Borsellino disse: io nel nido di vipere

Così definì la procura secondo la testimonianza di un collega

 Un mese prima di morire Paolo Borsellino «appariva come trasfigurato, senza più sorrisi. Era provato, appesantito, piegato». Da poche settimane la mafia aveva ucciso il suo amico Giovanni Falcone nel massacro di Capaci, e lui continuava a lavorare nel suo ufficio di procuratore aggiunto a Palermo, che però considerava «un nido di vipere». È un altro squarcio sugli ultimi giorni di vita del magistrato assassinato il 19 luglio 1992 nella strage di via D’Amelio affidato al ricordo di un giovane magistrato dell’epoca, Massimo Russo, che ora fa l’assessore Sanità nel governo della Regione Siciliana.
Russo ha deposto ieri nel processo contro il generale dei carabinieri Mario Mori, accusato della presunta mancata cattura di Provenzano nel 1995 e indagato per l’altrettanto presunta trattativa tra Stato e Cosa nostra avviata a cavallo delle stragi del ’92.

La sua testimonianza si somma a quella di Alessandra Camassa, altra «allieva» di Borsellino presente all’incontro di giugno del 1992 nel quale il giudice che con Falcone aveva istruito il maxi-processo alla mafia confidò di essere stato «tradito» da un amico. Questo è il particolare più nitido rievocato dalla Camassa: «Paolo si distese sul divano che c’era nella stanza e cominciò a lacrimare in modo evidente dicendo: “Non posso credere che un amico mi abbia potuto tradire”».
Chi fosse quell’amico i due giovani magistrati non lo chiesero. «È il mio grande cruccio», confessa Russo. Ma mentre la Camassa sostiene che sul momento pensò a una vicenda personale appena scoperta, lui associa il pianto e l’affermazione sul tradimento a un incontro conviviale con ufficiali dell’Arma dei carabinieri che Borsellino avrebbe avuto poco prima a Roma. Per alleggerire il clima e cavarsi dall’imbarazzo, proprio Russo chiese a Borsellino: «E qui come va?». Risposta: «È un nido di vipere». Un dettaglio in più per chiarire, a quasi vent’anni dalla morte e alla vigilia delle celebrazioni che stanno per aprirsi in occasione dell’anniversario, in quale ambiente si fosse ritrovato a lavorare l’amico di Falcone che fremeva perché non poteva occuparsi delle indagini sulla strage di Capaci. Ma nonostante non ne fosse il titolare, ricordano Russo e Camassa, seguiva con grande interesse, per come e per quanto gli era consentito, gli sviluppi di quell’inchiesta.

A parte il rammarico per non aver approfondito la questione del tradimento, sottovalutando la confidenza ricevuta, i due magistrati sostengono che fino al 2009 – quando uscirono le prime notizie sull’indagine che stava svelando la trattativa tra Stato e mafia – non avevano collegato lo sfogo con l’eventualità che Borsellino fosse venuto a sapere dei contatti tra rappresentati delle istituzioni e di Cosa nostra. Solo dopo riferirono l’episodio agli inquirenti.
L’indagine sulla trattativa riguarda anche l’ex ministro democristiano Calogero Mannino, già processato e assolto dall’accusa di concorso esterno con la mafia e ora inquisito per ipotetiche pressioni fatte nel ’93 sull’allora vice-direttore degli istituti di pena, Francesco Di Maggio, con l’obiettivo di alleggerire il «carcere duro» ai boss detenuti. Ma ieri, sempre nel processo Mori, il principale teste d’accusa contro l’ex ministro ha mostrato più di una crepa. Si chiama Nicola Cristella, ed era il capo-scorta di Di Maggio. A fatica, tra contraddizioni e titubanze, ha ricordato che Di Maggio si lamentava delle insistenze di chi voleva allentare il «41 bis»: «Percepii frammenti di dialoghi in cui si parlava di pressioni, e uscì il nome di Mannino», ha detto genericamente il testimone. Il quale nel 2003, interrogato dai magistrati di Firenze sugli stessi temi, non fece cenno all’uomo politico. «Non me l’hanno chiesto, e io non ne volevo parlare», ha provato a giustificarsi, suscitando l’irritazione del tribunale degli stessi pubblici ministeri.

Giovanni Bianconi Corriere della Sera 5 maggio 2012


I 57 GIORNI DI PAOLO BORSELLINO E IL COVO DI VIPERE

                                           

Ripercorrere ogni anno, in questo periodo, la via crucis del dott. Paolo Emanuele Borsellino lungo quei terribili 57 giorni fra Capaci e Via D’Amelio, significa rievocare le immagini di un Uomo la cui potenza del pensiero e delle parole strideva con l’evidente e progressivo senso di fragilità del suo corpo, sempre più indebolito e maltrattato da tante sigarette per attenuare l’angoscia di una fine imminente di cui Egli  non fece assolutamente mistero con dichiarazioni, anche pubbliche.
Rileggendo gli avvenimenti di allora alla luce anche delle più recenti acquisizioni processuali, emerge il terribile clima di tensione all’interno della Procura di Palermo, cui era approdato, dopo l’esperienza di Marsala, nel marzo del 1992.
Mi riferisco, in particolare, alle testimonianze dei colleghi della Procura di Palermo davanti al CSM del luglio 1992. Esse, per quanto fondamentali, non sono mai state riversate nei numerosi processi sulla strage di via D’Amelio, e quindi, di fatto, tenute segrete per oltre trent’anni.
In quelle testimonianze vi è la descrizione puntuale delle dinamiche, inutilmente pretestuose e ostracizzanti messe in atto dal Procuratore Capo dott. Pietro Giammanco verso il dott. Borsellino, la cui unica colpa era di comprendere, attraverso la valorizzazione di determinate indagini, le ragioni dell’escalation criminale in corso.
In particolare, la ricostruzione consacrata ormai in numerose sentenze, ci consegna e cristallizza il fervente interesse del dott. Borsellino per le indagini compendiate nel Rapporto del ROS dei carabinieri del febbraio del 1991 (il c.d. Dossier mafia-appalti).
Ma soprattutto si tratta di testimonianze fondamentali per comprendere le dinamiche sottostanti  
la creazione di quel particolare contesto di isolamento e delegittimazione del dott. Borsellino in seno al proprio Ufficio, quale prodomo necessario per la realizzazione di quelle condizioni obiettive per agevolarne l’eliminazione.
Da profondissimo conoscitore delle dinamiche e delle strategie di Cosa Nostra, egli intuì e percepì chiaramente che, dopo l’omicidio di Salvo Lima ( 12 marzo 1992) e l’eccidio di Capaci,  avrebbe potuto essere lui il prossimo obiettivo.
Come ricordato dalla moglie Agnese Piraino, Paolo Borsellino riteneva che il proprio destino fosse inscindibilmente legato a quello di Giovanni Falcone, nella ferma convinzione che a fare da scudo alla propria vita ci sarebbe stata quella dell’amico e collega.
Ma il culmine della prostrazione psico-fisica raggiunta in quei 57 giorni dal Giudice Borsellino emerge chiaramente dalle dichiarazioni dei magistrati Alessandra Camassa e Massimo Russo, acquisite fra il 2009 ed il 2010 nel corso delle indagini seguite alla collaborazione di Gaspare Spatuzza.
Secondo la testimonianza dei colleghi, che ben conoscevano il Giudice Borsellino quale Capo della Procura di Marsala, dove gli stessi svolgevano all’epoca dei fatti la funzione di Sostituti Procuratori, questi in lacrime ebbe a confessare a loro di essere stato tradito da un amico.
I due magistrati  hanno dichiarato apertamente di non avere mai visto il Giudice Borsellino in quelle condizioni e soprattutto di non essere stati in grado di superare l’imbarazzo di quella situazione così tragica quanto inaspettata per cui si limitarono a raccoglierne lo sfogo.
Sfogo preceduto da un’altra frase del giudice Borsellino pesantemente significativa qui (ndr riferendosi alla Procura di Palermo) è un covo di vipere”.
D’altra parte, le ansie e le preoccupazioni del Giudice Borsellino in quei 57 giorni fra le due stragi sono state oggetto della testimonianza di soggetti particolarmente qualificati.
Dal loro narrato emerge lo stato di profonda ed assoluta solitudine del Giudice Borsellino, assillato dalla necessità di fare in fretta, per potere offrire all’Autorità Giudiziaria competente il suo contributo per chiarire e spiegare, dall’alto della sua esperienza, le dinamiche e le causali sottese alla strategia terroristico-mafiosa in atto.
Significative, sotto questo profilo, appaiono le dichiarazioni dell’Avvocatessa Fernanda Contri, all’epoca dei fatti Segretario Generale della Presidenza del Consiglio dei Ministri (pag.309 e ss. Sentenza Borsellino quater abbreviato) e della già citata D.ssa Liliana Ferraro ( pagg.330/331 quater abbreviato dove si riporta il verbale di sommarie informazioni testimoniali del 14 ottobre 2014 dove la teste testualmente dichiara: “ Borsellino mi disse che era solo”.
Così come significativa e per certi versi drammatica è la testimonianza del sacerdote Cesare Rattoballi cui fu chiesto il 18 luglio 1992 dal Giudice Borsellino di recarsi presso l’ufficio della Procura di Palermo perché gli somministrasse il sacramento della confessione.
Le gravissime preoccupazioni del Giudice Borsellino per il destino della moglie Agnese e dei figli Lucia, Manfredi e Fiammetta, si rinvengono nella testimonianza resa nell’ambito del processo Borsellino ter dal colonnello Umberto Sinico, all’epoca dei fatti capitano.
Alle pagg. 239/241 della sentenza egli testualmente afferma: Borsellino scelse il sacrificio. Sapeva dell’attentato ma mi disse che doveva lasciare qualche spiraglio, se no avrebbero potuto colpire la sua famiglia”.
E proprio guardando dentro alla famiglia nucleare del Giudice Borsellino, può senza dubbio affermarsi che la strage di Capaci ebbe sicuramente l’effetto di segnare l’epilogo di una vita normale.
Per quanto normale possa definirsi la vita di una famiglia già costretta da oltre un decennio, sia pure nella totale condivisione ed unità d’intenti, ad un’esistenza blindata e costantemente preoccupata per il prezzo che quell’impegno avrebbe potuto comportare.
Invero, pur essendo da molto tempo in primissima linea nell’azione di contrasto a Cosa Nostra, il Giudice Borsellino aveva cercato di garantire comunque una certa serenità alla sua famiglia.
Tale serenità era stata vulnerata drammaticamente in occasione dell’improvviso e forzato trasferimento della famiglia presso l’isola dell’Asinara nell’agosto del 1985.
Trasferimento motivato dal pericolo per la vita dei Giudici Falcone e Borsellino a seguito delle uccisioni per mano mafiosa del Commissario Beppe Montana e del Vice Questore Ninni Cassarà, fra la fine di luglio e di primi di agosto del 1985.
Tale eccezionale misura di salvaguardia consentì loro effettivamente di redigere la monumentale ordinanza/sentenza istruttoria del maxiprocesso.
Prima e dopo quest’episodio la vita familiare del Giudice Borsellino era comunque caratterizzata da una accettabile serenità, attesa, da un lato, la capacità del Giudice Borsellino di essere sempre presente nei momenti più significativi ed importanti della moglie e dei figli, dall’altra, la sua notoria predisposizione a sdrammatizzare ed esorcizzare con ironia i pericoli enormi derivanti dallo svolgimento della sua professione.
Questo difficile equilibrio, fra dedizione all’impegno professionale e cura delle relazioni familiari, si rompe drammaticamente dopo il 23 maggio 1992.
La convinzione del Giudice, manifestata più volte anche pubblicamente, di non avere più tanto tempo a disposizione, lo costrinsero ad un lavoro frenetico con un sensibile peggioramento della vita affettiva e di relazione all’interno della famiglia.
Il Giudice Borsellino perse definitivamente quel sorriso che egli era  comunque riuscito a donare alla sua famiglia nel corso di quella vera e propria guerra,  anche dopo avere visto cadere sull’altare della lotta alla mafia altre magnifiche vite ( Boris Giuliano, il capitano Basile, il consigliere Chinnici, il Generale Dalla Chiesa, Montana , Cassarà ed Antiochia e tanti altri ancora) pur nella convinzione di essere “un cadavere che cammina” come gli ebbe a dire Ninni Cassarà in sede di sopralluogo dell’omicidio di Beppe Montana.
Come ricordato dalla figlia Lucia, al Giudice Borsellino i capelli erano diventati bianchi in pochi giorni, e per la prima volta la moglie ed i figli videro il proprio congiunto ostaggio di una perenne tensione e preoccupazione che nemmeno l’ambiente familiare riesciva a stemperare ed attenuare, come era sempre accaduto in precedenza.
Anzi il Giudice Borsellino si mostrava con i figli addirittura scontroso e distaccato, quasi a volerli preparare al dopo; alla moglie invece riserverà, in dialoghi tragici, le più intime considerazioni sulle gravi ragioni di una fine che sa essere imminente.
Con effetti dirompenti e lesivi della sacralità e pienezza dei rapporti affettivi in seno alla famiglia nucleare del dott. Borsellino.
Di fronte alla descrizione di un dolore che con il passare del tempo si accresce, in considerazione del fatto che  si è pure scoperto che le indagini ed i primi processi sulla strage di Via D’Amelio, hanno costituito l’ambito di elezione per il confezionamento del più grande depistaggio della storia giudiziaria italiana, è giunto il momento, ineludibile, di scoprire ed indagare quello che accadde nella Procura di Palermo una volta che il dott. Borsellino ebbe ad approdarvi.
Si dice spesso che lo Stato non è pronto ad accogliere gli inconfessabili segreti di quella stagione.
Questa affermazione è per noi condivisibile nella misura in cui in esso Stato venga finalmente compresa l’istituzione magistratuale dentro cui fra mille difficoltà ed invidie, Giovanni Falcone prima e Paolo Borsellino poi, cercarono di fare il loro dovere sino al compimento dell’estremo sacrificio.
Cerchiamo di esserne degni fino in fondo con coraggio e determinazione, seguendo il loro metodo nella lettura degli eventi e senza assecondare ricostruzioni fantasiose il cui obiettivo è rendere vieppiù difficile il già faticoso tentativo di ricostruzione di quei terribili eventi.

                                                                                                                           Fabio Alfredo Trizzino

©️ PROGETTO SAN FRANCESCO luglio 2023

RASSEGNA STAMPA

 

https://progettosanfrancesco.it/2023/06/04/a-fabio-trizzino-il-premio-alla-legalita/ https://progettosanfrancesco.it/2023/12/25/paolo-borsellino-un-amico-mi-ha-tradito/

 

 

PAOLO BORSELLINO, una morte annunciata

 

 

 

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