA DI FIAMMETTA BORSELLINO: “NESSUNA FIDUCIA NEI PM ANTIMAFIA E NEL CSM, HANNO DEPISTATO”«Pur essendo passati ormai tanti anni, non riesco ancora a farmene una ragione. Non mi capacito del fatto che nessuno abbia mai voluto fare luce fino in fondo sul perché venne archiviato il dossier “mafia-appalti” a cui mio padre teneva moltissimo. E ciò per me è come un tarlo che si insinua nella mente, giorno e notte», dichiara Fiammetta Borsellino, figlia di Paolo, il magistrato ucciso dalla mafia a Palermo il 19 luglio del 1992. Il dossier mafia-appalti venne redatto dai carabinieri del Raggruppamento operativo speciale (Ros) dell’allora colonnello Mario Mori. Nel dossier erano indicate tutte le principali aziende italiane che trattavano con la mafia. L’indagine era “rivoluzionaria”, affrontando per la prima volta il fenomeno mafioso da una diversa prospettiva. I carabinieri avevano scoperto che Cosa nostra, anziché imporre il pagamento di tangenti estorsive agli imprenditori, così come faceva tradizionalmente, era diventava essa stessa imprenditrice con società commerciali riferibili ad appartenenti all’organizzazione che avevano assunto e realizzato, con modalità mafiose, commesse pubbliche, principalmente nel settore delle costruzioni. Al termine di una attività investigativa durata anni, i carabinieri del Ros depositarono il 20 febbraio 1991 alla Procura di Palermo l’informativa denominata “Angelo Siino + 43”. Il fascicolo, circa 900 pagine, era assegnato a Giuseppe Pignatone, all’epoca pm della Procura del capoluogo siciliano. Di queste quarantaquattro persone, il 10 luglio successivo, su richiesta della Procura di Palermo, ne vennero arrestate sei. Fra loro, Siino, definito il “ministro dei lavori pubblici” di Cosa nostra ma, più precisamente, dei corleonesi di Totò Riina, poi diventato collaboratore di giustizia, e Giuseppe Li Pera, un geometra, capo area del colosso delle costruzione Rizzani De Eccher. Il fascicolo, a novembre del 1991, venne tolto a Pignatone dal procuratore Pietro Giammanco e assegnato ai pm Guido Lo Forte e Roberto Scarpinato. I due magistrati, il 13 luglio dell’anno successivo, firmano la richiesta di archiviazione del fascicolo. Il giorno dopo, 14 luglio 1992, si tenne una riunione fra tutti i pm della Procura di Palermo. Giovanni Falcone era stato assassinato da circa due mesi, il 23 maggio, e Borsellino in qualità di neo procuratore aggiunto affrontò il tema del fascicolo mafia-appalti, rimproverando i colleghi di averlo sottovalutato, senza evidentemente sapere che era stata già avanzata la sua richiesta di archiviazione. La mattina del 19 luglio, alle sette del mattino, Borsellino ricevette una telefonata da Giammanco nel corso della quale lo avvisava che sarebbe stato delegato alla conduzione dell’indagine sul fascicolo mafia-appalti, una delega che, senza ragione apparente, fino a quel momento gli era stata negata. La circostanza della telefonata emerse da una testimonianza delle moglie Agnese nel 1995. Alle ore 16.58 successive, una Fiat 126 piena di tritolo fece saltare in aria a via D’Amelio la sua auto di scorta, uccidendolo insieme ai cinque agenti di scorta. Il 22 luglio 1992 la richiesta di archiviazione del fascicolo mafia-appalti venne depositata formalmente. E alla vigilia di Ferragosto arrivò la definitiva l’archiviazione da parte del gip. Fiammetta Borsellino, la sentenza del processo di Caltanissetta ha affermato che l’indagine mafia appalti aveva impresso un’accelerazione alla morte di suo padre. Esatto. Mentre nel processo Trattativa Stato-mafia di Palermo questo aspetto è stato escluso, negando che suo padre avesse un interesse al dossier mafia appalti. E non è vero. Mio padre era convinto della bontà dell’indagine per il suo respiro nazionale. Mi riferisco, ad esempio, agli interessi di Totò Riina nella Calcestruzzi spa. Alla Procura di Palermo non erano tutti della stessa opinione di suo padre. C’è la testimonianza del dottor Scarpinato che riferisce del profilo regionale dell’indagine quando era evidente invece che ci fossero interessi particolari anche nella Penisola. L’incongruenza fra le due sentenze, quella del processo Trattativa Stato-mafia e quella del Borsellino quater pare evidente. Una incongruenza che destabilizza. Non ha fiducia nei giudici? Non ho fiducia in coloro che si proclamano magistrati antimafia e hanno condotto procedimenti giudiziari che contrastano in maniera così manifesta. E non ho fiducia in chi dovrebbe fare chiarezza. Anche sul piano morale. Ad esempio? In chi non si è accorto degli errori grossolani sul depistaggio della morte di mio padre. E nel Consiglio superiore della magistratura. Perché non ha fiducia nel Csm? Il Csm si è dato in questi anni sempre la zappa sui piedi, tutelando interessi di tipo clientelare e di carriera. Fu solerte quando si trattò di mettere sotto processo disciplinare mio padre per aver denunciato pubblicamente lo smantellamento del pool antimafia ed è stato inerte nei confronti di coloro, organi inquirenti e giudicanti, che in qualche modo hanno contribuito, avendo parte attiva o passiva, al più grande depistaggio della storia giudiziaria del Paese. Gli atti che riguardano suo padre sono stati desecretati dal Csm. Mi pare una operazione di facciata senza alcun senso se poi ci ferma e non si accertano le condotte indegne tenute dai magistrati dopo la morte di mio padre. Non mi importa nulla della desecretazione se non si fanno accertamenti seri.
Prova un po’ di amarezza? Anche. Soprattutto che debbano prendere la parola su mio padre persone distantissime da lui e che hanno indagato su altre piste
Vuole fare un nome? Nino Di Matteo.
Perché proprio lui? A parte la vicenda del processo Trattativa Stato-mafia condotto proprio da Di Matteo, non può considerarsi erede di mio padre chi non pone in essere i suoi insegnamenti e anche quelli di Giovanni Falcone. Mio padre, ad esempio, non avrebbe mai scritto o presentato libri sui suoi processi in corso.
Che tipo era suo padre? Mio padre era una persona di grande sobrietà, faceva solo il proprio. IL RIFORMISTA Paolo Comi – 20 e 24 Febbraio 2021
24.2.2021 Fiammetta Borsellino: Eredi di mio padre? Adesso basta!
Ha ragione la figlia del Giudice Paolo Borsellino nel chiedere conto e ragione del perché venne archiviato il dossier “mafia-appalti”. E lo fa con uno dei pochi giornali che coraggiosamente pubblica le notizie “scomode” (Il Riformista). Nel corso dell’intervista rilasciata a Paolo Comi, Fiammetta Borsellino ripercorre la storia dell’inchiesta mafia-appalti, voluta da Giovanni Falcone, e condotta dal Ros di Mario Mori, che nel febbraio del 1991 portò a un’informativa di circa 900 pagine su società riconducibili a “Cosa nostra”.
Un’inchiesta “rivoluzionaria”, la definisce Fiammetta Borsellino, nella quale suo padre credeva a tal punto da chiedere – dopo la strage di Capaci – che venisse a lui stesso assegnata, tanto da incontrare segretamente, il 25 giugno 1992, Mori e De Donno, ai quali chiese di organizzare un gruppo speciale di carabinieri per riaprire l’inchiesta sotto la sua direzione.
Il fascicolo – afferma Fiammetta Borsellino – “era assegnato a Giuseppe Pignatone, all’epoca pm della Procura del capoluogo siciliano. Di queste quarantaquattro persone, il 10 luglio successivo, su richiesta della Procura di Palermo, ne vennero arrestate sei. Fra loro, Siino, definito il “ministro dei lavori pubblici” di Cosa nostra ma, più precisamente, dei corleonesi di Totò Riina, poi diventato collaboratore di giustizia, e Giuseppe Li Pera, un geometra, capo area del colosso delle costruzione Rizzani De Eccher. Il fascicolo, a novembre del 1991, venne tolto a Pignatone dal procuratore Pietro Giammanco e assegnato ai pm Guido Lo Forte e Roberto Scarpinato”.
Quello che accadde dopo ha dell’inverosimile. Come racconta la figlia del giudice, il 14 luglio 1992 si tenne una riunione fra tutti i pm della Procura di Palermo, e Borsellino, in qualità di neo procuratore aggiunto, affrontò il tema del fascicolo mafia-appalti, rimproverando i colleghi di averlo sottovalutato.
Nessuno informò Borsellino che appena il giorno prima i due magistrati ai quali era stata assegnata l’indagine, avevano firmato la richiesta di archiviazione.
Improvvisamente, la mattina del 19 luglio (lo stesso giorno della strage di Via D’Amelio) alle sette del mattino, Borsellino ricevette una telefonata dall’allora procuratore Giammanco che lo avvisava che sarebbe stato delegato alla conduzione dell’indagine sul fascicolo mafia-appalti, una delega che, senza ragione apparente, fino a quel momento gli era stata negata.
Perché Giammanco gli comunicò la delega alle indagini, soltanto dopo che per le stesse era stata firmata la richiesta di archiviazione? Non trascorsero tre giorni dall’uccisione di Borsellino, che la richiesta di archiviazione del fascicolo mafia-appalti venne depositata formalmente, per essere definitivamente archiviata dal gip alla vigilia di Ferragosto.
A nessuno venne il dubbio che tra le concause dell’uccisione di Borsellino potesse esserci proprio l’indagine su mafia-appalti? Pare proprio di no, visto che le indagini seguirono altre piste, come nel caso delle “rivelazioni” del falso pentito Vincenzo Scarantino, per poi attribuire l’accelerazione dell’uccisione del giudice alla cosiddetta Trattativa Stato-mafia, che vede imputati quei vertici del Ros (Mori e De Donno) che per Giovanni Falcone avevano lavorato al dossier mafia-appalti, e che per conto di Borsellino sarebbero stati disposti a riprendere quell’indagine.
Non usa mezzi termini Fiammetta Borsellino nell’evidenziare l’incongruenza tra il processo Trattativa Stato-mafia e la sentenza del Borsellino quater, che proprio in mafia-appalti individua il motivo – quantomeno dell’accelerazione – del progetto stragista di “Cosa nostra” che portò all’uccisione del Giudice Borsellino e della sua scorta.
Alla domanda del giornalista se ha fiducia nei giudici, la figlia di Paolo Borsellino risponde che non soltanto non ha fiducia in coloro che si proclamano magistrati antimafia e hanno condotto procedimenti giudiziari che contrastano in maniera così manifesta, ma non ne ha neppure in chi dovrebbe fare chiarezza. Anche sul piano morale.
Sul banco degli imputati delle valutazioni della figlia del giudice, tutti coloro i quali non si sono accorti degli errori grossolani sul depistaggio della morte del padre, e il Consiglio superiore della magistratura, “inerte nei confronti di coloro, organi inquirenti e giudicanti, che in qualche modo hanno contribuito, avendo parte attiva o passiva, al più grande depistaggio della storia giudiziaria del Paese”.
Tranciante il giudizio su Nino Di Matteo, uno degli autoproclamati eredi di Paolo Borsellino, del quale afferma testualmente:
“A parte la vicenda del processo Trattativa Stato-mafia condotto proprio da Di Matteo, non può considerarsi erede di mio padre chi non pone in essere i suoi insegnamenti e anche quelli di Giovanni Falcone. Mio padre, ad esempio, non avrebbe mai scritto o presentato libri sui suoi processi in corso.
Mio padre era una persona di grande sobrietà, faceva solo il proprio dovere: ricercare la verità senza fare teoremi”.
C’è molta amarezza nelle parole di Fiammetta Borsellino. Un’amarezza ancor più comprensibile e condivisibile nel rileggere le dichiarazioni di Di Matteo, riportate nella richiesta di archiviazione dell’inchiesta a carico degli ex pm Anna Maria Palma e Carmelo Petralia, da parte della Procura di Messina, dove si legge che il 22 aprile del 2009 Nino Di Matteo manifestò la sua contrarietà a che Gaspare Spatuzza (il collaboratore di giustizia che smentì clamorosamente Scarantino, dimostrando che era un falso pentito) usufruisse del piano provvisorio di protezione. Sia perché avrebbe attribuito alle sue dichiarazioni un’attendibilità che ancora non avevano, sia perché le sue dichiarazioni, sebbene non ancora completamente riscontrate, avrebbero rimesso in discussione le ricostruzioni e le responsabilità consacrate dalle sentenze ormai divenute irrevocabili.
Ovvero le condanne ingiustamente emesse a seguito delle dichiarazioni del falso pentito Vincenzo Scarantino.
Fu dunque così facile credere a Scarantino, e così difficile accettare l’amara verità che il falso pentito aveva mentito? Di Matteo temeva (e lo si legge in fondo al documento) il discredito delle Istituzioni dello Stato, poiché l’opinione pubblica avrebbe potuto ritenere che la ricostruzione delle responsabilità di quei fatti fosse stata affidata a falsi collaboratori di giustizia.
Oggi, quelle stesse Istituzioni dello Stato, di quali credito godono da parte dell’opinione pubblica che ha appreso, come dato di certezza, quello che Di Matteo temeva potesse ritenere?
Che dire, inoltre, che si fosse posto in secondo piano che degli innocenti potessero marcire in carcere condannati ingiustamente all’ergastolo, e che il depistaggio potesse ancora proseguire? Stendiamo un velo…
Caltanissetta è come un fiume in piena che ha rotto gli argini. Troppe verità sono emerse. Verità che per alcuni sarebbe stato molto meglio rimanessero sepolte da tonnellate di menzogne orchestrate per decenni da ignoti, o frutto dell’incapacità di tanti altri. Tutti eredi di Falcone e Borsellino? Gian J. Morici LA VALLE DEI TEMPLI 24.2.2021
24.2.2021 L’INTERVISTA AL QUOTIDIANO “IL RIFORMISTA” FIAMMETTA BORSELLINO ALL’ATTACCO: “DI MATTEO DISTANTISSIMO DA MIO PADRE”. TORNA ALL’ATTACCO DI NINO DI MATTEO, IL PM DEL PROCESSO TRATTATIVA STATO-MAFIA.
La figlia di Paolo Borsellino, qualche giorno fa in un’intervista a Repubblica aveva sottolineato “il contrasto fra le tesi espresse dalla sentenza ‘Trattativa’ e quelle emesse a Caltanissetta per la strage di via d’Amelio – ha commentato Fiammetta Borsellino – La prima individua quale elemento acceleratore la trattativa. La corte del Borsellino quater rileva invece che l’accelerazione sarebbe stata determinata dal dossier mafia e appalti, al quale mio padre era molto interessato. La sentenza ‘Trattativa’ arriva a negare questo interesse. Com’è possibile avere queste due opposte valutazioni?”.
E oggi, dalle colonne del quotidiano “Il Riformista”, la figlia del giudice ucciso il 19 luglio 1992 in via D’Amelio affonda il colpo sul pm simbolo del processo Trattativa: Nino Di Matteo.
“Non ho fiducia in coloro che si proclamano magistrati antimafia e hanno condotto procedimenti giudiziari che contrastano in maniera così manifesta. E non ho fiducia in chi dovrebbe fare chiarezza. Anche sul piano morale. Ad esempio in chi non si è accorto degli errori grossolani sul depistaggio della morte di mio padre. E nel Consiglio superiore della magistratura”, dice Fiammetta.
A proposito della desecretazione degli atti del Csm: “Un’operazione di facciata senza alcun senso se poi ci ferma e non si accertano le condotte indegne tenute dai magistrati dopo la morte di mio padre. Provo anche amarezza, soprattutto che debbano prendere la parola su mio padre persone distantissime da lui e che hanno indagato su altre piste. Un nome? Nino Di Matteo. Non può considerarsi erede di mio padre chi non pone in essere i suoi insegnamenti e anche quelli di Giovanni Falcone. Mio padre, ad esempio, non avrebbe mai scritto o presentato libri sui suoi processi in corso. Mio padre era una persona di grande sobrietà, faceva solo il proprio dovere: ricercare la verità senza fare teoremi”.
Non è la prima volta che la figlia di Paolo Borsellino attacca Di Matteo: nel 2017 intervistata da Fanpage parlò di “Depistaggi avallati dai pm”, poi a RaiRadio1 nel 25° anniversario della strage di via D’Amelio; nel 2018 rilancia sulle “le responsabilità di Di Matteo e degli altri pm”; poi lo scontro con lo zio Salvatore Borsellino che ha pubblicamente preso le distanze dalle sue parole; e infine nel 2019 la deposizione a Messina sui pm indagati (e oggi archiviati) in cui attacca Di Matteo, Palma e Petralia che si occuparono del falso pentito Vincenzo Scarantino. di Redazione 24 Febbraio 2021 IL SICILIA
25.2.2021 FIAMMETTA BORSELLINO, LIVORE E ACCANIMENTO CONTRO NINO DI MATTEO Da qualche anno a questa parte, su queste pagine in decine e decine di editoriali, ci siamo trovati a commentare ed intervenire rispetto ad alcune affermazioni che Fiammetta Borsellino, figlia del giudice ucciso in via d’Amelio assieme agli agenti della scorta (Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Emanuela Loi, Claudio Traina e Vincenzo Li Muli), ha più volte rilasciato in svariati interventi pubblici o interviste. Più volte abbiamo scritto e riconosciuto che, al netto di una verità solo parziale sui fatti che riguardano l’attentato del 19 luglio 1992, è lecito provare rabbia ed avere sete di giustizia. Ancor di più di fronte ad una strage che legittimamente può essere definita come una strage di Stato e che ha visto lo sviluppo di un depistaggio che si è originato sin dalla sparizione dell’agenda rossa del giudice. Ancora una volta, leggendo le dichiarazioni di Fiammetta Borsellino, dobbiamo constatare la presenza di un vero e proprio accanimento, con livore, nei confronti di un magistrato in particolare: il pm palermitano ed oggi consigliere togato al Csm Nino Di Matteo. Un accanimento ingiustificato ed ingiusto alla luce, come abbiamo più volte ricordato, del ruolo che lo stesso assunse nei processi sulla strage di via d’Amelio. Da sostituto procuratore si occupò solo marginalmente delle indagini poi scaturite nel “Borsellino bis” (dove entrò a dibattimento già avviato, ndr) mentre istruì dal principio le indagini sul “Borsellino ter”, il troncone dedicato all’accertamento delle responsabilità interne ed esterne a Cosa Nostra, che ha portato alla condanna di tutti i capi della Commissione provinciale e regionale e che non è stato investito dal famoso “ciclone Spatuzza”, che mise in discussione la verità raccontata del falso pentito Vincenzo Scarantino riscrivendo un pezzo di storia riguardo l’attentato. In quel processo, infatti, le dichiarazioni del “pupo vestito” neanche furono utilizzate proprio perché vi erano forti limiti rispetto alle sue dichiarazioni. Nell’intervista al Riformista, quotidiano diretto da Pietro Sansonetti, ancora una volta si ripropone la famosa pista del rapporto mafia-appalti come motivo dell’accelerazione che portò poi alla morte, sviando l’attenzione da ogni aspetto che riguardi la trattativa Stato-mafia. E ciò avviene nonostante vi siano sentenze e processi ancora in corso che sono deputati a chiarire questi aspetti. Ed ogni volta che si parla dell’archiviazione di quell’indagine da parte della Procura di Palermo, giusto il 20 luglio 1992, non si ricorda mai che la stessa inchiesta si basava su un’informativa dei carabinieri “incompleta” e privata dei nomi di politici di rilievo che invece comparivano in un’altra informativa depositata in un’altra Procura. Siccome pensiamo che la signora Fiammetta Borsellino è assolutamente cosciente degli argomenti che tratta, ed è intelligente, siamo certi che ha avuto modo di approfondire questi argomenti. Quello che non riusciamo a comprendere sul piano logico, a meno che non si tratti di sentimenti di odio (ci auguriamo non sia così), è proprio la natura di quell’accanimento nei confronti di Nino Di Matteo. Ciò avviene nonostante quest’ultimo non sia stato mai iscritto nel registro degli indagati per il depistaggio sulla strage di via d’Amelio. Un’inchiesta che vedeva indagati i magistrati Anna Maria Palma e Carmelo Petralia, con l’accusa di calunnia aggravata, che è stata archiviata dal Gip di Messina dopo la richiesta della stessa Procura, in quanto “non si è individuata alcuna condotta posta in essere né dai magistrati indagati, né da altre figure appartenenti alla magistratura che abbiano posto in essere reali e consapevoli condotte volte ad inquinare le dichiarazioni, certamente false, rese da Vincenzo Scarantino”. Nonostante lo stesso Di Matteo abbia spiegato più volte (processo sul depistaggio contro i poliziotti, processo Borsellino quater, Commissione parlamentare antimafia e Csm) in maniera minuziosa su come si sono svolti i fatti in quegli anni ogni volta viene ingiustamente tirato in ballo. A questo punto vorremmo porre alcune domande a Fiammetta Borsellino. Crede che tutte le istituzioni che si sono occupate della strage di via d’Amelio, gli organi inquirenti e giudicanti di tutti i processi, siano da sottoporre sotto provvedimento disciplinare, siano incompetenti o peggio ancora corrotti? Tra esse inserisce anche i componenti del Csm, i magistrati ed i giudici della Procura di Messina, prima ancora il Gip di Catania che archiviò l’inchiesta sui sostituti procuratori di Caltanissetta Palma e Di Matteo in quanto priva di alcun “comportamento omissivo” rispetto alla vicenda del deposito posticipato al processo “Borsellino bis” dei confronti tra Scarantino ed i collaboratori Totò Cancemi, Gioacchino La Barbera e Mario Santo Di Matteo? Ritiene che tutte le sedi Istituzionali che hanno in qualche maniera assolto, archiviato o non indagato il magistrato siano corrotte? La signora Fiammetta Borsellino si assume la responsabilità di mettere in dubbio ed accusare di complicità correntista il Csm, quando lo stesso Di Matteo non appartiene ad alcuna corrente? Sulla vicenda del rapporto mafia-appalti è cosciente dell’intera spinosa vicenda o si ferma solo alla ricostruzione monca che certe parti interessate vogliono far emergere? Fa specie notare che quella pista per la morte di Borsellino, sia la “favorita” della difesa Mori-Subranni-De Donno al processo Stato-mafia. Così come fa specie, in un mondo alla rovescia dove vero e falso si mescolano continuamente, vedere come alcuni familiari vittime di mafia accolgano, totalmente o in parte che sia, suggerimenti e considerazioni da parte di chi certe verità non vuole che siano mostrate. E chi trae giovamento da tutto questo è proprio quel gruppo di uomini-cerniera che hanno obbedito agli ordini di uno Stato-mafia che ha letteralmente armato il braccio di Cosa Nostra per seminare bombe e distruzione nel biennio ’92/’93 e non solo. Ed è un dato di fatto che la verità della trattativa Stato-mafia è scomoda a molti. Fiammetta Borsellino, lo ha ribadito più volte con le sue dichiarazioni, sposa in toto considerazioni come quelle dell’avvocato Rosalba Di Gregorio, che difende alcuni degli ergastolani ingiustamente condannati in base alle dichiarazioni di Scarantino. Per concludere nell’intervista al Riformista Fiammetta Borsellino afferma, riferendosi chiaramente a Di Matteo, che “non può considerarsi erede di mio padre chi non pone in essere i suoi insegnamenti e anche quelli di Giovanni Falcone“. Chi sarebbero dunque vicini alle idee e all’etica del padre? Quegli avvocati degli stragisti che hanno assassinato Paolo Borsellino? Lo ripetiamo ancora una volta, senza nulla togliere al diritto alla difesa e alla legittimità professionale degli avvocati nell’esercizio della loro professione, resta un fatto noto che l’avvocato Di Gregorio non è solo il difensore di una delle vittime delle bugie del falso pentito Vincenzo Scarantino (Gaetano Murana, ndr) ma è già stata legale del boss corleonese Bernardo Provenzano ed anche del boss di Santa Maria del Gesù, Pietro Aglieri, entrambi membri della Cupola di Cosa nostra e condannati a vari ergastoli in via definitiva, anche per la strage di via d’Amelio. Di Gregorio che, durante un’udienza del “Borsellino ter”, il collaboratore di giustizia Totò Cancemi affermò essere in qualche maniera vicina agli ambienti dei servizi segreti. Nello specifico disse che mentre si trovava in tribunale a Palermo, l’avvocato Rosalba Di Gregorio gli aveva confidato di aver saputo che c’era un grosso corleonese latitante in contatto con i servizi segreti. Cancemi spiegò che il latitante a cui si faceva riferimento era Bernardo Provenzano. Diamo atto che la stessa Di Gregorio ha sempre smentito l’accaduto ma se si ritiene che Cancemi abbia detto il vero su Scarantino perché dovrebbe aver mentito sul legale?E cosa ne pensa Fiammetta Borsellino dei magistrati di Caltanissetta che hanno indagato sul progetto di attentato nei confronti dello stesso Nino Di Matteo, con una condanna a morte perpetrata dal Capo dei capi Totò Riina e dal superlatitante Matteo Messina Denaro. Un progetto di attentato il cui ordine di colpire Di Matteo, lo scrivono gli stessi magistrati nisseni nel decreto di archiviazione, “resta operativo”? Sono vicini alle idee del padre? Su tutte queste domande sarebbe bello, prima o poi, avere una risposta. Ma abbiamo il timore e l’amarezza che la signora Fiammetta Borsellino abbia dimenticato chi veramente, nell’informazione e nella magistratura, ha dedicato la propria vita, con disinteresse, a cercare la verità sull’assassinio del proprio padre. di Giorgio Bongiovanni ANTIMAFIA DUEMILA 25.2.2021
25.2.2021 FIAMMETTA BORSELLINO, RAGIONE E SENTIMENTO. Era inevitabile. Prima o poi sarebbe dovuto accadere. L’evento scatenante che, questa volta, è l’intervista rilasciata da Fiammetta Borsellino a “Il Riformista”. E così, come mi fu suggerito un po’ di tempo fa da un “amico”, la profezia si è avverata: a Palermo si muore spesso più per fuoco amico che non per fuoco nemico. Una volta si sarebbe detto “si alzano a destra e a manca voci di dissenso” mentre nella giornata di ieri abbiamo assistito all’esatto contrario, ossia “da destra e da manca” arrivava l’assordante rumore del silenzio. Nessun rilancio, nessuna citazione. Anche i “leoni da tastiera” hanno taciuto pubblicamente sui social, anche se non lo hanno fatto all’interno delle loro segretissime chat su Whatsapp o su equivalenti servizi di messaggistica istantanea. Si è alzato il velo silenzioso dello scandalo per le affermazioni della figlia del giudice Paolo Borsellino contenute nell’intervista rilasciata all’ottimo Paolo Comi che ha fatto il suo mestiere di giornalista, senza commentare e, soprattutto, senza anteporre il proprio pensiero personale alla voce di Fiammetta. Ma ciò non toglie che le sue parole siano state mal sopportate e abbiamo creato malumore e critiche ma non è politicamente corretto attaccarla pubblicamente. Poi, questa mattina, qualche voce si è sentita. Forse la notte ha portato (s)consiglio ed è partita la prima raffica di dissenso, un dissenso calibro 38 Special. Questa volta il fuoco amico nei confronti di Fiammetta Borsellino arriva dalla stampa, quella che da sempre è schierata in prima fila con i diversi movimenti antimafia. Ma cosa è successo? Ragione e sentimento, questo è successo. Fiammetta Borsellino ha commesso il reato di lesa maestà. Si è permessa, ancora una volta, di lanciare il suo monito e di puntare il dito nei confronti della magistratura, delle sue indagini e, in modo particolare, nei confronti del dottor Nino Di Matteo dichiarando: «A parte la vicenda del processo “Trattativa Stato-mafia” condotto proprio da Di Matteo, non può considerarsi erede di mio padre chi non pone in essere i suoi insegnamenti e anche quelli di Giovanni Falcone. Mio padre, ad esempio, non avrebbe mai scritto o presentato libri sui suoi processi in corso».
Di recente, la sentenza del “Borsellino Quater” ha stabilito che ad accelerare l’uccisione di Borsellino furono diversi motivi, come il probabile esito sfavorevole del maxiprocesso e la pericolosità, per Cosa nostra, delle indagini che il magistrato era intenzionato a portare avanti, in particolare in materia di mafia e appalti. «Non mi capacito del fatto che nessuno abbia mai voluto fare luce fino in fondo sul perché venne archiviato il dossier “mafia-appalti” a cui mio padre teneva moltissimo. E ciò̀ per me è come un tarlo che si insinua nella mente, giorno e notte», ha dichiarato Fiammetta Borsellino sulle colonne de “Il Riformista”. Ma se questo è veramente stato il possibile accelerante, come sostiene Fiammetta ma anche la sentenza del “Borsellino Quater”, della strage di via d’Amelio per eliminare il dottor Paolo Borsellino, perché non si è indagato? Semplice, molto semplice. Non si è indagato perché il dossier “mafia-appalti” è stato archiviato.
Ma facciamo ordine. Parliamo del dossier “mafia-appalti”, quel dossier investigativo realizzato dal Ros e voluto da Giovanni Falcone. Quel dossier investigativo che, nonostante il costante tentativo di sminuirne l’importanza e, addirittura, considerarlo una semplice indagine locale, conteneva un’approfondita analisi delle connessioni tra le famiglie mafiose siciliane, i loro interessi e quelli di grandi aziende coinvolte in appalti locali. Documento esplosivo? Se ripensiamo con lucidità ai contenuti del dossier in oggetto, possiamo pensare che fosse più confermativo che esplosivo. Molte delle grandi aziende citate nel dossier del Ros sono le stesse che comparivano nelle inchieste giornalistiche condotte negli anni ’70 da Mario Francese, quel cronista di razza che il 26 gennaio 1979 pagò con la vita la sua perspicacia e la sua capacità di analisi. Quelle grandi aziende che avevano interessi nella costruzione della diga Garcia, oggetto delle inchieste giornalistiche di Mario Francese.
Rimettiamo in ordine eventi e date. Il 16 febbraio 1991, i carabinieri del Ros depositarono alla procura di Palermo l’«informativa mafia e appalti» relativa alla prima parte delle indagini. Il dossier passò per le mani prima dell’allora capo della procura di Palermo, Pietro Giammanco, e poi dei sostituti Guido Lo Forte, Giuseppe Pignatone e Roberto Scarpinato. Il 9 luglio 1991 la procura chiese cinque provvedimenti di custodia cautelare e, ai legali dei cinque arrestati, fu stranamente consegnata l’intera informativa del Ros, anziché gli stralci relativi alle posizioni dei diretti interessati, con il risultato che tutti i contenuti dell’indagine vennero resi pubblici, vanificando il lavoro degli investigatori. La vicenda provocò una frattura insanabile tra il Ros e la procura di Palermo e diverse polemiche sui giornali, che parlarono addirittura di “insabbiamento” della parte d’indagine che chiamava in causa esponenti politici. Dopo la strage di Capaci il dottor Borsellino, che all’epoca della consegna del rapporto era procuratore capo a Marsala ma che dal marzo 1992 era di nuovo alla procura di Palermo come procuratore aggiunto, decise di riprendere l’inchiesta riguardante il coinvolgimento di Cosa nostra nel settore degli appalti e fornirle un nuovo slancio, considerandola di grande importanza. Ciò è confermato non solo da un incontro che il dottor Borsellino volle tenere il 25 giugno 1992, presso la Caserma dei Carabinieri Carini di Palermo, con Mori e De Donno, ai quali chiese di sviluppare le indagini in materia di mafia e appalti riferendo esclusivamente a lui, ma anche dalle conversazioni avute dallo stesso Borsellino con Antonio Di Pietro, che allora stava conducendo le indagini sugli appalti al centro di “Mani Pulite”.
Elemento cardine è la riunione che il 14 luglio 1992, cinque giorni prima dell’uccisione di Borsellino, il procuratore Giammanco convocò in procura per salutare i colleghi prima delle ferie estive e per trattare “problematiche di interesse generale” attinenti ad alcune indagini: “mafia e appalti, ricerca latitanti e racket delle estorsioni”. Nella riunione, alla quale partecipò anche Borsellino, Lo Forte fu chiamato a relazionare sull’indagine, ma dalle testimonianze dei presenti risulta che la parola “archiviazione” non venne mai pronunciata e da ciò si evince che il dottor Borsellino non fu informato che il giorno prima, il 13 luglio 1992, sei giorni prima della strage di via d’Amelio, fu presentata dai sostituti procuratori della Repubblica Guido Lo Forte e Roberto Scarpinato, con il visto del Procuratore della Repubblica Pietro Giammanco, un’argomentata richiesta di archiviazione, archiviazione che verrà presentata il 22 luglio 1992, due giorni dopo la strage di via d’Amelio, e posta in essere, con la restituzione degli atti, il 14 agosto 1992. Ragione e sentimento. Omissioni, pezzi mancanti, discordanze. Dossier archiviati, vuoti di memoria ma, soprattutto, vergogna, tanta vergogna. (Ro.G.). STATIGENERALI 25.2.2021
25.2.2021 PER QUANTO TEMPO ANCORA? LETTERA DELLA FIGLIA DEL PM PETRALIA IN RISPOSTA ALLE ACCUSE DI FIAMMETTA BORSELLINO Mi domando per quanto tempo ancora, i magistrati che hanno lavorato sulla strage di via D’Amelio, dovranno essere accusati dalla sig.ra Fiammetta Borsellino. Mi domando quali altre prove servano, oltre le approfondite indagini preliminari svolte egregiamente dai pm di Messina che, ricordo, hanno disposto ed espletato anche laboriosi accertamenti tecnici irripetibili. Per quanto ancora gli ex pm Palma e Petralia, nonostante un’ordinanza di archiviazione chiara nel definire che non è stata individuata nessuna condotta “penalmente rilevante da parte dei magistrati” dovranno essere messi sopra la bilancia di un dubbio che verte sempre un po’ di più dalla parte della colpevolezza.
Per quanto tempo ancora dovranno subire insidiose accuse pubbliche? Per quanto ancora Nino Di Matteo, dovrà subire anche lui le pubbliche accuse della sig.ra Fiammetta Borsellino? Per quanto ancora il nostro silenzio verrà usato per offenderci ancora, ancora e ancora una volta?
Non è certo la gogna mediatica che temo, ma le accuse cieche che odorano di pregiudizi, quelle si.
Una strada percorsa sulla suggestione dei pregiudizi non conduce mai alla verità. Nino Di Matteo tirato in causa con la stessa forza con cui, in questi anni, è stato tirato dentro a questo fango mio padre, mi fa pensare che ci sia qualcosa di orchestrato di cui, chi si fa portavoce della malagiustizia, non è al corrente, qualcosa che, lungi dall’avvicinare alla verità, spinge ad allontanarsene. Circoscrivere un dramma nazionale (la stagione delle stragi) a singole e mai dimostrate responsabilità di alcuni magistrati serve, infatti, a negarne la riconducibilità al perverso rapporto intercorso per anni tra lo Stato e un apparato criminale sanguinario ed eversivo come cosa nostra. Oggi penso che dietro le accuse della sig.ra Fiammetta Borsellino ci sia qualcuno che, abilmente, cerca di usare il dolore di una figlia per allontanare, ancor di più, questa verità. Flavia Petralia 25 Febbraio 2021 ANTIMAFIA DUEMILA
22.10.2020 Dal falso pentito alle pugnalate a Davigo, storia di Nino Di Matteo il Pm più scortato d’Italia Tradimento. Una nuova freccia è scoccata dall’arco del pubblico ministero più scortato d’Italia, e forse, chissà, questo comporterà un rafforzamento della sua sicurezza. Perché ormai Nino Di Matteo ha litigato con tutti e in poche ore ha sbriciolato le due relazioni principe nella sua vita davanti allo specchio, quella con il suo mentore Piercamillo Davigo, cacciato dal Csm con il suo voto determinante, e l’altra con il suo ragazzo pompon Marcolino Travaglio che, a causa di quel voto, gliel’ha giurata. E a ogni rottura è una tacca sulla sua toga e qualche uomo di scorta in più. Perché tutto intorno a lui è minaccia. Quando perde un processo, quando ha un inciampo di carriera. Quando litiga, quando si arrabbia. Da Scarantino a Davigo, potrebbe essere il titolo di un suo prossimo libro, quello delle sue confessioni. Il tradimento di questi giorni nei confronti del suo mentore, il suo leader politico, quello che lo ha acciuffato per i capelli mentre lui stava annegando nei propri fallimenti. Perché non era riuscito a diventare ministro di giustizia con la benedizione dei grillini e neanche capo del Dipartimento dell’amministrazione carceraria. Ogni volta surclassato da personaggi modesti, su questo ha qualche ragione. Non si può proprio dire che Bonafede e Basentini siano due allievi di Calamandrei. Ma umiliato anche dal capo dell’antimafia che lo aveva cooptato in un pool sulle stragi e poi licenziato perché chiacchierone con la stampa. Davigo era stato generoso con lui, portandolo con sé al Csm e procurandogli i voti per essere eletto. Ma ignorava che il suo allievo nascondesse il pugnale sotto la toga. E con lui il ragazzo pompon Travaglio che si era spellato le mani in quei festeggiamenti, sprizzando gioia a champagne. Ma Nino Di Matteo deve sempre fare pagare agli altri i propri insuccessi, la propria difficoltà nel salire le scale. È ormai storia. E vendetta. Lo hanno aiutato, ma non abbastanza.
La sua carriera di pm “antimafia”, la credulità, la capacità di girare la testa da un’altra parte davanti a un’operazione di pasticceria che ha manipolato un piccolo spacciatore di periferia fino a venderlo sul bancone dell’antimafia come uno degli assassini di Paolo Borsellino. Enzino Scarantino, quello che sapeva tutto perché c’era, perché aveva procurato lui la macchina-bomba della strage. Il grande depistaggio di Stato che avrebbe potuto essere smascherato subito, fin da quando la lettera della moglie del “pentito” e qualche visita parlamentare alle carceri speciali di Pianosa e Asinara denunciarono le torture e il “pentitificio” che in quei luoghi maledetti veniva costruito.
Stiamo parlando del 1993. E il processo-farsa organizzato dal depistaggio di Stato costruito su Enzino è andato avanti con la benevola partecipazione di Nino Di Matteo fino al 2017, fino a quando il collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza non ha cavato, al pm e ai giudici, le castagne dal fuoco, risolvendo il “giallo” della morte di Borsellino e scrivendo, di fatto, la sentenza. Mandando a casa una ventina di innocenti, qualcuno dei quali torturato a Pianosa o Asinara. Venticinque anni di distrazione e di crescita di scorte perché i boss mafiosi, pur vedendo che lui non ne azzeccava una, continuavano a riempire di minacce il pm Di Matteo. Il quale sosteneva più o meno che era tutta colpa di Berlusconi. E una volta, nel corso di una cerimonia ufficiale di commemorazione proprio della strage di via D’Amelio, non potendo prendersela con se stesso perché ancora non cavava un ragno dal buco, e anzi aveva contribuito a far incriminare degli innocenti, attaccò briga da lontano anche con il presidente Napolitano e con il premier Matteo Renzi. Tutti amici e complici di Berlusconi.
Il suo mantra consiste nel suo essere un “isolato” e sul fatto di stare sulle scatole più o meno a tutti. Questo lo fa sentire forte, vuol dire che è il migliore. Che è fuori, soprattutto. Fuori da ogni intrallazzo, da ogni mercimonio, da ogni oscena trattativa. Come quella che sta impegnando diversi giudici, e siamo già al secondo grado di giudizio, per stabilire se un gruppo di servitori felloni dello Stato e di politici piagnucolosi abbia trattato con la mafia negli anni Novanta per far cessare le stragi. Non lo hanno fatto, in caso contrario il loro comportamento sarebbe stato encomiabile. Come lo sono stati gli atti decisivi di coloro, come il generale Mori, che hanno arrestato i boss latitanti e sconfitto la mafia in Sicilia. Se non c’è trattativa, c’è cedimento. Altra parola scritta con la maiuscola nel vocabolario del pm Di Matteo. La sua espressione preferita è “cedimento dello Stato” nei confronti della mafia. Succede di continuo. È capitato con le famose scarcerazioni (che poi erano solo differimenti della pena) dei boss mafiosi per motivi di salute durante la prima pandemia da covid-19. In quei giorni il pm più scortato d’Italia disse che lo Stato pareva «aver dimenticato e archiviato per sempre la stagione delle stragi e della trattativa Stato-mafia». E come ci si sarebbe potuti dimenticare di questo ritornello visto che viene cantato e solfeggiato nelle tante apparizioni televisive del dottor Di Matteo? A questo punto, persa la tribuna del Fatto quotidiano, persa l’amicizia di Davigo (non si illuda, dottor Di Matteo, quello non va a passare gli anni della pensione ai giardinetti, lo rivedremo presto), può sempre contare su qualche domenica sera nello studio di Massimo Giletti. Il quale, forse anche in seguito a qualche puntata in cui insieme protestavano per le scarcerazioni dei boss, è lui pure sotto scorta. Tiziana Maiolo — 22 Ottobre 2020 IL RIFORMISTA
Chi è Nino Di Matteo, il Pm che sognava di fare il ministro nonostante i fallimenti processuali
19.7.2011 DI MATTEO LEGGE LA LETTERA DEDICATA A PAOLO BORSELLINO
5 maggio 2020 – Carceri. Spataro: “solidarietà a Bonafede. Di Matteo non è nuovo a certe affermazioni”