“Cavalli di razza”

 

 

19.12.2022 – ‘Ndrangheta a Milano, Varese e Como: 34 condanne per 200 anni al processo Cavalli di razza


 

LA PROVINCIA 24.6.2022


Le INTERCETTAZIONI ambientali  – VIDEO

COMANDANTE GDF DI COMO  COL. GIUSEPPE COPPOLA: “La presenza della ‘ndrangheta a Como é attuale” – VIDEO

Blitz contro la ’ndrangheta tra Milano, Como, Varese e la Svizzera. Il pm agli imprenditori lombardi: «State giocando con il fuoco»

Eseguiti 54 fermi, sequestrati beni per 2,2 milioni di euro (tra cui un’azienda di logistica nel Comasco). L’indagine nata da un giro di false cooperative. Indagato anche l’ex sindaco di Lomazzo. La telefonata all’imprenditore: «Noi siamo come le raccomandate: arriviamo direttamente a casa»


 

 

«.Noi siamo come le raccomandate, arriviamo direttamente a casa», diceva, intercettata, una delle persone finite in carcere. Una frase che mostra «minaccia e autorevolezza», citata durante la conferenza stampa indetta a Milano per spiegare il carattere di «arcaicità e modernità della ‘ndrangheta», con imprenditori, come ha spiegato il procuratore facente funzioni Riccardo Targetti, costretti a diventare «complici e a fornirei il loro know-how» sia con la permanenza degli aspetti della «tradizione» violenta delle cosche.

 

Dr.ssa Alessandra Dolci – Responsabile Direzione Distrettuale Antimafia di Milano (in foto a NOIsiamoLORO)

«I clan controllano l’attività economica nei settori chiave»  ’Ndrangheta spa La criminalità acquisisce le imprese E in pochi anni si garantisce introiti per 1,5 milioni. La strategia è chiara. Prima si mostra la faccia cattiva, quella dell’intimidazione, delle minacce, dell’assoggettamento. Quindi si logorano gli imprenditori che resistono. I quali, alla fine, accettano di allearsi con i loro aguzzini.  In questo modo la ’ndrangheta 2.0 Società Per Affari – per citare le parole del capo della Procura antimafia, Alessandra Dolci – ha preso il sopravvento e il controllo su alcuni settori strategici e, soprattutto, remunerativi dell’economia del nostro territorio.

A scattare l’impietosa fotografia sono le fiamme gialle del Nucleo di polizia economico finanziaria di Como. Sono loro ad aver ricostruito il ciclo d’affari, di denaro e di appalti (anche pubblici) che attraverso una galassia di società cooperative gli indagati finiti in cella nel clamoroso blitz di martedì notte avevano messo in piedi.

La forza dell’intimidazione  I pubblici ministero Sara Ombra e Pasquale Addesso – che per primo, con i finanzieri della sua polizia giudiziaria, aveva scoperchiato il giro di malaffare un paio di anni fa – dedicano un intero capitolo alla «gestione e controllo delle attività economiche» da parte dei clan. E scrivono: «La forza intimidatrice derivante dall’appartenenza alla ’ndrangheta ha determinato non solo l’assoggettamento di imprenditori operanti sul territorio lombardo al pagamento» di somme di denaro estorte dai clan e «protratte dal 2007 sino ad oggi, ma si è tradotto nell’acquisizione di imprese e società riconducibili agli stessi nei settori economici del trasporto conto terzi, ristorazione, servizi di pulizia e facchinaggio; è utile evidenziare che si tratta dei settori più esposti al rischio di infiltrazione mafiosa». La strategia del ragno adottata dai clan, cioè tirare nella propria rete le vittime prescelte, è stata vincente soprattutto dal punto di vista economico. E qui c’è una prima grande differenza tra l’animo imprenditoriale dei clan all’epoca di Perego Strade e oggi: allora facevano fallire società storiche e sane per incapacità, ora lo fanno per poter lucrare ulteriormente sui profitti, dopo aver incassato fiumi di denaro. Basti dire che in una manciata di pochi anni, secondo i calcoli di fiamme gialle e magistratura, la ’ndrangheta sarebbe riuscita a garantirsi guadagni per un milione e mezzo di euro grazie alle cooperative di cui ha preso la gestione.

Effetti devastanti  Ovviamente l’invasione di campo della criminalità nell’economia ha conseguenze gravissime. Così, ancora, gli investigatori: «Gli effetti di tale condotta sul mercato sono stati devastanti in quanto: da un lato le regole della concorrenza sono state alterate dall’affermazione di player che attraverso l’utilizzo del metodo mafioso hanno conquistato fette di mercato; dall’altro le imprese “mafiose” hanno compenetrato il metodo mafioso con il “know how” caratterizzante l’imprenditoria lombarda riguardante la costruzione di sistemi fraudolenti tesi ad ottimizzare i profitti illeciti attraverso la commissione di plurimi reati di frode fiscale e bancarotta». Tradotto: la ’ndrangheta ci ha messo la forza delle intimidazioni, ma ha “rubato” da certa imprenditoria locale un’abilita sconosciuta ai clan: quella della frode fiscale. Il trait d’unione in carne e ossa, nel caso di specie, i finanzieri lo identificano in Cesare Pravisano, ex funzionario di banca nonché ex assessore del Comune di Lomazzo negli anni Novanta. Sarebbe lui, assieme a Massimiliano Ficarra, il commercialista dell’omonima famiglia legata – nella rilettura delle carte e delle dinamiche famigliari calabresi fatta dall’antimafia – alla cosa Piromalli-Molè. La parabola di Pravisano è illuminante, perché tra il 2006 e il 2010 si ritrova a dover pagare i clan e a sottostare a tutta una serie di estorsioni a suo anno, quindi il 3 febbraio 2010 partecipa a un incontro a Gioia Tauro nel corso del quale, secondo gli investigatori, «si mette a disposizione dell’associazione fornendo un costante contributo alla penetrazione dell’associazione mafiosa nel tessuto economico lombardo quale soggetto “pulito” da utilizzare per l’acquisizione di nuove commesse ed offrendo le sue imprese operanti nei servizi di pulizia e facchinaggio».E con il tempo l’ex assessore e imprenditore onesto, acquisisce così bene a sua volta il know how dei soci ’ndranghetisti che, nel momento in cui riesce con le sue cooperative ad ottenere appalti con una catena di alberghi nel centro di Venezia e di Verona, decide che è il caso di rivolgersi ad Alessandro Tagliente (braccio destro del boss Bartolomeo Iaconi, e pure lui finito in cella martedì per associazione mafiosa) «in quanto volevo la sua protezione». LA PROVINCIA 18.11.2021 – Paolo Moretti


Dr.ssa Sara Ombra – Direzione Distrettuale Antimafia Milano a NOIsiamoLORO

Ex sindaco del Comasco a un “summit” del clan Molè. Il calvario degli imprenditori «sfruttati» Il procuratore Targetti: «Imprenditori costretti a collaborare coi clan». Un boss intercettato: «Arriviamo a casa come le raccomandate»  Nel filone lombardo della maxi inchiesta, coordinata dalle Dda di Milano, Reggio Calabria e Firenze, contro la cosca Molè della ‘ndrangheta risultano indagati anche l’ex sindaco di Lomazzo, nel Comasco, Marino Carugati e anche un ex assessore della giunta che era guidata dal primo cittadino, entrambi, tra l’altro, già condannati per bancarotta. Lo ha precisato il procuratore aggiunto della Dda milanese Alessandra Dolci nella conferenza stampa in Procura a Milano. Dolci ha messo in luce i “rapporti” tra il clan, attivo in Lombardia soprattutto tra le province di Varese e Como, e “ex pubblici amministratori”, ossia i due indagati.

L’ex sindaco di Lomazzo a un “summit” con gli uomini del clan Molè  Stando a quanto spiegato dagli inquirenti nel corso della conferenza stampa in Procura a Milano, per descrivere i dettagli dell’inchiesta “Cavalli di razza” condotta per il filone lombardo dalla Squadra mobile milanese e dal Nucleo di polizia economico finanziaria della Gdf di Como, l’ex sindaco Carugati e l’ex assessore di Lomazzo Cesare Pravisano, avrebbero preso parte anche ad una “riunione” degli uomini del clan Molè a Gioia Tauro nel 2010. In quella riunione, come chiarito dal pm Pasquale Addesso, si sedettero al tavolo anche alcuni «imprenditori estorti» e accettarono «di fare entrare la ‘ndrangheta a cui interessava investire». Nel 2019 Carugati, 79 anni, e Pravisano, ex funzionario di banca, erano stati arrestati (e poi condannati) in un’inchiesta della Procura di Como su un “sistema di bancarotte” sempre con l’ombra della ‘ndrangheta.

Il pm: «L’assessore di Lomazzo ha legami con il clan»  Dagli atti del filone lombardo della maxi inchiesta contro la ‘ndrangheta emerge anche «l’ipotesi di un possibile legame» tra Nicola Fusaro, attuale assessore al Comune di Lomazzo (Como), e «la malavita organizzata di cui è sembrato avere informazioni di particolare significato». Il dettaglio risulta dal decreto di fermo dei pm milanesi.
I pm nel capitolo del decreto dedicato ai legami tra Fusaro e Cesare Pravisano, ex assessore indagato assieme all’ex sindaco di Lomazzo negli anni ’80 Marino Carugati, riportano anche un’intercettazione nella quale l’assessore dice: «Occhio ad andare a minacciare Pravisano, perché c’è dietro la ‘ndrangheta (…) sono loro i soci».
Pravisano e Carugati, che hanno anche reso dichiarazioni ai pm, avrebbero preso parte, scrivono i pm, agli «accordi conclusi a Gioia di Tauro nell’incontro del 08/09 marzo 2010 che segnano il passaggio dei due imprenditori lombardi, che hanno rivestito anche cariche pubbliche di assessore e sindaco nel Comune di Lomazzo, da vittime della ‘ndrangheta a partecipi dell’associazione attraverso la messa a disposizione dell’associazione mafiosa delle loro imprese e della loro ‘credibilità’ che va a costituire il capitale sociale ed
imprenditoriale che offrono all’associazione mafiosa».

Le intercettazioni: «Arriviamo a casa come le raccomandate»  «Noi siamo come le raccomandate, arriviamo direttamente a casa», così ha detto intercettata una delle persone finite in carcere oggi nel blitz contro la ‘Ndrangheta, coordinato dalla Procura di Milano, Firenze e Reggio Calabria. La frase che mostra “minaccia e autorevolezza” è stata citata durante la conferenza stampa indetta a Milano per spiegare il carattere di «arcaicità e modernità della ‘Ndrangheta», con imprenditori, come ha spiegato il procuratore facente funzioni Riccardo Targetti, costretti a diventare «complici e a fornire loro il know-how» sia con la permanenza degli aspetti della “tradizione” violenta delle cosche.

La riunione a Gioia Tauro per inserirsi sul monopolista che operava per conto di Spumador  L’inchiesta, ha detto Targetti, ha messo in luce anche «un traffico di droga dall’Italia alla Svizzera e di armi dalla Svizzera all’Italia», oltre al quadro di «imprenditori vittime di estorsioni», anche da 300-400mila euro, «e usura», finiti nel «terreno di caccia» della ‘ndrangheta e che «per uscire dalla “macchina infernale” si sono resi complici con il loro contribuito di know how». Un sistema che ha permesso di «mettere in piedi decine di cooperative nei settori delle pulizie, del facchinaggio e del trasporto». E di creare «ricchezze illegali» col meccanismo delle «fatture false, con l’omissione del pagamento delle imposte per milioni e milioni di euro sottratti al Fisco, all’Ue e all’Inps e che
drogano l’economia e si pongono in maniera concorrenziale contro gli imprenditori onesti».
Un’inchiesta che, come precisato dall’aggiunto Dolci, è la «rappresentazione plastica della ‘ndrangheta, misto di arcaicità e modernità, di “mangiate”, doti e cariche, mimetizzazione, propaggini svizzere per l’espansione all’estero e mediazioni mafiose richieste dagli imprenditori». I clan, ha spiegato ancora, «hanno sostituito le mazzette con i proventi dell’evasione fiscale». È in una riunione del 2010 a Gioia Tauro che si decise che andava «creato un sistema di cooperative per lucrare sui servizi di pulizie, facchinaggio e di inserirsi su un monopolista di servizi logistici che operava per conto di una grossa impresa nel settore del beverage», ossia la Spumador.
I dipendenti hanno parlato di «15 anni di soprusi e minacce» dalle cosche, che volevano «indirizzare le commesse di trasporti» delle bevande. E uno di loro ha riferito «di essersi dimesso perché stanco delle continue violenze e minacce».

L’appello del procuratore Targetti: «I clan possono prendere il controllo»  «La criminalità organizzata non è un fenomeno incentrato solo in certe regioni, qua ha più difficoltà a prendere il controllo, anche politico, ma rischia di arrivare a prenderlo, se non si alza la soglia di allerta». È l’appello alla società civile lanciato dal procuratore facente funzione della Procura di Milano Riccardo Targetti nel corso della conferenza stampa per illustrare il maxi blitz contro la ‘ndrangheta che sta “inquinando” il tessuto economico lombardo. Per Targetti «chi si avvicina a questo mondo, per difficoltà o per timore nell’illusione di guadagnare migliori condizioni, deve sapere che sta giocando col fuoco».

Gli imprenditori ridotti sul lastrico e l’evasione fiscale come trait d’union tra cosche e colletti bianchi  Dal filone lombardo della maxi inchiesta emerge anche il profilo di imprenditori lombardi prima «ridotti sul lastrico», attraverso meccanismi di estorsione «a tappeto» e usura, e poi «sfruttati» per le loro competenze e con le loro imprese “divorate” dai clan, un quadro descritto dai pm di Milano Sara Ombra e Pasquale Addesso e dall’aggiunto della Dda Alessandra Dolci.
Ombra ha raccontato anche un particolare di una testimonianza della moglie di un imprenditore («una famiglia sul lastrico, sfrattata»), riportando le parole della donna: «Mio marito era costretto a dormire in macchina». Una “ndrangheta 2.0” che ha «cambiato rotta», stando alla descrizione di Dolci, con gli «imprenditori trasformati da vittime in strumenti di arricchimento e collusi».
Il pm Addesso ha chiarito che ad «unire» alcuni imprenditori lombardi alle cosche della ‘ndrangheta è la «evasione fiscale», perché una volta che gli imprenditori accettano di far entrare la ‘ndrangheta «la massimizzazione dei profitti» viene realizzata attraverso «l’evasione». CORRIERE CALABRIA


27.11.2021 – «Sti africoti hanno fatto un bordello». Dalla rissa in discoteca alla “lezione di ‘ndrangheta” dei Valenzisi

La lite in un locale di Cantù tra Valenzisi e il nipote di Palamara e le linee guida spiegate dal padre Antonio per «tenere ordinato il territorio»

 «Pa’, scusa l’ora. C’è un problema a Cantù con il cugino di Leo Palamara. Ha detto che sei cornuto». Inizia così la conversazione intercettata dagli inquirenti tra Antonio e Giuseppe Valenzisi, rispettivamente padre e figlio, finita nell’ambito del filone milanese dell’inchiesta “Cavalli di razza” (collegata a quelli della Dda di Reggio e Firenze denominati “Nuova narcos europea”) che ha portato, lo scorso 22 novembre, alla convalida di 48 dei 54 fermi sottoscritti dalla Dda guidata da Alessandra Dolci. I due – secondo l’accusa – non sarebbero soggetti qualunque ma elementi legati alla ‘ndrangheta e alla locale di Fino Mornasco, tra le più influenti in Lombardia. Per gli inquirenti Antonio Valenzisi intrattiene incontri e stabili relazioni con gli affiliati, detiene armi e gestisce le attività di narcotraffico. 

La lite in discoteca  E la chiamata avvenuta alle 4.15 del mattino del 22 febbraio del 2020 ne è la prova. Un contrasto quello insorto in una nota discoteca di Cantù con i soggetti ritenuti appartenenti alla famiglia Palamara di Africo che preoccupa inizialmente il padre Antonio Valenzisi, al punto da invitare il figlio a tornare, e in fretta, per evitare altri guai. «Ok Giuseppe, vienitene a casa, mi fai un favore?» dice al figlio, «che domani lo sistemo io, provvedo poi vedo con suo cugino». Poi le raccomandazioni, addirittura – è scritto nel fermo – piangendo e profferendo le parole «Noo, Giuseppe noo!» e poi pregandolo: «…vieni qua! vieni qua! vieni qua! per favore!… per favore te lo chiedo!». Il timore su ciò che potesse accadere al figlio e che la lite, poi, potesse degenerare a sfavore del figlio hanno fatto impensierire Antonio Valenzisi al punto di incontrare subito il figlio in un noto bar di Caslino. Nel frattempo gli inquirenti hanno captato diverse conversazioni, anche ambientali, ma anche le immagini di videosorveglianza che – secondo l’accusa – mostrano l’arrivo di Giuseppe Valenzisi insieme ad altre persone e i ripetuti rimproveri da parte del padre. 

«’sti paesani tuoi non hanno una guida» Ma, come riusciranno a documentare più tardi gli inquirenti, nella stessa mattinata, sarà ancora Antonio Valenzisi a discettare le regole di ‘ndrangheta da seguire, e la necessità – soprattutto – di mantenere “ordinato” il territorio. «(…) sti cuatrari senza regole… ‘sti paesani di oggi, no rispetto no regole non sanno che il territorio deve restare ordinato, niente non valgono niente». E ancora: «(…) ma può essere che questi paesani tuoi non hanno una guida, non hanno una regola, non hanno niente… non valgono niente… mi fa svegliare la mattina, la notte questo mi chiama che litiga con quel pisciaturu», riferendosi alla lite avvenuta solo qualche ora prima tra il figlio e il cugino di Leo Palamara. 

«Dentro i loro ambienti non possono fare quello che vogliono» La vicenda verrà poi affrontata ancora il giorno successivo tra i fratelli Antonio e Roberto Valenzisi, considerato anche lui – secondo l’accusa – appartenente alla locale di Fino Mornasco, attivo nella gestione dello spaccio e dei rapporti con altre famiglie, risolvendo anche una serie di “conflitti” di altre famiglie mafiose. «(…) sabato ha litigato di nuovo Giuseppe (ndr Giuseppe Valenzisi) con quelli di Cantù…sti “pisciaturi” di merda» dice Antonio al fratello, che risponde: «(…) quattro “sfacciuna” dei paesani suoi. Si spaccia per cugino». «Ora glielo dico, gli dico – continua poi Antonio Valenzisi – ma può essere che in questo paese di Africo non avete i coglioni per insegnargli ai “cristiani”, ai “cutrari” come devono stare…che dentro i loro ambienti non possono fare quello che vogliono…sti “porcherusi” di merda.. così gli ho detto “porcherusi” di merda.. perché tu non puoi, vanno in discoteca a fare discussioni ogni volta che le persone si spaventano di andare là che si litigano con questi quattro…». 

I contrasti con gli “africoti”  Quello con gli “africoti” è evidentemente un problema che ha radici lontane. In una conversazione tra i due fratelli – captata dagli inquirenti – l’argomento torna di attualità quando Roberto Valenzisi racconta al fratello di un diverbio avuto tempo addietro con un compaesano, forse all’interno di un locale, e per questioni legate ai soldi, poco più di 5 euro. «(…) gli ho detto sai che qua siamo tutti calabresi però un pò di educazione la dovremmo avere.. e ha detto: “ma perché sei calabrese? lo potevi dire.. non lo potevate dire prima!” e io gli ho detto: “perché se uno è calabrese lo trattate in un modo e se non è calabrese lo trattate in un altro no?». E poi la chiosa: «(…) gli africoti li odio… già li odiavo prima…solo Leo (ndr Leo Palamara) mi è simpatico..forse non ha un cazzo a che fare…». «Se uno mi parla di africoti il cervello alle stelle…un bordello hanno fatto.. la figlia terrorizzata per cinque euro..dovevo dirgli che sono calabrese».

Le regole di ‘ndrangheta in Lombardia  Per l’accusa si tratterebbe di conversazioni che evidenzierebbero – ancora una volta – quanto siano fondamentali, per l’esistenza e la sopravvivenza della ‘ndrangheta, le “regole” di comportamento. Le violente esternazioni di Antonio Valenzisi, per gli inquirenti, sono «un rabbioso appello all’educazione dei giovani al rispetto delle regole di ‘ndrangheta» e che hanno un senso in quanto da una parte provengono da un soggetto che della ‘ndrangheta fa parte, dall’altro sono diretti a soggetti che, in quanto anche loro appartenenti alla stessa organizzazione criminale, possono recepire e condividere quelle rimostranze.(redazione@corrierecal.it)


LA STORIA
«Ridotto sul lastrico dai calabresi Ho perso azienda, casa e moglie»

 Vertemate con Minoprio Per un debito non suo si ritrova nella rete di Ficarra e Tagliente Fu anche costretto a comprare a prezzi record due appartamenti dell’Edilbulldog di Iaconis. La signora Rita, a un certo punto, ha detto che poteva bastare. Dopo aver perso ogni cosa, compreso l’amore per suo marito, decide che è il momento di bussare ai carabinieri. Per raccontare un incubo durato 9 anni. E cominciato nel 2009, quando l’ex consorte si era appena lanciato nel mondo dell’imprenditoria prelevando un’azienda attiva nella commercializzazione e nell’installazione di impianti di climatizzazione , con commesse in giro per il Nord Italia. Le prime nuvole, sul futuro dell’imprenditore e della sua famiglia, portano il cognome Ficarra.

L’incontro fatale. Roberto (l’ex marito) mai avrebbe raccontato ai detective dell’antimafia come la ’ndrangheta gli ha svuotato la vita. Oggi, lui, lavora come magazziniere. All’epoca amministrava la sua impresa cercando di far fronte ad alti e bassi di liquidità. Il 7 dicembre 2009 si presentano in sede il titolare di una ditta di Vertemate (a sua volta vittima di estorsione) assieme a Domenico e Daniele Ficarra: «Ricordo che erano soggetti originari di Gioia Tauro e rivendicavano con fierezza le loro origini calabresi. Rivendicavano un credito di circa centomila euro da parte di questa società di Vertemate» nei confronti del vecchio proprietario della società acquisita da Roberto. «Mi facevano presente che adesso la ditta era stata rilevata da loro e che quindi il debito che aveva» il precedente proprietario dell’azienda di Roberto «era transitato a loro, e pertanto io ero un loro debitore. A questo punto iniziavano a fare delle vere e proprie intimidazioni: mi facevano capire che erano armati mostrando il borsello che aveva addosso il signor Ficarra, contestualmente facendomi presente che loro avevamo il modo sicuro per recuperare il denaro».  Il giorno dopo Roberto è costretto a recarsi assieme al vecchio titolare della sua impresa a Vertemate, nella ditta che i Ficarra dicono di aver acquisito: «Veniva stabilito che io dovessi sottoscrivere al proprietario» della società comasca «dodici assegni dell’importo di 10mila euro l’uno, che avrei dovuto pagare mensilmente per un anno». In realtà Roberto, per paura, è caduto in un tranello perverso.

L’inganno perverso «Qualche giorno prima della scadenza del primo assegno, si presenta in ufficio Marcello Ficarra, fratello dell’uomo che avevo conosciuto in precedenza. Mi chiede se potevo fargli un piacere in quanto aveva un amico presidente del Cadorago calcio che aveva bisogno di una sponsorizzazione». L’amico in questione è Alessandro Tagliente, pure lui tornato in cella martedì mattina con l’accusa di associazione mafiosa, considerato braccio destro del boss della locale di Fino Bartolomeo Iaconis. Roberto accetta – e stacca altri assegni – e in quella circostanza riceve una promessa di aiuto: «Mi promise che si sarebbe attivato per aiutarmi nel pagamento del debito nei confronti» della società di Vertemate. Il fatto è che, nel frattempo, anziché rispettare la scadenza mensile i Ficarra usano gli assegni di Roberto per pagare una serie di società tra le quali anche una delle cooperative di Pravisano, poi fallite. E così in pochi mesi i 120mila euro in assegni vengono messi in protesto creando non pochi guai all’imprenditore. Ma la ’ndrangheta si dimostra sempre pronta ad aiutare. Roberto si ritrova al bar Bulldog di Cadorago con Marcello Ficarra che gli presenta Tagliente che «con fare cordiale e rassicurante, mi disse che avrebbe cercato di aiutarmi, dandomi dei soldi in contanti». L’imprenditore riceve 20mila euro, e pochi mesi dopo Tagliente – secondo il suo racconto – gli fa sapere che il debito nei suoi confronti è salito a ben 60mila euro (di cui 40mila di interessi).  Ma anche qui la soluzione c’è: «Ficarra promettendomi che il mio debito nei confronti del Tagliente sarebbe stato ridotto, mi propose di acquistare due appartamenti a Cadorago in via Cavour, di proprietà della Edil Bulldog, i cui soci erano Bartolomeo Iaconis e la moglie di Tagliente, Elisabetta Rusconi.Gli dissi che avrei accettato, ma che non avevo assolutamente denaro per poter fare l’operazione. Tagliente mi disse che aveva un amico direttore di banca che mi avrebbe agevolato nella concessione del mutuo».  Risultato: Roberto accende un mutuo da 280mila euro che non sarà in grado di ripagare. I Ficarra e Tagliente spariscono, l’imprenditore fallisce. Gli appartamenti comprati vanno all’asta per una cifra molto inferiore a quella pagata. Roberto perde tutto: i due immobili di Cadorago, la ditta di impianti di climatizzazione, la casa famigliare, il lavoro, la moglie.    «Ho detto più volte a Tagliente che mi stavo esponendo irrimediabilmente dal punto di vista economico e che non ottenevo alcun beneficio dal suo aiuto. Ha sempre glissato l’argomento e rimandato ad altra occasione una revisione dell’intera situazione». Poi il tempo è finito. P.Moretti La Provincia 19.11.2021


Como, la nuova mafia? E’ un service per aziende  Come cambia la criminalità organizzata in Lombardia. Restano droga ed estorsioni le attività prevalenti: ma dalla richiesta di protezione si passa al “lavoro” con le imprese

Parlare oggi di ‘ndrangheta nel Comasco, cercare di capire i motivi di una presenza ormai innegabile, radicata e ultimamente capace anche di mutare adeguandosi ai nuovi mercati del lavoro, significa fare un salto indietro nel tempo. Innanzi tutto agli anni Cinquanta, quando decine di provvedimenti di confino avevano mandato al Nord soggetti appartenenti alle associazioni criminali calabresi. Si sperava di spezzare i legami criminali, si è finito per trasferirli in un contesto florido e incapace di difendersi da una cultura criminale all’epoca sconosciuta. Il secondo passaggio è una data precisa: 15 giugno 1994, quando l’operazione “Fiori della Notte di San Vito”, per la prima volta aveva racchiuso in centinaia di pagine di un’ordinanza di custodia cautelare, i nomi di 370 referenti di quella criminalità che aveva ormai preso spazi e potere, grazie a un’attività basata su traffico di droga, estorsioni, usura, minacce, compravendita di armi e omicidi. Un provvedimento che rimane un punto di riferimento ancora oggi, perché per molti dei soggetti coinvolti già all’epoca, gli anni di carcere sono stati poco più di una pausa. Fastidiosa ma non sufficiente a ridimensionare le posizioni di potere.Lo hanno dimostrato ampiamente le indagini che si sono avvicendate in questi ultimi anni: Infinito nel 2010, Insubria nel 2014, e ora quest’ultima delle Dda di Milano e Reggio Calabria. Perché i cognomi di chi viene coinvolto con ruoli essenziali o apicali non cambiano. I soggetti aumentano di numero con il coinvolgimento di nuove generazioni che nel 1994 non esistevano, e dieci anni fa erano troppo giovani per sparare nelle vetrine dei negozi o presentarsi agli imprenditori pretendendo contanti. Ma la prepotenza non cambia. Quello che è cambiato in questi anni, sono gli obiettivi.  La stagione degli omicidi tra criminali è cessata da tempo, praticamente spariti gli atti intimidatori plateali, spari o esplosioni di ordigni.  La droga rimane una costante, un mercato che non si abbandona e non si cede, perché continua a essere l’attività più redditizia, basata su un mercato sterminato. Anche le estorsioni non sono state accantonate, ma sono profondamente cambiate le modalità. Non più quattro spari alla porta di casa, e la richiesta di protezione qualche giorno dopo. Ora si parla di prestiti di denaro, risoluzione di problemi di varia natura fingendo di andare in soccorso degli imprenditori, infiltrazioni nelle attività, imposizioni di assunzioni.  IL GIORNO 21.11.2021


Criminalità organizzata a Lomazzo Il vicesindaco: «Sono incredula Ho sempre lottato contro la mafia» «Mai chiesto favori, premiato l’impegno sul territorio».

A dirsi assolutamente lontana da ogni possibile coinvolgimento con attività e ambienti legati alla criminalità organizzata è anche il vicesindaco e assessore all’istruzione Annamaria Conoscitore.  «Ho la coscienza del tutto pulita e a posto, quando ho appreso d’essere stata accostata a queste vicende sono rimasta sbigottita e allibita, mai avrei immaginato che potesse capitarmi una cosa del genere., la legalità è infatti la mia stella polare – assicura il vicesindaco, ancora choccata e incredula per quanto avvenuto – sono sempre stata impegnata a combattere per la legalità a 360 gradi, anche con le attività promosse assieme ai miei studenti del “Melotti” mi sono costantemente schierata contro le mafie. Era già in corso da quest’estate l’organizzazione delle nuove iniziative per fare del nostro liceo un concreto presidio a favore della legalità, che sarà inaugurato il 4 dicembre: nel pomeriggio alle 16, in sala Garibaldi, ci sarà un incontro cittadino con Marisa Garofalo, sorella di Lea, che ha pagato con la vita il suo no alla ‘ndrangheta». LA PROVINCIA


Le intercettazioni – I palombari arrivati dal Perù per recuperare la cocaina. “Segregati” a Gioia Tauro al servizio della «Nuova narcos europea»  Gli spostamenti dei tre esperti della Marina militare per evitare i controlli. L’acquisto di canne da pesca per passare inosservati al porto. 

«Quello che dobbiamo fare adesso è spegnere i telefoni, dobbiamo buttare tutto: vestiti, scarpe, tutto quello che abbiamo, dobbiamo tenere solo le cose più importanti. Adesso verranno a prenderci e si deve buttare tutto (…) immagino che anche i telefoni, tutto, tutto». Gli “stranieri” si trovano a Gioia Tauro, nascosti in un appartamento: si tratta di un militare della Guardia costiera peruviana e di due appartenenti alla Marina militare dello stesso Paese. I tre, tutti sommozzatori, secondo la Dda di Reggio Calabria «erano stati assoldati dalla cosca Molè per effettuare recuperi in mare di alcuni carichi di sostanza stupefacente fatti affondare, in tutta sicurezza, nelle acque di Gioia Tauro». Muniti di canne da pesca e altro materiale gli accoliti del clan, assieme ai peruviani, sarebbero passati inosservati nell’area portuale e avrebbero raccolto al largo i “frutti” dei loro traffici. Dopo un blitz degli agenti della Mobile di Reggio Calabria, Nilton Cesar Ccaico Tacuri, Angello Gianpierre Delgado Corbetto e Kevin Cesare Valverde Huaranga vengono spostati per evitare che le forze dell’ordine li individuino. I poliziotti, però, ascoltano tutto, monitorano il trasferimento e registrano l’apprensione di chi dovrà ospitare i presunti sommozzatori. «Mi hanno portato gli stranieri dentro casa, se non esco pazzo ora», sbotta Antonio Ficarra, uno degli indagati. La madre tenta di rassicurarlo e lui rincara la dose: «Sono tutti sotto controllo, telecamere dovunque, siamo bruciati ormai». 

«Chimici e palombari lavorano per i narcotrafficanti di Gioia Tauro» Per gli inquirenti il quadro è chiaro: «La presenza dei palombari e quella dei chimici sono riconducibili all’organizzazione gioiese dei narcotrafficanti facente capo a Rocco Molè e Giuseppe Condello». Secondo il timing ricostruito dall’accusa, due palombari erano a Gioia Tauro dal 10 novembre 2019 e un subacqueo li avrebbe raggiunti il 16 novembre. Un controllo nel primo appartamento in cui i tre sono stati ospitati insospettisce gli uomini della cosca. Il trasferimento a un nuovo indirizzo, però, non fa che confermare, dalla viva voce dei protagonisti, quale sia lo scopo di quella presenza
Il gip analizza gli atti e ricostruisce i movimenti dei presunti membri del clan, sottolineando la simulazione di «un’attività di pesca al porto di Gioia Tauro alla quale, per loro stesso dire, non si erano mai dedicati e per la quale non avevano nessuno specifico interesse». Il clan pensa a vitto e alloggio, i “tecnici” peruviani al recupero della cocaina. Sono costantemente tappati in casa, segregati: aspettano di entrare in azione e, quando escono, vengono scortati. Scoppia il panico quando le forze dell’ordine fanno irruzione nel covo. I tre pianificano l’eliminazione dei telefoni. Ma, mentre le cimici sono in funzione, uno di loro si lascia sfuggire: «Però la cocaina… domani notte». È una frase che, per il gip, spiega la «loro presenza a Gioia Tauro». 

«La cocaina era già nelle acque del porto» Non ci sono dubbi – riportiamo il ragionamento contenuto nell’ordinanza di custodia cautelare –: «I palombari avrebbero dovuto recuperare – e probabilmente hanno in parte recuperato – nelle acque dell’area portuale della cocaina ivi occultata ed evidentemente già nella disponibilità dei gioiesi». Anche se non ci sono «certezze» riguardo «all’avvenuto recupero della droga in mare», il «meccanismo di uomini e mezzi messo in piedi dai gioiesi» assieme «alla presenza prolungata dei “palombari” stranieri induce a ritenere che certamente la cocaina fossa già in quelle acque e fosse già stata acquisita dal Molè e dal gruppo da lui capeggiato». Doveva «solo essere recuperata da uomini esperti per l’appunto reperiti dai gioiesi ed ospitati a Gioia Tauro per giorni al solo fine di portare a termine la parte finale della intera operazione». 

«Siamo la Nuova Narcos europea» Peraltro, l’utilizzo dei sommozzatori sarebbe un dato confermato dalle indagini sui tentativi di importazione dal Sud America di cocaina a bordo di container che giungevano nel porto di Livorno. In una di queste circostanze, due operatori portuali «utilizzati dai gioiesi per il recupero dei container illeciti, utilizzando un telefono riservato che era loro stato consegnato per le comunicazioni», avrebbero letto «alcune chat che intercorrevano tra gli stessi gioiesi». Il gruppo Molè, in queste conversazioni, si sarebbe definito «la Nuova Narcos Europea» e avrebbe manifestate, davanti alle difficoltà di esfiltrazione della cocaina dall’area portuale di Livorno, la possibilità che la droga «venisse buttata in mare e poi recuperata con i sommozzatori». (p.petrasso@corrierecal.it)


NUOVA NARCOS EUROPEA  «Non c’è più differenza nell’agire mafioso: la ‘ndrangheta è violenta al Nord come al Sud» 

Il cartello internazionale della droga. La rieducazione “fallita” di “Roccuzzo” Molè. Bombardieri: «Minacce ed estorsioni non lasciavano spazio alla libera concorrenza». Quello che la maxi-operazione “Nuova Narcos Europea” mette in luce è «la rilevanza dell’offensività criminale della cosca, che ha operato in diverse parti del territorio nazionale con le stesse identiche modalità offensive e incisive che ha adoperato nel territorio in cui essa è endemicamente presente da decenni». Lo dice il prefetto Francesco Messina, capo della Direzione centrale anticrimine, presente alla conferenza stampa di questo 16 novembre alla Questura di Reggio Calabria. La cosca di riferimento sono quei Molè spesso dati per superati dalle stesse cronache che puntualmente ne registrano il ritorno in scena. Così era stato già nello spaccato dell’inchiesta “Handover”, dov’erano documentati anche i rapporti con le altre “famiglie” della Piana come i “Pesce” di Rosarno. Così nella più recente “Geolja”, che raccontava la “pax” coi “Piromalli” per evitare conflitti intestini che si sarebbero frapposti alla reciproca egemonia nella Piana di Gioia Tauro (con riguardo al business delle estorsioni). Il nome “nuovo” è quello di Rocco Molè, classe 95, figlio di Girolamo, arrestato a marzo 2020 dopo il rinvenimento – sepolti nel giardino di casa sua – di 537 chili di cocaina.
Il suo nome spicca tra quelli delle 36 persone destinatarie di misura cautelare per quanto attiene il filone reggino dell’inchiesta. A queste si aggiungono anche le 14 misure eseguite su richiesta della Direzione distrettuale antimafia di Firenze, dove titolare del fascicolo è il sostituto procuratore Eligio Paolini e alle 54 della Dda di Milano, guidata da Alessandra Dolci. Un’operazione su vasta scala che ha visto l’impiego di quattro Squadre mobili tra Reggio Calabria, Milano, Livorno e Firenze coordinate dallo Sco e dalla Direzione centrale anticrimine. «Il risultato odierno è frutto di diversi anni di attività e per me motivo di orgoglio», dice il questore di Reggio, Bruno Megale, ringraziando i componenti della sua squadra. Alla fine, le misure cautelari eseguite sono in tutto 104 alle quali si aggiungono anche i sequestri di una serie di aziende tra la Calabria (con riguardo alla “Ulisse” e alla “Ngt” operanti nel settore ittico) per un totale di beni di circa un milione e altre regioni per oltre 2,5 milioni di euro.

La “Nuova Narcos Europea”  «Il nome dell’operazione – anticipa il procuratore capo di Reggio Calabria, Giovanni Bombardieri – non è frutto della fantasia della Pg, ma viene ricavato da un’intercettazione dove un portuale fa espresso riferimento a questa organizzazione definendola “Nuova Narcos Europea”». Un’organizzazione ramificata anche oltre i confini continentali, come testimonia l’impiego di chimici provenienti dal Sud America o la presenza monitorata, al porto Gioia Tauro, di palombari in possesso del tesserino della marina militare peruviana. Gli arresti si dipanano anche in Polonia, Portogallo e nei due cantoni svizzeri del Ticino e di San Gallo. L’operazione coinvolge un “cartello internazionale” attivo in Spagna, crocevia dei traffici che collegavano – come da prassi consolidata, verrebbe da dire – i canali del sudamericani al porto della Piana. Proprio l’operatività in più paesi, specie quelli dove sconosciuto è il reato di associazione mafiosa, punito dal nostro codice penale all’articolo 416-bis, «ha reso l’indagine ancora più complessa», spiega ancora Messina.  
L’entità dei traffici non si ferma alla proiezione della “droga parlata”, ma è tangibile già nei sequestri della droga arrivata in Italia anche durante il periodo del “lockdown”: oltre 1.100 grammi di cocaina sequestrata a Livorno tra il 6 e l’8 novembre 2019 ai quali si aggiunge il sequestro operato ai danni di Rocco Molè il 25 marzo 2020. Sempre nel 2019, tra la Calabria e l’Emilia Romagna gli inquirenti documentano altri quattro sequestri per un totale di oltre 35mila chili di cocaina. «Nel settore del narcotraffico – riporta la Pg – si ritiene che la cosca abbia operato non solo per approvvigiornarsi di ingenti quantitativi di cocaina, ma anche per il successivo recupero in mare dello stupefacente e per la lavorazione dello stesso».

Una ‘ndrangheta non più “silente”  «Ritengo che nell’ambito di questa vastissima operazione la realtà di Gioia Tauro sia fondamentale» dice ancora il capo della Dca, Francesco Messina. Nel modus operandi delle “famiglie” della Piana starebbe infatti il germe di quello che pare si stia replicando anche in altre parti del Paese. «Anche nella realtà lombarda, in particolare nel Comasco e nel Varesotto, dove la cosca operava con estorsioni a tappeto. Non esiste più una differenza dell’agire mafioso. – dice Messina – Una volta della mafia si diceva che andasse al Nord solo per fare affari» e investire. «Lo spaccato di questa indagine è che c’è un’attività violenta nei confronti di diverse aziende per decine, centinaia di migliaia di euro» finalizzata al controllo del territorio. Le importazioni milionarie di stupefacente sarebbero solo una parte di quadro più ampio che comprende anche condotte di autoriciclaggio, reati fiscali ed estorsioni, solo per citare alcune delle contestazioni.

I controllo del mercato ittico del porto  Giovanni Bombardieri, procuratore capo di Reggio Calabria  «Non è vero che la cosca Molè è in disarmo». Anzi, nel tempo sarebbe riuscita a intrecciare rapporti con “locali” come quella di Giffone, nel Comasco, dove riemergono nomi già noti alle autorità da inchieste come “la notte dei fiori di San Vito”, che tra le prime racconta de “La Lombardia”, direzione centrale autonoma e riconosciuta dalla “casa madre”.  Il gip Tommasina Cotroneo «ha valutato la fondatezza del quadro giudiziario».
«Qui viene ricostruita in particolare l’operatività di questa cosca che si qualificava come “una delle due famiglie di Gioia Tauro”», dice il procuratore reggino Bombardieri. Il riferimento è ad un’intercettazione che vede protagonista proprio “Roccuzzo” Molè che ad uno dei chimici sudamericani intervenuti in Italia spiega come la sua fosse una delle “famiglie” della Piana «e quando ci rialzeremo tutti dovranno passare, me li ricordo tutti».   Nel filone calabrese dell’inchiesta, tra gli altri, viene documentato il controllo del mercato ittico del Porto di Gioia Tauro. «Abbiamo una serie di riscontri sulla imposizione sia del conferimento del pescato da parte di alcune aziende che sono state sequestrate perché riferibili alla cosca Molè», in particolare ad Antonio Albanese, nonno di Rocco Molè, nonché «imposizione dell’acquisto del pescato da queste aziende». «In una maniera violenta, che non lasciava spazio ad alcun tipo di concorrenza». Accanto a queste attività ci sono anche una serie di estorsioni di somme di denaro destinate al mantenimento delle famiglie dei detenuti. «La cosca Molè si dimostra quindi operativa sia sotto il profilo ‘ndranghetista “puro”, di controllo delle attività economiche, sia sotto il profilo del traffico internazionale di stupefacenti».

La vicenda del distributore di carburante nel Comasco Gaetano Paci, procuratore aggiunto. Accanto a lui Francesco Messina, capo della Direzione centrale anticrimine «Quello di oggi è un primo approdo che però ci dà l’idea della complessità della struttura criminale». Il procuratore aggiunto Gaetano Paci parte da un episodio emblematico per comprendere le attività della cosca anche oltre le regioni storiche. È il caso dell’apertura di un distributore di carburante nella provincia di Como. Un’attività che «doveva essere destinata in un primo tempo a un soggetto imparentato con la cosca “Pesce”». Un altro imprenditore locale «non calabrese e non certamente ‘ndranghetista», chiede «ed ottiene l’intervento dei “Molè” affinché il distributore non venga affidato al primo soggetto prescelto».
«Qui sta – secondo Paci – il fulcro dell’operatività della ‘ndrangheta su tutto il territorio nazionale» anche a fronte delle disponibilità economiche in suo possesso.  La rieducazione “fallita” di “Roccuzzo” Molè La cosca Molè «dopo una fase calante» frutto dei contrasti con i “Piromalli” che «portarono prima all’omicidio dello zio (omonimo, ndr) di Rocco Molè e all’incarcerazione del padre, Girolamo» torna in auge.
Al comando sale allora il giovane Rocco che «già nel 2019 ha una fortissima interrelazione con soggetti della cosca “Pesce”, poi della cosca “Crea”, ma anche dell’Alto Tirreno e del Vibonese».
Ad impedire il passaggio del testimone all’interno della “famiglia” non era bastato «un approccio rieducativo avuto in passato dal giovane». Il percorso svolto in una comunità in Lombardia si prefigge l’obiettivo di «strappare i giovani delle cosche di ‘ndrangheta da un destino quasi ineluttabile». Destino al quale “Roccuzzo” non è riuscito a scampare dacché «ritornato, ha dovuto prendere le redini dell’organizzazione». Il suo ruolo di leader «riconosciuto in gran parte del territorio» è nutrito dalle direttive del nonno, Antonio Albanese, «che non ha di certo un ruolo secondario».
«Tutto questo, per altro, nonostante la situazione di non facile coesistenza con la cosca “Piromalli” e la possibilità di rivendicare un ruolo che in passato era andato perso».
Il procuratore aggiunto conclude poi con un appello agli imprenditori – specie calabresi – che «nonostante anni di sopraffazione hanno deciso di non denunciare». Appello rilanciato dal capo della squadra mobile reggina, Alfonso Iadevaia: «Siamo di fronte a una mafia imprenditoriale, ma quando c’è da fare cassa non lesina minacce ed estorsioni». La reazione delle vittime rimane la chiave per scardinare il sistema. (redazione@corrierecal.it) 17.11.2021


L’infedele del ministero e i passaporti falsificati per “coprire” due latitanti di ‘ndrangheta  Per la Dda di Firenze, i documenti “lavorati” servivano a Catalano e Palamara per   Passaporti falsi per coprire anche la latitanza di persone appartenenti al gruppo criminale. È uno degli elementi più rilevanti emersi dall’inchiesta coordinata dalla Dda di Firenze e che ieri ha portato al fermo di 13 persone, su richiesta del gip Giampaolo Boninsegna, nell’ambito dell’inchiesta che ha visto il coinvolgimento delle Procure di Reggio Calabria e Milano contro il narcotraffico, assestando un duro colpo al clan di ‘ndrangheta riferibile ai Molè di Gioia Tauro, ma non solo.

L’infedele in Commissariato  Secondo le indagini, infatti, il gruppo guidato da Emanuele Fonti, finito in carcere, considerato il “trait d’union” tra le varie organizzazioni criminali coinvolte  committenti (quella di Guardavalle, i Pesce-Bellocco-Molé operante nella piana di Gioia Tauro) era anche in grado di ottenere passaporti falsi o comunque contraffatti, dietro pagamento in denaro, sfruttando un dipendente della Questura di Milano e in servizio nel Commissariato di Legnano «conosciuto grazie ad un amico Calabrese mezzo latitante», come racconta Fonti. Si tratta Nicodemo Francesco Callà, classe ’54 e originario di Mileto, anche lui fra gli arrestati. Da quanto sarebbe emerso dall’inchiesta, infatti, sarebbe lui il «dipendente amministrativo del ministero dell’Interno» incaricato dal gruppo per ottenere la falsificazione dei passaporti, dietro compenso. 

10mila euro per il passaporto  Come quello ottenuto dallo stesso Fonti che – come racconta – lo avrebbe ottenuto dietro al pagamento di 10mila euro, anche perché, spiega lui stesso nella conversazione intercettata, per muoversi all’estero non si potevano utilizzare passaporti originali nella struttura ma falsificati nelle generalità in quanto ai controlli di Polizia questi sarebbero stati immediatamente individuati, a causa dei chip che li corredano. Così come era già successo in Olanda quando fu fermato al controllo aeroportuale, a seguito del quale venne accertata la falsificazione del documento esibito. «Adesso gli sto facendo fare un altro per un’altra persona, che poi quest’altro cretino qua, pensa che le persone sono sceme mi ha mandato via WhatsApp gli ho fatto mandare, ha fatto la foto alla carta d’identità». Uno stralcio di una conversazione intercettata che restituisce chiaramente la rilevanza della figura di Callà all’interno del gruppo criminale. Sarebbe stato lui, infatti, a “lavorare” altri passaporti per altri latitanti delle ‘ndrine calabresi, fondamentali per i viaggi all’estero. Sono almeno tre quelli individuati dagli inquirenti e recanti nominativi che, di fatto, nascondevano la vera identità dei latitanti. 

Passaporti falsi per veri latitanti  Come quelli riconducibili a “Marco Luigi Zaninello” e “Giacomo Pugliese”: per gli inquirenti sono nomi utilizzati in realtà per coprire la latitanza di Mario Palamara, tuttora irreperibile, ritenuto dagli inquirenti il committente per l’importazione di quantitativi ingenti di droga attraverso i contatti in Sudamerica. Come quelli documentati dagli inquirenti in occasione dell’importazione di oltre 400 kg cocaina nel porto di Livorno. C’è poi il passaporto di “Carmelo Maesano”, invece, era a tutti gli effetti il passaporto utilizzato da un altro latitante, Antonio Catalano, anche per l’espatrio in Colombia risalente al 16 gennaio del 2019. Catalano, insieme a Palamara, è coinvolto nell’inchiesta “Picciotteria bis” e condannato a 12 anni di carcere. Passaporti “veri” ma falsificati, documenti fondamentali per i latitanti per continuare a muoversi in totale libertà, garantendo così il massimo apporto possibili per i disegni criminali del gruppo. (redazione@corrierecal.it) 17.11.2021


La Procura: «Una ’ndrangheta 2.0 Pensa agli affari e alle frodi fiscali» Il commento Alessandra Dolci, capo della Dda: «I clan sfruttano gli imprenditori e la politica» L’appello del procuratore: «Alzare il livello d’allerta per arginare la criminalità organizzata»  Alessandra Dolci, la coordinatrice della Dda, la definisce la «società per affari ’ndrangheta 2.0». È il nuovo volto della criminalità organizzata calabrese, che – per dirla con il sostituto procuratore Sara Ombra, una delle titolari dell’inchiesta – «ha compreso come le frodi fiscali, le false fatture consentano comunque guadagni ingenti ma con rischi inferiori» ai vecchi metodi quali «le estorsioni parassitarie» tipicamente mafiose. Ma attenzione a non confondersi, perché le estorsioni restano, le violenze e le minacce pure.

Il perché dei fermi  Gli investigatori della Direzione distrettuale antimafia di Milano cercano di dare una chiave di lettura di un’inchiesta che ha portato a contestare ben 125 capi d’accusa. Indagine sfociata con 54 provvedimenti di fermo e non di custodia cautelare. Tradotto: la Procura non è passata al vaglio del giudice delle indagini preliminari. Spiega Alessandra Dolci: «Reggio Calabria e Firenze stavano per eseguire i loro arresti» nell’ambito di un’inchiesta strettamente collegata «e così siamo stati costretti a intervenire con i fermi». La dottoressa Dolci parla di una ’ndrangheta che cambia strategia: «Ora sfrutta gli imprenditori, acquisisce il loro know how nei settori di riferimento». I clan si lanciano nel settore delle cooperative in particolare «nelle pulizie, nei servizi alberghieri, nel facchinaggio». Secondo Pasquale Addesso, che quando era a Como aveva coordinato l’indagine da cui poi è scaturito il filone sulla criminalità organizzata sfociato con i fermi di ieri mattina, «le metodologie tradizionali dei clan e l’infiltrazione nei settori economici e nelle aziende ora coesistono». LA PROVINCIA 17.11.2021


Cantù e Lomazzo Voti sospetti dietro le elezioni  L’indagine Tanta politica nelle carte dell’antimafia Intercettati anche un assessore e una vicesindaco C’è anche un po’ di politica nelle 1440 pagine dell’ordinanza con cui l’antimafia di Milano ha motivato i 54 fermi di ieri, politica – soprattutto – con il cappello in mano, alla ricerca continua di appoggi, sostegno, in definitiva di voti. Si ritrovano, per esempio, i nomi dell’ex sindaco di Lomazzo Marino Carugati e dell’ex assessore Cesare Giovanni Pravisano, i quali – come chiarito ieri dal pm Pasquale Addesso – avrebbero addirittura preso parte a una riunione degli uomini del clan Molé in quel di Gioia Tauro nel lontano 2010, quando attorno allo stesso tavolo si sedettero anche alcuni «imprenditori estorti» che accettarono «di fare entrare la ’ndrangheta a cui interessava investire».

Le intercettazioni   Un caso emblematico, stante il contenuto delle lunghe intercettazioni, è tuttavia quello delle elezioni amministrative della primavera del 2019, con particolare riguardo alle campagne elettorali per il rinnovo dei consigli comunali di Cantù e Lomazzo. Un ruolo centrale, in questo caso, lo ricopre Giuseppe Valenzisi, lomazzese, all’epoca 29enne, figlio di Antonio, 57 anni, sottoposto lui pure a fermo all’alba di ieri ma in realtà già costretto ai domiciliari per una storia di droga e armi risalente a un paio di anni or sono.  A Valenzisi – definito dagli inquirenti un personaggio “cerniera” tra gli ambienti del crimine organizzato e la politica locale – si rivolge nel maggio di quell’anno Antonio Tufano, consigliere comunale a Como tra le fila di Fratelli d’Italia (all’epoca con Forza Italia). Tufano – che non risulta comunque indagato – invita Valenzisi in un ristorante di Cantù ad una cena alla quale prende parte anche Mirko Gaudiello, poi nominato presidente del consiglio comunale della città del mobile. Il resoconto della serata si deve allo stesso Valenzisi che, a cena conclusa, racconta alla fidanzata: «Tony (Tufano, ndr) gli ha detto che nella mia zona mi conoscono veramente in tanti e che gli avrei dato una mano». Un nome che ritorna è anche quello di Nicola Fusaro, assessore a Lomazzo, cui lo stesso Valenzisi, in quei giorni del maggio 2019, si rivolge per lamentare la mancata propria candidatura. A Fusaro gli inquirenti sembrano attribuire un certo “peso” nell’economia dei rapporti tra politica e ambienti ritenuti di interesse investigativo. Una sorta di “redde rationem”, un chiarimento forse anche in relazione a quella mancata candidatura, è in programma in un b&b di Lomazzo, in Vicolo Appennini. I partecipanti non lo sanno, ma lì fuori ci sono anche gli investigatori dell’Antimafia che riconoscono le auto di Fusaro, del consigliere comunale di Montano Lucino Giuseppe Cangialosi e di quello di Lomazzo Fabio Soldini (nè l’uno né l’altro risultano indagati). Valenzisi lascia la reunion attorno alle 20.30, nessuno è in grado di dire di cosa si sia parlato ma il 15 maggio, in una ulteriore intercettazione tra l’ex vicesindaco Giovanni Reiners (neppure lui indagato) e l’ex bancario Cesare Pravisano, 61 anni, oggi denunciato per associazione di stampo mafioso ma già coinvolto nell’inchiesta sulle false coop fallite (ottobre del 2019), la mancata candidatura di Valenzisi torna d’attualità: «Questo – dice Pravisano – lo mettevo anche in giunta (…) Era uno che faceva bene le nostre cose». Per chiarire ancora meglio il contesto vale la pena di tornare a Fusaro che pochi giorni dopo , il 13 giugno, a una amica di famiglia coinvolta in un contenzioso per l’affitto di un capannone industriale, sconsiglia di avviare una azione legale contro l’ex primo cittadino Carugati e contro Pravisano: «Occhio andare a minacciare Pravisano… Perché dietro – le dice – c’è la ’ndrangheta». La conversazione, secondo i magistrati della Dda, avvalora ancora di più l’ipotesi di un possibile legame tra l’assessore comunale di Lomazzo e la malavita organizzata, così come la avvalora il contenuto di un’altra conversazione, intercorsa tra il vicesindaco di Lomazzo Annamaria Conoscitore e, di nuovo, Tony Tufano. La vicesindaco dice che Fusaro potrebbe essere «un corrotto», poiché in grado di far confluire sulla propria lista i voti di Francesco Crusco, uno «che ha in mano 300 calabresi» e che «sposta i voti a suo piacimento». 

Il sostegno alla vicesindaco   Questo Crusco, tra l’altro, sarebbe poi passato “all’incasso” subito dopo il voto, chiedendo a Fusaro, eletto, un paio di favori anche per conto di suo fratello Giuseppe Crusco, responsabile dell’area territorio e ambiente del Codacons di Lomazzo. Anche Annamaria Conoscitore, così come il canturino Gaudiello (eletto con 301 preferenze), risulta “beneficiaria” del sostegno di Valenzisi, sempre se è vero quel che emerge dalle carte. Fu ancor Tufano, in una telefonata del 26 maggio 2019, a chiamarlo per sincerarsi che tutto fosse stato fatto per bene: «Sei riuscito a darle un po’ una mano?». «Sì – risponde Valenzisi – Proprio a lei, personale (…) Gliel’abbiamo fatta proprio tranquillamente. LA PROVINCIA 17.11.2021 stefano ferrari


Soldi, droga, affari I clan e il Comasco terra di conquista  Il blitz Maxi operazione contro la ’ndrangheta in Italia Dei cento arresti eseguiti, la metà nella nostra provincia   “Ninnè” è appena uscito di carcere. Quando, intercettato, garantisce: «Io sono quello che, dopo che lo hanno arrestato, è uscito con gli stessi principi di prima». La solfa è sempre quella: «Non cambiamo pelle». E la pelle sotto la quale cresce e si arricchisce la ’ndrangheta è piena di minacce, violenza, traffico di droga, ma da qualche anno a questa parte anche di velleità imprenditoriali, interessi nel mondo degli affari, frode fiscale. “Ninnè”, al secolo Michelangelo Belcastro, 42 anni casa a Bulgarograsso, ieri in carcere ci è tornato. Sottoposto a fermo di indiziato di delitto assieme a 53 altri indagati della Procura antimafia di Milano. 

Oltre cento capi d’accusa Un’indagine mastodontica, che ha incrociato altre due inchieste delle Dda di Reggio Calabria e di Firenze, che ha portato a 104 arresti in tutta Italia, la metà dei quali messi a segno proprio qui, nella nostra provincia. Como, terra di conquista della malavita calabrese: se c’era bisogno di conferme queste sono arrivate da un’indagine portata a termine – sul Lario – dal nucleo di polizia economico finanziaria della Guardia di finanza di Como, con l’ausilio della sezione criminalità organizzata della squadra mobile di Milano.  I reati contestati alle persone (l’elenco di tutti gli arrestati è pubblicato in questa pagina, nell’articolo qui sotto) finite in cella vanno dall’associazione mafiosa alla bancarotta fraudolenta, dall’estorsione con modalità mafiosa alla frode fiscale, dal traffico di cocaina al riciclaggio di denaro. E già nell’elenco dei reati ipotizzato dagli inquirenti si intuisce che la ’ndrangheta non cambierà pelle, ma allarga i propri interessi. E accanto al core business storico – la droga e le minacce – ci aggiunge la nuova anima “imprenditoriale”. Innanzitutto lo fa trasformando società cooperative in vere e proprie basi operative per far propri appalti e subappalti. Società create e poi fatte fallire (molti degli attuali indagati sono già stati condannati per bancarotta fraudolenta, su questo fronte, proprio a Como) per riuscire a gestire l’attività di facchinaggio, di pulizia e di trasporti. In questo con il supporto essenziale di due ex amministratori comaschi: Cesare Pravisano, 63 anni di Lomazzo, dov’è stato assessore negli anni ottanta, e Marino Carugati, 79 anni pure lui di Lomazzo, e sindaco del paese fino al 1987. I due non sono stati interessati dal blitz di ieri (anche se Pravisano è indagato per associazione mafiosa), ma sono a lungo citati nell’atto d’accusa per aver accettato di scendere a patti con i clan. 

Affari e minacce  Gli ex amministratori di Lomazzo, in buona sostanza, avrebbero spalancato il mondo delle loro società cooperative alla famiglia Ficarra, legata a doppio filo con i clan Piromalli e Molè di Gioia Tauro. In particolare Domenico Ficarra detto “Corona”, 47 anni con casa a Lomazzo, viene presentato così dallo zio a una potenziale vittima: «Ti spacca il c…. non sai neanche con chi è legato mio nipote. A lui gli hanno dato il comando». Oltre a lui Massimiliano Ficarra, commercialista che offre al sua professionalità al servizio del clan.  Ma nel blitz restano imbrigliati anche tutti i presunti affiliati della locale di Fino Mornasco, capitanata – secondo l’accusa – da Bartolomeo Iaconis (già in carcere perché condannato all’ergastolo per l’omicidio al bar Arcobaleno di Bulgorello) e di cui farebbero parte tutta la famiglia Iaconis (moglie e figlio compresi) e lo storico braccio destro Alessandro Tagliente, ieri raggiunto dal provvedimento di fermo e portato in carcere assieme alla moglie e al fratello. Tra gli affiliati storici Michengelo Larosa, già arrestato nell’operazione Insubria e, finita di scontare la condanna, uscito con l’incarico – secondo l’accusa – di gestire i contatti con la Svizzera per i traffici di cocaina controllati dai clan calabresi. Infine c’è tutto il capitolo delle estorsioni al mondo dell’imprenditoria comasca, e non solo. Clamorose le minacce nei confronti di dirigenti della Spumador e altri padroncini, e in particolare agli addetti all’ufficio pianificazione trasporti, ad assegnare alla ditta Sea Trasporti srl di Lomazzo, riconducibile ad Antonio e Attilio Salerni (residenti a Gerenzano ma imparentati con i Ficarra) commesse di trasporto poi di volta in volta spartite con altri presunti affiliati. Minacce a cui avrebbe partecipato anche Angelo Molteni, 48 anni di Lomazzo.

La corruzione  Nel blitz di ieri sono poi rimasti coinvolte altre due figure che nulla hanno a che fare con la ’ndrangheta, ma che nel corso dell’inchiesta hanno convinto i magistrati a intervenire. Uno di loro è Michele Contessa, sottufficiale della Guardia di finanza di Como, a cui i suoi stessi colleghi hanno fatto scattare le manette ai polsi con l’accusa di corruzione e comunicazione di notizie riservate a favore della famiglia Salerni e a favore di Luca Molteni, 43 anni di Como, già finito nei guai per le rimozioni d’auto illegali in città e ora fermato con l’accusa di aver pagato Contessa per riuscire ad avere, grazie alla banca dati delle forze di polizia, i nominativi dei proprietari delle auto che rimuoveva. LA PROVINCIA 17.11.2021 paolo moretti


Il blitz, tutti i nominativi Ecco di cosa sono accusati

  • Tommaso Alessi, 24 anni, è domiciliato nel Canton Sangallo ma considerato affiliato alla locale di Fino Mornasco. È accusato di associazione mafiosa e traffico di cocaina.
  • Davide Belcastro, 60 anni residente a Bulgarograsso, è accusato di detenzione di arma da fuoco (ad accusarlo un’intercettazione fatta a Guanzate nel marzo dell’anno scorso). 
  • Michelangelo Belcastro, 32 anni residente a Bulgarograsso, è accusato di associazione mafiosa e di estorsione.
  • Stefano Beretta, nato a Como 30 anni fa e residente a Vertemate con Minoprio è accusato di traffico di cocaina, hascisc e marijuana.
  • Semhar Carugati, 36 anni di Appiano Gentile, già latitante, è accusata i bancarotta fraudolenta con l’aggravante di aver favorito la ’ndrangheta. 
  • Antonio Chindamo detto “il Selvaggio”, 33 anni domiciliato a Winterthur in Svizzera, accusato di aver trafficato 11 chili di cocaina.
  • Carmela Consagra, nata a Rovello Porro 53 anni fa e residente ad Appiano Gentile, moglie di Bartolomeo Iaconis. Per lei le accuse sono di associazione mafiosa, frode fiscale, bancarotta fraudolenta con l’aggravante di aver favorito un’associazione mafiosa.
  • Michele Contessa, 48 anni, sottufficiale della Guardia di finanza di Como, è accusato di corruzione per aver venduto informazioni segrete ricavate dalla banca dati di polizia.
  • Luciano De Lumè, ex consigliere comunale di Fino Mornasco, 65 anni, accusato di plurime bancarotte fraudolente con l’aggravante di aver favorito la ’ndrangheta.
  • Giuseppina Del Duca, 55 anni residente a Cadorago, accusata di corruzione, per aver pagato un sottufficiale della finanza per ottenere informazioni riservate sulla verifica fiscale aperta a suo carico.
  • Alessio Del Re, 53 anni di Carugo, è accusato di rapina aggravata dal metodo mafioso.
  • Domenico Ficarra detto “Blindo”, 36 anni residente a Cermenate, è accusato di associazione mafiosa, estorsione aggravata dal metodo mafioso, minaccia aggravata, bancarotta fraudolenta.
  • Domenico Ficarra detto “Corona”, 37 anni domiciliato a Mozzate, è accusato di associazione mafiosa, plurime estorsioni, bancarotta fraudolenta aggravata dall’aver favorito la ’ndrangheta.
  • Massimiliano Ficarra, 52 anni residente a Lomazzo è sotto inchiesta per associazione mafiosa, estorsione, plurime bancarotte.
  • Giuseppe Iaconis, 23 anni di Appiano Gentile, figlio del boss Bartolomeo Iaconis, è accusato di associazione mafiosa, lesioni personali aggravate dal metodo mafioso, detenzione e porto illegale di arma (a Oltrona San Mamette).
  • Ferdinand Kekaj detto “Nando”, 36 anni residente a Lurago Marinone è accusato di traffico di droga.
  • Michelangelo Larosa detto “Bocconcino”, 50 anni, è accusato di essere affiliato alla locale di Fino Mornasco della ’ndrangheta è accusato anche di plurimi episodi di traffico di coaina.
  • Pasquale Larosa, 28 anni, pure lui è accusato di far parte della locale di Fino della ’ndrangheta e di diversi episodi di traffico di droga. 
  • Roberto Mandaglio, 43 anni di Pusiano, è accusato di spaccio di sostanza stupefacente.
  • Angelo Molteni, 48 anni di Lomazzo è accusato di lesioni aggravate.
  • Luca Molteni, nato e residente a Como, 43 anni, è accusato di corruzione.
  • Leo Palamara, 50 anni di Appiano Gentile è accusato di associazione mafiosa.
  • Alessandro Palmieri, 35 anni di Fenegrò, è accusato di associazione mafiosa.
  • Vincenzo Palmieri, 39 anni residente a Carbonate è accusato di associazione mafiosa.
  • Mirko Pesce, 45 anni di Cermenate, è accusato di traffico di sostanze stupefacenti.
  • Xhuljano Prifti, detto “Giulio”, 36 anni residente a Cadorago, è accusato di traffico di droga.
  • Alex Primerano, 23 anni domiciliato presso l’abitazione svizzera di Pasquale Larosa, è accusato di spaccio di droga.
  • Elisabetta Rusconi, nata a Como e residente ad Appiano Gentile, 56 anni, è accusata di associazione mafiosa, frode fiscale e plurime contestazioni di bancarotta fraudolenta.
  • Rossella Salerni, 28 anni di Cadorago, è accusata di false fatture, frode fiscale e bancarotta fraudolenta. 
  • Valentina Salerni, 34 anni di Lomazzo è accusata di corruzione e bancarotta fraudolenta.
  • Andrea Stillitano, 38 anni proprio ieri, residente a Mozzate è accusato di associazione mafiosa.
  • Alessandro Tagliente, 56 anni residente ad Appiano Gentile, è accusato di associazione mafiosa, usura, detenzione e porto d’arma da fuoco, plurime accuse di frode fiscale, plurime accuse di bancarotta fraudolenta, trasferimento fraudolento di titoli, esercizio abusivo dell’attività finanziaria.
  • Sergio Tagliente, 54 anni residente a Lurate Caccivio, è accusato di associazione mafiosa. 
  • Claudio Tonietti, 41 anni, domiciliato in Svizzera e accusato di far parte della locale di Fino Mornasco della ’ndrangheta, è indagato anche per spaccio. 
  • Antonio Valenzisi, nato a Como e residente a Cadorago, 56 anni, è accusato di associazione mafiosa, estorsione aggravata, detenzione illegale di pistola, traffico di cocaina.
  • Giuseppe Valenzisi, nato a Como e residente a Lomazzo, 31 anni è accusato di trasferimento fraudolento di titoli con l’aggravante di aver favorito la ’ndrangheta. 
  • Massimo Valenzisi, nato a Como e residente a Cadorago, 47 anni è accusato di traffico di droga. 
  • Roberto Valenzisi, residente a Lomazzo, 53 anni, è accusato di associazione mafiosa, estorsione, detenzione illegale di pistola, traffico di droga.

LA PROVINCIA 17.11.2021


«Qui dentro comando io» Minacce alla Spumador  Il retroscena Dipendenti terrorizzati da affiliati ai clan Così hanno messo le mani sul trasporto di bevande.   Prima, oltre dieci anni fa, gli incendi ai danni dei camion. Quindi, più di recente, le minacce – neppure troppo velate – ai trasportatori ma anche agli impiegati dell’ufficio pianificazione della società: «Vengo lì e vi sparo». Passa il tempo, ma non le mire della ’ndrangheta sulla gestione dei trasporti per conto della Spumador. Un affare, per i clan, da oltre un milione di euro in 4 anni. Affare che sarebbe stato ottenuto con una vera e propria estorsione aggravata dal metodo mafioso. Solo grazie alla denuncia, presentata ai carabinieri di Cantù (questi ultimi ringraziati pubblicamente dal pubblico ministero Sara Ombra per il loro lavoro iniziale) dall’amministratore delegato dell’azienda, ha permesso di interrompere gli affari dei clan portando in cella i fratelli Antonio e Attilio Salerni, zii di quel Domenico Ficarra che a chi gli si metteva di traverso gridava: «Qua comando io».

Le minacce  I fratelli Salerni gestivano la Sea Trasporti di Mozzate. Una spa nei cui capannoni si incontravano con altri presunti affiliati o ci portavano le vittime di altri episodi considerati di estorsione dagli inquirenti. L’indagine nasce dopo che l’amministratore della Spumador, nel 2018, riceve alcune lettere anonime nelle quali si racconta di come i titolari della Sea Trasporti minaccino gli impiegati dell’azienda per ottenere l’assegnazione di alcune tratte. I Salerni, a Caslino, fanno come fosse casa loro. Al punto che avrebbero aggredito un magazziniere urlandogli contro: «Tu non conti un c… qui dentro comando io». Iniziano le intercettazioni e vengono registrate decine di telefonate indirizzate all’ufficio trasporti dell’azienda. Conversazioni nelle quali si sentono frasi del tipo: «Vuoi stare con i calabresi o con i bergamaschi?». E, riferendosi a dei concorrenti: «Se ne devono andare fuori dai c… Vuoi vedere che se non carico io non carica nessuno? La discutiamo alla calabrese?».  Quando parlano tra di loro i due fratelli sono più espliciti: «Questo qui – inteso come uno dei dipendenti della società di Caslino – andrebbe ammazzato e basta». E ancora: «Prima di andarci me lo dici che vengo anch’io e gli do pure il resto… gli alzo le mani, gli faccio una faccia come un pallone».  Ma c’erano giorni in cui anche lo sventurato dipendente dell’ufficio trasporti della Spumador veniva seriamente minacciato. Così Antonio Salerni nel 2019: «Ti faccio nero a te a al tuo capo, hai capito?». Addirittura lascia messaggi in segreteria: «Ti vengo a prelevare io, non ti preoccupare tanto lo so dove sei. Ti trovo io, non ti preoccupare. Visto che mi stai prendendo per il c… ti trovo io». Fino ad arrivare a minacciare: «Adesso vengo lì e sparo prima a quel c.. a fianco a te e poi a te». Secondo l’ipotesi investigativa queste modalità avrebbero consentito alla Sea Trasporti non solo di creare una sorta di monopolio sui servizi per conto della Spumador, ma addirittura di fare cartello con una serie di imprese amiche come quelle gestire dalle famiglie Palmieri (Vincenzo e Alessandro di Carbonate e Fenegrò) e Stillitano (Andrea e Domenico, di Mozzate e Cislago) tutti quanti accusati di associazione a delinquere di stampo mafioso. LA PROVINCIA 17.11.2021  P.Moretti


‘ndrangheta: pm Milano agli imprenditori, non scherzate col fuoco. Il procuratore Targetti, ‘i clan possono prendere controllo’   “La criminalità organizzata non è un fenomeno incentrato solo in certe regioni, qua ha più difficoltà a prendere il controllo, anche politico, ma rischia di arrivare a prenderlo, se non si alza la soglia di allerta”.  E’ l’appello alla “società civile” lanciato dal procuratore facente funzione della Procura di Milano Riccardo Targetti nel corso della conferenza stampa per illustrare il maxi blitz contro la ‘ndrangheta che sta “inquinando” il tessuto economico lombardo.  Per Targetti “chi si avvicina a questo mondo, per difficoltà o per timore nell’illusione di guadagnare migliori condizioni, deve sapere che sta giocando col fuoco”. (ANSA). 


‘Ndrangheta: boss ‘arriviamo a casa come le raccomandate’ Procuratore di Milano, imprenditori costretti a esser complici  “Noi siamo come le raccomandate, arriviamo direttamente a casa”: così ha detto intercettata una delle persone finite in carcere oggi nel blitz contro la ‘Ndrangheta, coordinato dalla Procura di Milano Firenze e Reggio Calabria.

    La frase che mostra “minaccia e autorevolezza” è stata citata durante la conferenza stampa indetta a Milano per spiegare il doppio aspetto della ‘ndrangheta, da un lato quella ‘2.0 società per affari’ con imprenditori, come ha spiegato il procuratore facente funzioni Riccardo Targetti, costretti a diventare “complici e a fornirei l loro know-how” dall’altra la permanenza degli aspetti della “tradizione” violenta delle cosche.
Nel filone lombardo della maxi inchiesta, contro la cosca Molè risultano indagati anche l’ex sindaco di Lomazzo (Como) Marino Carugati e anche un ex assessore della giunta che era guidata dal primo cittadino, entrambi, tra l’altro, già condannati per bancarotta. Lo ha precisato il procuratore aggiunto della Dda milanese Alessandra Dolci nella conferenza stampa in Procura a Milano. Dolci ha messo in luce i “rapporti” tra il clan, attivo in Lombardia soprattutto tra le province di Varese e Como, e “ex pubblici amministratori”, ossia i due indagati. Gli affari della criminalità organizzata, comunque, spaziavano in vari settori: da quello delle pulizie a quello dei trasporti, senza dimenticare la ristorazione, e in tutti i campi l’evasione fiscale. Nel caso della ristorazione, c’è l’esempio di un ristorante milanese in un punto panoramico, gestito da una società riconducibile agli indagati, dichiarato fallito “per aver sistematicamente omesso il versamento delle imposte”. ANSA


Blitz contro la ‘Ndrangheta, il ministro Lamorgese: “Intercettato importante traffico internazionale di sostanze stupefacenti”  Blitz contro la ‘Ndrangheta, intervento del ministro dell’Interno, Luciana Lamorgese, che ha manifestato la propria “soddisfazione per le vaste e articolate indagini condotte dalla Polizia di Stato, con il coordinamento delle Direzioni Distrettuali Antimafia di Reggio Calabria, Milano e Firenze e con il supporto del Servizio Centrale Operativo della Direzione Centrale Anticrimine, che hanno portato all’arresto su tutto il territorio nazionale e all’estero di più di 100 persone ritenute appartenenti alla ‘ndrangheta”.  “Le complesse operazioni, che hanno, tra l’altro, consentito di intercettare un importante traffico internazionale di sostanze stupefacenti e di sequestrare un ingente quantitativo di cocaina, testimoniano ancora una volta l’elevata capacità investigativa e la professionalità delle nostre forze di polizia nel contrasto alle organizzazioni criminali i cui interessi illeciti assumono sempre più un carattere transnazionale”, ha concluso la titolare del Viminale. ESPANSIONE TV Vittoria Dolci –


Dalla droga al facchinaggio. I mille “lavori” dei clan sul Lario  Traffico di stupefacenti con la Svizzera, subappalti nel settore pulizie e servizi, minacce agli imprenditori  La cocaina resta l’affare principale. Il primo amore che non si scorda mai. Soprattutto se consente guadagni a sei (ma anche sette) cifre. Ma la ’ndrangheta nostrana (nel blitz di questa notte la maggior parte delle persone finite in cella operavano in provincia di Como) si è specializzata in mille attività differenti: dal facchinaggio alle pulizie, dalla gestione di un vasto sistema di cooperative alla frode fiscale, passando per le estorsioni con tanto di minacce a imprenditori del settore della logistica.

Gli investigatori dell’antimafia la chiamano ’ndrangheta 2.0. Sono 54 i fermi effettuati nella notte in Lombardia, la stragrande maggioranza in provincia di Como. Oltre 250 i militari della Guardia di finanza di Como che hanno effettuato perquisizioni, fatto scattare manette, eseguito decreti di fermo a indagati considerati i referenti locali della famiglia Molé, che nella piana di Gioia Tauro movimenta tonnellate di cocaina. Il nostro territorio resta strategico anche sotto questo aspetto: la vicinanza con la Svizzera consente rapporti veloci, facili e privilegiati con complici e trafficanti operativi soprattutto nel Cantone San Gallo. Giri vertiginosi di droga e di denaro. Soldi che vengono poi usati per fare “investimenti” nel settore imprenditoriale. Attraverso società cooperative fittizie i clan – secondo l’accusa – si garantivano appalti nel settore dei servizi: pulizie, facchinaggio, trasporto. E quando non ci riuscivano con le buon, passavano alle cattive. Sarebbero emersi, nel corso dell’indagine, svariati episodi di violenza, minacce ed estorsioni nei confronti di piccoli imprenditori e padroncini per riuscire a gestire i sub appalti della Spumador (del tutto estranea alle accuse e ai sospetti degli inquirenti). Secondo la Procura antimafia di Milano le commesse di trasporto acquisite con la violenza sarebbero state spartite a diversi affiliati. E poi c’è tutto il capitolo relativo alla frode fiscale. Società cooperative create ad arte per aggirare le norme tributarie, false fatturazioni, bancarotte costruite a tavolino. Ancora una volta lo sfondo di tutti questi interessi illegali, di questa economia drogata dalla violenza e dalle intimidazioni, è il Comasco. Ormai da decenni terra di conquista dei clan. LA PROVINCIA


Maxi inchiesta ‘ndrangheta, compare anche il nome di Tufano: ma non è indagato  Il consigliere comunale di Como: “Mi auto sospendo da FdI in attesa che si faccia chiarezza”. Non è indagato, ma il suo nome compare negli atti dei pm che hanno firmato le ordinanze di fermo di 54 persone coinvolte nella maxi inchesta sulla ‘ndrangheta tra Como, Milano, Reggio Calabria e Svizzera. Un vero e proprio terremoto per il consigliere comunale di FdI, Antonio Tufano (membro tra l’altro della commissione comunale Sicurezza e Antimafia).

Il nome di Tufano nell’inchiesta  Nella giornata del 16 novembre 2021 alcuni lanci di agenzie stampa hanno rivelato che nel provvedimento di fermo i pm hanno illustrato i contatti tra Giuseppe Valenzisi, uno degli indagati, e “diversi amministrazioni pubblici”, tra i quali, appunto, Tufano. 
“Dalle attività tecniche in corso, operate direttamente a carico di Giuseppe Valenzisi a partire dal 6 maggio 2009 si legge negli atti dei pm – sono stati rilevati punti di contatto con diversi amministratori pubblici, tutti venuti alla luce partendo da quelli con Antonio Tufano. Il legame tra lui e Valenzisi è apparso sin da subito solido tant’è’ che il consigliere ha fatto da garante per Valenzisi verso ulteriori candidati che, all’evidenza dei fatti, hanno chiesto l’appoggio del calabrese in occasione delle elezioni amministrative del 29 maggio”.

Tufano si difende  Nel consiglio comunale del 16 novembre Tufano è intervenuto con una dichiarazione preliminare: “Avrete tutti letto sui giornali quanto è uscito. Mi dispiace che tanti giovani che vedano in me un esempio da seguire possano leggere cose del genere. Io non sono indagato, ma questo anziché venir detto all’inzio è stato detto alla fine. Questa vicenda non mi terrà lontano dalla politica, anzi, mi carica ancora di più”.
Tufano ha poi letto il comunicato stampa preparato insieme al suo avvocato in cui oltre a dirsi a completa disposizione della magistratura, ha detto: “Purtroppo la politica porta in alcuni casi a conoscere persone sbagliate senza esserne consapevoli. In futuro prima di chiedere un voto, tra l’altro non per me, chiederò prima il certificato penale”.
Infine Tufano ha annunciato di essersi autosospeso da Fratelli d’Italia in attesa che la sua posizione venga definitivamente chiarita. QUI COMO 17.11.2021


Inchiesta ‘ndrangheta. Como, il consigliere comunale Tufano e quel “legame solido” con uno degli arrestati Contatti tra Giuseppe Valenzisi (uno dei 54 arrestati nell’ambito dell’operazione contro la ‘ndrangheta lombarda di cui davamo conto stamani) e Antonio Tony Tufano, consigliere comunale di maggioranza in Comune a Como, entrato con Forza Italia e poi passato a Fratelli d’Italia. Ben 1.418 le pagine del decreto di fermo emesso dal Tribunale di Milano, le stiamo leggendo. Sono diversi i nomi di politici comaschi citati e tra questi Tufano. A proposito di Valenzisi i pubblici ministeri scrivono: “Si è rivelato un personaggio cerniera tra le più recenti cointeressenze societarie dell’interno contesto d’indagine e l’ambito politico territoriale“. E quindi: “Dalle attività tecniche in corso, operate direttamente a carico di Giuseppe Valenzisi a partire dal 6 maggio 2019, sono stati rilevati punti di contatto con diversi amministratori pubblici tutti venuti alla luce partendo da quelli intervenuti con Antonio Tufano, consigliere comunale presso il Comune di Como […]. Il legame tra Tufano e Valenzisi è apparso sin da subito solido, tant’è che il consigliere ha fatto da garante per Valenzisi verso ulteriori candidati che, all’evidenza dei fatti, hanno chiesto l’appoggio elettorale del calabrese in occasione delle consultazioni amministrative dello scorso 29 maggio”. In particolare l’interesse di Tufano parrebbe fosse orientato al buon esito dell’elezione di Mirko Gaudiello a Cantù, oggi presidente del Consiglio comunale entrato con Forza Italia oggi con Fratelli d’Italia, e di Annamaria Conoscitore, vicesindaco di Lomazzo (eletta con la lista Prima Lomazzo e Manera). COMO ZERO


Lombardia, le mani della ‘ndrangheta su imprese e politica  Sono 54 gli indagati sottoposti a misure cautelari in Lombardia nella maxi operazione contro la ‘ndrangheta “Cavalli di razza”, coordinata dalle Dda di Milano, Reggio Calabria e Firenze per disarticolare l’organizzazione mafiosa che in Lombardia aveva preso piede tra le province di Varese e Como. Un complesso “sistema” che si proponeva di gestire il traffico di droga dall’Italia alla Svizzera e quello di armi dalla Svizzera all’Italia, con una predisposizione, per quanto riguarda la Lombardia, «a inquinare il tessuto economico della Regione», come ha detto il procuratore Riccardo Targetti, creando cooperative (nei settori del facchinaggio, delle pulizie, della ristorazione e del trasporto) che generavano «ricchezza illegale tramite un meccanismo di fatture false, acquisto e utilizzo crediti fasulli e omissione dei pagamenti di imposte e contributi. Un meccanismo perverso», ha proseguito Targetti, «che vede imprenditori inizialmente estranei all’ambiente criminoso e che, soggetti a estorsioni e usura, si rendono disponibili a diventare complici dell’organizzazione». Secondo la procuratrice aggiunta della Dda milanese, Alessandra Dolci, si tratta di «un mix di arcaicità e di assoluta modernità», in cui lo scopo è quello di sfruttare le vittime per acquisirne il “know how” e sostituire le mazzette con i proventi dell’evasione fiscale.

‘ndrangheta a Lomazzo e Como: i politici coinvolti  Diversi i politici coinvolti nell’inchiesta. Marino Carugati e Cesare Pravisano, rispettivamente ex sindaco ed ex assessore a Lomazzo (Como), già condannati per bancarotta fraudolenta in un’inchiesta della procura di Como con al centro un sistema di frode che passava attraverso consorzi e cooperative creati e poi volutamente destinati al fallimento, avrebbero addirittura partecipato a riunioni della ‘ndrangheta con la famiglia Molé a Gioia Tauro nel 2010. Sempre restando a Lomazzo, sono state intercettate telefonate di un imprenditore locale, Francesco Crusco (non indagato) al numero di Nicola Fusaro, eletto e poi nominato assessore per la Lega, nelle quali il primo esterna le sue «aspettative, facendo pesare il suo appoggio elettorale» e sottolineando però che il sostegno sarebbe stato ad personam per Fusaro più che per la Lega: «Diglielo in faccia al tuo sindaco che Crusco ha votato per Fusaro non per la Lega, che se Fusaro non parlava, i 700 voti in più non li beccavi». In successive telefonate, Crusco si informava con Fusaro su chi avesse preso l’Assessorato all’Urbanistica («È la cosa più importante, deve essere uno che ci serve») e “raccomandava” il fratello che lavora nell’ambito dell’ecologia al neo assessore che proprio di questa materia sarebbe andato a occuparsi. I due inoltre avrebbero suggellato «il patto elettorale» per «ottenere alcuni favori elettorali a favore della Fondazione Minoprio» di cui Fusaro è consigliere. E ancora: contatti sono stati registrati tra Giuseppe Valenzisi, uno degli indagati per i quali è stato chiesto il fermo nelle indagini sulla ‘ndrangheta lombarda, e «diversi amministratori pubblici» tra cui Antonio Tufano, consigliere comunale di Como ora in Fratelli d’Italia dopo trascorsi anche in Forza Italia. Ne scrivono i pm nel provvedimento: «Dalle attività tecniche in corso, operate direttamente a carico di Giuseppe Valenzisi a partire dal 6 maggio 2009, sono stati rilevati punti di contatto con diversi amministratori pubblici, tutti venuti alla luce partendo da quelli con Antonio Tufano. Il legame tra lui e Valenzisi è apparso sin da subito solido tant’è che il consigliere ha fatto da garante per Valenzisi verso ulteriori candidati che, all’evidenza dei fatti, hanno chiesto l’appoggio del calabrese in occasione delle elezioni amministrative del 29 maggio». Tufano non risulta indagato.

Un finanziere infedele. E ci sono anche le vittime dei mafiosi  Compare anche un finanziere, ora ex militare della Guardia di finanza di Olgiate Comasco (Como), tra i fermati. Da quanto emerge nell’indagine, M.C. è un «soggetto a “libro paga” della famiglia Salerni» che in cambio di denaro avrebbe compiuto «atti contrari ai doveri d’ufficio», comunicando informazioni riservate, nella verifica fiscale sulla società Sea Trasporti. Da qui, come si legge nel provvedimento, l’accusa di corruzione per «somme di denaro mensili», promesse e in parte date, «complessivamente non inferiori a 4.700 euro», oltre a «reiterate erogazioni di carburante». Ma ci sono anche le storie delle vittime. Come quella di un imprenditore ridotto sul lastrico, costretto a vendere la casa e a dormire in macchina, come raccontato dalla moglie agli inquirenti, oppure quella un dipendente di un’importante ditta di Como specializzata nella vendita di bevande che si è licenziato per non dover più subire minacce e violenze  Metronews


Tufano: “Non sono indagato, ho conosciuto persone sbagliate inconsapevolmente. Continuo a far politica”

Questa sera in consiglio comunale il consigliere comunale di Como Antonio Tufano (Fratelli d’Italia) è intervenuto sulla vicenda che lo ha visto comparire nelle intercettazioni (senza essere indagato) nell’ambito dell’inchiesta sulla ‘ndrangheta in provincia. Tufano: “Non sono indagato, ho conosciuto persone sbagliate inconsapevolmente. Continuo a far politica”  “Tanti giovani vedono in me un esempio da seguire e mi spiace che possano leggere cose del genere – ha dichiarato a inizio consiglio – Non sono indagato e comunque questa vicenda non mi terrà lontano dalla politica, anzi mi carica anche di più”. Poi il consigliere ha letto un comunicato stilato assieme al suo legale, Simone Gatto, dove ha ribadito di “non essere indagato”. “La mia condotta è stata ineccepibile e resterò a disposizione della magistratura – ha aggiunto Tufano – Spero di venire chiamato presto per chiarire. Purtroppo la politica porta a conoscere persone sbagliate senza esserne consapevoli. Andrò a chiedere il certificato penale d’ora in poi. Ora comunque mi autosospendo dal partito di Fratelli d’Italia anche se all’epoca (2019, ndr) non ne facevo parte, in attesa che i fatti vengano chiariti, perché sono il primo che spera venga fatta chiarezza”.

Emanuele Caso  COMOZERO


Arresti antimafia, in Ticino con permessi B e G – Le operazioni in Italia e in Svizzera contro la ’ndrangheta (cosca Molè). Due fermi a fini estradizionali anche nel Luganese

di Marco Marelli e Andrea Manna “In Italia ci hanno rovinato, in Svizzera stanno bene senza 416 bis…”. È il tenore di una conversazione tra indagati intercettata nell’inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Milano, coordinata dal procuratore aggiunto Alessandra Dolci e dai sostituti Sara Ombra e Pasquale Addesso, sino a pochi mesi fa in servizio alla procura di Como. Inchiesta che all’alba di oggi, martedì, in Lombardia, ma anche in Svizzera, ha portato all’arresto di cinquantaquattro persone, di cui trentasette nel Comasco, provincia dove il radicamento della ’ndrangheta, con sconfinamento in Canton Ticino, è cementato anche da sentenze passate in giudicato dopo il pronunciamento della Corte di Cassazione. Nella Confederazione quattro arresti, in vista di estradizione in Italia, sono stati eseguiti a Vilters, Winterthur, Domat/Ems e Coira. Nel Comasco e in Calabria sono state arrestate altre tre persone domiciliate a Zurigo e nel Canton San Gallo. Sono tutte originarie della Calabria, provenienti dalla piana di Gioia Tauro, presunte affiliate alla cosca Molè, una delle più potenti ’ndrine, soprattutto nel traffico di cocaina. Un’attività criminosa che troviamo in tutti e tre i filoni dell’indagine che in Italia, oltre alla Lombardia, ha interessato Toscana (Firenze e Livorno) e Calabria, con i blitz delle forze dell’ordine coordinato dello Sco, il Servizio centrale operativo della Polizia di Stato. L’indagine si è sviluppata anche in coordinamento tra le Direzione distrettuali antimafia di Milano, Reggio Calabria e Firenze. Se in Lombardia i fermi sono stati 54, in Calabria i provvedimenti restrittivi sono stati 34, in Toscana sono una quindicina quelli chiesti.

Uno lavorava nella ristorazione  Ed è nell’inchiesta della Dda di Firenze che sarebbero coinvolte due persone arrestate, anche loro su istanza italiana e sempre a fini estradizionali, nel Luganese la notte scorsa. Fermi e perquisizioni domiciliari sono stati eseguiti dalla Polizia cantonale e da quella federale. Stando a quanto appreso dalla ’Regione’, si tratterebbe di un 59enne, originario della provincia di Milano e di un 42enne, originario di Catanzaro. Entrambi erano in Ticino con regolare permesso di lavoro. Il primo sarebbe stato al beneficio di un permesso B (dimorante), il secondo di un G (frontaliere): quest’ultimo sembra che lavorasse come cameriere.

Spaccio di droga per acquistare armi  Complessivamente nel corso delle tre inchieste, sfociate in totale in un centinaio di misure cautelari, è stata sequestrata una tonnellata di cocaina. In particolare nei porti di Gioia Tauro e Livorno. La droga arrivava dal Sud America. E parte di essa – oltre 30 chilogrammi in pochi mesi del 2020 – è stata sequestrata anche in Svizzera. L’inchiesta ha fatto emergere che lo spaccio di droga serviva per l’acquisto di armi. Una trentina quelle su cui gli investigatori hanno messo le mani. Anche in questa importante inchiesta hanno agito in simbiosi squadre di investigatori italiani e svizzeri. Così come era accaduto con l’operazione battezzata Imponimento della Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro: oltre 300 persone arrestata, settanta delle quali già condannate (complessivamente 630 gli anni di reclusione), mentre le altre sono sotto processo con rito ordinario.

Così iniziò nel Comasco  Per quanto concerne il filone lombardo, l’indagine era partita nel 2017 ed era inizialmente di competenza della Procura di Como: è poi passata alla Direzione distrettuale antimafia di Milano, quando sono emersi collegamenti con la criminalità organizzata. L’indagine del Nucleo di polizia economico finanziaria della Guardia di finanza del capoluogo lariano era incentrata sulla gestione fraudolenta di appalti relativo al servizio di pulizia in grandi aziende della bassa comasca, che aveva portato all’arresto di 34 persone fra cui un sindaco e un direttore di banca. Ai fermati dell’ultima ora vengono contestati estorsioni, violenze e numerosi reati di natura fiscale. Insomma, espressione di quella che viene indicata come la “ndrangheta 2.0 Società Per Affari“. Ma come sottolineano gli inquirenti, la ’ndrangheta a ridosso della Svizzera non ha mai abbandonato l’interesse per il traffico internazionale di stupefacenti: l’inchiesta delle fiamme gialle di Como e della Squadra mobile di Milano ha fatto emergere le mire espansionistiche verso la Svizzera e, in particolare, verso il Canton San Gallo. “Un cantone che era divenuto una vera e propria base logistica dei quattro arrestati nella Confederazione (nell’ambito del filone d’indagine lombardo, ndr.), dove si erano stabilmente insediati, con lo scopo di costituire nuove ’ndrine”, come ha sostenuto in conferenza stampa la pm Alessandra Dolci. Una scelta che fa ben comprendere il contenuto di quella significativa intercettazione (“in Svizzera si sta bene in quanto non c’è il 416 bis”).

In totale sei fermi in Svizzera a fini estradizionali  In tutto sono sei le persone arrestate in Svizzera a fini estradizionali. I provvedimenti restrittivi sono stati ordinati dall’Ufficio federale di giustizia (Ufg) “sulla base di domande d’estrazione italiane fondate su mandati d’arresto della Procura di Milano e del Tribunale di Firenze per presunti reati commessi in Italia, almeno in parte però anche in Svizzera”. Gli arresti, continua la nota diramata dall’Ufg, “hanno fatto seguito a indagini” svolte dalle polizie cantonali, dalla Polizia giudiziaria federale e dal Ministero pubblico della Confederazione.  Quattro delle persone arrestate nel nostro Paese erano risultate implicate nell’operazione ‘Insubria’ che nel novembre 2014 aveva portato all’arresto di quaranta ’ndranghetisti appartenenti alle ’ndrine di Fino Mornasco, Cermenate e Calolziocorte. Il capo della cosca di Cermenate, all’epoca di fatti, lavorava come saldatore a Bellinzona.

IL MINISTERO PUBBLICO DELLA CONFEDERAZIONE  ’Ecco come si costituiscono le squadre investigative comuni’  «La lotta alla criminalità organizzata non può essere portata avanti da una sola autorità federale. Perché dia dei risultati occorre agire su due piani. Su quello della cooperazione nazionale e cioè la collaborazione tra Cantoni e Confederazione. E su quello della cooperazione internazionale e cioè la collaborazione fra le autorità giudiziarie svizzere e quelle degli altri Paesi. Noi inquirenti abbiamo le frontiere, i criminali no. Un ostacolo che però superiamo in parte grazie alla costituzione delle squadre comuni investigative». È quanto ribadisce il Ministero pubblico della Confederazione (Mpc), che la ‘Regione’ ha interpellato in seguito alla nuova ondata di arresti che ha interessato nelle scorse ore l’Italia e la Svizzera. E in relazione alla quale ha avviato tempo fa un procedimento penale per organizzazione criminale (sostegno e/o partecipazione) e infrazione aggravata alla legge federale sugli stupefacenti, eseguendo nel contempo rogatorie inoltrate dalla magistratura italiana.

Come segnalate nel comunicato stampa, con le Procure di Milano e Reggio Calabria l’Mpc ha dato vita a una squadra investigativa comune.  È uno strumento di collaborazione internazionale molto importante perché ci dà la possibilità di condurre procedimenti penali paralleli in tempo reale. Se ci limitiamo alla Svizzera e all’Italia, la prima premessa per la costituzione di una squadra è che vi sia un interesse investigativo da parte di entrambi i Paesi alla conduzione di un’indagine. Un’indagine per la quale in Italia e in Svizzera le rispettive autorità giudiziarie hanno aperto dei procedimenti penali. La base legale sono gli accordi internazionali bilaterali o multilaterali. Con l’Italia abbiamo un accordo bilaterale, ma anche la Convenzione europea in materia di assistenza giudiziaria. La squadra investigativa si costituisce con la sottoscrizione di un accordo, che è un vero e proprio contratto. Le parti sono i procuratori dei due Paesi titolari dei procedimenti penali e le forze di polizia giudiziaria. In questo accordo vengono menzionati i magistrati che coordinano i procedimenti, il numero e una sintesi del procedimento. Viene inoltre allegata una lista dei collaboratori delle polizie giudiziarie che compongono, operativamente, questa squadra.

Quali i vantaggi di un simile strumento di collaborazione?  Si definiscono una strategia e degli obiettivi comuni. Le attività di indagine vengono discusse ed eseguite insieme. Il tutto in tempo reale. Previo consenso del procuratore titolare del procedimento, gli investigatori che formano la squadra possono operare al di qua e al di là del confine per acquisire mezzi di prova. Con una squadra comune risultano inoltre più veloci lo scambio e l’analisi dei mezzi di prova raccolti. Analisi da cui potrebbe scaturire la necessità di ulteriori attività di indagine, di procedere ad arresti o a ulteriori fermi.

Dalle indagini in comune al processo, per esempio all’estero.  Nella fase dibattimentale, all’estero, possono essere utilizzati i mezzi di prova raccolti dalla squadra solo una volta conclusa in Svizzera la procedura di assistenza giudiziaria (la costituzione di una squadra investigativa comune presuppone l’avvio di questa procedura) e una volta cresciuta in giudicato la decisione di trasmettere le prove.

Tornando al recentissimo blitz contro la ‘ndrangheta, alcuni degli intercettati sostengono che ’Stanno bene in Svizzera… non esiste il 416 bis’, l’articolo del Codice penale italiano sull’associazione di stampo mafioso.  Quella conversazione faceva riferimento alle pene previste dal 416 bis. Ma di recente in Svizzera sono state inasprite: la pena per il reato di organizzazione criminale, previsto dall’articolo 260 ter del nostro Codice penale, è stata raddoppiata, da cinque a dieci anni. Da tre a venti anni la pena per i vertici dell’organizzazione. LA REGIONE 16.11.2021


Lomazzo il «nuovo mondo» della ‘ndrangheta: le mani sulle attività economiche  di Anna Campaniello  Accusati ex sindaco ed ex assessore. Tra i fermati ex consigliere di Fino Mornasco   L’ex sindaco del Comune di Lomazzo, Marino Carugati e Nicola Fusaro, assessore comunale  La svolta, con l’avvio di una nuova fase in cui la ‘ndrangheta passa dalle estorsioni al controllo delle attività economiche, per gli inquirenti è segnata da una riunione a Gioia Tauro nel 2010. Al tavolo con gli esponenti del clan Molè si sarebbero seduti anche l’ex sindaco di Lomazzo Marino Carugati e l’ex assessore della sua giunta Cesare Pravisano. «Gli accordi di Gioia Tauro tra Pravisano, Carugati e le famiglie calabresi segnano l’avvio di una “nuova fase” in cui alle estorsioni si giustappone il controllo delle attività economiche nel settore dei servizi attuato attraverso i Consorzi e le cooperative nella disponibilità di Pravisano», emerge dal decreto di fermo dell’operazione «Cavalli di razza».

I legami Un legame tra amministratori e criminalità che era emerso già nel 2019, quando Carugati e Pravisano erano stati arrestati nell’ambito dell’indagine della procura di Como «Nuovo Mondo», che aveva permesso di smantellare un sistema di false cooperative. Entrambi avevano patteggiato per la bancarotta, collaborando anche con gli inquirenti. «Nella riunione a Gioia Tauro — ha spiegato il magistrato Pasquale Addesso, che da sostituto procuratore a Como aveva coordinato l’inchiesta sulle coop —, erano presenti alcuni imprenditori vittime di estorsione, che hanno accettato di fatto di far entrare la ’ndrangheta nelle loro attività». «Il meccanismo fraudolento creato per garantire liquidità è proseguito — ha sottolineato Addesso —. Dopo l’operazione della procura di Como, l’attività era comunque ripresa con nuove estorsioni. Gli indagati hanno protratto loro attività criminosa sul territorio lombardo per un periodo di quasi un decennio e ciò è stato reso possibile dal loro inserimento in una rete criminale — si legge ancora nelle oltre 1.400 pagine del decreto di fermo —, nella consapevolezza che la ’ndrangheta rappresenta un vero e proprio sistema di potere che entra in rapporto con i poteri economico, politico, imprenditoriale e con gli stessi instaura rapporti e relazioni stabili non solo di carattere corruttivo ma anche di vicinanza e contiguità».  CORRIERE DELLA SERA ANNA CAMPANIELLO


Le mani della ‘ndrangheta sulle false cooperative di pulizie: 34 arresti, sequestri per 13 milioni di euro  Smantellata un’organizzazione attiva tra Lombardia e Calabria. Gli indagati, quasi tutti italiani, sono accusati di reati tributari e fiscali, estorsione ed indebito utilizzo di carte di pagamento. In azione Guardia di finanza e poliziaFinte cooperative, soprattutto nel settore delle pulizie, fatture false per milioni di euro, estorsioni, decine di casi di bancarotta: smantellata un’organizzazione attiva tra Lombardia e Calabria, vicina anche agli ambienti della ‘ndrangheta. È il risultato di una lunga indagine coordinata dalla procura di Como e sfociata all’alba di martedì nell’esecuzione di un’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di 34 persone. I militari della guardia di finanza e gli agenti della polizia di Stato sono entrati in azione in Lombardia e Calabria.

Gli indagati, quasi tutti italiani, sono accusati di reati tributari e fiscali, estorsione ed indebito utilizzo di carte di pagamento. Nell’ambito dell’operazione, Fiamme gialle e poliziotti stanno sequestrando beni riconducibili agli indagati per un valore di oltre 13 milioni di euro. Nell’inchiesta compaiono i nomi di un commercialista legato alla cosca dei Piromalli, ma ci sarebbero anche esponenti politici. Le finte cooperative e il sistema fraudolento garantivano guadagni ingenti agli indagati. CORRIERE DELLA SERA di Anna Campaniello

 


27.11.2021:«Sti africoti hanno fatto un bordello». Dalla rissa in discoteca alla “lezione di ‘ndrangheta” dei Valenzisi La lite in un locale di Cantù tra Giuseppe Valenzisi e il nipote di Leo Palamara e le linee guida spiegate dal padre Antonio per «tenere ordinato il territorio» «Pa’, scusa l’ora. C’è un problema a Cantù con il cugino di Leo Palamara. Ha detto che sei cornuto». Inizia così la conversazione intercettata dagli inquirenti tra Antonio e Giuseppe Valenzisi, rispettivamente padre e figlio, finita nell’ambito del filone milanese dell’inchiesta “Cavalli di razza” (collegata a quelli della Dda di Reggio e Firenze denominati “Nuova narcos europea”) che ha portato, lo scorso 22 novembre, alla convalida di 48 dei 54 fermi sottoscritti dalla Dda guidata da Alessandra Dolci. I due – secondo l’accusa – non sarebbero soggetti qualunque ma elementi legati alla ‘ndrangheta e alla locale di Fino Mornasco, tra le più influenti in Lombardia. Per gli inquirenti Antonio Valenzisi intrattiene incontri e stabili relazioni con gli affiliati, detiene armi e gestisce le attività di narcotraffico. 

La lite in discoteca. E la chiamata avvenuta alle 4.15 del mattino del 22 febbraio del 2020 ne è la prova. Un contrasto quello insorto in una nota discoteca di Cantù con i soggetti ritenuti appartenenti alla famiglia Palamara di Africo che preoccupa inizialmente il padre Antonio Valenzisi, al punto da invitare il figlio a tornare, e in fretta, per evitare altri guai. «Ok Giuseppe, vienitene a casa, mi fai un favore?» dice al figlio, «che domani lo sistemo io, provvedo poi vedo con suo cugino». Poi le raccomandazioni, addirittura – è scritto nel fermo – piangendo e profferendo le parole «Noo, Giuseppe noo!» e poi pregandolo: «…vieni qua! vieni qua! vieni qua! per favore!… per favore te lo chiedo!». Il timore su ciò che potesse accadere al figlio e che la lite, poi, potesse degenerare a sfavore del figlio hanno fatto impensierire Antonio Valenzisi al punto di incontrare subito il figlio in un noto bar di Caslino. Nel frattempo gli inquirenti hanno captato diverse conversazioni, anche ambientali, ma anche le immagini di videosorveglianza che – secondo l’accusa – mostrano l’arrivo di Giuseppe Valenzisi insieme ad altre persone e i ripetuti rimproveri da parte del padre. 

«’sti paesani tuoi non hanno una guida» Ma, come riusciranno a documentare più tardi gli inquirenti, nella stessa mattinata, sarà ancora Antonio Valenzisi a discettare le regole di ‘ndrangheta da seguire, e la necessità – soprattutto – di mantenere “ordinato” il territorio. «(…) sti cuatrari senza regole… ‘sti paesani di oggi, no rispetto no regole non sanno che il territorio deve restare ordinato, niente non valgono niente». E ancora: «(…) ma può essere che questi paesani tuoi non hanno una guida, non hanno una regola, non hanno niente… non valgono niente… mi fa svegliare la mattina, la notte questo mi chiama che litiga con quel pisciaturu», riferendosi alla lite avvenuta solo qualche ora prima tra il figlio e il cugino di Leo Palamara. 

«Dentro i loro ambienti non possono fare quello che vogliono» La vicenda verrà poi affrontata ancora il giorno successivo tra i fratelli Antonio e Roberto Valenzisi, considerato anche lui – secondo l’accusa – appartenente alla locale di Fino Mornasco, attivo nella gestione dello spaccio e dei rapporti con altre famiglie, risolvendo anche una serie di “conflitti” di altre famiglie mafiose. «(…) sabato ha litigato di nuovo Giuseppe (ndr Giuseppe Valenzisi) con quelli di Cantù…sti “pisciaturi” di merda» dice Antonio al fratello, che risponde: «(…) quattro “sfacciuna” dei paesani suoi. Si spaccia per cugino». «Ora glielo dico, gli dico – continua poi Antonio Valenzisi – ma può essere che in questo paese di Africo non avete i coglioni per insegnargli ai “cristiani”, ai “cutrari” come devono stare…che dentro i loro ambienti non possono fare quello che vogliono…sti “porcherusi” di merda.. così gli ho detto “porcherusi” di merda.. perché tu non puoi, vanno in discoteca a fare discussioni ogni volta che le persone si spaventano di andare là che si litigano con questi quattro…». 

I contrasti con gli “africoti”. Quello con gli “africoti” è evidentemente un problema che ha radici lontane. In una conversazione tra i due fratelli – captata dagli inquirenti – l’argomento torna di attualità quando Roberto Valenzisi racconta al fratello di un diverbio avuto tempo addietro con un compaesano, forse all’interno di un locale, e per questioni legate ai soldi, poco più di 5 euro. «(…) gli ho detto sai che qua siamo tutti calabresi però un pò di educazione la dovremmo avere.. e ha detto: “ma perché sei calabrese? lo potevi dire.. non lo potevate dire prima!” e io gli ho detto: “perché se uno è calabrese lo trattate in un modo e se non è calabrese lo trattate in un altro no?». E poi la chiosa: «(…) gli africoti li odio… già li odiavo prima…solo Leo (ndr Leo Palamara) mi è simpatico..forse non ha un cazzo a che fare…». «Se uno mi parla di africoti il cervello alle stelle…un bordello hanno fatto.. la figlia terrorizzata per cinque euro..dovevo dirgli che sono calabrese».

Le regole di ‘ndrangheta in Lombardia. Per l’accusa si tratterebbe di conversazioni che evidenzierebbero – ancora una volta – quanto siano fondamentali, per l’esistenza e la sopravvivenza della ‘ndrangheta, le “regole” di comportamento. Le violente esternazioni di Antonio Valenzisi, per gli inquirenti, sono «un rabbioso appello all’educazione dei giovani al rispetto delle regole di ‘ndrangheta» e che hanno un senso in quanto da una parte provengono da un soggetto che della ‘ndrangheta fa parte, dall’altro sono diretti a soggetti che, in quanto anche loro appartenenti alla stessa organizzazione criminale, possono recepire e condividere quelle rimostranze. (redazione@corrierecal.it) 


Inchiesta “Cavalli di razza”: «Siamo come le raccomandate, arriviamo a casa»  Le minacce dei boss agli imprenditori: “arriviamo a casa come le raccomandate”. Indagato anche un ex sindaco del Comasco ed un ex assessore  “Siamo come le raccomandate, arriviamo direttamente a casa”: così ha detto intercettata una delle persone finite in carcere oggi nel blitz contro la ‘Ndrangheta, coordinato dalla Procura di Milano Firenze e Reggio Calabria. La frase che mostra “minaccia e autorevolezza” è stata citata durante la conferenza stampa indetta a Milano per spiegare il carattere di “arcaicità e modernità della ‘Ndrangheta“, con imprenditori, come ha spiegato il procuratore facente funzioni Riccardo Targetti, costretti a diventare “complici e a fornirei l loro know-how” sia con la permanenza degli aspetti della “tradizione” violenta delle cosche.  “La criminalità organizzata non è un fenomeno incentrato solo in certe regioni, qua ha più difficoltà a prendere il controllo, anche politico, ma rischia di arrivare a prenderlo, se non si alza la soglia di allerta”. E’ l’appello alla “società civile” lanciato dal procuratore facente funzione della Procura di Milano Riccardo Targetti nel corso della conferenza stampa per illustrare il maxi blitz contro la ‘ndrangheta che sta “inquinando” il tessuto economico lombardo. Per Targetti “chi si avvicina a questo mondo, per difficoltà o per timore nell’illusione di guadagnare migliori condizioni, deve sapere che sta giocando col fuoco”. Intanto nel filone lombardo della maxi inchiesta risultano indagati anche l’ex sindaco di Lomazzo (Como) Marino Carugati ed un ex assessore della giunta che era guidata dal primo cittadino, entrambi, tra l’altro, già condannati per bancarotta. Lo ha precisato il procuratore aggiunto della Dda milanese Alessandra Dolci nella conferenza stampa in Procura a Milano. Dolci ha messo in luce i “rapporti” tra il clan, attivo in Lombardia soprattutto tra le province di Varese e Como, e “ex pubblici amministratori“, ossia i due indagati.

Ex sindaco ed ex assessore indagati  Stando a quanto spiegato dagli inquirenti nel corso della conferenza stampa in Procura a Milano, per descrivere i dettagli dell’inchiesta ‘cavalli di razza‘, l’ex sindaco Carugati e l’ex assessore di Lomazzo Cesare Pravisano, avrebbero preso parte anche ad una “riunione” degli uomini del clan Molè a Gioia Tauro nel 2010. In quella riunione, come chiarito dal pm Pasquale Addesso, si sedettero al tavolo anche alcuni “imprenditori estorti” e accettarono “di fare entrare la ‘ndrangheta a cui interessava investire”. Nel 2019 Carugati, 79 anni, e Pravisano, ex funzionario di banca, erano stati arrestati (e poi condannati) in un’inchiesta della Procura di Como su un ‘sistema di bancarotte’ sempre con l’ombra della ‘ndrangheta.

Imprenditori ridotti sul lastrico: “mio marito costretto a dormire in auto”  Gli imprenditori lombardi sono stati prima “ridotti sul lastrico”, attraverso meccanismi di estorsione “a tappeto” ed usura, e poi “sfruttati” per le loro competenze e con le loro imprese ‘divorate’ dai clan. E’ il quadro che emerge dal filone lombardo della maxi inchiesta contro la ‘ndrangheta che oggi ha portato ad oltre 100 misure cautelari, per come è stato descritto dai pm di Milano Sara Ombra e Pasquale Addesso e dall’aggiunto della Dda Alessandra Dolci. Ombra ha raccontato anche un particolare di una testimonianza della moglie di un imprenditore (“una famiglia sul lastrico, sfrattata”), riportando le parole della donna: “Mio marito era costretto a dormire in macchina”. Una “ndrangheta 2.0” che ha “cambiato rotta”, stando alla descrizione di Dolci, con gli “imprenditori trasformati da vittime in strumenti di arricchimento e collusi”. Il pm Addesso ha chiarito che ad “unire” alcuni imprenditori lombardi alle cosche della ‘ndrangheta è la “evasione fiscale”, perché una volta che gli imprenditori accettano di far entrare la ‘ndrangheta “la massimizzazione dei profitti” viene realizzata attraverso “l’evasione”.

Il filone toscano Ha portato all’emissione di 13 misure di custodia cautelare in carcere e a un obbligo di dimora nel Comune di Livorno, l’operazione della Dda di Firenze, condotta dalle squadre mobili di Firenze e Livorno, che ha sgominato un’organizzazione criminale finalizzata al traffico di cocaina proveniente dal Sud America e legata a due cosche di ‘ndrangheta. Tra i destinatari delle misure, è stato riferito in una conferenza stampa alla procura di Firenze, anche alcuni soggetti che lavoravano nel porto di Livorno dove nel corso delle indagini sono stati sequestrati 430 chili di cocaina. Destinatari degli arresti anche soggetti ritenuti espressione di due cosche calabresi, un presunto broker che faceva da raccordo tra gli esponenti delle ‘ndrine e altri complici in ambito nazionale e internazionale più un dipendente dell’amministrazione civile del ministero dell’Interno che avrebbe falsificato passaporti per alcuni latitanti. QUI COSENZA 16.11.2021


Appalti ed estorsioni a tappeto, così la ‘Ndrangheta 2.0 sta soffocando la Lombardia

L’inchiesta prende in nome di “Cavalli di razza” ed è collegata a quelle condotte da Dda di Reggio Calabria e Dda di Firenze. Le commesse di trasporto così illecitamente acquisite venivano poi spartite tra i vari affiliati consentendo a tutti lauti guadagni accresciuti, altresì, dal ricorso sistematico a false fatturazioni. I clan tra l’altro si riunivano in Svizzera per aggirare il 416 bis e dunque evitare di incorrere nel reato di associazione mafiosa «Noi siamo come le raccomandate, arriviamo direttamente a casa», diceva, intercettata, una delle persone finite in carcere. (Il Reggino)

La notizia riportata su altri media  La complessa attività di indagine, sviluppatasi in coordinamento tra la DDA di Milano e la DDA di Reggio Calabria, ha consentito di ricostruire la storia di circa quindici anni di presenza della ‘ndrangheta nel territorio a cavallo tra le province di Como e Varese, evidenziandone la vocazione sempre più imprenditoriale e svelandone le modalità di mimetizzazione e compenetrazione con il tessuto economico-legale. (ilSaronno)

Tre operazioni antimafia, una tonnellata di cocaina proveniente dal Sudamerica, 104 misure cautelari e il sequestro preventivo di aziende, beni immobili, terreni e rapporti finanziari. La procuratrice aggiunta Alessandra Dolci ha messo in luce i “rapporti” tra il clan, attivo in Lombardia soprattutto tra le province di Varese e Como, e i due “ex pubblici amministratori”. (Il Fatto Quotidiano)

Un’operazione che ha sgominato un’organizzazione criminale finalizzata al traffico di cocaina proveniente dal Sudamerica e legata a due cosche di ‘ndrangheta. L’organizzazione criminale, specializzata nell’importazione di cocaina, poteva contare anche su aderenti stanziati in Olanda e in Sud America. (Il Reggino)

Nel 2019 Carugati, 79 anni, e Pravisano, ex funzionario di banca, erano stati arrestati (e poi avevano patteggiato una pena) in un’inchiesta della Procura di Como su un “sistema di bancarotta” sempre con l’ombra della ‘ndrangheta Entrambi, a quanto è stato riferito, avevano già patteggiato una condanna per bancarotta. (IL GIORNO)

Il giorno dopo sempre nel porto sono stati sequestrati altri 164 panetti per in totale di 430 chili di cocaina. In un’intercettazione uno dei portuali riferisce il contenuto di una minaccia ricevuta: «Se fossimo stati in Calabria ti avremmo sciolto nell’acido». (LaC news24)


Mafia, aziende nel mirino: così si finisce in scacco  Dai 54 arresti della Dda emerge il sistema utilizzato per intaccare l’economia Sfruttare le debolezze, esborsi di denaro, assoggetamento e poi le minacce  Per oltre un decennio, a partire almeno dal 2009, le estorsioni sono state un’attività “abituale”, portata avanti con le stesse modalità, dallo stesso gruppo di persone. È quanto emerge dal provvedimento di fermo emesso dalla Dda di Milano, che martedì ha portato in carcere 54 persone, alcune delle quali accusate anche di “una serie indeterminata di reati contro il patrimonio, principalmente estorsioni, bancarotte, usure”, da cui traevano “sostentamento per vivere e acquisendo con tali modalità la gestione ed il controllo di imprese operanti nel settore dei servizi”. I nomi che ricorrono in questo genere di imputazioni, sono quelli dei Ficarra, Domenico, Antonio, Rocco Marcello e Giuseppe, e di Antonio Salerni. Le richieste di denaro, come ricostruito dalle indagini, avevano una serie di connotati simili, al di là del metodo pesantemente violento con cui venivano agite. Gli indagati hanno sempre sfruttato le debolezze economiche degli imprenditori, ma a volte anche di persone inermi con le quali entravano casualmente in contatto, inducendole “a consistenti esborsi di danaro e ponendole in uno stato di vero e proprio assoggettamento psicologico per garantirsi un loro completo controllo e indurle a continui versamenti di danaro senza che queste potessero opporre alcuna resistenza”.

Tutti riuniti in un unico gruppo, “in grado sia di aiutarsi l’uno con l’altro nei momenti di fibrillazione, sia di incutere maggior timore nelle persone offese”. Che si trattasse di truffa, prestito, recupero crediti, presunti investimenti finanziari o di estorsione vera e propria, il copione era identico: minacciare gravemente la vittima facendo intendere di avere la disponibilità di armi e di essere in grado di agire anche ai danni di familiari delle vittime, ostentare le proprie origini calabresi e l’affiliazione alla ‘ndrangheta, pressarla la vittima con continue richieste di denaro, fino a dover ricorrere a prestiti di parenti o amici o a canali di finanziamento.

«Ti sparo in testa… Vi ammazzo tutti… Stai zitto, no dire nemmeno una parola…Ma tu lo sia con quali persone hai a che fare, lo sai”, sono le frasi pronunciate da Antonio e Domenico Ficarra, durante uno degli episodi più eclatanti. Nel momento in cui la vittima non era più in grado di pagare in alcun modo, veniva abbandonata. È il caso del titolare di una impresa edile, dichiarato fallito su iniziativa dei creditori e condannato per bancarotta fraudolenta nel 2014, che aveva perso anche la casa. L’amministratore di un’altra società del settore edile, dopo aver subito minacce pesanti per ottenere denaro, aveva iniziato a ricevere visite in azienda, fino a essere prelevato contro la sua volontà e portato nell’abitazione di Antonio Salerni (lo stesso accusato anche delle estorsioni ai dirigenti della Spumador per farsi assegnare gli incarichi dei trasporti), minacciato con un fucile, e indotto a continuare a pagare fino a quando le pretese erano diventate insostenibili economicamente. In alcuni casi, “le richieste estorsive sono state mascherate da tentativi mal dissimulati di recupero crediti”, ma a svelarne la reale natura, sono state innanzitutto le condotte delle stesse persone offese, che non mostravano: “mai il contegno di chi ha la consapevolezza e la percezione di muoversi in un normale ordinario fisiologico contesto di affari – dicono i magistrati – tanto che non hanno mai trovato sin dall’inizio il coraggio di denunciare formalmente quanto stava accadendo”. IL GIORNO 18.11.2021


Ndrangheta in Lombardia, i misteri: dal primo omicidio agli ultimi arresti  Nel 2008 la morte di Carmelo Novella diede il via alla guerra fra ‘ndrine in tutta la regione . L’omicidio Novella nel 2008  Tredici anni. Sono passati tredici anni da quel luglio 2008 nel quale la Lombardia è cambiata per sempre eppure, per certe dinamiche, sembra non essere trascorsa che una manciata di ore. Perché oggi come 13 anni or sono la ‘ndrangheta continua ad allungare i propri tentacoli sul territorio, sulle imprese, sui cittadini della Lombardia. E oggi, finalmente, più che 13 anni or sono la magistratura e le forze dell’ordine conoscono il problema e lo combattono in modo sempre più strenuo. Già, perché meno di due anni dopo il primo vero omicidio di ‘ndrangheta in provincia di Milano l’allora prefetto Gian Valerio Lombardi dichiarò: “A Milano la mafia non esiste”. Purtroppo i fatti che si sono svolti dal 2008 a pochi giorni fa dimostrano il contrario. A Milano e in tutta la Lombardia le organizzazioni mafiose, e in particolare la ‘ndrangheta, esistono eccome. Basti pensare agli undici arresti fatti solo un anno fa e che hanno colpito la Locale di Legnano-Lonate Pozzolo, ovvero il “gruppo” con una certa autonomia di manovra rispetto alla casa madre calabrese che controlla i territori fra Lonate Pozzolo e Legnano appunto. Dal 2008 al 2020, passando per gli ultimi arresti di pochi giorni fa nelle zone di Como e Sondrio: la ‘ndrangheta in Lombardia esiste e resiste ancora, purtroppo. Necessario è quindi non nascondersi, ma ammettere che da quella calda giornata di luglio del 2008 in Lombardia la ‘ndrangheta si è manifestata in tutta la propria malvagità quella di questo genere di criminalità organizzata è una realtà con la quale dover fare necessariamente i conti anche nel profondo nord lombardo. IL GIORNO 20.1.2021


L’INCHIESTA

Dalla Piana di Gioia Tauro a Zurigo. Le “mangiate” di ‘ndrangheta per riorganizzare il clan

I racconti dei pentiti e le sentenze: «Cene come summit mafiosi». I progetti della cosca di Giffone all’estero: «Avevano creato una ‘ndrina senza valore ufficiale».   di Pablo Petrasso

I magistrati della Dda di Milano utilizzano una sentenza del 1998 e le parole del collaboratore di giustizia Antonino Belnome per raccontare una delle facce della ‘ndrangheta. È quella ancora legata alle tradizioni arcaiche, delle riunioni a tavola in cui si affrontano temi delicati per le associazioni mafiose. Summit davanti a un piatto di carne di capra che i clan calabresi hanno esportato (anche) in Svizzera o, ancora, cene nella Calabria profonda che muovono equilibri nella capitale economica d’Italia. Le “mangiate” e il loro valore di raccordo tra vecchia e nuova ‘ndrangheta accompagnano gli atti dell’inchiesta che ha portato al fermo di 54 persone. Il loro senso spunta dalle motivazioni delle condanne riportate sugli sviluppi dell’operazione “Fiori della Notte di San Vito”, una delle pietre miliari nella storia giudiziaria delle infiltrazioni mafiose in Lombardia. Non vista (o sottovalutata) per anni, la cosca Mazzaferro aveva creato, partendo dalla Locride, un piccolo impero in provincia di Como, per poi allargarsi alle province lombarde. Capace quasi di affrancarsi dalla “casa madre” a Marina di Gioiosa Jonica per fare storia a sé.

La sentenza, scritta più di venti anni fa, racconta una tradizione criminale mai abbandonata dai clan, che si sono aggiornati (in questo senso i magistrati lombardi parlano di ‘ndrangheta 2.0) senza perdere abitudini consolidate: «Gli incontri denominati “mangiate” – scrivono i giudici del processo “I fiori della notte di San Vito” – assumono particolare interesse investigativo, poiché permettono di documentare importanti momenti di crescita dei singoli affiliati (concessioni di doti) piuttosto che ricostruire gli equilibri interni delle strutture indagate». Come in una cerimonia, i convitati mangiano insieme la carne di capra, come «conferma dei valori di solidarietà e amicizia reciproca (…) parte integrante di un momento significativo per la vita dell’organizzazione».

Nuove “carriere” criminali nascono attraverso questi riti di passaggio con precisi codici che Belnome ha raccontato agli inquirenti: «Riunioni, mangiate con “capretto o agnello con tutti gli uomini seduti e tu seduto “capo tavola”: guardavo tutti in faccia e tutti potevano guardare me, si poteva iniziare a mangiare quando io davo l’invito con un “buon appetito”. Nessuno poteva mangiare finché non si diceva la fatidica parola e la potevo dire solo io, era come essere tre metri sopra il cielo (…) Ricordo il giorno in cui fu celebrato il rituale della mia “affiliazione alla ‘ndrangheta”, eravamo in un terreno con una baracca e per l’occasione era stata organizzata una mangiata con carne arrostita…».

Il summit a Zurigo per la cosca La Rosa  A Zurigo si svolge uno dei summit documentati nell’inchiesta lombarda. Pasquale e Michelangelo (detto “Bocconcino”) La Rosa sono accusati appartenere al “locale” di Fino Mornasco. Sono entrambi calabresi (originari della Piana di Gioia Tauro) trapiantati al Nord ma mantengono forti rapporti con il paese di origine, Giffone. Pasquale è «figlio del “mammasantissima” Giuseppe La Rosa (alias “Peppe la Mucca”)» e avrebbe un ruolo preminente nell’articolazione svizzera del “locale” lombardo. Michelangelo, già condannato dal gup come membro del clan, sarebbe in possesso «della dote superiore al “vangelista”», è cognato del “mammasantissima” Peppe e, dopo l’arresto di Pasquale La Rosa, prende il suo posto per guidare gli affari in terra elvetica. I due La Rosa il 26 maggio si trovano a bordo di una Fiat Stilo diretta a Zurigo. È lì che, nell’orto di un loro parente, si svolge una «”mangiata” a base di capra tenutasi il 30 maggio 2020, a cui sicuramente deve essere attribuita la natura di riunione mafiosa». Il filmato girato dal telefono di Michelangelo La Rosa permetterà agli investigatori di documentare la «presenza al convivio mafioso» di otto persone identificate e di altre rimaste allo stato “anonime”. Il padrone di casa – sottolineano i pm nel decreto di fermo – è imparentato con Michelangelo Panuccio, condannato per associazione mafiosa come membro del “locale” di Calolziocorte, legata al clan di Giffone. Durante la cena, le cimici captano dialoghi che ne avrebbero «confermato la natura di riunione mafiosa di quel convivio essendosi parlato praticamente sempre di vicende di ‘ndrangheta, spesso rievocando eventi passati e soggetti calabresi dimoranti in Svizzera e Germania, ma anche facendo riferimenti agli attuali assetti criminali». Lo stesso padrone di casa, non indagato in questa inchiesta, avrebbe affermato «di essere organico alle famiglie mafiose del mandamento della Jonica: “Però – è la frase riportata agli atti – il nostro locale, Bova Marina, Brancaleone“».

«Non andavamo d’accordo con il locale di Frauenfeld» È sempre lui, nel corso della “mangiata” a offrire spunti sui rapporti tra propaggini ‘ndranghetiste in Svizzera: «Andavamo là, andavamo, mangiavamo capra, per dirti la verità non è… inc.. con tutto che negli anni, negli anni, non andavamo tanto d’accordo con il locale di Frauenfeld…Achille era in Germania, al “locale” c’erano tutti questi, tutti “fabricioti” (ndr, provenienti da Fabrizia, comune calabrese in provincia di Vibo Valentia), invece al “locale” dove eravamo noi, eravamo tutti della zona di Reggio (ndr Reggio Calabria), però eravamo tutti, la maggior parte “da chiana” (ndr Piana di Gioia Tauro) eravamo io, mio cugino, noi tutti di Palizzi fino a Brancaleone, fino a…tutti di là eravamo, eravamo 70 noi, una cosa impressionante, che poi, chi se n’è andato, chi è stato arrestato per il bel lavoro (forse l’operazione “Bellu lavuru”, nda)… inc… se ne sono andati tutti e siamo rimasti in pochi, che siamo pochi qua, non è che siamo rimasti una… neanche due manate, siamo in tutto qua ormai!.. e ci sono quelli di Cassari (Vibo Valentia) là, quelli della Germania, adesso con questo coronavirus era… ci riuniamo a livello di mangiare… qualche volta, guardati, mangiamo e beviamo, però non vogliamo, qualcuno vuole qualche copiata…per adesso, in questo momento qua…». L’Achille a cui si fa riferimento sarebbe Primerano, destinatario di un’ordinanza di custodia cautelare in carcere per il reato di associazione mafiosa: apparterrebbe al locale di Rielasingen. Sono, per i pubblici ministeri antimafia, dialoghi di ‘ndrangheta.

«Peppe La Rosa aveva creato una ‘ndrina senza valore ufficiale»  E sono riconducibili al modus operandi della ‘ndrangheta anche le attività addebitate al “locale” che farebbe riferimento a Giffone: un «vasto traffico» di stupefacenti che sarebbe provato nella circostanza dell’arresto di Pasquale La Rosa, trovato in possesso di quasi 1,2 chili di cocaina e poi condannato – con sentenza del Tribunale di Como – a 4 anni e 9 mesi di reclusione. Di quei traffici ha riferito anche il pentito Luciano Nocera: «Mi dissero che “Peppe la Mucca aveva aperto un locale di ‘ndrangheta in Svizzera con altri nostri compaesani. Non so precisare il luogo esatto, ma ritengo che esso si identifichi con il posto in cui Peppe La Mucca lavorava…». Questo sodalizio, per gli inquirenti, «sarebbe stato composto per lo più da affiliati originari di Giffone» ma si sarebbe posto in una posizione esterna rispetto all’ordinamento mafioso. Ancora Nocera: «Posso dire che era analogo a quello di Fino Mornasco. Sostanzialmente “Peppe la Mucca” aveva fatto quello che aveva fatto Mazzaferro, che aveva creato delle ‘ndrine che però non avevano un valore ufficiale nella ‘ndrangheta». Il cerchio si chiude: più di 20 anni dopo lo schema è simile a quello messo in piedi dal clan di Marina di Gioiosa Jonica. “I fiori della Notte di San Vito” sono storia giudiziaria. La ‘ndrangheta segue ancora i propri consolidati schemi arcaici. Ma non è soltanto “mangiate”. In quegli appuntamenti, davanti alla carne di capra si decidono strategie e si spostano equilibri economici. Lo sanno bene i magistrati di Milano che, lungo il percorso delle loro inchieste, hanno individuato gli schemi della ‘ndrangheta 2.0 e i suoi legami con i colletti bianchi nell’area grigia dei reati finanziari. CORRIERE DELLA CALABRIA


’Ndrangheta, anche esplosivo nelle chat del clan. Già estradati in Italia due degli arrestati in Svizzera nell’operazione di polizia della scorsa settimana

Non solo armi e droga, ma anche esplosivo negli sms criptati dei clan ’ndranghetisti. “Se qualcuno qualcuno rompe i c… due di questi qui e si zittisce … sempre buono averlo per qualsiasi cosa”. Oltre al messaggio anche due fotografie di candelotti. Una delle decine di chat finite negli atti della vasta inchiesta che, martedì scorso, ha portato al fermo di 54 persone delle quali 36 residenti in provincia di Como e quattro domiciliati a Zurigo, nel Canton San Gallo, nei Grigioni e in Ticino (due di loro sono già stati estradati, avendo accettato l’estradizione semplificata). Chat in libertà, senza la minima cautela e ciò derivava del fatto di avere fra le mani criptofonini con software di sicurezza del sistema SkyEcc (società canadese convinta di aver inventato il sistema di comunicazioni più segrete e impenetrabile del mondo). Peccato, per loro, cioè la mezza dozzina abbondante di ‘ndranghettisti, affiliati alla cosca di Fino Mornasco, trasferiti nei sobborghi di Zurigo e del Canton San Gallo, che all’inizio dell’anno l’Europol, è riuscita a decriptare le comunicazioni del sistema SkyEcc e con la collaborazione della Polizia federale svizzera, la Squadra Mobile di Milano e il Nucleo di polizia economica-finanziaria della Guardia di finanza di Como, a scoprire chi se celava dietro i nickname delle chat segrete. Innanzitutto, Sonny Boy, 34enne, che legato al capo della ’ndrina di Fino Mornasco, conosciuto come Bugatti, è considerato il fornitore dei criptofonini, apparati radiomobili di fabbricazione spagnola, dotati di programmi di criptazione. Gli altri nickname che hanno consentito di identificare alcuni degli arrestati la scorsa settimana: Selvaggio (alias Messi e Biondo), affiliato di Fino Mornasco, Bugatti 2 (arrestato nel Canton San Gallo), Neymar (presente a numerosi summit tenuti a Bulgarograsso); Pizzettone, legato al clan di Fino Mornasco e Popeye, che gravitava nella zona di Lomazzo per incontrare gli altri coindagati per programmare i traffici di droga verso la Svizzera in cambio di armi. Ed è di Popeye la conversazione in cui con un interlocutore (di cui non si fa il nome) parla di “esplosivo plastico”.  Nelle chat, finite degli atti della corposa indagine antimafia (oltre cento arrestati) si parla innanzitutto di cocaina, ma anche di “fumo”, un fil rouge dalla piana di Gioia Tauro a Fino Mornasco, per finire a Zurigo e nel Canton San Gallo: dalla cosca Molè, la stessa che troviamo anche nell’inchiesta della Dda di Firenze, che martedì scorso ha portato all’arresto di una quindicina di persona, due delle quali nel luganese: un 41enne che nel traffico di cocaina avrebbe avuto un ruolo apicale, titolare di permesso G, e un 59enne, con permesso B. Il 59enne già venerdì scorso è stato estradato in Italia. Non poche le chat che stanno a dimostrare la facilità con la quale gli ’ndranghetisti riuscivano a mettersi in contatto con venditori di armi. Un esempio: “Mi interessano armi … M piccoli… se c’è prezzo lo compro io sto AK 47 … dimmi 1500 e lo mando a prendere fino a là …”. La chat è di Sonny Boy. L’Ak 47 è il Kalashnikov, mitragliatore d’assalto di fabbricazione russa. “Là” sta a significare un comune svizzero del Canton San Gallo dove abitava Bugatti 2. LA REGIONE 22.11.2021 Marco Marelli

 



 5 ottobre 2021 – Ndrangheta in Lombardia, sette arresti della Dia di MilanoL’indagine nasce da alcuni riscontri su personaggi legati alla cosca Pesce-Bellocco di Rosarno

Alle prime luci dell’alba di martedì, la Direzione investigativa antimafia ha arrestato sette persona ritenute gravemente indiziate a vario titolo di associazione per delinquere di tipo mafioso, estorsione, trasferimento fraudolento di beni e valori e appropriazione indebita, aggravati dal metodo mafioso, nonché bancarotta fraudolenta e autoriciclaggio. L’ordinanza è stata emessa dal gip di Milano su richiesta della locale Direzione distrettuale antimafia. L’indagine nasce da alcuni riscontri su personaggi legati alla cosca Pesce-Bellocco di Rosarno particolarmente attivi nel territorio lombardo. Gli interessi dei coinvolti spaziavano dalle estorsioni ai reati di bancarotta fraudolenta, al riciclaggio di proventi di attività delittuose connesse anche all’illecita gestione di rifiuti. Tra i soggetti colpiti dai provvedimenti restrittivi figurano, inoltre, appartenenti ad altre storiche famiglie ‘ndranghetiste insediatesi nei territori del lecchese e del comasco.  Particolarmente significativi sono risultati degli episodi estorsivi nei confronti di alcuni promotori finanziari costretti – attraverso minacce e aggressioni – a consegnare somme di denaro contante e fornire una “forzata” collaborazione nell’ambito dell’intermediazione creditizia. Nelle perquisizioni sono stati impegnati gli uomini della Dia di Milano, Roma, Napoli, Reggio Calabria e Brescia nonché i reparti della polizia di Stato, dei carabinieri e della guardia di finanza competenti sulle province di Brescia, Mantova, Novara, Varese, Lecco e Como. MILANO TODAY


11 giugno 2021 – Ndrangheta:arresti tra Brianza e ComascoVentidue misure cautelari per associazione a delinquere di stampo mafioso, estorsione e acquisizione indebita di esercizi pubblici, nonché porto abusivo di armi e associazione finalizzata al traffico internazionale di sostanze stupefacenti, sono state eseguite stamane all’alba dai carabinieri del Nucleo Investigativo di Monza, coordinati dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Milano, nelle province di Monza e della Brianza, Como, Lecco, Reggio Emilia, Macerata e Reggio Calabria. Venti le persone ritenute vicine alla famiglia vibonese “Cristello” arrestati (per gli altri due obbligo di firma), legati alla Locale dell’Ndrangheta attiva in Brianza e in via di espansione in Germania, Spagna e Svizzera, con particolari interessi nei servizi di sicurezza dei locali pubblici nelle province di Monza, Como e Milano. ANSA


8 gennaio 2021 – ‘Ndrangheta nei locali notturni del Comasco. Diciotto indagati scelgono l’Abbreviato Tutti in Abbreviato tranne un solo indagato, ovvero un uomo di Bollate. I restanti 18 sospettati compariranno davanti al giudice Sofia Luigia Fioretta nell’udienza fissata per l’inizio di febbraio. L’appuntamento è con l’aula Bunker di via Guido Uccelli di Nemi a Milano. Quel giorno, i pubblici ministeri della Dda porteranno in aula il fascicolo nato dall’operazione che fu denominata “Gaia” e che aveva riguardato i locali e le discoteche del Comasco, compresa le gestione dei buttafuori delle stesse strutture finite al centro dell’indagine. L’Antimafia di Milano aveva in origine chiesto il giudizio immediato, ma le difese hanno poi preferito optare – con una sola eccezione su 19 – per il rito Abbreviato. Sul tavolo della Dda, in indagini firmate dai magistrati Sara Ombra e Cecilia Vassena, erano finite contestazioni che parlavano a vario titolo di associazione per delinquere di stampo mafioso, estorsione, porto abusivo di armi, ma anche di associazione per delinquere finalizzata al traffico internazionale di sostanze stupefacenti, in arrivo soprattutto dalla Spagna.

Nel mirino l’attività di spaccio, ovviamente, ma anche – come già era avvenuto per piazza Garibaldi a Cantù – la gestione dei servizi di sicurezza dei locali notturni del territorio, discoteche e pub dislocati tra Como, Erba, Cantù ma anche Monza e Milano. Secondo gli inquirenti, la ’ndrangheta controllava i locali notturni (bar e discoteche) non attraverso le proprietà delle quote, bensì con «l’imposizione di ditte di sicurezza di “copertura”, dietro le quali si sarebbero celati soggetti appartenenti alla malavita organizzata calabrese». Condotte che avevano lo scopo ovviamente di fare “business”, ma anche di ottenere fondi da destinare agli affiliati colpiti in questi anni dalle operazioni della Dda e ristretti nelle carceri della penisola: «Tutti i mesi bisogna mandare un regalo agli amici che purtroppo non ci sono più a lavorare con noi – dice un arrestato intercettato – e hanno bisogno giustamente di mangiare, no?».
Tra gli indagati ben otto figurano essere residenti in provincia di Como. A Carmelo Cristello (48 anni di Cabiate, originario di Vibo Valentia), Luca Vacca (37 anni, di Mariano Comense) e Daniele Scolari (33 anni sempre residente a Mariano Comense) – difesi dagli avvocati Simone Gatto, Lorenzo Vendola e Gino Colombo – viene contestato, con Umberto Cristello (nato a Mileto, residente a Seregno, 53 anni) l’appartenenza alla ’ndrangheta.
In totale gli indagati sono quarantotto i capi contenenti ipotesi di reato di vario tipo. Le richieste di custodia cautelare erano state chieste per 27 indagati, mentre le misure restrittive erano state concesse per 22 soggetti. Le ordinanze, nello scorso mese di giugno, erano state eseguite in buona parte della provincia di Como dagli uomini dei carabinieri della compagnia di Cantù, uniti ai colleghi di Monza, che avevano suonato ai campanelli di più abitazioni tra Mariano Comense, Cabiate, Como, Beregazzo con Figliaro, ma anche a Giussano, Seregno, Carate Brianza, Cesano Maderno e anche in Calabria. Corriere di Como

A cinque di loro, viene contestata l’associazione ‘ndranghetista, per la gestione dei servizi di sicurezza nelle discoteche del Comasco. Sono in tutto 18 gli imputati, su 19 destinatari di ordinanza di custodia cautelare per vari reati, eseguita a giugno scorso, che a inizio febbraio compariranno davanti al gup di Milano Sofia Fioretta, per essere processati con rito abbreviato. Tra questi, i cugini Umberto e Carmelo Cristello, rispettivamente 53 anni di Seregno e 47 anni di Cabiate, Davide Scolari, 32 anni e Luca Vacca, 37 anni entrambi di Mariano Comense, incaricati, questi ultimi, di “compiere gli atti estorsivi, di controllare i settori economici monopolizzati dal sodalizio, di intimidazione dei concorrenti e di organizzazione operativa dei servizi di sicurezza dei locali notturni”. Umberto Cristello, già condannato per associazione mafiosa, secondo i magistrati della Dda di Milano, che hanno coordinato le indagini dei carabinieri di Cantù, risulta essere in possesso di una “dote” elevata, che gli sarebbe stata conferita dal fratello Rocco, ucciso il 27 marzo 2008.

Condizione utilizzata per esercitare controllo sul territorio della Locale di Seregno, assieme al cugino Carmelo. Luca Vacca qualificato come partecipe, avrebbe avuto il ruolo di gestire i servizi di sicurezza di una serie di locali notturni di Como e provincia, mentre Solari, a sua volta accusato di essere partecipe della Locale e braccio destro di Vacca, è accusato di estorsioni e atti di intimidazione. Il Giorno 


25 Febbraio 2016. ‘Ndrangheta nel Comasco, maxi confisca al boss Oliverio condannato: 2,5 milioni tra case e gioielli

Hanno colpito laddove fa più male alla ‘ndrangheta, ovvero i patrimoni. A cinque anni dall’arresto di Giuseppe Oliverio, boss della locale di Mariano Comense in provincia di Como, i militari della Guardia di Finanza  hanno eseguito la confisca di case, terreni e immobili riconducibili al boss. Beni per un valore complessivo di oltre 2,5 milioni di euro. È il capitolo finale di una vicenda che risale al 2016 con l’operazione “Crociata”, quando i militari del Gico della Guardia di Finanza e i Carabinieri su ordine della dda di Milano smantellarono con 28 arresti l’organizzazione guidata dagli uomini del clan Muscatello che terrorizzavano gli imprenditori della zona. Per Oliverio, condannato in via definitiva a 14 anni per reati di associazione mafiosa, spaccio ed estorsione e che si trova attualmente detenuto nel carcere di opera, la Cassazione ha deciso che quel patrimonio deve definitivamente essere confiscato. Nell’elenco di beni che passano allo Stato ci sono 15 orologi, gioielli, 259mila euro in contanti, un terreno e cinque appartamenti a Caccuri in provincia di Crotone, altri dieci immobili tra Olgiate Comasco (in via Trieste 56) e Lurate Caccivio (via Leonardo Da Vinci 28) questi intestati a due società riconducibili ai figli Soldi e proprietà che erano state accumulate tra il 2004 e il 2014, sia grazie al traffico di droga sia grazie alla costante vessazione di imprenditori locali i quali venivano privati di fatto delle proprie aziende, tramite intimidazioni e attentati. Era proprio dalla denuncia del titolare di un’autofficina, Vincenzo Francomano, che partì l’inchiesta che portò agli arresti del 2016.  LA REPUBBLICA


di GiuseppePigntone

Guerra alle cosche, il fronte si sposta al Nord

Qualche settimana fa, tre operazioni coordinate delle Direzioni distrettuali antimafia di Milano, Firenze e Reggio Calabria hanno portato all’arresto di 104 persone, al sequestro di beni immobili e aziende, nonché al ritrovamento – parte a Gioia Tauro, parte al porto di Livorno – di quasi 1000 chilogrammi di cocaina. Risultati notevolissimi ma che, fermo restando l’accertamento processuale delle singole responsabilità, suggeriscono una prima amara riflessione: a undici anni dall’indagine Crimine-Infinito (luglio 2010) appare immutato il quadro allora delineato sulla presenza della ‘ndrangheta calabrese nel Nord del Paese. Nonostante le condanne inflitte, le centinaia di arresti e di processi che si sono susseguiti, la ‘ndrangheta ha continuato a rafforzare la sua presenza nelle regioni settentrionali, soprattutto in Lombardia. Presenza dominante nelle attività illegali – a cominciare dal traffico di stupefacenti, la prima fonte della potenza economica delle mafie – ma significativa anche in quelle legali. È doveroso chiedersi come sia stato possibile.

Un punto fondamentale, confermato da tutte le indagini, sta nella disponibilità di operatori economici e commerciali e di professionisti a entrare in affari con gli ‘ndranghetisti, fornendo loro know how (persino in materia di evasione fiscale) e offrendo “facce pulite” dietro cui nascondere la loro presenza. Questa disponibilità viene talvolta motivata con la necessità di far fronte alle pretese estorsive dei mafiosi, pronti a intervenire là dove le banche negano i finanziamenti. Ma sempre più spesso il collegamento con i criminali deriva unicamente dalla volontà di fare affari, di arricchirsi. Come se mettersi in società con un mafioso fosse una cosa normale e non un’avventura gravida di rischi, come peraltro dimostrano decine di processi. Oltretutto, grazie a queste disponibilità, la ‘ndrangheta si rafforza e si espande acquisendo la rete di relazioni economiche, sociali e anche politiche che appartengono a ogni nuovo “socio”.

Sono gli stessi malcapitati imprenditori a mettere a verbale che i boss “avevano necessità di soggetti puliti che potessero essere credibili per avere lavoro in Lombardia e, da questo punto di vista, io e … (un altro indagato, n.d.r.) eravamo perfetti, in quanto avevamo contatti sul territorio ed entrambi avevamo rivestito cariche pubbliche. Io avevo anche l’esperienza di funzionario di banca per ottenere fidi e la fiducia del sistema creditizio”.

Lo stesso schema si ripete nelle altre regioni del Centro-Nord. La Dda di Firenze ha scoperto che le cosche reggine avevano fatto transitare ingenti quantitativi di cocaina dal porto di Livorno giovandosi della complicità di un dipendente della Compagnia portuali, così come investimenti mafiosi sono stati individuati anche in Toscana, in Umbria e nel Lazio. L’attività della ‘ndrangheta si estende anche oltre confine, per esempio in Svizzera. Un Paese – si ascolta in una intercettazione – in cui conviene stare “perché non c’è il 416 bis” cioè il reato di associazione mafiosa. E infatti un imprenditore intercettato rivela che gli ‘ndranghetisti (di cui peraltro è socio), “hanno trasferito grandissima parte della loro attività in modo legale al Nord, dove loro non compaiono più. Hanno i contatti, hanno le cose. Le società sono nel Nord, sono sparse nell’Europa, sono sparse nel mondo. Perché dipende poi dalla quantità di contanti che riescono a mettere insieme”.

La preoccupazione per la presenza delle mafie nell’economia legale non può che crescere nel momento in cui si devono investire gli ingenti fondi previsti dal Piano nazionale di ripresa e resilienza e ci sono molti segnali della volontà delle organizzazioni criminali di acquisirne una parte.

Nonostante tutto, però, va ricordato che la situazione nelle altre regioni d’Italia è ben diversa da quella calabrese. Come ha detto il Procuratore di Milano, nel Nord “le mafie hanno più difficoltà a prendere il controllo, anche politico: ma rischiano di arrivare a prenderlo se non si alza la soglia di allerta”.

In buona sostanza, i criminali fanno ovunque il loro mestiere e dipenderà solo da noi riprodurre quella sinergia tra forza repressiva dello Stato (che funziona e ottiene risultati), capacità di reazione politica, etica professionale e senso civico espressi da ogni singolo cittadino: la stessa sinergia che ha sconfitto la mafia siciliana delle stragi. LA REPUBBLICA 27.11.2021


 

 


LA ‘NDRANGHETA NEL COMASCO

 

usura a como

Usura a  Como: arresti e omertà


MAFIA e ANTIMAFIA nel COMASCO

 


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