FABIO TRIZZINO: “Verità non guerre politiche. Borsellino é di tutti

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Legale famiglia Borsellino: “La strage più figlia del rapporto mafia-appalti Ros Carabinieri”

Non credono che Paolo Borsellino sia stato ucciso perché si oppose alla trattativa Stato-mafia, i figli del magistrato che morì nella strage di via D’Amelio, a Palermo, rappresentati dal legale Fabio Trizzino, nonchè marito di Lucia Borsellino.
I figli ritengono più plausibile che dietro la strage del 19 luglio 1992, possa esserci invece l’interesse mostrato dal magistrato per il rapporto mafia-appalti del Ros dei Carabinieri.
A una settimana dal 31° anniversario della bomba che uccise Borsellino e la sua scorta, l’avvocato Trizino, attacca con il movimento delle Agende Rosse, che sembra “non rassegnarsi” al fatto che la trattativa Stato-mafia “giudiziariamente non è stata accertata”. Quanto alle divisioni all’interno dell’antimafia il legale ritiene che “vada superata una logica di contrapposizione. Ho l’impressione che i movimenti antimafia possano essere oggetto di una strumentalizzazione da parte di chi ha interesse, una volta viste cadere determinate ricostruzioni, a insistere. Mi chiedo se le Agende rosse siano veramente al servizio della ricerca della verità, oppure se sono innamorate di una tesi, quella della trattativa, in maniera dogmatica”. ITACANOTIZIE 12 luglio 2023


Fratello Borsellino: “Io tagliato fuori dalla famiglia di Paolo”

 

 

 

Trizzino

 

Avvocato FABIO TRIZZINO legale di FIAMMETTA, MANFREDI e LUCIA BORSELLINO. Marito di Lucia


ARTICOLO INTEGRALE


 

 

8.7.2023  I 57 GIORNI DI PAOLO BORSELLINO ED IL NIDO DI VIPERE – di Fabio Trizzino


24 giugno al Museo della Cantieristica di Monfalcone con Lucia Borsellino


15.6.2023 FABIO TRIZZINO e il lutto nazionale per Berlusconi


 

PREMIO alla LEGALITÀ 

 

 
 

3 giugno 2023
Dedico questo premio alla legalità a quei colleghi ed amici che ho sentito accanto a me in questi anni e la cui tenacia è stata per me esempio e fonte di vera ispirazione. È anche, se non soprattutto, il vostro premio.
Un ringraziamento alla città di Cefalù e agli organizzatori della manifestazione, in particolare al Presidente Barracato. FABIO TRIZZINO
 

PROCESSO TRATTATIVA STATO-MAFIA


29.5.2023 Borsellino, una strage di Stato. All’Istituto Catullo la videoconferenza con l’avvocato Trizzino e Lucia Borsellino


26 MAGGIO 2023  VIDEO

 

All’@unicampania di, Santa Maria Capua Vetere con DE MAGISTRIS e FABIO TRIZZINO (una meravigliosa “scoperta”) legale della Famiglia Borsellino, l’altro ieri abbiamo festeggiato la Giornata Nazionale della Legalità. Assieme al Dipartimento di @giurisprudenza_unicampania, sotto la guida della Prof. Mena Minafra, Docente di Diritto Penitenziario.
Con gli Studenti dello Stage di Diritto Penitenziario e Giurisdizione di sorveglianza. E persino i Detenuti in permesso dell’Istituto Penitenziario per minorenni di Airola e della Casa Circondariale “Francesco Uccella”.
Dopo gli interventi del Prof. Mariano Menna, Docente di Diritto Processuale Penale e del Prefetto di Torino, Raffaele Ruberto, io e @dicostanzoalfredo abbiamo condotto uno spin-off meno istituzionale, sulla base delle nostre esperienze. L’attenzione dei Laureandi e degli altri ragazzi presenti in sala c’ha davvero confortato.
 

24.4.2023 Depistaggio Strage Via d’Amelio “c’è stata omertà da parte di uomini delle istituzioni”

 

Alla Via dei Librai, il saggio di Vincenzo Ceruso sulla stragi mafiose del 1992

I depistaggi sulla Strage di Via D’Amelio sono il frutto di  una convergenza d’interessi tra Cosa Nostra e gruppi di potere esterni: è scritto nero su biano nelle motivazioni della sentenza del processo per il depistaggio a carico di tre poliziotti. C’è una storia tutta da riscrivere rispetto a quella stagione, che da maggio a luglio del 1992 cambiò il volto del paese, con il sacrifico di Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Francesca Morvillo e delle donne e degli uomini delle loro scorte.
C’è una verità ancora tutta da trovare: un passo avanti in questa direzione lo fa Vincenzo Ceruso, scrittore e ricercatore,  che con il suo ultimo saggio “Le due Stragi che hanno cambiato la storia dell’Italia”, edito per i tipi di Newton Compton, prova a ricostruire quel contesto storico criminale, basando il suo lavoro su una attenta ed approfondita ricognizione dei dati giudiziari.
La presentazione è stata moderata da Giusto Catania, già europarlamentare di Rifondazione ed ex assessore alla Mobilità del Comune di Palermo. Al saggio di Ceruso è stato dedicato un dibattito a Palermo, nell’ambito della rassegna “La Via dei Librai”.
Tra i relatori  presenti anche Fabio Trizzino, il legale della famiglia del giudice Paolo Borsellino. Per Trizzino, quel processo di Caltanissetta sui depistaggi, è stato difficile e complesso perchè si è celebrato “in un clima di grande omertà perfettamente sovrapponibile a quello delle consorterie mafiose. E’ questo il dato sociologico che intendo rassegnare”. L’omertà a cui fa riferimento Trizzino è, purtroppo, quella di “uomini delle istituzioni”. Presente al dibattito anche il Magistrato Antonio Balsamo ha individuato la cornice geopolitica in cui è maturata la stagione stragista: “questo è un libro che non tace niente”, ha commentato Balsamo parlando del volume scritto da Ceruso.


7.4.2023 «Dietro via d’Amelio gruppi di potere e potentati economici»

Parla l’avvocato Fabio Trizzino, legale della famiglia Borsellino: «Ci fu una manovra a tenaglia»

«Questa sentenza è importantissima perché finalmente riconosce il diritto alla verità dei fatti. Quanto accaduto ha segnato la storia recente del nostro Paese, contribuendo ad imprimere una svolta epocale di cui, forse, non tutti hanno ancora piena consapevolezza», afferma l’avvocato Fabio Trizzino, genero di Paolo Borsellino e legale di parte civile della famiglia del magistrato ucciso a Palermo.

Avvocato Trizzino, perché la sentenza della Corte d’assise di Caltanissetta sul depistaggio nelle indagini sulla morte di Borsellino è importante per il nostro Paese? Dopo l’omicidio di Borsellino possiamo tranquillamente affermare che è nata seconda Repubblica. La data del 19 luglio del 1992 è uno spartiacque.

La sentenza dei giudici nisseni ha messo alcuni punti fermi. Certo, il primo è sicuramente che appartenenti alla Polizia di Stato hanno posto in essere un reato gravissimo, quello di calunnia aggravata, depistando fin dall’inizio le indagini per l’identificazione degli assassini del magistrato. Non ci sono più dubbi sul fatto che Mario Bo e Fabrizio Mattei con il loro operato hanno contribuito a “vestire il pupo”, ovvero a “costruire” il falso pentito Vincenzo Scarantino. Dalle dichiarazioni di quest’ultimo, il primo processo, il cosiddetto “Borsellino Uno”, si concluse il 26 gennaio 1996 con condanne all’ergastolo per soggetti che erano invece innocenti e completamente estranei ai fatti. Parliamo di persone che sono rimaste in carcere per quasi venti anni.

Per Bo il procuratore Salvatore De Luca e i sostituti Stefano Luciani e Maurizio Bonaccorso avevano chiesto 11 anni e 10 mesi di carcere, per Mattei 9 anni e mezzo. Reato però prescritto in quanto è caduta l’aggravante mafiosa. L’altro poliziotto coinvolto, Michele Ribaudo, è stato assolto “perché il fatto non costituisce reato”. Tralasciando la prescrizione, non vorrei che qualcuno desse però una ricostruzione ‘minimalista’ di quanto accaduto.

Come si può affrontare un processo del genere a distanza di così tanti anni? E’ ovviamente molto difficile. La difficoltà non è stata solo determinata dal decorso del tempo che ha attenuato i ricordi, ma soprattutto per l’atteggiamento tenuto in aula dai diversi soggetti all’epoca coinvolti a vario titolo: coloro che avrebbero potuto dare un contributo alla esatta ricostruzione dei fatti, dall’ultimo dei poliziotti al capo dello Sco, il Servizio centrale operativo della Polizia di Stato, hanno posto in essere un atteggiamento reticente. Un atteggiamento che ha ricordato molto da vicino quello delle consorterie mafiose.

E’ un giudizio molto duro. Ma è così. La mafia si basa sull’omertà e sulla compartimentazione. In questo processo la logica è stata la stessa. Pensi che le dichiarazioni di alcuni poliziotti sono state trasmesse in Procura per verificare una eventuale ipotesi di falso.

Un altro elemento importante è che collegio ha avuto coraggio. E non era affatto scontato quando si tratta di processi di questo genere. Certo, i giudici sono stati coraggiosissimi, non si sono fermati a condannare l’operato dei poliziotti ma anche a censurare quello dei magistrati.

Questa vicenda ne ricorda altre in cui furono coinvolti apparati dello Stato. Il copione è sempre lo stesso. Senza andare molto lontano, penso al processo sui pestaggi alla caserma Diaz durante il G8 di Genova nel 2001 o la morte di Stefano Cucchi. Concordo. Ma vorrei evidenziare anche un altro aspetto. Il silenzio da parte dei poliziotti in questo processo trova ‘giustificazione’ con il fatto che essi sono stati lasciati soli sul banco degli imputati, dove non vi erano i magistrati che hanno condotto le indagini e, almeno sulla carta, avrebbero dovuto coordinare la polizia giudiziaria. C’è stato timore.

Che spiegazioni si sente di dare? La motivazione di carriera è provata. Il prefetto Arnaldo La Barbera che coordinava il gruppo d’indagine sugli omicidi di Falcone e Borsellino ebbe una carriera fulminante con promozioni rapidissime, arrivando a ricoprire posti di assoluto prestigio.

Chi c’è dietro la morte di Borsellino? Gruppi di potere con interessi convergenti, penso a potentati economici. Ci fu una manovra a tenaglia. Eravamo anche agli inizi di Tangentopoli

E sulla scomparsa dell’agenda rossa di Borsellino? Quello è un altro aspetto inquietante. Non l’ha presa la mafia che non sapeva della sua esistenza. I mafiosi sapevano bene cosa Borsellino pensava di loro. L’ha presa chi aveva da temere da qualche possibile annotazione contenuta al suo interno.

Dopo la morte di Borsellino ci sono diversi episodi rimasti senza risposta. Lucia Borsellino ed il fratello Manfredi si recarono al Palazzo di giustizia dopo qualche giorno dall’attento per andare nell’ufficio del padre a recuperare qualche suo oggetto personale ma trovarono l’ufficio completamente pulito, con la scrivania senza nulla sopra, nemmeno un foglio di carta. Chi è stato? Non si è mai saputo. C’era qualcosa di importante?

Questa sentenza, anche se di primo grado, potrà permettere la riapertura di altre indagini? Credo di si. Penso, ad esempio, alla rivitalizzazione del dossier mafia appalti a cui stavano lavorando i carabinieri del Ros allora comandati dal colonnello Mario Mori.

IL DUBBIO


 

TRATTATIVA, MAFIA-APPALTI e VIA D’AMELIO
Fabio Trizzino a “Buongiorno Sicilia” 


 


 

Un viaggio attraverso venticinque anni d’inchieste, processi, clamorosi colpi di scena e mistificazioni giudiziarie dopo la stagione delle stragi. Un viaggio che si legge come un romanzo ma che ha l’accuratezza e la precisione di un reportage giornalistico per scandagliare le piste alternative alla (assai) presunta trattativa che sono state troppo presto abbandonate dagli investigatori. Perché fu ucciso Paolo Borsellino? Che cosa c’entra l’esplosiva indagine su mafia e appalti su cui stavano lavorando in gran segreto prima Giovanni Falcone e poi il giudice ammazzato in via D’Amelio, e che fu poi insabbiata? Questa è la storia degli eroi che volevano arrestare i sanguinari boss corleonesi Riina e Provenzano durante le pagine più buie della nostra Repubblica.



Palermo, stragi del ’92: Vincenzo Zurlo presenta il suo libro “Oltre la Trattativa”

In uno mondo pieno di misteri, intrighi e colpi di scena come quello di cosa nostra, i contorni delle vicende e degli uomini che ne fanno parte sono sempre sfumati e poco chiari.
Dalle stragi del ’92 ad oggi, magistrati, uomini di legge e dello Stato, politici, giornalisti, scrittori e registi hanno scoperchiato dei vasi di Pandora, ma molte situazioni rimangono nell’ombra ed è così che proliferano tesi e prospettive diverse, che permettono di dare una visione d’insieme più completa o di aggiungere un tassello in più alla verità dei fatti. Ed è proprio questo che ha voluto fare Vincenzo Zurlo con il suo libro dal titolo “Oltre la Trattativa”, presentato negli Antichi Lavatoi di Brancaccio a Palermo e moderato da Cristina Riggio, alla presenza Fabio Trizzino, avvocato della famiglia Borsellino, e Alessandro Bafumo, vice presidente di “Culturiamo Insieme”.

La controinchiesta

L’autore ha portato avanti una inchiesta che si distacca dal contesto della Trattativa Stato-Mafia e attribuisce l’accelerazione del piano stragista all’indagine su mafia e appalti che Falcone prima e Borsellino poi stavano portando avanti.
«Questa inchiesta, ben prima della tangentopoli milanese, portava alla luce la tangentopoli siciliana, in cui oltre al classico comitato d’affari con tutta una serie di aziende anche nazionali, c’è un partner in più, ovvero la mafia – precisa Zurlo – Durante un convegno al Castel Utveggio di Palermo, Giovanni Falcone ha dichiarato che la mafia era quotata in borsa facendo proprio riferimento alle aziende che erano state rilevate direttamente da Totò Riina.
Il 20 luglio 1992, due giorni dopo la morte di Paolo Borsellino e degli agenti di scorta, l’allora procuratore di Palermo, Pietro Giammanco, ha chiesto al Gip l’archiviazione del procedimento penale 2789/90, cioè il dossier mafia-appalti, approntato proprio dai Ros dei Carabinieri sotto la direzione di Giovanni Falcone.
L’archiviazione arriverà il 14 agosto 1992. Mi pare chiaro che ci sia un collegamento, per altro ciò è stato cristallizzato in alcune sentenze, come quella di Caltanissetta nella quale si dichiara che Borsellino è morto per le indagini su mafia e appalti, stesso movente della strage di Capaci.
Che Falcone e Borsellino fossero già messi a morte da cosa nostra è ovvio, che Riina avesse perso il controllo dopo le condanne del maxiprocesso è un altro dato certo, però, al netto di queste cose, c’è stata un’accelerazione sulla fase stragista a causa del dossier sugli appalti».

La trattativa secondo la famiglia Borsellino

«La trattativa fu un’azione info-investigativa dei Ros che, a nostro giudizio, aveva come finalità quella di costringere Ciancimino a collaborare, perché lui aveva delle necessità sue contingenti, infatti, aveva dei processi che stavano andando avanti – ha dichiarato Fabio Trizzino, avvocato della famiglia Borsellino e marito di Lucia-. Che poi questa sia stata definita “trattativa” a noi non interessa, ma ci sono degli elementi processualmente consolidati che avrebbero dovuto spingere gli inquirenti alla valorizzazione di quanto emerso con riferimento alla gestione del dossier mafia-appalti, da cui Borsellino venne escluso appositamente e per cui ci fu un’archiviazione anomala. Quindi, noi riteniamo giusto che il Paese sappia che la nostra insistenza è fondata anche su aspetti documentali e oggettivi.
Abbiamo trovato singolare continuare a parlare solo di Trattativa quasi come vi fosse la necessità di trascurare altri argomenti. La tesi portata avanti da Zurloè stata tralasciata a favore di una polarizzazione eccessiva sul tema della Trattativa. Ciò perché la gestione di quel dossier rimanda ad una analisi più approfondita di quello che Paolo Borsellino stesso definì un “nido di vipere”».

Il quadro generale: misteri e intrighi

Giovanni Falcone e Paolo Borsellino portavano avanti la lotta alla criminalità organizzata su tutti i fronti e le motivazioni per cui cosa nostra li voleva morti erano senza dubbio molteplici, ma come si è detto più volte anche altri gruppi hanno voluto isolarli, perché erano pericolosi anche per tante altre persone, che a vario titolo hanno concorso alle stragi, in modo diretto o indiretto.
«Nel libro segnalo, inoltre, il comportamento anomalo della Procura in determinate situazioni.
Infatti, non solo l’indagine sugli appalti viene archiviata con il sangue di Borsellino ancora fresco e prima dei funerali, una circostanza già molto strana di suo, ma la stessa informativa Giammanco la manda in giro per i palazzi romani in modo assolutamente anomalo e lui non verrà mai indagato, non è stato aperto nemmeno un procedimento disciplinare del Csm per questa rivelazione di segreto istruttorio.
Su quella Procura ci sono delle ombre lunghissime, così come ci sono delle ombre lunghissime su Giammanco – dichiara infine Zurlo – Nell’agenda rossa c’era proprio l’indagine parallela che Borsellino stava conducendo dalla strage di Capaci in poi. Lì annotava tutte le anomalie sull’indagine “mafia e appalti”, questi sono dati che ci ha fornito Liliana Ferraro, magistrato e braccio destro di Falcone agli affari penali. Questo aspetto lei l’ha sempre sottolineato in tutti i processi».

Sonia Sabatino QDS 30.11.2022 


 

Cosa accadde davvero nei 57 giorni che separano la strage di Capaci da quella di via D’Amelio? Un libro prova a fare luce tra omissioni, errori, silenzi, connivenze e depistaggi

Foto Luigi Buonincontro per concessione Tablò©
 

I due attentati, condotti a 57 giorni di distanza l’uno dall’altro, impedirono che i due giudici potessero portare pienamente alla luce il patto tra mafia, politica e grandi imprese. E restano ancora molte le ombre, le omissioni, le connivenze, i segreti da svelare. Ad iniziare dalla scomparsa, in via D’Amelio, dell’agenda rossa che Paolo Borsellino aveva sempre con sè. A fare chiarezza, e a tracciare una strada nel groviglio di misteri e depistaggi ancora non dipanato, il libro “Le due stragi che hanno cambiato la storia d’Italia. Falcone e Borsellino. Da Capaci a via D’Amelio”, scritto da Vincenzo Ceruso sulla base di anni di indagini, analisi di documenti – molti resi pubblici solo recentemente – e interviste.

E proprio il libro di Ceruso è stato al centro di un doppio appuntamento, nella nostra città: presso l’Università Federico II, nell’Aula Rascio del Dipartimento di Giurisprudenza,  dove è stato l’occasione per discutere delle prospettive del sistema penale italiano alla luce degli insegnamenti dei due grandi magistrati, e presso la Comunità di Sant’Egidio, nella Chiesa di San Pietro Martire. Con l’autore anche il legale della famiglia Borsellino, Fabio Trizzino, e il giornalista d’inchiesta Antonio Mattone.  NAPOLI TODAY


5.10.2022 –  DI CAPACI E VIA D’AMELIO / INCONTRO DELLA MEMORIA ALLA FEDERICO II DI NAPOLI 


1.10.2022 – FABIO TRIZZINO: il movente mafia appalti ipotesi azzardata e priva di riscontri? Non so se ridere o piangere!

 

Immaginate di avere due archiviazioni anomale del giugno 1992, dopo Capaci, e nel luglio/ 1992 con i funerali del Giudice Borsellino ancora da fare! 
Immaginate poi un collaboratore come SIINO che riferisce le parole di Pino Lipari sul fatto che con l’approdo di Borsellino dal gennaio 1992 è finita la pace per quel santo cristiano di Giammanco!
Immaginate che entrambe le archiviazioni salvano Buscemi Antonino!
Immaginate ancora che quest’ultimo era in affari per conto di Riina con Raul Gardini! Immaginate che Lipera racconta a Catania nel Giugno 1992 di come era stato gestito quel dossier a Palermo!
Immaginate ciò che emerge dai verbali del Csm del 1992!
Immaginate la telefonata di Giammanco del 19 luglio 1992 e tanto altro ancora caro Attilio Bolzoni, come ad esempio che tutto è consacrato in sentenze definitive come il Borsellino ter e quater!
FABIO TRIZZINO
Legale di parte civile di Fiammetta, Lucia e Manfredi Borsellino 
30 settembre 2022

Strage via D’Amelio, la famiglia Borsellino contro i pm: «Senza di loro depistaggio non poteva esserci»


21.8.2022 – PAOLO BORSELLINO: “APPROFONDITE L’INDAGINE MAFIA-APPALTI !”

È quanto disse Borsellino cinque giorni prima della strage durante una riunione a Palazzo di Giustizia di Palermo ai suoi colleghi della Procura. Ma l’indagine venne archiviata pochi giorni dopo via D’Amelio. “Nell’audizione al Csm, del 29 luglio 1992, del magistrato Domenico Gozzo alcuni particolari inediti delle richieste di Borsellino su mafia-appalti.  Cinque giorni prima di finire stritolato a via D’Amelio, in riunione Paolo Borsellino ha chiesto davanti a tutti i magistrati della Procura di Palermo che si approfondisse l’indagine sul dossier mafia appalti. Non solo. Oltre a fare degli appunti ben circoscritti, ha anche chiesto il rinvio della riunione per approfondire ulteriormente il tema. Purtroppo non fece in tempo. “…Lo stesso avvocato Fabio Trizzino, legale di parte civile della famiglia di Borsellino, durante il processo contro Matteo Messina Denaro – accusato di essere uno dei mandanti delle stragi di Capaci e di via D’Amelio – ha ribadito che bisogna cercare le risposte nei 57 giorni tra le due stragi. ‘Dobbiamo capire quali informazioni possano essere finite a Borsellino, potremmo iniziare a vedere la finalità preventiva di bloccarlo sul fronte del dossier mafia e appalti’ , ha osservato Trizzino… Siamo nel 14 luglio 1992, data dell’ultima riunione in Procura a cui ha partecipato Paolo Borsellino. Il vertice a Palermo voluto dall’allora capo procuratore Pietro Giammanco è attestato nelle testimonianze rese al Csm, a fine luglio ’92, da altri magistrati all’epoca in servizio nel capoluogo. Tra di loro c’è Domenico Gozzo, all’epoca sostituto procuratore presso la procura di Palermo da un mese e mezzo. Tra i vari magistrati, Gozzo è stato uno dei pochi a spiegare con dovizia di particolari tutto ciò che è accaduto nell’ultima riunione alla quale partecipò Borsellino. Tensione durante la riunione del 14 luglio
Dal verbale del Csm datato 29 luglio 1992 si apprende che alla domanda sulla situazione generale dell’ufficio di Palermo, il dottor Gozzo specifica che era arrivato il 2 giugno del ’92 trovando una atmosfera abbastanza tesa e ha assistito a delle assemblee perché «alla Procura di Palermo c’è questa consuetudine di fare delle assemblee in cui si discutono di vari temi».
A quel punto un membro del Csm gli pone una domanda più specifica, ovvero se questa atmosfera di tensione l’avesse colta anche prima della strage di Via D’Amelio.
Risponde affermativamente e dopo aver spiegato i problemi che si sono verificati nelle riunioni precedenti e dei problemi organizzativi nella procura, Gozzo va al dunque e parla della riunione del 14 luglio.
“È stata l’ultima a cui ha partecipato Paolo Borsellino, era seduto due sedie dopo di me – spiega l’allora sostituto procuratore -, era una riunione che era stata convocata per i saluti prefestivi e per parlare anche di tutta una serie di problemi che dopo la morte di Falcone erano apparsi sui giornali (in questo momento non mi ricordo la scaletta, mi ricordo, tra gli altri, i processi mafia e appalti), cioè i vari colleghi erano chiamati a riferire sui processi che avevano gestito».
Gozzo sottolinea che «su mafia e appalti, quindi, c’era il collega Pignatone (se non ricordo male) e doveva esserci anche il collega Scarpinato che però non poté venire per problemi di famiglia».
Il magistrato Gozzo prosegue: «Ho visto proprio questo contrasto più che latente, visibile, perché proprio Borsellino chiese e ottenne che fosse rinviata – perché al momento aveva dei problemi -, la discussione su questo processo e fece degli appunti molto precisi: come mai non fossero inserite all’interno del processo determinate carte che erano state mandate…». Gozzo specifica che il processo è quello relativo a mafia-appalti e, alla domanda di che carte si trattassero, risponde: «Si trattava di carte che erano state inviate (quello che ho sentito là, chiaramente, posso riferire) alla procura di Marsala – e nella fattispecie dal collega Ingroia, che adesso è anche lui alla Procura di Palermo – che era lo stesso processo però a Marsala. C’erano degli sviluppi e, quindi, erano stati mandati a Palermo e lui (Borsellino, ndr.) si chiedeva come mai non fosse stata seguita la stessa linea». Gozzo prosegue nel racconto indicando un particolare non da poco: «E, poi, diceva che c’erano dei nuovi sviluppi (in particolare un pentito di questi che ultimamente aveva parlato), e sono rimasto sorpreso perché dall’altra parte si rispose: “ma vedremo”». Gozzo sottolinea questo passaggio del racconto mostrando le sue perplessità in merito alla risposta data a Borsellino: «Cioè, di fronte ad una offerta così importante (io riferisco i fatti): “Ma vedremo se è possibile, ma è il caso di acquisirlo”». Aveva studiato il dossier dei Ros
Dopo il racconto sulle altre problematiche relative alla procura di Palermo, più avanti un membro del Csm ritorna sulla questione mafia-appalti e chiede a Gozzo di dire qualcosa di più specifico sulla richiesta di chiarimenti da parte di Borsellino. “Probabilmente potete chiedere anche qualcosa di più interessante su questo famoso rapporto dei Ros su mafia- appalti anche a mia moglie Antonella Consiglio – risponde Gozzo – , perché mia moglie ha avuto modo di consultare queste carte proprio per il processo che ha fatto a Termini Imerese che si riferiva a Angelo Siino (l’ex ministro dei lavori pubblici di Cosa nostra, ndr) che orbita in quell’area di Termini Imerese e della Madone». E aggiunge: «Lei mi riferiva che probabilmente in un primo momento questo rapporto poteva non sembrare significativo, ma che in effetti offriva notevoli spunti di attività investigativa». Quello che sappiamo è che dopo la strage di Capaci, Borsellino (all’epoca procuratore capo a Marsala e dal marzo 1992 di nuovo alla procura di Palermo come procuratore aggiunto) decise – pur non essendo titolare dell’indagine – di approfondire l’inchiesta riguardante gli appalti, ovvero il coinvolgimento della politica e delle imprese nazionali con la mafia, perché – come disse al giornalista Mario Rossi – la ritenne la causa della morte del suo amico Giovanni Falcone. Ciò è confermato sia da un incontro che Borsellino volle tenere il 25 giugno 1992, presso la Caserma dei Carabinieri Carini di Palermo, con gli ex Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno, ai quali chiese di sviluppare le indagini riferendo esclusivamente a lui, sia dalle conversazioni avute dallo stesso Borsellino con Antonio Di Pietro, che all’epoca stava conducendo le indagini sugli appalti al centro di Mani pulite. A questo si aggiunge il fatto che Borsellino sentii anche il pentito Leonardo Messina, il quale gli riferì che la Calcestruzzi Spa (all’epoca del gruppo Ferruzzi – Gardini) sarebbe stata in mano a Totò Riina. Ora, grazie alle audizioni rese al Csm tra il 28 e il 31 luglio 1992, sappiamo che Borsellino aveva una conoscenza approfondita del dossier mafia-appalti tanto da avanzare rilievi importanti e ottenere una nuova riunione in Procura per approfondire il tema. Non fece in tempo. Dopo pochi giorni il tritolo esplose sotto la casa della mamma e che massacrò, oltre a lui, i ragazzi della scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.Il 14 agosto del 1992, in pieno periodo ferragostano, il gip Sergio La Commare archivia il dossier mafia-appalti. La richiesta di archiviazione viene stilata il 13 luglio e depositata il 22 luglio, solamente tre giorni dopo l’assassinio di Borsellino”.  IL DUBBIO Damiano ALIPRANDI 

 


 

19.8.2022 Si riapre miracolosamente uno spiraglio per far luce, dopo 30 anni, sulla strage di via D’Amelio

C’è la possibilità, una buona volta, di indagare sul serio sulla vera pista alla quale stavano lavorando Giovanni Falcone e Paolo Borsellino?
E’ arrivato il momento, dopo tanti anni di attesa, di scoperchiare sul serio quel pentolone ‘Mafia e Appalti’ che è il vero movente per il barbaro assassinio dei due magistrati e delle loro scorte, ma dà fastidio a tante toghe che hanno insabbiato e depistato, e a non pochi giornalisti che hanno costruito le loro fortune professionali su un’antimafia di pura facciata?

La prova del nove arriva, puntuale, il 18 agosto, con un lungo articolo firmato per ‘il Domani’ da Attilio Bolzoni, storica penna antimafia di ‘la Repubblica’.

A solo qualche settimana dall’apertura (o meglio, la ‘riapertura’) dell’inchiesta ‘Mafia e Appalti’decisa dalla procura di Caltanissetta (potete leggere sulla clamorosa riapertura il pezzo della ‘Voce’ cliccando sul link in basso), ecco, acuminati, i primi strali lanciati da Bolzoni, tutti tesi a demolire la credibilità di quella pista, di quel movente, e quindi l’attendibilità della nuova inchiesta appena avviata dalle toghe nissene, che invece – vivaddio –  paiono ben decise a procedere a ritmo spedito, avendo già interrogato i primi testimoni.
Ma vediamo, fior tra fiori, le principali ‘accuse’ demolitorie griffate Bolzoni e contenute nell’articolo pubblicato, in piena calura ferragostana, da ‘il Domani’di Carlo De Benedetti.

PISTA ‘RIDUTTIVA’, ‘AZZARDATA’ E ‘FUORVIANTE’     Così esordisce il mafiologo: “Quell’indagine ‘Mafia e Appalti’ è ridiventata ‘popolare’, da più parti ritenuta fondamentale per decifrare i massacri dell’estate ‘92”.
“La procura di Caltanissetta ha riesumato il dossier dopo tre decenni”.
“Ipotesi molto azzardate e negli ultimi tempi molto di moda”.
Il dossier del ROS dei carabinieri, spiega il Vate, “è vecchio di 30 anni, quasi 1000 pagine, dove gli interessi dei boss si confondono con quelli dei colossi italiani dell’edilizia, nomi sapientemente divulgati e nomi accuratamente occultati”.
“ ‘Un rapporto indiziario intorno al quale si può cominciare a lavorare’, confidò ai giornalisti Falcone che lo considerava un ‘buon punto di partenza’. Di partenza – commenta Bolzoni – non di arrivo”.
E prosegue: “Un documento controverso, al centro di polemiche, scontri feroci tra magistrati e apparati, sfociati in indagini finite nel nulla”.
“Per i pm di Palermo non c’erano gli elementi sufficienti per procedere contro alcuni personaggi dell’imprenditoria nazionale; per il ROS il rapporto è stato scientificamente insabbiato per salvare un sistema di corruzione che altrimenti avrebbe anticipato la stagione di Tangentopoli”.
Continua, Bolzoni, lancia in resta: “Di sicuro il dossier non è mai morto, torna sempre. E’ un feticcio continuamente agitato dall’allora colonnello Mario Mori”, all’epoca comandante del ROS.

“Il dossier è ora rilanciato come fattore che ha accelerato la decisione di far saltare in aria il procuratore appena 56 giorni dopo la strage di Capaci. Ne è convinta Fiammetta Borsellino(la figlia, ndr), insieme a Fabio Trizzino (il legale della famiglia Borsellino, ndr). Ne sono rimasti condizionati i giudici di Palermo (che hanno firmato la sentenza che affossa la pista della ‘Trattativa Stato-Mafia’, ndr), perché si spingono un po’ avventurosamente a scrivere che ‘si ritiene che quell’imput dato da Totò Riina al suo interlocutore affinchè si uccidesse Borsellino con urgenza forse aveva trovato origine nell’interesse di Borsellino al rapporto ‘Mafia e Appalti’”.

Continua la Bolzoni story: “Alla fine sono stati costretti a rioccuparsene i procuratori di Caltanissetta, quelli che indagano sulle stragi, che proprio un paio di settimane fa hanno aperto ufficialmente un’inchiesta e interrogato i primi testi. Tutto top secret o quasi”.
“ ‘Trattativa’ e ‘Mafia e Appalti’ sono stati i totem delle fazioni avverse dell’antimafia per spiegare le stragi. Ridimensionata, cancellata la vicenda della ‘Trattativa’, il campo investigativo adesso è occupato da ‘Mafia e Appalti’, proprio come possibile movente dell’autobomba del 19 luglio”.
Lapidario il commento del Vate: “Un movente – questa è la mia opinione – riduttivo e anche fuorviante”.
Ecco dove va a parare il suo ragionamento. “Se la pista dei soldi, più di ogni altra, è quella da seguire per capire chi voleva i massacri, non ci si può certo fermare al dossier del ROS. Perché Falcone e Borsellino non erano tanto concentrati sui lavori pubblici in Sicilia, con il patto tra cosche e grandi aziende del nord, comprese le coop rosse, quanto all’infiltrazione dei capitali di Cosa nostra nell’economia nazionale. Il dossier ‘Mafia e Appalti’ era solo uno dei passaggi”.
A questo punto Bolzoni passa ad analizzare i rapporti tra il gruppo Ferruzzi-Gardini con Cosa nostra: dimenticando un particolare, come poi vedremo. Che proprio questo era dei punti clou sia del rapporto del ROS su ‘Mafia e Appalti’che di molte investigazioni, anche precedenti, di Falcone e Borsellino. Tanto che, in una famosa intervista del 1989, Giovanni Falcone, esclamò: “la Mafia è entrata in Borsa”, riferendosi alla prima quotazione del titolo di casa Ferruzzi a piazza Affari.
Scrive con sicumera Bolzoni: Falcone e Borsellino “avevano capito che Riina, attraverso i fratelli Buscemi della famiglia mafiosa di Boccadifalco, era socio nella Calcestruzzi spa con Raul Gardini. Ci sono sentenze (al di là delle confessioni di Angelo Siino, Leonardo Messina e Giovanni Brusca) che certificano l’accordo tra i Corleonesi e il gruppo Ferruzzi, supportato da quel Raul Gardini che la notte del 23 luglio 1993 si sparò un colpo in testa alla vigilia di un suo possibile arresto per la maxi tangente Enimont. Dopo 30 anni il dubbio: un suicidio per l’inchiesta di Milano (su Enimont, ndr) o per le spericolate relazioni di Palermo?”.Sintetizza il Vate antimafia: “E’ questo il quadro che avevano presente Falcone e Borsellino nei mesi a cavallo tra il 1991 e il 1992, quando uno era stato appena nominato direttore degli Affari penali al Ministero della Giustizia e l’altro procuratore aggiunto a Palermo”.
Quindi, i due magistrati poi trucidati, minimizza Bolzoni, non potevano certo interessarsi di “appalti e subappalti per dighe e strade, per viadotti e opere chiavi in mano che mafiosi e imprese del nord si dividevano in Sicilia”.
“Quel rapporto del ROS si chiudeva lì. Nessuno è mai andato avanti nella ricerca di un possibile legame tra le intuizioni di Falcone e Borsellino e il suicidio di Gardini, nessuno ha mai approfondito dove portavano gli investimenti di Cosa nostra, e proprio su quel fronte”.

ERRORI, ORRORI & OMISSIONI GRIFFATE BOLZONI  Ahi, ahi, ahi, Maestro Bolzoni. Quanti errori, quante omissioni, quante mezze verità.Vediamo di riassumerle in rapida carrellata, invitandovi  contemporaneamente a leggere, tra le altre, le ultime inchieste della ‘Voce’ proprio sulla riapertura di Caltanissetta e la vera storia del dossier ‘Mafia e Appalti’.
Bolzoni confeziona un bel minestrone, dove gli ingredienti fondamentali finiscono per scomparire. Il classico ‘fai di tutt’erba un fascio’, teso a ridicolizzare una pista (‘Mafia e Appalti’), in nome di un’altra, stavolta – e finalmente – definitivamente sepolta, quella ‘Trattativa Stato-Mafia’ così cara a toghe eccellenti e cantastorie antimafia.
Bolzoni non sa – o con ogni probabilità fa finta di non sapere – che quel dossier del ROS venne ordinato da Falcone in persona: il quale, fin dal 1988 almeno aveva ben chiaro lo schema che vedeva lievitare e farsi sempre più organici i rapporti tra i vertici di Cosa nostra e le grandi imprese nazionali, soprattutto quelle del mattone; o impegnate in un settore strategico come quello del calcestruzzo, vitale per l’edilizia e per tutte le infrastrutture.
Da qui la famosa frase del 1989, ‘la Mafia va in Borsa’, riferita al gruppo Ferruzzi guidato da Raul Gardini.
Il rapporto del ROS – al contrario del credo bolzoniano – si dilunga, e parecchio, sui legami tra Cosa nostra e gruppo Ferruzzi, via Calcestruzzi spa. Ci sono i nomi e i cognomi dei referenti, delle società coinvolte (oltre alla Calcestruzzi), le quote azionarie scambiate, le connection.
Una miniera di notizie che va ben oltre la visione ‘minimalista’, ‘riduttiva’ e in fin dei conti ‘demolitiva’ costruita dall’abile Bolzoni. Ed un contesto che va ben oltre appalti e subappalti per dighe e viadotti in Sicilia, come vuol far credere il Nostro al popolo bue!
A TUTTA ALTA VELOCITA’  Tanto che il mafiologo-tuttologo ‘dimentica’ un elemento   fondamentale in tutta la sua bislacca ricostruzione del dossier ‘Mafia e Appalti’. Un ingrediente basilare, davvero clou: i lavori per l’Alta Velocità, la nascente TAV, il maxi business degli anni ’90 e poi a venire, fino ad oggi.
Altro che viadotti e dighette siciliane!
Nel dossier fanno capolino i nomi di ben 44 imprese nazionali coinvolte fino al collo nelle connection mafiose: e il TAV (‘Treno ad Alta Velocità’) è il piatto forte al TAVolo delle trattative dove siedono, oltre ai vertici mafiosi (come per fare un solo nome il ‘ministro dei lavori pubblici’ di Cosa nostra, Angelo Siino), pezzi da novanta della politica nazionale e titolari delle imprese di riferimento (ogni politico, infatti, aveva una o più aziende collegate attraverso prestanome o gli stessi titolari collusi).
Ha mai avuto sotto mano, per caso, il solerte Bolzoni, la relazione di minoranza alla Commissione Antimafia (all’epoca presieduta dalla berlusconiana Titti Parenti), firmata da Ferdinando Imposimatonel 1996? C’è già tutto, basta sfogliarla. C’è il succo delle 890 pagine (non mille, tante per dare i numeri) del dossier ROS.Ma anche riferimenti ad altrettanto significative indagini, sempre sul fronte dei rapporti mafia-politica-imprese, portate avanti dal reparto investigativo della polizia, lo SCO all’epoca diretto da Rino Monaco. Imposimato, in quelle pagine di fuoco, fa nomi e cognomi di aziende, di imprenditori, di politici, di mafiosi, tutti insieme per spartirsi la torta arcimiliardaria dei lavori pubblici: a partire proprio dal TAV, che faceva già gola a tutti (fine anni ’80). E così fanno capolino i nomi dell’ICLA tanto cara a ‘O Ministro Paolo Cirino Pomicino, l’altra storica impresa mattonara partenopea Fondedile (che la stessa ICLA poi incorpora), la ‘Saiseb’, la friulana ‘Rizzani de Eccher’ il cui rappresentante in Sicilia è proprio una delle ‘gole profonde’ che tutto sanno degli appalti, non solo in Sicilia ma in tutta Italia. Si tratta del geometra Giuseppe Li Pera, di cui la ‘Voce’ ha scritto più volte: voleva raccontare tutta la verità sui maxi appalti ma i pm palermitani, al solito, archiviarono tutto…
Ha mai letto o almeno sfogliato, il solerte Bolzoni, il memorabile ‘Corruzione ad Alta Velocità’, scritto tre anni dopo, nel 1999, dallo stesso Imposimato e da un grande giornalista d’inchiesta (lui sì), Sandro Provvisionato? Una vera Bibbia, quel libro, per capire i meccanismi della Corruzione in tutto il settore dei Lavori pubblici, e in particolare quello relativo all’Alta Velocità.

INSABBIAMENTI & DEPISTAGGI  Ma anche per capire come mai le grandi inchieste sui maxi-appalti, TAV in pole position, non hanno mai partorito neanche uno scarno topolino. Tutto finito in gloria, per la gioia di ladri, faccendieri, corrotti e corruttori. C’è tutta la storia del depistaggio sul fronte delle inchieste TAV, ossia il filone romano e quello milanese. Guarda caso finiti entrambi nelle mani del pm meneghino Antonio Di Pietro, che avoca a sé quello capitolino con la scusa di avere tra le mani la ‘bocca della verità’, l’Uomo a un passo da Dio – così lo definisce – ossia Francesco Pacini Battaglia, detto ‘Chicchi’. Il faccendiere-banchiere italo svizzero che tutto sa della madre di tutte le tangenti (Enimont) e tutto sa sui misteri & affari targati Ma come mai il rituale pugno di ferro dipietrista si scioglie come neve al sole davanti ad una gola che più profonda non si può? Senso di vertigine o cosa? La chiave per decodificare il mistero ha un nome e un cognome: quello di un avvocato avellinese, Giuseppe Lucibello, appena sbarcato a Milano per assumere la difesa di un cliente che più eccellente non si può, il ‘Chicchi’, che pur aveva i soldi per arruolare tutti i principi del foro meneghino. Ma Lucibello ha un asso nella mania: la storica amicizia con il pm, proprio ‘don Tonino’. Che non cava un ragno dal buco da quel pozzo senza fine, dall’Uomo a un passo da Dio. E che riesce, miracolosamente, a non passare neanche una notte in gattabuia. “Mi hanno sbancato”, emergerà dalle intercettazioni della procura di Brescia che indaga sui comportamenti quanto meno ‘anomali’ tenuti da Di Pietro in veste di pm. Una sentenza che lo assolve ‘penalmente’, ma lo censura pesantemente sotto il profilo deontologico, professionale ed etico. Pugno di ferro, invece, usato dal Di Pietro pm nei confronti di Raul Gardini, che – come ricorda l’acuto Bolzoni – il giorno prima dell’arresto (o meglio, dell’interrogatorio clou) preferisce spararsi una revolverata in testa. E sarebbe opportuno – come suggerisce Vate Bolzoni – puntare i riflettori sul mistero che ancora avvolge la fine del timoniere del gruppo Ferruzzi. Troppe zone d’ombra, troppi punti mai chiariti, troppi misteri che più neri (come i fondi allegramente smistati ai politici via Enimont) non si può. Ma anche la ‘Li Pera story’ fa capolino tra le imperdibili pagine di ‘Corruzione ad Alta Velocità’. Un pentito che aveva deciso di vuotare il sacco, ma diffida dei pm di punta della procura palermitana, i quali sono decisi a fregarsene delle sue verbalizzazioni e pensano bene di archiviare tutto. Ne scaturisce uno scambio di querele e controquerele. Alla fine Li Pera decide di fare le sue rivelazioni al pm Felice Lima, in servizio alla procura di Catania. Il quale, poco dopo aver preso in carico il fascicolo, viene ‘trasferito’. Chissà perché. E chi sentirà, informalmente, a quanto pare (perché sembra non esista alcun verbale d’interrogatorio), l’uomo che tutto sa sulle connection politico-mafiose d’appalti, Li Pera? Ma il solito, ubiquo Di Pietro, che lo interroga nel carcere di Rebibbia. A che titolo? Un mistero. Così come il più grande, colossale mistero avvolge ancora oggi l’archiviazione più rapida e anomala della nostra storia giudiziaria. Proprio quella sull’inchiesta che stavano seguendo con tanta passione e fervore investigativo Falcone e Borsellino da mesi, prima d’essere ammazzati in quella tragica estate ’92: l’inchiesta ‘Mafia e Appalti’, il tema caldo di cui si discusse in una infuocata riunione convocata d’urgenza alla procura di Palermo proprio alla vigilia di ferragosto. I verbali – non segreti – di quel summit sono stati appena pubblicati sul sito del CSM, e ne parla anche il dotto Bolzoni nel suo intervento su ‘il Domani’. Borsellino insisteva per avere notizie sull’andamento di quella inchiesta bollente. Il procuratore capo Pietro Giammanco rispose in modo evasivo. Nessuno ebbe il coraggio di dirgli in faccia (5 giorni prima di essere trucidato in via D’Amelio), che due pm avevano appena chiesto l’archiviazione. Si trattava di Luigi Lo Forte e Roberto Scarpinato, fresco di candidatura 5 Stelle, quest’ultimo, per le politiche del 25 settembre. Il provvedimento era stato controfirmato dal procuratore capo Giammanco, tanto per conferirgli il massimo dell’autorevolezza. Dopo qualche giorno anche il gip apporrà la sua firma a favore dell’archiviazione dell’inchiesta alla quale tenevano maggiormente Falcone e Borsellino: il suo nome, per la storia, è Sergio La Commare. Lo stesso che firmerà, 6 mesi dopo, la convalida per l’arresto di Bruno Contrada, ex capo della Mobile di Palermo. E chi aveva proposto quella misura cautelare? Lo Forte e Scarpinato.

 

Trizzino toga

 

Per finire, ecco un commento dell’avvocato Fabio Trizzino all’intervento di Bolzoni. «Attilio Bolzoni anziché scrivere le solite corbellerie e citarmi, se vuole può anche consultarmi così da smontare molte delle sue tesi minimaliste su mafia appalti. Ma del resto da uno che difese, giornalisticamente parlando, Scarantino non può pretendersi altro che il perseverare nelle proprie tesi di difensore ad oltranza della teoria della Minaccia a corpo politico et cetera. Nessun mea culpa ho sentito da lui in questi anni. Così come NON L’HO MAI VISTO A CALTANISSETTA NEL AL QUATER NE’ TANTOMENO AL PROCESSO DEPISTAGGIO. Le vere trattative le fanno loro con certi pm per pubblicare cose a questi ultimi gradite!!! Anche lui, come tanti ben pensanti, sarà condannato dalla Storia, il cui giudizio implacabilmente cadrà sul suo sterile pensiero da sedicente intellettuale delle cose di mafia!». Abbiamo superato i limiti per una ragionevole e ragionata lettura.

 


18.8.2022 Vespaio Giustizia

Continua a  far discutere il tema giustizia, o per meglio dire quello della magistratura che pare poco abbia a che fare con la parola “giustizia”.
Dopo il caso Palamara, la scandalosa vicenda della nomina del procuratore di Roma che ha visto silurato – inspiegabilmente e immotivatamente l’allora procuratore generale di Firenze Marcello Viola – tutti avevamo creduto, e sperato, in un cambio di rotta che portasse il cittadino a poter nuovamente avere fiducia nella giustizia.     
Le nomine di magistrati – anche quelle che per ragioni di opportunità sarebbe stato meglio evitare – continuano ad avvenire secondo il collaudato Sistema descritto da Palamara.ÓA tornare sull’argomento, il quotidiano La Verità che ieri ha pubblicato un articolo a firma di Giacomo Amadori dal titolo “Riscontri e nuove accuse sul patto tra le toghe e il Nazareno”.Un’inchiesta giornalistica che ripercorre “i risvolti politici-giudiziari dell’inchiesta sulla presunta talpa della Procura di Perugia, che fa seguito all’articolo pubblicato dal quotidiano a Ferragosto, nel quale venivano narrate le relazioni tra la magistratura e i vertici del Pd ai tempi della segreteria di Nicola Zingaretti, il quale avrebbe ottenuto informazioni su inchieste in corso e, dopo quelle soffiate, sarebbe corso ai ripari spingendo alle dimissioni esponenti del partito a rischio arresto”.
Ma non solo di questo si tratta, poiché il giornale riporta anche una vicenda accaduta il 9 maggio 2019, quando “il procuratore di Messina Maurizio De Lucia, ex pm della Direzione nazionale antimafia, era indagato per rivelazione di segreto e favoreggiamento personale. Ai tempi in cui si trovava in via Giulia aveva incontrato un emissario di Antonello Montante, l’ex paladino dell’Antimafia condannato dalla Corte di appello di Caltanissetta ad otto anni per corruzione e associazione per delinquere”.
Il caso Montante, ex presidente della Confindustria siciliana condannato per associazione mafiosa e per aver organizzato un’attività di dossieraggio, ha finito con il coinvolgere diversi magistrati, tra i quali anche Roberto Scarpinato, fino a poco tempo fa capo della procura generale di Palermo, oggi candidato alle prossime elezioni nazionali nel listino bloccato di Conte.
Una vicenda riportata nel libro intervista “Lobby e Logge”, nel quale Palamara rivela il perché scattò l’operazione “salviamo il soldato Scarpinato”, del quale dagli appunti sarebbe emerso che Montante ebbe rapporti molto intensi con Scarpinato, a tal punto che compaiono diverse richieste di raccomandazione da parte di quest’ultimo.
In particolare, dall’appunto datato 3 maggio 2012 con la dicitura: «Scarpinato mi consegna composizione del Csm con i suoi iscritti per nuovo incarico, procura generale Palermo più Dna».  
Una richiesta che sa di raccomandazione, rivolta ad un soggetto esterno alla magistratura senza che si possa comprendere in che maniera e perché Montante avrebbe avuto il potere di interferire nelle nomine che il Csm si apprestava ad effettuare.
Nulla di illecito, per carità, ma appare quantomeno discutibile che qualche decina di magistrati si rivolgesse a quello che poi si scoprirà essere il capo di una potente lobby, inquinata anche dall’ingombrante vicinanza di soggetti mafiosi, per chiedere favori a fini carrieristici o per la sistemazione lavorativa di amici e parenti.
Secondo quanto pubblicato da La Verità,  “le intercettazioni dell’«ambasciatore» (un ex poliziotto della Squadra mobile di Palermo) con Montante rivelavano come De Lucia fosse stato compulsato per ottenere notizie sul procedimento, ma rivelavano anche che il futuro procuratore di Palermo aveva offerto informazioni del tutto generiche su un fascicolo a cui non era applicato.
Il fascicolo era stato iscritto sul registro nel luglio 2018 dopo che la Procura di Caltanissetta aveva trasmesso gli atti in Umbria. Certo per un pm stimato come De Lucia rimanere appeso a una simile accusa poteva essere motivo di imbarazzo. Ma ecco il cortocircuito.
Tra fine aprile e inizio maggio 2019 la Procura di Perugia ha necessità di interpellare De Lucia non tanto come indagato, ma nella sua veste di prezioso collaboratore nelle indagini sul giro di presunte mazzette versate dai faccendieri Piero Amara, Giuseppe Calafiore e dal già citato Centofanti per corrompere toghe come Luca Palamara e Giancarlo Longo.
Quest’ultimo il 26 aprile 2019 aveva raccontato alla Miliani di essere stato informato della richiesta cautelare a suo carico da Calafiore. Il quale, a dire di Longo, avrebbe avuto come fonte niente meno che Roberto Pignatone, fratello dell’ex procuratore di Roma, Giuseppe.
Per questo la Miliani aveva chiesto a De Lucia se davvero avesse trasmesso via mail una bozza della misura proposta nei confronti di Longo alla Procura di Roma. In una risposta «riservata» del 9 maggio De Lucia aveva smentito l’invio a Pignatone «da parte dello scrivente» di «alcuna bozza della richiesta cautelare in argomento» e, contemporaneamente, aveva spiegato ai colleghi che i sostituti del suo ufficio avevano, però, consegnato brevi manu, durante una riunione di coordinamento avvenuta a Roma, un cd con la bozza al procuratore aggiunto capitolino Paolo Ielo.
Questa smentita-non smentita deve aver tranquillizzato i pm di Perugia che non ci risulta abbiano compiuto altri approfondimenti investigativi.
Al contrario la Procura di Messina, dopo aver interrogato Calaiore che aveva smentito la ricostruzione di Longo, ha iscritto quest’ultimo, sino a quel momento ritenuto credibile, per calunnia. Salvo poi archiviarlo.
Dunque il 9 maggio, il giorno successivo al summit dello Champagne, partiva da Messina una comunicazione che, a giudizio degli inquirenti perugini, restituiva l’onore ai fratelli Pignatone e metteva in sicurezza tutta l’inchiesta Palamara (che paradossalmente scaturiva proprio dalle dichiarazioni di Longo, sospettato di calunnia da Messina).E che cosa succedeva lo stesso giorno? Il procuratore di Perugia De Ficchy (ritornato, grazie all’intermediazione di Palamara, in ottimi rapporti con Pignatone, dopo un po’ di maretta) chiedeva l’archiviazione per De Lucia, il quale, nel frattempo, aveva inviato a Perugia le dichiarazioni contro Palamara, Ferri e il pm romano Stefano Musolino, ma non quelle riguardanti Roberto Pignatone.
Si tratterà certamente solo di coincidenze cronologiche – riporta l’articolo -, ma certamente tra l’8 e il 10 maggio 2019 si sono incastrate una serie di situazioni che hanno indirizzato l’inchiesta contro Palamara nel senso a tutti noto, ma, in questa sorta di sliding door giudiziaria, in quelle stesse ore il fascicolo avrebbe potuto prendere tutt’altra strada.
Infatti se le Procure di Perugia, Roma e Messina, impegnate in procedimenti collegati, fossero entrate in conflitto la tanta auspicata pulizia a senso unico dentro alla magistratura non sarebbe potuta avvenire e probabilmente l’inchiesta Palamara non avrebbe affondato solo l’ex presidente dell’Anm e le toghe di opposizione che stavano cercando di entrare per la prima volta nella stanza dei bottoni del Sistema.
In sintesi, emerge chiaramente che solo se ci sono di mezzo alcuni magistrati, i fatti sono difficili da accertare. «E nessuno fiata», aggiunge Palamara”.
Nessuno fiata? Non proprio. Qualcuno torna a far prendere aria alla bocca o inchiostro alla penna.
Dopo la sentenza sulla cd Trattativa Stato-mafia, in merito alla quale ha scritto il giornalista Roberto Greco in un articolo pubblicato da “Il Riformista”, dal titolo “Il giudice chiude un occhio sul suo avvocato?”, ecco tornare a farsi avanti i giornalisti che per decenni ci hanno propinato le verità delle punte di diamante antimafia della Procura di Palermo.
Lo fa oggi Attilio Bolzoni sul giornale “Domani” con un articolo dal titolo “Quel dossier su mafia e appalti che non dà risposte sulle stragi”.
“Si fa un gran parlare – scrive Bolzoni – del dossier “Mafia e appalti”, un’inchiesta che per qualcuno sarebbe la vera  causa dell’uccisione di Paolo Borsellino. Ipotesi molto azzardata e, negli ultimi tempi, anche molto di moda. Ma ormai sulle stragi si può dire tutto e il contrario di tutto, tanto oltre la mafia non si scopre mai niente. Ci si muove al buio, a volte si abbocca al primo amo che viene calato”.
È una fortuna che in Italia i grandi giornalisti come Bolzoni non abbiano abboccato all’amo dei vari Massimo Ciancimino e Vincenzo Scarantino, oltre che alle onnipresenti veline di magistrati in passarella.

 Bolzoni ha risposto l’avvocato Fabio Trizzino, difensore legale dei figli di Paolo Borsellino, con un post pubblicato sul suo profilo Facebook:

“Attilio Bolzoni anziché scrivere le solite corbellerie e citarmi, se vuole può anche consultarmi così da smontare molte delle sue tesi minimaliste su mafia appalti.
Ma del resto da uno che difese, giornalisticamente parlando, Scarantino non può pretendersi altro che il perseverare nelle proprie tesi di difensore ad oltranza del teoria della Minaccia a corpo politico et cetera.
Nessun mea culpa ho sentito da lui in questi anni. Così come NON L’HO MAI VISTO A CALTANISSETTA NEL AL QUATER NE’ TANTOMENO AL PROCESSO DEPISTAGGIO.

Le vere trattative le fanno loro con certi pm per pubblicare cose a questi ultimi gradite!!!
Anche lui, come tanti ben pensanti, sarà condannato dalla Storia, il cui giudizio implacabilmente cadrà sul suo sterile pensiero da sedicente intellettuale delle cose di mafia!”
E se tanto non dovesse bastare, una risposta arriva anche da Roberto Greco, uno dei pochi “giornalisti non velinari”, che sul sito “Gli Stati Generali” ha pubblicato oggi l’articolo dal titolo “NO BOLZONI, SUL DOSSIER “MAFIA-APPALTI” NON HAI RAGIONE”.
“Oggi 18 agosto – scrive Roberto Greco – è uscito sul quotidiano “Il Domani” a firma di Attilio Bolzoni, un articolo dal titolo “Quel dossier su mafia appalti che non dà risposte sulle stragi”. Stupisce, ma fino a un certo punto, la presa di posizione del giornalista relativamente a questa tematica. Si tratta di un giornalista che, nel 2009, ha ricevuto il premio “È giornalismo” perché, dicono le motivazioni, “da più di trent’anni racconta la Sicilia e la mafia” e che, dal 1979 al 2004, ha vissuto a Palermo, scrivendo per “L’ORA” prima e per “la Repubblica” poi.

«Si fa un gran parlare del dossier “Mafia e appalti” – scrive Bolzoni – un’inchiesta che per qualcuno sarebbe la vera causa dell’uccisione di Paolo Borsellino. Ipotesi molto azzardata e, negli ultimi tempi, anche molto di moda». In realtà parlare del dossier “mafia-appalti” non è mai stato di moda e lo dimostra il fatto che i giornalisti che hanno, nel tempo, continuato a parlarne si contano nelle dita di una mano e, forse, quel “di moda” andrebbe sostituito con “fastidioso”.
«Ma ormai sulle stragi – continua Bolzoni – si può dire tutto e il contrario di tutto, tanto oltre la mafia non si scopre mai niente. Ci si muove al buio, a volte si abbocca al primo amo che viene calato. O, come nel caso del dossier “Mafia e appalti“, ricalato nel grande magma investigativo intorno alle bombe del 1992. È vecchio di trenta e passa anni, quasi mille pagine dove gli interessi dei boss si confondevano con quelli dei colossi italiani dell’edilizia, nomi sapientemente divulgati e nomi accuratamente occultati. “Un rapporto indiziario intorno al quale si può cominciare a lavorare”, confidò a noi giornalisti il giudice Giovanni Falcone che lo considerava “un buon punto di partenza”. Di partenza, non di arrivo». E sulla citazione delle parole di Giovanni Falcone dobbiamo convenire ricordando però che il «punto di partenza» fu invalidato e che, cosa che Bolzoni omette, il 13 luglio 1992, sei giorni prima della strage di via d’Amelio, nonostante il forte e acclarato interesse di Paolo Borsellino per lo sviluppo delle indagini, fu presentata dai sostituti procuratori della Repubblica Guido Lo Forte e Roberto Scarpinato, titolari del fascicolo, con il visto dell’allora Procuratore della Repubblica Pietro Giammanco, un’argomentata richiesta di archiviazione, richiesta di archiviazione che sarà accolta dal Gip il 14 agosto.
Non possiamo pensare che a un giornalista capace, informato e attento come Bolzoni questo avvenimento sia sfuggito anche perché, ripetiamo, in quegli anni era a Palermo e sicuramente non può dimenticare che la stampa accusò la Procura di voler insabbiare questa indagine ma, forse, lui non era tra i giornalisti che sollevarono il problema e, forse, non era nemmeno tra i giornalisti che ricevettero, sembra dalla Procura stessa, una copia del dossier del quale citarono i c.d. virgolettati nei loro articoli.
E quando Bolzoni scrive che «se la pista dei soldi, più di altre, è quella da seguire per capire chi voleva i massacri del 1992 non ci si può certo fermare al dossier del Ros. Innanzitutto perché Falcone e Borsellino non erano tanto concentrati sulla spartizione dei lavori pubblici in Sicilia (con il patto fra le cosche e le grandi aziende del Nord, comprese le coop rosse emiliano romagnole), quanto all’infiltrazione dei capitali di Cosa nostra nell’economia italiana. Il dossier “Mafia e appalti” era solo uno dei passaggi, i due giudici guardavano oltre: avevano capito che Totò Riina – attraverso i fratelli Buscemi della famiglia mafiosa palermitana di Boccadifalco – era socio nella Calcestruzzi spa con Raul Gardini, uno dei più famosi capitani d’industria italiani» dimentica, forse perché non l’ha letto con attenzione o forse perché così ha deciso, che proprio a pagina 67 del dossier “mafia-appalti” si legge che «Buscemi Antonino, nato a Palermo il 28.07.1946, indiziato “M”, è inoltre inserito a vario titolo nelle seguenti società:
 LA.SER. s.r.l. (titolare);
 CALCESTRUZZI PALERMO s.p.a. (amm.unico); FINSAVI s.r.l. (socio fondatore e azionista).
Particolarmente interessante risultava il fatto che metà del capitale sociale della FINSAVI s.r.l. era sottoscritto dal colosso imprenditoriale rappresentato dalla CALCESTRUZZI s.p.a. di Ravenna, la presidenza della quale e` ricoperta da un personaggio di portata nazionale quale Raoul Gardini.
Il rappresentante in Sicilia di quest’ultima società edilizia risulta essere tale ing. BINI Giovanni, lo stesso che piuttosto frequentemente intrattiene con il Siino rapporti telefonici.
E` importante sottolineare che, alla data del 20.12.1982, la Calcestruzzi s.p.a. controllava 36.380 azioni della C.I.S.A. di Udine. Con verbale di assemblea del 26 gennaio 1987, veniva deliberato di fondere la società nella C.I.S.A. Internazionale s.p.a. con sede in Udine, capitale sociale di lire 2.580.000.000 interamente versato. La fusione si effettuava con il concambio di 264.600 azioni della socia “Calcestruzzi s.p.a.” da nominali L.10.000 della CISA Internazionale s.p.a., che ha aveva già adottato la relativa delibera per il conseguente aumento del capitale sociale per L.813.590.000. Il coefficiente di concambio veniva determinato in riferimento alle azioni della socia “Calcestruzzi s.p.a.”, pari al 44,10% del capitale sociale in quanto le restanti erano già possedute dalla incorporante, e calcolato sulla base dei patrimoni netti contabili delle due società. In relazione all’avvenuta fusione le azioni della società incorporata si intendevano annullate ed alla “Calcestruzzi s.p.a.” con sede in Ravenna, veniva attribuito l’intero aumento del capitale sociale di L.813.590.000, oltre le 264.600 azioni da lire L.5000 cadauna pari a L.l.323.000.000 del capitale sociale complessivo di L.3.393.590.000.
Non è un caso che dopo pochi mesi da questi cambiamenti societari, la C.I.S.A.- Udine si associ con la Farinella Cataldo per la realizzazione di alcuni appalti in Sicilia. Farinella Cataldo è parte della stessa organizzazione a cui fanno riferimento Siino Angelo e Buscemi Antonino» e che, quindi, proprio il dossier “mafia-appalti” è stato il “la” investigativo per Falcone e Borsellino e che, quando scrive che non furono «gli appalti e i sub appalti delle dighe e delle strade, dei viadotti e delle opere “chiavi in mano” che mafiosi e ditte del nord si dividevano in Sicilia» parte del quadro investigativo di Falcone sembra sposare la tesi di uno dei magistrati che lo archiviarono che ha definito il dossier, anche di recente, “robetta”, “cosa da quattro colletti bianchi siciliani” o ancora una “minestra risciacquata” e dimentica che proprio Falcone lo conosceva così bene che, durante un convegno pubblico, lanciò un appello esclamando che «la mafia è entrata in Borsa», per dire che società quotate in Borsa erano state attratte nell’alveo delle relazioni con “Cosa nostra” e si riferiva, senza dubbio, alla quotazione in Borsa del gruppo Ferruzzi-Gardini avvenuta da poco tempo. A riprova che Falcone era non solo fortemente interessato al dossier ma che lo stava collegando con le indagini milanesi che sfociarono nella c.d. Tangentopoli. Il riscontro si ha attraverso la testimonianza che Antonio Di Pietro, uno dei pm di “Mani Pulite” rese al processo “Borsellino ter” in cui disse che durante le indagini sulle imprese si rese conto che cominciavano ad emergere nomi che rientravano anche nell’informativa dei Ros. Di Pietro durante il processo nominò ad esempio la Ferruzzi Spa, ossia quella di Gardini e la Rizzani-De Eccher, tutte imprese del nord indicate nel dossier “mafia-appalti”. Non solo. Di Pietro dichiarò di averne parlato con Giovanni Falcone e disse che «quella era l’essenza della mia inchiesta, cioè la scoperta che le imprese nazionali, dovunque andavano, si associavano con imprese locali, si realizzavano questi appalti e producevano delle dazioni di denaro al sistema dei partiti e ai pubblici ufficiali. Ne parlai dapprima con Falcone e poi anche con Borsellino» e, dato importante, «anche quando Falcone era ancora vivo».
In chiusura Bolzoni scrive che «a Caltanissetta hanno ripescato tutto. I carabinieri del Ros, ormai non più “traditori“ in quanto assolti nel processo d’appello, andranno a riproporre le loro argomentazioni. Sempre le stesse dal 1991. Vedremo cosa faranno i magistrati delle stragi. Quelli che hanno già avuto fra i piedi il falso pentito Vincenzo Scarantino, quelli che sono stati costretti a indagare per mesi e mesi su quel pagliaccio di testimone che era Massimo Ciancimino. Dopo trent’anni, speriamo che non si perda altro tempo» ma dimentica di sottolineare che, per fortuna, i magistrati che all’epoca avvalorarono le parole di Scarantino traformandole in arringa conclusiva, ossia Tinebra, Di Matteo, Palma e Petralia, non sono più applicati alla procura di Caltanissetta e che il vento della verità, iniziato con il dottor Lari e proseguito con la dottoressa Sava pm rispettivamente del “Borsellino ter” e del Borsellino quater”, non ha ancora smesso di soffiare e ci auguriamo, proprio per il raggiungimento della verità, non smetta“.
Beh, pare che il dopo Palamara più che sollevare un vespaio stia mettendo in luce il vespasiano nel quale è annegata la nostra giustizia.

Gian J. Morici La Valle dei Templi 

 


17.8.2022 – Quel dossier su mafia e appalti che torna sempre ma non dà nessuna risposta

 

  • Quell’indagine, dopo le assoluzioni per la trattativa stato-mafia, è ridiventata “popolare”. Da più parti ritenuta fondamentale per decifrare i massacri dell’estate del 1992.
  • Se la pista dei soldi, più di altre, è quella da seguire per capire chi ha voluto i massacri del 1992 non ci si può certo fermare al dossier del Ros dei carabinieri. Innanzitutto perché Falcone e Borsellino non erano tanto concentrati sulla spartizione dei lavori pubblici in Sicilia, quanto all’infiltrazione dei capitali di Cosa Nostra nell’economia italiana.
  • La procura di Caltanissetta ha riesumato il dossier dopo tre decenni. Aperta ufficialmente un’inchiesta e interrogati i primi testimoni. 

Si fa un gran parlare del dossier “Mafia e appalti”, un’inchiesta che per qualcuno sarebbe la vera causa dell’uccisione di Paolo Borsellino. Ipotesi molto azzardata e, negli ultimi tempi, anche molto di moda.

Ma ormai sulle stragi si può dire tutto e il contrario di tutto, tanto oltre la mafia non si scopre mai niente. Ci si muove al buio, a volte si abbocca al primo amo che viene calato. O, come nel caso del dossier “Mafia e appalti“, ricalato nel grande magma investigativo intorno alle bombe del 1992. È vecchio di trenta e passa anni, quasi mille pagine dove gli interessi dei boss si confondevano con quelli dei colossi italiani dell’edilizia, nomi sapientemente divulgati e nomi accuratamente occultati. «Un rapporto indiziario intorno al quale si può cominciare a lavorare», confidò a noi giornalisti il giudice Giovanni Falcone che lo considerava «un buon punto di partenza». Di partenza, non di arrivo.

Un documento controverso Documento controverso, al centro di polemiche, di scontri feroci fra magistrati palermitani e apparati sfociati in indagini finite nel nulla. Tutti senza un torto e senza una ragione, vicenda sopita in una camera di decompressione giudiziaria di altro distretto. 
Per i pubblici ministeri della procura di Palermo non c’erano elementi sufficienti per procedere penalmente contro alcuni personaggi dell’imprenditoria nazionale, per i carabinieri dei reparti speciali, il Ros – che quell’inchiesta l’avevano condotta – il rapporto è stato scientificamente insabbiato per salvare un sistema di corruzione che altrimenti avrebbe anticipato la stagione giudiziaria milanese di Tangentopoli. 
Di sicuro il dossier “Mafia e appalti” non è mai morto. Torna, torna sempre. È come un fantasma che riappare, quando sfumano o si aggrovigliano altre piste alla ricerca di un movente sulla strage di via D’Amelio. È un feticcio agitato permanentemente dal Ros dell’allora colonnello Mario Mori, poi diventato direttore dei servizi segreti interni nel secondo governo Berlusconi, lo stesso ufficiale assolto nel processo sulla trattativa stato-mafia e regista della mancata perquisizione della villa di Totò Riina dopo la sua misteriosa cattura. Ora, questo dossier, è ridiventato “popolare”, da più parti ritenuto fondamentale per decifrare i massacri dell’estate del 1992.
Come lo era stata la famigerata trattativa fino al verdetto della corte di appello di Palermo che ha restituito l’innocenza a Mori & compagni, che pur avevano barattato qualcosa con la controparte per evitare altri spargimenti di sangue. Il dossier “Mafia e appalti” rilanciato come fattore che ha “accelerato” la decisione di far saltare in aria il procuratore, appena cinquantasei giorni dal cratere di Capaci.
Movente della strage Ne è convinta Fiammetta Borsellino, una delle figlie del magistrato, insieme a Fabio Trizzino, il legale che ha rappresentato la famiglia nei processi sul grande depistaggio. Ne sono rimasti in qualche modo condizionati i giudici di Palermo che hanno assolto Mori, quando nelle loro motivazioni si spingono un po’ avventurosamente – perché la genesi di quel dossier non è mai stato oggetto del processo – a scrivere che «si ritiene che quell’input dato da Riina al suo interlocutore affinché si uccidesse il dottor Borsellino con urgenza nel giro di pochi giorni, mettendo da parte altri progetti omicidiari già in più avanzata fase di esecuzione, possa avere trovato origine nell’interessamento del medesimo dottore Borsellino al rapporto mafia e appalti». Alla fine sono stati costretti a rioccuparsene anche i procuratori di Caltanissetta, quelli che indagano sulle stragi, che un paio di settimane fa hanno deciso di riesumarlo dopo tre decenni. Hanno ufficialmente aperto un’inchiesta e interrogato i primi testimoni. Tutto top secret o quasi. Trattativa e mafia e appalti, sono stati a lungo i totem delle fazioni avverse dell’antimafia per “spiegare” le stragi. Schiere di fan di qua e di là, la maggior parte dei quali che non ha mai letto una sola pagina di una o dell’altra inchiesta, solo raffiche di like sui profili Facebook e qualche sproloquio. Ridimensionata (o, se vogliamo, anche definitivamente cancellata) la vicenda della trattativa il campo investigativo adesso è occupato da “mafia e appalti”. E proprio come possibile movente dell’autobomba del 19 luglio. Movente – almeno questa è la mia opinione – riduttivo e anche fuorviante. La pista dei soldi Se la pista dei soldi, più di altre, è quella da seguire per capire chi voleva i massacri del 1992 non ci si può certo fermare al dossier del Ros. Innanzitutto perché Falcone e Borsellino non erano tanto concentrati sulla spartizione dei lavori pubblici in Sicilia (con il patto fra le cosche e le grandi aziende del Nord, comprese le coop rosse emiliano romagnole), quanto all’infiltrazione dei capitali di Cosa nostra nell’economia italiana.
Il dossier “Mafia e appalti” era solo uno dei passaggi, i due giudici guardavano oltre: avevano capito che Totò Riina – attraverso i fratelli Buscemi della famiglia mafiosa palermitana di Boccadifalco – era socio nella Calcestruzzi spa con Raul Gardini, uno dei più famosi capitani d’industria italiani.
Ci sono sentenze passate in giudicato che, al di là delle confessioni di pentiti come Angelo Siino, Leonardo Messina e Giovanni Brusca, certificano l’accordo fra i Corleonesi e il gruppo Ferruzzi rappresentato dal “Contadino”. Quel Raul Gardini che, la mattina del 23 luglio 1993, si sparò un colpo di Walther Ppk alla testa nella sua casa milanese di piazza Belgioioso alla vigilia di un suo possibile arresto per la maxi tangente Enimont. Dopo quasi trent’anni resta sempre il dubbio: un suicidio per l’inchiesta di Milano o per le spericolate relazioni di Palermo?


17 agosto 2022  Le ombre intorno alla morte di Borsellino – FONTE: https://www.editorialedomani.it/giustizia/morte-paolo-borsellino-dossier-ros-carabinieri-caltanissetta-hpn59mea


12.8.2022 FABIO TRIZZINO legale di Fiammetta, Lucia e Manfredi Borsellino

“Vorrei ricordare un dato assolutamente rilevante: le archiviazioni anomale da parte della Procura di Giammanco, nel Giugno 1992, furono Due.
La prima una settimana dopo la morte di Falcone, la seconda subito dopo la morte di Borsellino.
In entrambe campeggiava la figura di BUSCEMI ANTONINO, uomo di Salvatore Riina nella Calcestruzzi s.p.a. di Ravenna di Raul Gardini.
La prima archiviazione fu anomala anche in considerazione del fatto che furono disposte la smagnetizzazione dei dischetti e la distruzione dei brogliacci.
Perché? Ovviamente ho tutti gli atti a sostegno di tali affermazioni. Episteme e non doxa per l’appunto!”
 

 

10.8.2022 Ricerca verità giudiziaria su via d’Amelio è paragonabile alla scalata del monte Everest

 

7 Agosto 2022  Un altro, decisivo tassello per la soluzione del tragico giallo di Capaci e di via D’Amelio, rinvenendo il movente delle due stragi – soprattutto la seconda – è nel dossier ‘Mafia-Appalti’ al quale stava lavorando da un anno e mezzo Giovanni Falcone, con il fondamentale supporto di Paolo Borsellino.

Arriva dalle motivazioni della sentenza pronunciata mesi fa dalla Corte d’Appello di Palermo sulla famosa ‘Trattativa Stato-Mafia’, appena rese note. Il giudice che ha firmato la sentenza e le motivazioni è Angelo Pellino, giudice a latere Vittorio Anania.
E tutto ciò succede proprio all’indomani della fondamentale decisione della procura di Caltanissetta di riaprire, dopo ben 30 anni di letargo in seguito alla iper-frettolosa archiviazione, proprio quell’inchiesta ‘Mafia-Appalti’, voluta con tanta forza da Falcone e Borsellino che per portarla avanti hanno pagato con la loro vita.
Sotto la supervisione del procuratore capo di Caltanissetta,  Salvatore De Luca, infatti, il fascicolo è ora affidato ad un pool di pm, tra cui Paola Pasciuti, toga ben nota per la sua assoluta tenacia e rigore investigativo.
Ma riavvolgiamo il nastro per districarci nella non semplice matassa, che ha visto proprio nei primi giorni di ferragosto degli imprevedibili – e quasi miracolosi – sviluppi.
A partire, proprio, dalla decisione delle toghe nissene.

‘MAFIA E APPALTI’, DETONATORE PER IL TRITOLO  Ecco la notizia fresca di giornata, dopo mesi di attesa. Sono state finalmente depositate le motivazioni della sentenza pronunciata dalla Corte d’Appello di Palermo sulla famosa ‘Trattativa Stato Mafia’, che ha occupato per anni le cronache di tutti i media. Letteralmente sviando, ‘depistando’ l’attenzione dal vero cuore del problema, come la ‘Voce’ ha scritto più volte.

Le motivazioni della sentenza, infatti, ribaltano il castello accusatorio, valso in primo grado le pesanti condanne ai vertici del ROS per aver intavolato – secondo il teorema accusatorio del primo grado – una vera e propria ‘trattativa’ con i vertici di Cosa Nostra. Protagonisti il comandante del ROS dei carabinieri, il generale Mario Mori, e il suo braccio destro, il capitano Giuseppe De Donno. Accusati di aver stretto un patto di ferro con l’ex sindaco di Palermo, Vito Ciancimino, capace di garantire la tranquillità ai vertici di Cosa Nostra in cambio di una fine della stagione stragista.
In questo patto molti, troppi hanno visto il movente per le ultime stragi, quelle di Capaci e via D’Amelio, proprio perché le due toghe avrebbero voluto evitare qualsiasi trattativa con i vertici di Cosa Nostra.
La sentenza di primo grado ha fatto propria questa versione dei fatti, accusando e condannando senza se e senza ma i vertici del ROS in combutta con la mafia.
Adesso, invece, la sentenza pronunciata a fine dello scorso anno dalla Corte d’Appello di Palermo ribalta il tutto, smonta il castello accusatorio. C’è stata, sì, una ‘Trattativa’, ma volta unicamente a “sterilizzare l’azione mafiosa”. Niente patti segreti, nessuna collusione.
Titola l’ADN Kronos: “La Trattativa ci fu, ma il ROS agì per fermare le stragi”.

ECCOCI AL CLOU DELLA SENTENZA Ma una buona fetta della sentenza è destinata a ben altro.

E cioè ad illuminare – e non poco – circa i reali motivi che hanno portato alle due stragi, ai veri moventi alla base degli eccidi di Capaci e di via D’Amelio.
Guarda caso, proprio la pista ‘Mafia-Appalti’, quella su cui dovrà finalmente, da ‘domani’, indagare la procura di Caltanissetta.
Ecco cosa mettono nero su bianco i giudici d’Appello: “La Corte ritiene che quell’imput dato da Salvatore Riina al suo interno affinchè si uccidesse il dottor Borsellino con urgenza, nel giro di pochi giorni, mettendo da parte progetti omicidiari già in fase avanzata come quello che riguardava l’onorevole Calogero Mannino, di cui ha riferito Giovanni Brusca – può aver trovato
origine nell’interessamento di Borsellino al rapporto ‘Mafia e Appalti’”. Più chiari di così!
Poi spiegano, nelle loro motivazioni: “Ben si comprendono le perplessità di Borsellino a fronte dell’opzione di chiudere con una richiesta di archiviazione le indagini sul più importante procedimento istruito in quel momento storico dalla procura di Palermo, nell’ambito di quello specifico filone investigativo”.
I giudici di appello rammentano anche “le doglianze che Borsellino aveva personalmente raccolto nei suoi contatti con i carabinieri del ROS”.
E fanno esplicito riferimento a quanto successe nell’assemblea  plenaria che si svolse in Procura, a Palermo, quel 14 luglio 1992, cinque giorni prima della strage di via D’Amelio.
“Il dottor Borsellino lo disse espressamente in quella assemblea”, scrivono, come “ben rammenta il pm Luigi Patronaggio”.
Verbali e testimonianze che la ‘Voce’ ha documentato, giorni fa, in una delle precedenti inchieste, dopo la semplice ‘pubblicazione’, sul suo sito, da parte del Consiglio Superiore della Magistratura: niente a che vedere con una ‘desecretazione’, come molti media hanno erroneamente scritto, perché si trattava di atti contenuti in altri fascicoli (pubblici) processuali.
Scrivono, sul loro sito, gli ‘Stati Generali’. “Nessuna Trattativa. ‘Mafia e Appalti’ causa accelerante della morte di Paolo Borsellino”.

COMMENTA L’AVVOCATO FABIO TRIZZINO

Ecco un commento, a botta calda, dell’avvocato Fabio Trizzino, legale della famiglia Borsellino e marito della figlia Lucia, il quale ha sempre lottato perché la pista ‘Mafia e Appalti’ venisse considerata come il primo movente della strage.

Come del resto sostiene, da anni, con grande coraggio, l’altra figlia di Borsellino, Fiammetta, che si è anche scagliato contro gli autori in toga del ‘depistaggio più grande della nostra storia repubblicana’, quello circa le prime indagini sulla strage di via D’Amelio e il taroccamento del pentito Vincenzo Scarantino, servito a far condannare a 16 anni degli innocenti e a far perdere tempo prezioso alle indagini autentiche.
Che potranno ricominciare solo adesso, a Caltanissetta, dopo la bellezza di 30 anni perduti.
Leggiamo le parole di Trizzino; mentre, per completezza d’informazione, vi invitiamo a leggere le tre precedenti inchieste sulle stragi, pubblicate dalla ‘Voce’, in sequenza, nei giorni scorsi.
«A chi mi chiede un commento a caldo sulle motivazioni della sentenza trattativa mi limito a rassegnare le seguenti considerazioni.
La ricerca di una verità giudiziaria su via d’Amelio è paragonabile alla scalata del monte Everest.
Più si va avanti più l’area diventa rarefatta e gli ostacoli più potenti, quasi invincibili.
Eppure oggi siamo a 6mila metri di altezza e, fra mille ostacoli, abbiamo guadagnato il campo base. Bisogna riordinare le idee e riacquistare forza ed energie.
La vetta è lì più vicina. La si può quasi toccare. Ma al tempo stesso lontanissima.
Raggiungerla significherebbe guardare dentro a certi santuari, intoccabili che,’ a solo tentare di guardarci dentro, si corre il rischio di essere trasformato in una statua di sale.

Il clima all’interno della Procura di Palermo delineato nelle motivazioni contrasta decisamente rispetto alle parole riportate da Alessandra Camassa e Massimo Russo, testi qualificati, circa la definizione che Paolo Borsellino diede al suo ufficio di Palermo: un NIDO DI VIPERE.
La memoria di um valente Magistrato come Paolo Borsellino ci impone dunque un ultimo sforzo.
E noi non ci sottrarremo, tanto più che il nostro cammino per la Verità, per alcuni, non avrebbe dovuto nemmeno essere iniziato».

 


6.8.2022 Famiglia Borsellino: ‘Sentenza trattativa? Ora guardare dentro santuari intoccabili’


4.8.2022 BORSELLINO/ E filone mafia-appalti: dove cercare chi ha voluto la morte del giudice

Nell’attesa di poter leggere le motivazioni della sentenza del tribunale di Caltanissetta che ha condannato per calunnia due dei poliziotti accusati di aver gestito la finta collaborazione del falso pentito della strage di via D’Amelio, arriva dalla procura della Repubblica nissena una importante novità. Come riportato da una nota agenzia di stampa, da qualche settimana sono riprese le indagini sulla morte di Borsellino, ipotizzandosi che quel filone “mafia-appalti”, come predicato nel vuoto da anni dalla figlia del giudice, sia la vera causa scatenante che portò all’accelerazione della strage.
L’indagine, come è giusto che sia, è avvolta dal più stretto riserbo ma pare che siano stati svolti i primi interrogatori, fra cui spiccherebbe quello a carico del colonnello Giuseppe De Donno, ovvero di colui che allora giovane capitano, condusse l’inchiesta su mafia-appalti con il suo diretto superiore al Ros, l’allora colonnello Mario Mori.
Quell’informativa di reato, per la quale Falcone fu biecamente accusato di conservare le carte nel cassetto, prende corpo da una delega conferita nel 1989 dalla Procura di Palermo ai Ros dei carabinieri e aveva come obiettivo principale quello di accertare “la sussistenza, l’entità e le modalità di condizionamenti mafiosi nel settore degli appalti pubblici nel territorio della provincia di Palermo”. Contestualizzando il tutto a oltre 30 anni fa, l’indagine ha non scarso rilievo in considerazione del fatto che, per la prima volta, si metteva nero su bianco che c’erano dei “condizionamenti” di Cosa nostra negli appalti pubblici. Un triangolo formato da mafia, imprenditori e politica. Dal contesto dell’informativa, si evidenziava “una trama occulta, sostanziata da intrecci, relazioni ed intese, volta al fine di prevaricare norme e regole e, allo stesso tempo, di giungere all’accaparramento del denaro pubblico con un’avidità mai esausta e comune sia ai malfattori mafiosi che agli imprenditori a loro collegati i quali poi, tramite i primi, finiscono per esercitare anch’essi e con gusto il potere mafioso”.
Come dire che, dopo le conferme delle condanne del maxi-processo, si accendeva per la prima volta un faro sugli affari mafiosi che riguardavano direttamente il coinvolgimento tanto della classe politica quanto di quella imprenditoriale. L’esito di quella indagine, nero su bianco, affermava che esisteva “un gruppo di potere fatto da imprenditori, politici e mafiosi che decidevano gli appalti e si spartivano i proventi”.
Che sia questo il filone giusto per il pieno disvelamento della verità in merito alle stragi del 1992 saranno i prossimi anni a stabilirlo, tuttavia che l’interessamento dei giudici Falcone e Borsellino a quel dossier redatto dai carabinieri abbia rappresentato almeno una concausa delle stragi è stato già accertato da tutte le sentenze che in questi anni si sono susseguite, recependo le affermazioni di diversi collaboratori di giustizia.
Giovanni Brusca, ad esempio, ha più volte ribadito come in seno a Cosa nostra sussisteva la forte preoccupazione che Falcone, divenendo Procuratore nazionale antimafia, potesse imprimere un impulso alle investigazioni nel settore inerente alla gestione illecita degli appalti, specificando che di avere appreso da Salvatore Riina che, a seguito della legge Rognoni-La Torre, i Buscemi avevano ceduto fittiziamente le imprese al gruppo Ferruzzi e che Antonino Buscemi era rimasto all’interno della struttura societaria come impiegato.
Angelo Siino, soprannominato “il ministro dei lavori pubblici di Cosa nostra”, ha a sua volta sostenuto che le cause dell’eliminazione di Falcone andavano cercate nelle indagini promosse dal magistrato nel settore della gestione illecita degli appalti, verso cui aveva mostrato un “crescendo di interesse”. Era infatti noto che in quel periodo si fosse consolidata la consapevolezza da parte dei boss che Falcone avesse compreso la rilevanza strategica del settore appalti e che intendesse approfondirne gli aspetti.
D’altronde, aspetto spesso poco evidenziato nelle ricostruzioni giornalistiche, un personaggio di primo piano come Antonino Buscemi, che rappresentava il tipico colletto bianco mafioso e che non a caso era entrato in società con la Calcestruzzi della Ferruzzi Gardini, fu fra coloro che lanciarono l’allarme in conseguenza delle esternazioni di Falcone formulate durante un convegno pubblico proprio su criminalità e appalti. Peraltro, ha riferito sempre il Siino di avere appreso che Pino Lipari aveva contattato l’onorevole Mario D’Acquisto affinché intervenisse nei confronti dell’allora procuratore della Repubblica di Palermo, al fine di neutralizzare le indagini trasfuse nel rapporto cosiddetto “mafia-appalti” e in quelle che si potevano stimolare in esito a tali risultanze.
Borsellino, dal canto suo, nel periodo immediatamente successivo alla strage di Capaci, aveva esternato a diverse persone che una pista da seguire era quella degli appalti, come confermato da quanto emerse nel corso delle audizioni al Csm di fine luglio 1992. Cinque giorni prima della strage, Borsellino partecipò infatti a un’assemblea straordinaria indetta dall’allora procuratore capo, Pietro Giammanco; un’assemblea, come dirà il magistrato Vincenza Sabatino, inusuale e mai accaduta prima. In quell’occasione Borsellino avrebbe fatto dei rilievi su come i suoi colleghi, titolari dell’indagine, avrebbero condotto il procedimento. Come dirà inoltre il magistrato Nico Gozzo, si respirava in quella riunione aria di tensione.
Certo, resta alquanto sconcertante che la richiesta di archiviazione del dossier mafia-appalti fu depositata, come riferito dall’avvocato Trizzino, legale della famiglia Borsellino, al processo sul depistaggio Scarantino a carico dei poliziotti, mentre stavano ancora chiudendo la bara del giudice e dei suoi angeli custodi.
Molte ombre sull’operato di uffici giudiziari e apparati dello Stato permangono nella ricostruzione di quella stagione così cruenta e tragica per la storia del nostro Paese oltre che delle famiglie colpite negli affetti più cari. Possiamo solo confidare che dopo così tanto tempo inizi a filtrare qualche raggio di sole e con esso un barlume di verità.

 


2 Agosto 2022  “Le cause della morte di Paolo Borsellino sono nei 57 giorni che lo separano dalla strage di Capaci e nella gestione del rapporto Mafia-Appalti”.

Sono parole che l’avvocato della famiglia Borsellino, Fabio Trizzino, non solo ha ribadito pochi giorni fa in aula per la sua arringa al processo sul depistaggio, ma che aveva già pronunciato due anni fa, nel corso di un’intervista rilasciata all’AGI. L’occasione era quella di un altro processo, in cui il superlatitante Matteo Messina Denaro era imputato per essere uno dei mandanti delle stragi del ’92.
“Finalmente – riporta l’AGI – abbiamo un’occasione unica, cioè di processare un vero capo che ha aderito totalmente alla strategia stragista di attacco al cuore delle istituzioni. Noi dobbiamo fare l’analisi delle parole di Borsellino, che ha lasciato detto qualcosa che potesse guidare gli investigatori verso la possibilità di scoprire le ragioni e i motivi della sua morte”.
E aggiunse, due anni fa, Trizzino: “Da quanto ci raccontano i collaboratori di giustizia, la virata avviene tra i 3 e il 20 giugno. Cosa succede? L’autorità giudiziaria di Catania, con il sostituto procuratore Felice Lima, stava interrogando Giuseppe Li Pera del 13-14-15 giugno 1992. Noi dobbiamo capire se alcune di quelle informazioni possano essere finite a Borsellino e questo è importante perché potremmo iniziare a vedere la finalità preventiva di bloccare Borsellino sul fronte del dossier ‘Mafia e Appalti’”.
Sul quale ha appena riaperto, miracolosamente, le indagini la procura di Caltanissetta, come abbiamo raccontato nella prima puntata. 30 anni dopo le stragi, 30 anni dopo l’archiviazione chiesta e ottenuta dalla procura di Palermo, da quel ‘Palazzo dei veleni’ come lo definiva Borsellino. Comunque, meglio tardi che mai e ora, forse, ci saranno le concrete possibilità di capire le trame che hanno portato al “più grande depistaggio di Stato” e, chissà, di mettere finalmente le mani su killer e soprattutto mandanti della strage di via D’Amelio, rimasti regolarmente a volto coperto.”

L’INCHIESTA SCIPPATA AL PM FELICE LIMA  Ma torniamo ad una figura strategica, quella del geometra Li Pera, di cui abbiamo scritto soprattutto nella seconda puntata.
Circa tre anni fa Li Pera contatta, via mail, la ‘Voce’, a suo dire una delle rare testate giornalistiche che hanno visto giusto, indicando nel dossier ‘Mafia e Appalti’ del Ros il movente delle stragi, in particolare quella di via D’Amelio.
Racconta di essere stato bistrattato dai pm di Palermo, di aver pagato un duro prezzo, di essere stato totalmente scaricato dai titolari dell’impresa per la quale lavorava, la ‘Rizzani de Eccher’, una delle sigle che compaiono nel rapporto ‘Mafia e Appalti’ per collusioni con i clan.
Invia alla ‘Voce’ una serie di lunghe e dettagliate memorie, in cui affronta una serie di temi bollenti.
A partire dalla strage di Capaci, dove smentisce in toto la versione fornita da Giovanni Brusca e parla senza mezzi termini di intervento dei servizi segreti americani, di forti interferenze della CIA e dell’FBI. Poi fornisce dettagli sul sistema degli appalti che dettava legge in Sicilia e che, man mano, stava assumendo una rilevanza nazionale, per via degli accordi sempre più stretti, dei ‘patti’ tra grosse imprese del Nord e sigle che fanno capo a Cosa Nostra.
Si dilunga sui continui rapporti con il Ros, col capitano Giuseppe De Donno. Fa chiaramente capire, insomma, di aver fornito un ampio materiale informativo ai carabinieri impegnati nella redazione del rapporto ‘Mafia e appalti’: e lui, Li Pera, era una delle fonti eccellenti, “perché degli appalti in Sicilia e non solo so praticamente tutto, come funziona, quali sono gli uomini giusti, le imprese che stanno dentro il meccanismo”, era il suo leit motiv.
Una mina vagante, Li Pera: e forse proprio per questo motivo l’inchiesta portata avanti dal pm catanese Felice Lima gli viene praticamente scippata, e Lima va ad occuparsi di giustizia civile (soprattutto in materia di divorzi), sempre a Palermo.
Ma c’è un altro magistrato che, non si sa bene a quale titolo, interroga Li Pera. Si tratta nientemeno che di Antonio Di Pietro, il quale sente il geometra nel carcere romano di Rebibbia.   Nessuna traccia mai di quei verbali d’interrogatorio. E Li Pera minimizza: “Mi fa delle domande generali sugli appalti, ma niente di particolare. Mi sarei aspettato molto di più da uno come lui che sapevo essere un investigatore che vuol tirare fuori tutto dai suoi inquisiti”.
Sembra un po’ il copione di un altro interrogatorio eccellente. Quello fra lo stesso Di Pietro e Chicchi Pacini Battaglia, ‘l’Uomo a un passo da Dio’ che sa tutto della maxi tangente Enimont, dei mega appalti e soprattutto di ‘Alta Velocità’. Tutta la storia del ‘depistaggio’ operato da Di Pietro sulle inchieste TAV è raccontato magistralmente, per filo e per segno, da Ferdinando Imposimato e Sandro Provvisionato nel loro ‘Corruzione ad Alta Velocità’, di cui ieri abbiamo riportato ampi stralci
In sintesi, i due autori ricostruiscono lo ‘scippo’ delle carte romane sull’inchiesta TAV, e la possibilità di gestire in toto Pacini Battaglia. Il quale, però, dirà e svelerà ben poco, evidentemente grazie alla bravura dell’avvocato che lo difende: uno sconosciuto Giuseppe Lucibello che arriva da Avellino ma ha un grande asso nella manica, la forte amicizia proprio con Di Pietro!

MAXI INCHIESTE IN FLOP, DA ROMA A NAPOLI Passiamo adesso a due grosse inchieste, una condotta dalla procura di Roma e l’altra da quella di Napoli: clamorosamente finite in flop. Eppure si parlava di Grandi Appalti, di Alta Velocità, delle solite imprese, ma anche di pezzi da novanta della mafia, come Angelo Siino, e di big della massoneria. Fili, con ogni probabilità, da non toccare…
Partiamo dalla prima, condotta con grande efficacia, per un paio d’anni, dal pm capitolino Pietro Saviotti (dopo qualche anno muore, giovanissimo, per un ‘infarto’). Ne scrive la ‘Voce’ in un ampio reportage pubblicato a novembre 1999, proprio a ridosso dell’uscita in libreria di ‘Corruzione ad Alta Velocità’. Titolo dell’inchiesta ‘mICLA male’, con riferimento all’impresa del cuore di ‘O Ministro Paolo Cirino Pomicino, acchiappatutto nel settore degli appalti pubblici, TAV compresa.
Ecco un passaggio: “L’inchiesta del pm capitolino Pietro Saviotti ha portato al clamoroso arresto, lo scorso giugno, di pezzi da novanta dell’imprenditoria e del sottobosco politico-affaristico. Sono emersi tutti i business sui quali, in mezza Italia ma soprattutto in Campania, la nuova piovra affaristica sta mettendo le mani ed emergono tante connection sulle quali occorrerà lavorare sodo e che la dicono lunga sulla presunta fine della corruzione nel nostro Paese”.
Tra gli arresti eccellenti – in base all’ordinanza da 102 pagine del gip Otello Lupacchini – quelli dei timonieri (insieme a Massimo Buonanno) dell’ICLA, ossia Agostino, Sandro e Vittorio De Falco; di Vincenzo Maria Greco, l’alter ego di ‘O Ministro Pomicino; di Giannegidio Silva, ex manager ICLA poi passato a dirigere la pubblica ‘Metronapoli spa’ al centro di scandali a non finire; Paolo Pizzarotti, numero uno della impresa parmense di costruzioni; quindi vertici bancari e del ministero del Tesoro, nonché big di Alleanza Nazionale a Napoli, come l’ex presidente della Giunta regionale Antonio Rastrelli.
E sapete come è finita la maxi inchiesta romana? Una autentica bolla di sapone. Pochissime condanne, per pesci piccolissimi solo alcuni autotrasportatori.
Come nello stesso periodo ha fatto registrare un clamoroso flop la maxi inchiesta sul dopo terremoto in Campania, avviata dopo che, nel ’91, la ‘Commissione Scalfaro’ (così chiamata perché a presiederla c’era proprio Oscar Luigi Scalfaro) ne aveva tirate fuori di tutti i colori, anche sul solito versante dei rapporti, sempre più organici, tra politici, imprenditori e camorristi.
Ma ecco che succede il miracolo di San Gennaro. In tanti anni di inchieste operate da un pool di ben 4 magistrati coordinati da Arcibaldo Miller (che poi verrà nominato capo degli ispettori ministeriali) si scopre che della camorra non si parla nei faldoni di carte: ottimo e abbondante pretesto per non prevedere accuse da 416 bis, ossia associazione a delinquere di stampo mafioso, che prevedono tempi di prescrizione molto più lunghi. E così, voilà, tutto dopo 7 anni e mezzo finisce in un tric trac, per via della solita, miracolosa prescrizione: solo condanne lievi, anche stavolta, per pesci sempre più piccoli!

E PARLA ANCHE SIINO Restiamo a Napoli con l’altra maxi inchiesta che vede in campo di tutto e di più, alle sue battute iniziali: mafiosi, massoni, imprenditori, politici, il solito ‘esplosivo’ mix del copione ‘Mafia e Appalti’. Una garanzia di serietà delle indagini è fornita dal fatto che ad occupare la poltrona di procuratore capo, a Napoli, c’è l’acchiappa-massoni numero uno, Agostino Cordova, arrivato da Palmi.
Scrive la ‘Voce’ a novembre 2000. “Al centro delle indagini, la possibilità di controllare il settore delle commesse per la realizzazione di opere pubbliche arci miliardarie, come i lavori per il treno ad alta velocità e quelli per l’ultradecennale raddoppio dell’autostrada Napoli-Roma. Proprio su questi e altri appalti bollenti (interporti di Nola e Marcianise, aeroporto di Grazzanise, porto turistico di Pozzuoli, assi viari nel napoletano), un anno e mezzo fa ha acceso i riflettori la procura di Roma, con l’inchiesta del pm Pietro Saviotti”.
Continua l’articolo della ‘Voce’ : “A tenere le fila degli intrighi massonici sono Salvatore Spinello da Caltanissetta e suo figlio Nicola, napoletani d’adozione. E’ dalla DIA di Napoli che, a metà ’97, suona il primo campanello d’allarme, quando il faccendiere Francesco Pazienza, nel corso di un interrogatorio, fa riferimento al ruolo ricoperto dagli Spinello nel mosaico della massoneria”.
E i pm partenopei sapete chi vogliono ascoltare per ricomporre le tessere del mosaico? Nientemeno che Angelo Siino, il ‘ministro dei lavori pubblici di Cosa nostra’. Il quale così verbalizza: “Spinello mi venne presentato intorno al 1987 da un funzionario democristiano del parastato, certo Francesco Salamone. Spinello volevo che io lo affiancassi in alcuni affari, mi disse che voleva creare una superloggia massonica segreta in cui potessero confluire esponenti politici di rilievo, dell’imprenditoria e della criminalità organizzata in modo da creare rapporti di reciproca convenienza”.
Continua il racconto di Siino: “Spinello, in occasione dei vari incontri, vantò rapporti di conoscenza con Craxi e con Martelli, mi disse che aveva rapporti con gli onorevoli Pomicino e Di Donato, mi segnalò l’impresa ICLA che all’epoca aveva problemi in un lavoro sull’autostrada Palermo-Messina , mi parlò di altri due imprenditori a nome Chitis, titolari della Fondedile, mi segnalò un altro esponente politico che venne eletto senatore a Napoli, a nome Lucio Toth, indicato da Spinello come grande amico di Andreotti. Ho avuto altri incontri a Roma con decine di personaggi, Spinello mi portava come una sorta di garante mafioso di accordi. Mi disse nel ’91 che lui poteva decidere sui lavori della TAV perché aveva collegamenti con i personaggi che avevano tutto in mano”.
E Siino raccontò ai pm partenopei quanto Spinello gli disse su Falcone: “Spinello Salvatore mi disse che se Falcone fosse rimasto in Sicilia sicuramente lo avrebbero ucciso, per cui si proponeva come persona che avrebbe potuto favorire il trasferimento di Falcone a Roma. Tale discorso mi fu fatto da Spinello alcuni mesi prima che Falcone fosse trasferito a Roma per l’incarico ministeriale”.
Ma come è finita la story? Il maxi fascicolo di tutta l’inchiesta venne trasferito, non si sa bene per quale motivo, a Roma.
E da allora ne sono perse le tracce. Il solito porto delle nebbie…


26.7.2022 – LA VERITA’ SU VIA D’AMELIO DOPO TRENT’ANNI. Se non quella processuale almeno quella storica

“… la collettività deve essere informata e deve cominciare a pretendere comportanti diversi e soprattutto la verità”. “Che non sarà più processuale ma la verità storica che non ha più i vincoli e condizionamenti delle regole del processo, che vanno sempre rispettate. La verità storica si pone al di fuori di ogni altro condizionamento”. 
“Comunque, noi guarderemo con favore alle altre iniziative di tipo processuale che si vorranno mettere in campo ma dobbiamo essere chiari l’esercizio della potestà punitiva deve avvenire in tempo congruo, ogni altri iniziativa rischia di divenire una occasione per non consentire alla famiglia di elaborare questo lutto. Noi questo diritto lo abbiamo”.

Avvocato Fabio Trizzino legale di Fiammetta, Lucia e Manfredi Borsellino

 


19 luglio 2022 All’avvocato Trizzino abbiamo anche chiesto una riflessione su un’altra testimonianza della moglie di Borsellino, ripetuta in diverse sedi processuali:

«Il 15 luglio 1992, verso sera, conversando con mio marito in balcone lo vidi sconvolto», racconterà Agnese Piraino. «Mi disse testualmente: “Ho visto la mafia in diretta, perché mi hanno detto che il generale Subranni era punciutu (affiliato a Cosa Nostra, ndr)”. Tre giorni dopo, durante una passeggiata sul lungomare di Carini, mi disse che a ucciderlo non sarebbe stata la mafia, della quale non aveva paura, ma sarebbero stati i suoi colleghi ed altri a permettere che ciò potesse accadere».
Trizzino ci ha risposto così: «Facendo un’esegesi attenta di queste parole e mettendole a raffronto con gli innumerevoli elementi a disposizione, come quanto pronunciato da Borsellino al Csm il 14 luglio 1992 (relativamente al dossier mafia-appalti, ndr), siamo arrivati alla conclusione che le parole su Subranni di Borsellino devono per forza di cose interpretarsi come un’illazione fatta contro Subranni per depistare Borsellino: un Subranni infangato insomma. La signora Piraino non era a conoscenza di atti processuali, era digiuna di queste materie e riteniamo che in tutti questi anni si siano manipolate le sue parole per portarle in un’unica direzione».
Resta il fatto che dal 15 giugno al 28 giugno trascorrono quattordici giorni, durante i quali molti nello Stato sono informati dell’imminente attentato, tranne il diretto interessato. Il giudice Borsellino ha le ore contate e lui non ne è a conoscenza.
Nota 1: Va ricordato che il maresciallo Lombardo è morto nel 1995 in circostanze mai chiarite davvero, sebbene le indagini ufficiali parlino da sempre di suicidio. I familiari stanno da tempo cercando risposte e aiuto dall’autorità giudiziaria in questo senso. Alcuni giorni prima di morire il maresciallo avrebbe chiamato la signora Piraino dicendole che sarebbe stato in grado di portarle la verità sulla strage.
Nota 2. Nel secondo grado del processo sulla trattativa Stato-mafia, Mori, Subranni e De Donno sono stati assolti. Subranni è stato indagato per favoreggiamento anche per l’omicidio di Peppino Impastato: nel 2018 il Gip ha archiviato per prescrizione, ma ha stabilito che «sulle indagini si è verificato un contesto di gravi omissioni ed evidenti anomalie investigative». Nella stessa inchiesta sono state archiviate anche le posizioni dei tre sottufficiali che rispondevano di concorso in falso: lo stesso Carmelo Canale, Francesco Abramo e Francesco Di Bono, che la notte del delitto, il 9 maggio 1978, perquisirono la casa di Impastato a Cinisi.

 



GUARDA IL VIDEO 

19.7.2022 In occasione del trentennale della strage di via D’Amelio, Fabio Trizzino avvocato di parte civile di Lucia, Manfredi e Fiammetta Borsellino parla in esclusiva a ilSicilia.it.
Secondo Trizzino, i processi Borsellino e Borsellino-bis sono stati entrambi  “travolti” e interessati da un istituto straordinario e di rarissima applicazione ovvero la revisione. Trizzino ha anche parlato di verità negate da dati oggettivi. “Vedere due processi di quella portata travolti in questo modo – dice Trizzino è per me, una situazione imbarazzante”.
Borsellino – continua Trizzinoè stato uno dei padri fondatori della seconda Repubblica che è nata anche sul suo sangue e su quello di Giovanni Falcone”.  Oggi, trent’anni dopo la strage di via d’Amelio, sono ancora tanti i misteri irrisolti. Dall’agenda rossa a quell’amara confessione sul suo ufficio di procuratore aggiunto a Palermo, che però considerava «un nido di vipere».


19.7.2022 Ce ne ricorderemo di questo trentennale.

I figli di Paolo Borsellino non partecipano oggi alle cerimonie ufficiali. Per altro, ce ne sono pochissime, quest’anno. Niente pompa magna per via d’Amelio. E comunque, nulla a che vedere con le celebrazioni per Capaci. Mi si dice che si è voluto evitare di esporsi. Forse quest’anno si rischiavano fischi? È finito l’unanimismo antimafia in nome della “legalità”?
I figli di Paolo Borsellino non parlano pubblicamente da tempo. Unica eccezione è stata Fiammetta (e me ne prendo la responsabilità) il 4 luglio alla facoltà di Giurisprudenza di Palermo.
Ma parla o può o potrebbe parlare (e ieri ha effettivamente parlato alla presentazione del libro di Umberto Lucentini) a nome di tutti loro l’avvocato Fabio Trizzino, rappresentante legale dei figli e marito di Lucia. Ma invece di solito non è stato troppo consultato. Perché?
Ci avevo visto giusto a scrivere nel libro che il fatto di non aver mai chiesto ufficialmente scusa alla memoria del giudice e alla famiglia Borsellino da parte dello Stato rischia di finire nei libri di storia. Oggi in molti invocano quelle scuse ufficiali, e mi pare si sia anche fatto avanti il nuovo procuratore nazionale antimafia. Timidi segnali, ma forse non è a lui che toccherebbe porgerle, le scuse, da parte dello Stato italiano.
Da più parti si è anche fatto giustamente notare che, pur in presenza di tanti pubblici dibattiti e di una generale profusione mediatica, sulla ricorrenza di via D”Amelio, proprio l’avvocato Trizzino – salvo rarissime eccezioni – non è mai stato invitato a parlare.
Il motivo vero? Trizzino, seppure in maniera equilibrata, dice cose ancora oggi molto scomode.
Eppure, questo il punto, l’avvocato Trizzino dice cose che riflettono pienamente lo stato d’animo dei figli di Paolo Borsellino in questo trentennale. Da questo si può dunque dedurre che il grande apparato della “memoria” e delle “celebrazioni” continua a non volere nemmeno dialogare con la famiglia Borsellino, si ostina a non tenere conto del loro punto di vista, preferisce al confronto di idee e delle differenti posizioni la pura autoreferenzialità. Persino di fronte al dolore, la faccia di pietra. Ma che “antimafia” è? Sarebbe questa la “cultura della legalità”?
Atteggiamento perlomeno sciocco, tra l’altro, al giorno d’oggi, nell’era dei social. Se i grandi giornali fanno poche migliaia di lettori e la TV generalista alcuni milioni, i social stanno nel mezzo con centinaia di migliaia di passaparola. Perciò certe opinioni si diffondono lo stesso. Allora perché lo si fa? Per non sposarle? Ma se non si vogliono sposare le opinioni dei figli di Paolo Borsellino (per altro surrogate da molteplici fatti) questo vuol dire volere stare ancora oggi il più possibile alla larga dai figli stessi di Paolo Borsellino. Ancor più stridente è farlo nel momento in cui se ne celebra il padre. E invece loro, i figli, scelgono il silenzio per tutelarne la memoria. Non so se ci si rende conto pienamente di un simile cortocircuito.
Si vuole stare lontani dal dolore dei figli perché tutti sappiamo che dopo quello inflitto loro da una strage annunciata e che si poteva evitare, dopo la mutilazione per la perdita del padre, gli sono stati imposti anche altri tre decenni di depistaggi, insulti, tradimenti, bugie, calunnie, isolamento, sorveglianza speciale, minacce sotto forma di consigli, insinuazioni, veleni. E, seppur distribuita nelle giuste proporzioni, di questo ci portiamo tutti una parte di colpa.
Lucia mi ha raccontato, e l’ho scritto nel libro, il clima di ostilità che caratterizzò il convegno svoltosi a Palermo prima delle stragi, quando Tony Gentile scattò la famosa foto di Falcone e Borsellino. Lei, che vi aveva accompagnato Francesca Morvillo, ne rimase sconvolta e lo confessò a suo padre. Che ne sofferse altrettanto. Si potrebbe anche fare una rilettura inconsueta della partecipazione di popolo all’ultimo discorso pubblico di Borsellino a Casa Professa, in relazione ai contesti, anche sociali, in cui sono maturate le stragi siciliane. E sul perché quella di via D’Amelio, pure “annunciata”, non venne fermata. Capisco quanto possa essere scomodo o doloroso tutto questo, ma tanto gli storici di domani lo faranno.
Questa storia, ormai è acclarato, non riguarda solo “tre orfanelli”. Questa storia ci riguarda tutti come italiani. A prescindere dalle nostre categorie di appartenenza. Siate voi putiari o professoroni, la storia di Paolo Borsellino ci tocca tutti da vicino.
Non volere nemmeno ascoltare le ragioni dei figli di Paolo Borsellino, non dare loro voce, preferire a loro e al loro rappresentante legale e familiare i più gestibili soloni, comici e tromboni adusi al professionismo mediatico, è semplicemente diventato – a questo punto – l’ultimo, estremo atto del depistaggio della verità su via D’Amelio.
 
 

17.7.2020 – Familiari: le cause della morte nei 57 giorni dopo Falcone e nella gestione del rapporto Mafia e Appalti

  Lo ha detto l’avvocato Fabio Trizzino, nella foto sopra, legale dei familiari del magistrato Paolo Borsellino, costituiti parte civile nel processo in cui il latitante Matteo Messina Denaro è imputato per essere uno dei mandanti delle stragi del 1992.  “Finalmente abbiamo un’occasione unica, cioè di processare un vero capo che ha aderito totalmente alla strategia stragista di attacco al cuore delle istituzioni nazionali”, ha aggiunto il legale. “Noi dobbiamo fare l’analisi delle parole di Borsellino, che ha lasciato detto qualcosa che potesse guidare gli investigatori verso la possibilità di scoprire le ragioni e i motivi della sua morte – ha aggiunto l’avvocato Trizzino – noi dovremmo fare un’esegesi delle parole di Borsellino evitando di contaminare quelle che erano le sue conoscenza prima di Capaci e ciò che acquisì in quei 57 giorni, in cui trovo una plausibile spiegazione nell’accelerazione”.     Nel corso della sua arringa, il legale che rappresenta i familiari del giudice ha parlato delle “collaborazioni tardive di Claudio Martelli, Liliana Ferraro, Alessandra Camassa e Massimo Russo, da cui abbiamo saputo delle cose che creano un rinnovato dolore”. Dopo l’uccisione di Giovanni Falcone, la mafia siciliana aveva stabilito l’eliminazione di Calogero Mannino, ma poi l’obbiettivo immediato diventò Paolo Borsellino. “Da quanto ci raccontano i collaboratori di giustizia, la virata avviene tra il 3 e il 20 giugno”, ha aggiunto l’avvocato Trizzino. “Cosa succede? L’autorità giudiziaria di Catania, con il sostituto procuratore Felice Lima, stava interrogando Giuseppe Lipera del 13-14-15 giugno 1992. Noi dobbiamo capire se alcune di quelle informazioni possano essere finite a Borsellino e questo è importante perchè potremmo iniziare a vedere la finalità preventiva di bloccare Borsellino sul fronte del dossier ‘Mafia e Appalti’”. 

“Il procuratore Giammanco non fu mai ascoltato dalle autorità di allora e questa è una delle cose piu dolorose”. Lo ha detto l’avvocato Fabio Trizzino, legale dei familiari del magistrato Paolo Borsellino, nel corso della sua arringa nel processo in cui il latitante Messina Denaro è imputato davanti la corte d’Assise di Caltanissetta (presidente Roberta Serio) per essere stato tra i mandanti delle Stragi del ’92. Una ricostruzione approfondita dei 57 giorni che separarono l’uccisione di Giovanni Falcone da quella di Borsellino. “In quei giorni Borsellino dice io so, non io penso, ma io so quali sono le ragioni dietro l’uccisione di Giovanni Falcone”, ha aggiunto il legale, riferendosi all’incontro di piazza Casa Professa (Palermo) del 25 giugno 1992, descritto come “il primo passo della sua via crucis, segnata da tappe ben chiare”. “Il 14 luglio c’è stata una riunione alla Direzione Distrettuale di Palermo e Borsellino chiese conto e ragione a Lo Forte – ha aggiunto Trizzino – perchè tra l’altro Giammanco è nella storia della Repubblica, primo e unico procuratore costretto a dimettersi per un ammutinamento dei suoi sostituti: io credo che non ci siano precedenti del genere. Borsellino voleva sapere a che punto fosse quel rapporto Mafia e Appalti e non gli dicono che il 13, il giorno prima, era stata fatta una richiesta di archiviazione, che venne ratificata il 14 agosto 1992”. “Lo Stato deve sapere che è stato lasciato solo da molti suoi colleghi, da qualcuno che voleva prendere delle iniziative senza consultarsi e quindi uccidendolo Riina – ha continuato l’avvocato dei Borsellino – ebbe la formidabile occasione di potere dar conto a quella parte di Cosa Nostra fatte da strane commistioni di massoni e imprenditori e dall’altra proseguire con la sua strategia stragista condivisa con Messina Denaro”.     L’avvocato poi si è soffermato sull’allora procuratore capo di Palermo, Pietro Giammanco, morto per cause naturali nel dicembre 2018. “Tra le prime cose dette da Borsellino a Casa Professa, fu che confermò l’autenticità dei diari di Falcone, pubblicati dalla giornalista Liana Milella sul Sole 24 ore ed è importante perchè li si arriva al comportamento di Giammanco, che fu assolutamente non ortodosso”, ha aggiunto il legale. “Questa è una delle cose piu dolorose – ha sottolineato –  perchè Giammanco non è mai stato ascoltato dalle autorità di allora, non fu mai compulsato da un pm per spiegare due circostanze, perchè dell’informativa sul tritolo e la telefonata del 19 luglio alle 7.15 del mattino: io posso fare tutte le illazioni di questo mondo perchè nessuno ha chiesto ragione a Giammanco di una telefonata al mattino presto, nonostante tutti sapessero che il rapporto tra i due non era per niente idilliaco”. AGI 

 


 

7.6.2022 – DEPISTAGGIO BORSELLINO / IL DURISSIMO J’ACCUSE DELL’AVVOCATO FABIO TRIZZINO Finalmente una toga che dà l’anima perché si faccia finalmente chiarezza sulla strage di via D’Amelio in cui persero la vita Paolo Borsellino e la sua scorta; nonchè su lDepistaggio di Stato”, il più clamoroso della nostra storia giudiziaria.

Stiamo parlando di Fabio Trizzino, il legale della famiglia Borsellino (anche sposato la figlia del magistrato, Lucia Borsellino), impegnato nel processo sul ‘depistaggio’, appunto, ma che incredibilmente vede come imputati solo tre poliziotti, accusati di aver taroccato il ‘collaboratore’ Vincenzo Scarantino, e non quei magistrati che avevano in mano il caso, addirittura prosciolti in un processo lampo a Messina.
La ‘Voce’ ha scritto decine di inchieste sulla strage di via D’Amelio, la più recente è di qualche giorno fa, 22 maggio, quando Trizzino ha effettuato la sua arringa.
Tanto per la ‘memoria storica’ che non va mai perduta (lo hanno sempre ricordato i magistrati-coraggio come Borsellino, Falcone e Ferdinando Imposimato), una decina d’anni fa la Voce venne citata in via civile da uno dei magistrati storicamente in prima linea nel giallo di via D’Amelio, Anna Maria Palma, e  che per primo ha ‘gestito’ (con il collega Carmelo Petralia, cui poi si è aggiunto Nino De Matteo) il pentito Scarantino, l’oracolo in base alle cui verbalizzazioni ‘taroccate’ sono stati condannati a 18 anni di galera degli innocenti.
Non vogliamo qui dilungarci oltre misura, visto che ne abbiamo scritto decine e decine di volte e anche il 22 maggio.
Qui vogliamo riportare semplicemente dei passaggi di un recentissimo intervento che il coraggioso avvocato Trizzino ha svolto nel corso di un seminario organizzato dal ‘DEMS’, il Dipartimento di Scienze politiche e delle relazioni internazionali dell’Università di Palermo, titolato “Il danno esistenziale da strage: i 57 giorni della famiglia Borsellino”. Una relazione alla quale ha fornito il suo contributo Gabriella Marcatajo, docente di Istituzioni di diritto privato presso la stressa facoltà.

CI MANCAVA SOLO LA PISTA NERA…  Il seminario si è svolto a poche ore di distanza dalla puntata di ‘Report’dedicata alla strage di via D’Amelio che ha fatto non poco rumore, e nella quale viene tirato in ballo un nome da novanta nell’eversione nera, quello di Stefano Delle Chiaie che, secondo il servizio mandato in onda da Sigfrido Ranucci e realizzato da Paolo Mondani, avrebbe avuto un ruolo chiave nell’organizzazione della strage. Boom! Un ottimo servizio sul seminario organizzato dall’Università di Palermo, e quindi dedicato all’intervento di Trizzino, è stato realizzato da ‘il Sole 24 Ore’, che difficilmente può essere accusato di complottismo. Il titolo del pezzo è: “La famiglia Borsellino: ‘La pista nera sulle stragi del ’92 è un altro depistaggio”. Già parla da solo. Di seguito potete leggere alcuni passaggi salienti dell’intervento di Trizzino, così come riportati dal quotidiano confindustriale.

MOVENTE BASE / IL RAPPORTO “MAFIA-APPALTI”   “E’ nelle indagini su Mafia-Appalti che bisogna cercare la verità. Qualche settimana prima di morire, mio suocero ha incontrato il magistrato Felice Limache gestiva il pentito Li Pera, il quale aveva riferito che qualcuno aveva passato i dossier delle indagini ai mafiosi”. La ‘Voce’, circa tre anni ha, ha pubblicato alcune rivelazioni del pentito Giuseppe Li Pera (potete trovare un articolo nei link in basso), un ragioniere dell’impresa trentina ‘Rizzani-De Eccher’, il cui nome salta fuori nell’esplosivo dossier. Guarda caso, proprio Li Pera era stato interrogato – non si sa bene a quale titolo – da Antonio Di Pietro nel carcere dell’Ucciardone. Come mai da uno che sapeva tutto sui rapporti tra Mafia e Appalti, come Li Pera, l’eroico PM di Mani Pulite non riuscì a cavare un ragno dal buco? E a quanto pare di quel fantomatico interrogatorio non esiste alcuna traccia, nemmeno lo straccio di     un verbale? Una conversazione privata o cosa? Proprio come era successo nel corso degli interrogatori che Di Pietro ebbe, stavolta a Milano, con l’Uomo a un passo da Dio –  come lui stesso lo etichettò –  ossia Pierfrancesco Pacini Battaglia, il faccendiere italoelvetico che tutto sapeva non solo sulla madre di tutte le tangenti, ‘ENIMONT’, ma anche sugli affari arcimiliardari dell’Alta Velocità’ sui quali – guarda caso – avevano cominciato ad indagare proprio Falcone e Borsellino a febbraio 1991, quando sulle loro scrivanie piombò l’esplosivo dossier (890 pagine) elaborato dal ROS dei carabinieri e denominato, appunto “Mafia-Appalti”. I casi della vita… Ma torniamo a bomba. Ossia all’intervento dell’avvocato Trizzino al seminario organizzato dal ‘DEMS’.

VELENI A PALAZZO DI GIUSTIZIA  Ricorda con commozione: “In quei 57 giorni di Via Crucis che separarono la strage di Capaci da quella di via D’Amelio, Paolo Borsellino non sorride più. Lucia mi ha raccontato che al padre sono diventati i capelli bianchi in dieci giorni. Ma a parte questo, in quei giorni Borsellino confida a due magistrati di essere stato tradito da un amico e che, riferendosi all’ambiente della procura della Repubblica, a Palermo non ci si può fidare più di nessuno. Ma quei due magistrati hanno parlato nel 2010, non subito dopo la strage”. Eccoci ad altri passaggi che fanno letteralmente saltare sulle sedie chi poco conosce quel ‘clima’ che si respirava al palazzo di Giustizia (sic) di Palermo. Continua la minuziosa ricostruzione di Trizzino davanti agli studenti di Scienze politiche: “E’ sul procuratore Giammanco (Pietro, ndr) che bisogna indagare, altro che Delle Chiaie. Si gira sempre attorno per non cercare in quella maledetta procura”. Parole che pesano come macigni. Eccoci al passaggio clou: “Si parla di responsabilità istituzionali, ma perchè i responsabili devono essere altri (in questo caso i tre poliziotti, ndr) e non i magistrati? Chi erano i magistrati coinvolti nel depistaggio su via D’Amelio?”. Eppure, i nomi si sanno, eccome! Commenta ‘Il Sole 24 Ore’: “Senza mezzi termini Trizzino chiama in causa l’ex procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato, autore dell’inchieste sui ‘Sistemi criminali’ che segue la pista del neofascismo e della massoneria nelle stragi e nel ’92, ma anche i magistrati Guido Lo Forte eGiuseppe Pignatone”. Riprende il filo del suo discorso Trizzino: “Alla fine, chi ha fatto le inchieste su mafia e appalti è stato penalizzato; chi invece ha insabbiato tutto è stato premiato”. Altri macigni da non poco. Non è certo finita qui, perché il legale della famiglia Borsellino incalza: “In questi 30 anni mi sono fatto un’idea: comincio a dubitare di tutto quello che ci hanno fatto vedere come ‘accaduto’. I responsabili sono stati dati in pasto all’opinione pubblica per coprire qualcun altro”. Per coprire chi?, si chiede il giornalista del quotidiano confindustriale, Nino Amadore. “Trizzino non lo dice, ma ‘Riina non è il solo responsabile e ci sono altri elementi che hanno contribuito’. E poi l’avvocato si chiede: ‘Perché c’è ancora tutto sto disinteresse per il depistaggio di via D’Amelio e si preferisce parlare d’altro’”? Sottolinea ancora, nel suo intervento-arringa all’Università di Palermo, il battagliero avvocato della famiglia Borsellino, con una figlia – Fiammetta Borsellino – che da sempre denuncia opacità, omertà & collusioni nel giallo di via D’Amelio e non ha paura di fare il nome dei magistrati coinvolti: “C’è bisogno di disinteresse di chi cerca queste verità. La persistenza di conflitti di interesse ha una funzione manipolativa nella ricostruzione dei fatti. Quando ho letto che Nino Di Matteo non voleva concedere il programma di protezione a Gaspare Spatuzza (il pentito che ha svelato la verità sul falso collaboratore Scarantino e quindi il depistaggio, ndr), posso ipotizzare che Di Matteo avendo legato la sua immagine professionale a Scarantino temesse effetti negativi? Lo posso avere questo dubbio o no? Io voglio dire che la verità collettiva la cerca chi, modestamente, non ha interessi in conflitto. Vi assicuro che se qualcuno mi dimostra che Stefano Delle Chiaie era lì, me lo deve dimostrate con il metodo Falcone. Io sarò il primo a chiedere scusa” E l’affondo finale: “In trent’anni si è guardato ovunque: sono stati messi sotto accusa carabinieri, politici, polizia. Tutte le istituzioni. L’unica istituzione che non è stata attenzionata, nonostante Paolo Borsellino dica: saranno i miei colleghi ed altri. Noi questo non lo accettiamo più. Vogliamo semplicemente che anche in un’ottica di ricostruzione storica ci sia qualcuno che vada a vedere cosa è successo dentro quella procura. Perché c’è stata questa sovraesposizione mediatica sempre degli stessi soggetti? Qual è il vero motivo? Perché? Servono giovani che vadano a vedere le carte, in maniera asettica, senza conflitti di interesse, per trovare la verità”.


5.6.2022 – FABIO TRIZZINO: attacchi, rettifiche e reazioni

ABBIATE PIETÀ  da LA VALLE DEI TEMPLI


 

 

 

A proposito dell’articolo riportato qui sotto,  una rettifica che arriva dall’avvocato Trizzino.

 

“Una rettifica si impone: io non ho detto che il giudice si era incontrato con Felice Lima ma che era in contatto con il pm di Catania nei giorni della collaborazione di Giuseppe Lipera.
Ho detto solamente che il 19 luglio 1992 Felice Lima avrebbe voluto incontrare Paolo Borsellino ma sbaglio’ indirizzo e si reco’ alla villa di Giammanco. Poi la strage….”
“È in atto un altro depistaggio. Non lo dice così chiaramente Fabio Trizzino, marito di Lucia Borsellino, la figlia maggiore di Paolomorto nella strage di Via d’Amelio il 19 luglio 1992, avvocato di parte civile della famiglia Borsellino, ma torna all’attacco di chi, dice, sposta l’attenzione per nascondere la verità.
L’occasione è un seminario organizzato dal Dems il Dipartimento di Scienze politiche e delle relazioni internazionali dell’Università di Palermo diretto da Costantino Visconti dal titolo “Il danno esistenziale da strage: i 57 giorni della famiglia Borsellino”. Trizzino, affiancato da Gabriella Marcatajo, docente di Istituzioni di diritto privato che ha illustrato i profili innovativi della causa decisa dal Tribunale di Palermo, ha alternato le considerazioni sulla causa ad altre di stretta attualità.
Report sotto accusa
Intanto sulla puntata di Report e la ricostruzione fatta da Paolo Mondani sul coinvolgimento di Stefano Delle Chiaie, esponente della destra eversiva, che sarebbe stato presente a Capaciper un sopralluogo qualche mese prima della strage in cui morirono Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre agenti della scorta. Una ricostruzione che, secondo Trizzino, serve a distrarre dalla verità insomma per depistare ancora una volta. Trizzino, che ha recentemente sostenuto a Caltanissetta la sua arringa al processoper il depistaggio nelle indagini sulla strage di Via D’Amelioattraverso le imbeccate a Vincenzo Scarantino: in quel processo sono imputati tre poliziotti. Il legale della famiglia Borsellino ha un’idea precisa: «È nelle indagini su mafia appalti che bisogna cercare la verità. qualche settimana prima di morire mio suocero ha incontrato il magistrato Felice Lima che gestiva il pentito Lipera il quale aveva riferito che qualcuno aveva passato i dossier delle indagini ai mafiosi». Una ricostruzione che fa il paio con un’altra: «In quei 57 giorni di Via Crucis che separano la strage di Capaci da quella di Via D’Amelio Paolo Borsellino non sorride più. Lucia (la moglie e figlia del magistrato ndr) mi ha raccontato che al padre sono diventati i capelli bianchi in dieci giorni. Ma a parte questo in quei giorni Borsellino confida a due magistrati di essere stato tradito da un amico e che, riferendosi all’ambiente della procura della Repubblica, a Palermo non ci si può fidare di nessuno. “Fraterno sostegno ad Agnese Borsellino | Facebook


La famiglia Borsellino: «La pista nera sulle stragi del ’92 è un altro depistaggio»

È in atto un altro depistaggio. Non lo dice così chiaramente Fabio Trizzino, marito di Lucia Borsellino, la figlia maggiore di Paolo morto nella strage di Via d’Amelio il 19 luglio 1992, avvocato di parte civile della famiglia Borsellino, ma torna all’attacco di chi, dice, sposta l’attenzione per nascondere la verità.
L’occasione è un seminario organizzato dal Dems il Dipartimento di Scienze politiche e delle relazioni internazionali dell’Università di Palermo diretto da Costantino Visconti dal titolo “Il danno esistenziale da strage: i 57 giorni della famiglia Borsellino”. Trizzino, affiancato da Gabriella Marcatajo, docente di Istituzioni di diritto privato che ha illustrato i profili innovativi della causa decisa dal Tribunale di Palermo, ha alternato le considerazioni sulla causa ad altre di stretta attualità.
Report sotto accusa
Intanto sulla puntata di Report e la ricostruzione fatta da Paolo Mondani sul coinvolgimento di Stefano Delle Chiaie, esponente della destra eversiva, che sarebbe stato presente a Capaci per un sopralluogo qualche mese prima della strage in cui morirono Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre agenti della scorta.
Una ricostruzione che, secondo Trizzino, serve a distrarre dalla verità insomma per depistare ancora una volta.
Trizzino, che ha recentemente sostenuto a Caltanissetta la sua arringa al processo per il depistaggio nelle indagini sulla strage di Via D’Amelio attraverso le imbeccate a Vincenzo Scarantino: in quel processo sono imputati tre poliziotti. Il legale della famiglia Borsellino ha un’idea precisa: «È nelle indagini su mafia appalti che bisogna cercare la verità. qualche settimana prima di morire mio suocero ha incontrato il magistrato Felice Lima che gestiva il pentito Lipera il quale aveva riferito che qualcuno aveva passato i dossier delle indagini ai mafiosi». Una ricostruzione che fa il paio con un’altra: «In quei 57 giorni di Via Crucis che separano la strage di Capaci da quella di Via D’Amelio Paolo Borsellino non sorride più. Lucia (la moglie e figlia del magistrato ndr) mi ha raccontato che al padre sono diventati i capelli bianchi in dieci giorni. Ma a parte questo in quei giorni Borsellino confida a due magistrati di essere stato tradito da un amico e che, riferendosi all’ambiente della procura della Repubblica, a Palermo non ci si può fidare di nessuno. Ma quei due magistrati hanno parlato nel 2010 non subito dopo la strage».
La responsabilità della procura di Giammanco
Ma questo è solo l’antipasto di un discorso più ampio e complesso che l’avvocato fa davanti agli studenti di Scienze politiche: «È sul procuratore Giammanco che bisogna indagare altro che Delle Chiaie. Si gira sempre attorno per non cercare in quella maledetta procura». Ecco il punto: «Si parla di responsabilità istituzionali ma perché i responsabili devono essere altri e non i magistrati? Chi erano i magistrati coinvolti nel depistaggio su Via D’Amelio?» si chiede Trizzino. Il racconto del calvario di Paolo Borsellino è disseminato di riferimenti ai suoi colleghi, al «covo di vipere» che il magistrato considerava la Procura guidata da Pietro Giammanco. Senza mezzi termini Trizzino chiama in causa l’ex procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato, autore poi dell’inchiesta sui Sistemi criminali che segue la pista del neofascismo e della massoneria nelle stragi e nel ’92 ma anche i magistrati Guido Lo Forte e Giuseppe Pignatone. Cose non nuove, per la verità, ma questa volta l’avvocato va dritto al punto: «Alla fine chi è ha fatto le inchieste su mafia e appalti è stato penalizzato, chi invece ha insabbiato tutto è stato premiato». Ma c’è di più in questo ragionamento articolato e senza peli sulla lingua: «In questi 30 anni mi sono fatto un’idea – dice Trizzino –: comincio a dubitare di tutto quello che ci hanno fatto vedere come accaduto. I responsabili sono stati dati in pasto all’opinione pubblica per coprire qualcun altro». Per coprire chi? Trizzino non lo dice ma «Riina non è il solo responsabile e ci sono altri elementi che hanno contribuito» afferma. E poi l’avvocato si chiede: «Perché c’è ancora tutto sto disinteresse per il depistaggio di Via D’Amelio e si preferisce parlare d’altro?».
Il diritto alla verità della famiglia Borsellino
E infine Trizzino chiude: «C’è bisogno di disinteresse di chi cerca questa verità. La persistenza di conflitti di interesse ha una funzione manipolativa nella ricostruzione dei fatti – dice –. Quando ho letto che Nino Di Matteo non voleva concedere il programma di protezione a Gaspare Spatuzza (il pentito che ha svelato la verità sul falso collaboratore Scarantino e quindi il depistaggio ndr), posso ipotizzare che Di Matteo avendo legato la sua immagine professionale a Scarantino temesse effetti negativi? Lo posso avere questo dubbio o no? Io voglio dire che la verità collettiva la cerca chi, modestamente, non ha interessi in conflitto.  Vi assicuro che se qualcuno mi dimostra che Stefano Delle Chiaie era lì, me lo deve dimostrare con il metodo Falcone, Io sarò il primo a chiedere scusa. In trent’anni si è guardato ovunque: sono stati messi sotto accusa i carabinieri, politici, polizia. Tutte le istituzioni. L’unica istituzione che non è stata attenzionata nonostante Paolo Borsellino dica: saranno i miei colleghi ed altri. Noi questo non lo accettiamo più. Vogliamo semplicemente che anche in un’ottica di ricostruzione storica ci sia qualcuno che vada a vedere cosa è successo dentro quella procura. Perché c’è questa sovraesposizione mediatica sempre degli stessi soggetti? Qual è il vero motivo? Perché? Servono giovani che vadano a vedere le carte, in maniera asettica, senza conflitti di interesse per trovare la verità». NINO AMADORE SOLE 24 ORE 31.5.2022


Via d’Amelio: insinuazioni e mistificazioni di Trizzino anche contro Scarpinato   

Giorgio Bongiovanni. 04 Giugno 2022 ANTIMAFIA DUEMILA

Ciò che crea scandalo è che questa avversione non giunge solo dai soliti giornaloni prezzolati, dai libellisti del potere e affini, ma anche da certi familiari vittime di mafia.
Così come aveva fatto durante la propria arringa difensiva al processo sul depistaggio della strage di via d’Amelio è l’avvocato dei figli di Borsellino Fabio Trizzino, genero del giudice ucciso il 19 luglio 1992, a manifestare un certo accanimento.
Lo ha fatto in occasione di un seminario organizzato dal Dems, il Dipartimento di Scienze politiche e delle relazioni internazionali dell’Università di  Palermo diretto da Costantino Visconti, dal titolo “Il danno esistenziale da strage: i 57 giorni della famiglia Borsellino”.
A raccontare dell’evento è “Il Sole 24 Ore”.
Ovviamente non una parola sarebbe stata detta rispetto alla decisione del Gip di Caltanissetta Graziella Luparello di non archiviare l’inchiesta sui mandanti esterni di via d’Amelio. In quel documento si redarguisce l’operato svolto in questi anni dalla procura nissena in quanto le indagini “non possono ritenersi complete” nel momento in cui “non risultano avere esplorato e approfondito dei temi investigativi di particolare interesse, alcuni dei quali già noti al momento della formulazione della richiesta di archiviazione, altri sopravvenuti e divenuti ‘fatti notori’”.
Ma l’avvocato Trizzino avrebbe preferito parlare degli elementi riemersi sulla strage di Capaci che il programma “Report” ha riportato alla luce sulla possibile presenza, nel luogo della strage, dell’estremista nero Stefano Delle Chiaie.
Una ricostruzione che, secondo Trizzino, servirebbe a distrarre dalla verità e depistare le indagini.
Ma la questione non è come quella, più evidente, messa in atto con le dichiarazioni dell’ex collaboratore di giustizia Maurizio Avola. Si tratta di una vicenda un po’ più complessa e a dimostrarlo vi è anche la “magra” figura della Procura nissena con la smentita a colpi di comunicato stampa accompagnato dalle perquisizioni condotte contro il giornalista Paolo Mondani e la redazione di Report (prima predisposte e poi revocate).
Parlando di via d’Amelio il legale della famiglia Borsellino, per evidenziare le cause per cui il giudice è stato ucciso, ha insistito sulla solita pista “mafia-appalti”: “Qualche settimana prima di morire mio suocero ha incontrato il magistrato  Felice Lima che gestiva il pentito Lipera il quale aveva riferito che qualcuno aveva passato i dossier delle indagini ai mafiosi”. E poi ancora ha parlato della confidenza che Borsellino ha fatto a due magistrati “di essere stato tradito da un amico e che, riferendosi all’ambiente della procura della Repubblica, a Palermo non ci si può fidare di nessuno”. Quindi ha insistito: “È sul procuratore Giammanco che bisogna indagare altro che Delle Chiaie. Si gira sempre attorno per non cercare in quella maledetta procura. Si parla di responsabilità istituzionali ma perché i responsabili devono essere altri e non i magistrati? Chi erano i magistrati coinvolti nel depistaggio su Via d’Amelio?”.
“In questi 30 anni mi sono fatto un’idea – ha affermato Trizzino –: comincio a dubitare di tutto quello che ci hanno fatto vedere come accaduto. I responsabili sono stati dati in pasto all’opinione pubblica per coprire qualcun altro. Riina non è il solo responsabile e ci sono altri elementi che hanno contribuito. Perché c’è ancora tutto sto disinteresse per il depistaggio di  Via d’Amelio e si preferisce parlare d’altro?”.
Leggendo l’articolo del Sole 24 Ore si evince che il legale dei figli di Borsellino ha chiamato in causa l’ex procuratore generale di Palermo  Roberto  Scarpinato, autore assieme ad Antonio Ingroia dell’inchiesta sui Sistemi criminali che segue la pista del neofascismo e della massoneria nelle stragi e nel ’92 ma anche i magistrati Guido  Lo  Forte e Giuseppe Pignatone usando parole al veleno: “Alla fine chi ha fatto le inchieste su mafia e appalti è stato penalizzato, chi invece ha insabbiato tutto è stato premiato”. Parole gravi, specie se non si tiene conto che la storia di mafia-appalti è tutt’altro che semplice e lineare e nel corso della sua storia ha visto lo sviluppo di vicende processuali contrastanti.
Su queste affermazioni abbiamo chiesto un pensiero a Salvatore Borsellino che ha detto di “dissociarsi nella maniera più assoluta dalle affermazioni su Scarpinato. Queste sono parole dell’avvocato Trizzino e al massimo dei figli di Borsellino che rappresenta. Non certo le mie”. Una presa di posizione netta e forte così come aveva fatto in passato a difesa del pm Nino Di Matteo.
Tornando a mafia-appalti proprio Scarpinato, che al tempo fu uno dei titolari di quel fascicolo, sentito al processo sul depistaggio della strage di via d’Amelio Scarpinato ha spiegato, producendo ben venti documenti, che in realtà l’indagine mafia-appalti non fu affatto archiviata il 13 luglio 1992, come falsamente alcuni fonti continuano a ripetere in palese contrasto con gli atti processuali. 
L’ex Procuratore generale ha evidenziato come, dopo l’arresto di sette soggetti indagati tra i quali Angelo Siino, il 13 luglio 1992 era stata richiesta solo l’archiviazione della posizione di alcuni indagati perché a quella data non erano ancora state acquisite prove sufficienti nei loro confronti. Tuttavia, prima di procedere all’archiviazione di tali posizioni residuali, era stato fatto lo stralcio della parte più importante della inchiesta che proseguiva e riguardava la gestione di appalti della SIRAP per mille miliardi delle vecchie lire, e che coinvolgeva il livello politico e amministrativo. L’inchiesta mafia-appalti, quindi, non fu affatto archiviata, tant’è che a seguito del deposito della informativa SIRAP del ROS del 5 settembre 1992 e del sopraggiungere delle dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia, si procedette alla revoca dell’archiviazione nei confronti di alcuni di tali soggetti e al loro successivo arresto nel giugno 1993. Nomi di rilievo. Unitamente a Salvatore Riina, a numerosi altri mafiosi, si procedette nei confronti di politici come l’on.le Salvatore Lombardo, a esponenti di vertice di imprese nazionali, tra i quali Vincenzo Lodigiani, Claudio Rizzani De Eccher, Filippo Salomone, nonché a componenti dello staff dirigenziale della partecipata regionale SIRAP.
Inoltre nell’ottobre 1993 venne arrestato l’onorevole Sciangula, Assessore ai Lavori pubblici. Nello stesso anno fu formulata al Parlamento richiesta di autorizzazione a procedere nei confronti di vari politici tra i quali l’on.le Mannino e l’on.le Citaristi.

Quando si parla di mafia-appalti, come possibile spiegazione dell’accelerazione della strage di via d’Amelio, vi sono elementi documentali che non possono non essere considerati e che allontanano da tale ipotesi: l’esistenza di una doppia informativa.
Per ricostruire i passaggi può essere utile riprendere la relazione redatta dall’allora Procuratore di Palermo Gian Carlo Caselli, datata 5 giugno ’98, dal titolo alquanto esplicito: “Relazione sulle modalità di svolgimento delle indagini-mafia-appalti negli anni 1989 e seguenti”. Una relazione in cui compaiono diverse anomalie.
La prima: c’è una prima versione del rapporto del ROS, depositata il 20 febbraio 1991, priva del nome di politici come Calogero Mannino ed altri. Giovanni Falcone la riceve in quel giorno ma materialmente non se ne può occupare perché già designato come Direttore degli affari penali al Ministero e quindi la consegna al Procuratore Pietro Giammanco per la riassegnazione. Il 25 giugno di quello stesso anno la Procura di Palermo, sulla base di quella informativa e di ulteriori approfondimenti investigativi, chiede l’arresto di sette dei soggetti denunciati nel rapporto: Siino, Li Pera, Farinella, Falletta, Morici, Cascio e Buscemi. Per gli altri indagati il 13 luglio del ’92 viene chiesta l’archiviazione, mentre le indagini proseguivano sul versante degli appalti SIRAP.
Subito dopo l’istanza di archiviazione scoppia una violentissima polemica mediatica contro la Procura di Palermo “rea” di aver fatto sparire la posizione di Mannino e di altri politici importanti. Di fatto sui giornali vengono pubblicati stralci di intercettazioni, alcuni anche riguardanti Mannino. Una vera e propria fuga di notizie che fa esplodere enormi polemiche riguardo atti investigativi che in realtà erano solo in possesso del ROS e che a quella data non erano ancora stati trasmessi alla Procura di Palermo.
Accadrà infatti che il 5 settembre del ’92, un anno e mezzo dopo il deposito della prima informativa, il Ros di Subranni si decise a depositare una seconda informativa mafia-appalti che conteneva, diversamente dalla prima, espliciti riferimenti a Calogero Mannino, Salvo Lima e Rosario Nicolosi.
Nel documento vi erano acquisizioni addirittura di un anno antecedenti alla data del febbraio ‘91, e che però erano state inspiegabilmente “escluse, stralciate, nascoste” dal rapporto mafia-appalti.
Nell’udienza del processo per il depistaggio di Via d’Amelio, Scarpinato ha anche evidenziato che il Ros aveva tra l’altro celato alla Procura della Repubblica di Palermo una importantissima intercettazione del maggio 1990, nella quale l’on.le Lima raccomandava Cataldo Farinella, soggetto arrestato per il reato di cui all’art. 416 bis c.p. unitamente ad Angelo Siino nel giugno del 1991 nell’ambito della prima tranche dell’inchiesta mafia-appalti. Non solo di tale intercettazione non vi era alcuna menzione nella informativa del ROS del 20 febbraio 1991, nella quale si parlava solo del Farinella, ma per di più non fu comunicata alla Procura neppure dopo l’omicidio di Lima il 12 marzo 1992.
Quando Trizzino parla davanti agli studenti delle brillanti carriere dei magistrati commette sempre il solito errore di non adoperare i dovuti distinguo.
Perché per quanto riguarda Scarpinato, facendo intendere che in qualche maniera abbia delle responsabilità sulle mancate verità della strage di via d’Amelio, si omette di dire che proprio lui nel luglio 1992, da sostituto procuratore, fu il promotore della rivolta di otto sostituti che firmarono un documento che chiedeva l’allontanamento del Procuratore Giammanco, provocando una inchiesta del Csm a seguito della quale Giammanco lasciò la Procura. Fu Scarpinato nell’ audizione al Csm del 29 luglio 1992 a denunciare l’isolamento subito da Falcone e da Borsellino e fu ancora lui anni dopo, da Procuratore Generale di Caltanissetta, ad occuparsi della revisione del processo per coloro che erano stati condannati ingiustamente per la strage di via d’Amelio.
E sempre guardando le indagini sulle stragi fu proprio lui a proseguire le indagini sul complesso progetto di destabilizzazione politica sotteso alle stragi del 1992/1993 e sui mandanti occulti, che la Procura di Palermo aprì nel 1996 con l’inchiesta “Sistemi Criminali”.
Un’indagine che nel tempo è confluita in importanti processi come quello calabrese sulla ‘Ndrangheta stragista, a Palermo sul Processo trattativa Stato-mafia, e ancora viene ripresa proprio dalle indicazioni del Gip Luparello alla Procura nissena.
Non solo.
Nel 2012 Scarpinato, in occasione delle commemorazioni, scrisse una lettera a Paolo Borsellino in cui si diceva: “Caro Paolo stringe il cuore a vedere talora tra le prime file, nei posti riservati alle autorità, anche personaggi la cui condotta di vita sembra essere la negazione stessa di quei valori di giustizia e di legalità per i quali tu ti sei fatto uccidere; personaggi dal passato e dal presente equivoco le cui vite – per usare le tue parole – emanano quel puzzo del compromesso morale che tu tanto aborrivi e che si contrappone al fresco profumo della libertà”.

Parole ineccepibili, prive di alcun cenno offensivo o infamante, nella piena libertà di espressione che rientra in una democrazia compiuta, che pure costarono l’apertura di un procedimento disciplinare da parte del Csm che fu pendente per diverso tempo.
Proprio in quel periodo espresse l’intenzione di presentare domanda per il posto di Procuratore Nazionale Antimafia e ci fu chi disse al giudice che non aveva alcuna speranza perché era un magistrato “troppo caratterizzato”. Inoltre un componente del Csm gli aveva detto testualmente che non era possibile nominare “una sorta di Che Guevara in un posto simile!”.
Alla fine quel Csm scelse Federico Cafiero de Raho e Scarpinato ritirò la candidatura dopo che la Commissione aveva già fatto intendere che avrebbe preferito l’allora procuratore di Reggio Calabria.
Trizzino è tornato poi a parlare del magistrato Nino Di Matteo omettendo, come già fatto durante la sua arringa, alcuni dettagli chiave sulla questione che riguarda il collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza.
“C’è bisogno di disinteresse di chi cerca questa verità – ha detto l’avvocato – La persistenza di conflitti di interesse ha una funzione manipolativa nella ricostruzione dei fatti. Quando ho letto che Nino  Di  Matteo non voleva concedere il programma di protezione a Gaspare Spatuzza (il pentito che ha svelato la verità sul falso collaboratore Scarantino e quindi il depistaggio, ndr), posso ipotizzare che Di  Matteo avendo legato la sua immagine professionale a Scarantino temesse effetti negativi? Lo posso avere questo dubbio o no? Io voglio dire che la verità collettiva la cerca chi, modestamente, non ha interessi in conflitto”.
Non è stato ricordato che nel 2010 proprio Di Matteo si espose in più sedi per difendere e promuovere il programma di protezione e l’attendibilità di Spatuzza, nel momento in cui la Commissione centrale del Viminale per la definizione e applicazione delle misure speciali di protezione, allora presieduta da Alfredo Mantovano, non stava ammettendo Spatuzza nel programma di protezione definitivo.
Negli ultimi anni è sempre più evidente lo scatenarsi di una guerra sotterranea e sibillina. Spiace vedere che tra chi prende parte a questo stillicidio vi sono anche familiari del giudice come Fiammetta Borsellino ed il suo rappresentante legale, il cognato Fabio Trizzino, che si prestano a questo gioco al massacro attaccando anche con temi personali e familiari.
Ci riferiamo alle considerazioni inserite nelle dichiarazioni messe a verbale dalla signora Fiammetta Borsellino davanti alla Procura di Messina, nell’ambito delle indagini contro i magistrati Anna Maria Palma e Carmelo Petralia(entrambi archiviati dal Gip dall’accusa di calunnia aggravata dall’aver favorito Cosa nostra).

Un verbale in cui il dito viene puntato, con supposizioni ed illazioni, contro il magistrato Nino Di Matteo che non era oggetto di quell’indagine e che non è mai stato indagato per il depistaggio.
In quel verbale, che alcune testate hanno riportato in passato, si parla di rapporti personali ed amicizia fraterna tra lo stesso Di Matteo e la famiglia Borsellino, nonché dei motivi per cui si sarebbe poi giunti alla rottura.
Come abbiamo già detto in altra occasione, si tratta di una versione a senso unico che in maniera ingenerosa è stata data in pasto al pubblico senza alcuna possibilità di replica, sul punto, da parte dello stesso Di Matteo. 
E ci desta molta perplessità la scelta del Procuratore capo Maurizio De Lucianel permettere così tanto spazio su illazioni che non riguardano gli indagati.
Viste le ripetute considerazioni dell’avvocato Trizzino sul magistrato Nino Di Matteo è evidente che lo stesso non voglia in alcun modo tenere in considerazione le valutazioni dal Presidente del Tribunale di Palermo, Antonio Balsamo (che fu Presidente della Corte d’assise al Borsellino quater) nella recente pubblicazione “Mafia. Fare memoria per combatterla” edito da “Piccola biblioteca per un paese normale – Vita e pensiero”. Parole che non fanno sollevare alcun dubbio sulla levatura morale e professionale del consigliere togato del Csm: “Nino Di Matteo è uno dei magistrati che hanno indossato la toga per la prima volta in una notte, quella del 24 maggio 1992, quando lui e gli altri giovani uditori giudiziari in tirocinio al Tribunale di Palermo (tra cui l’autore di questo libro) sono stati chiamati a fare il picchetto davanti ai corpi straziati di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Antonio Montinaro, Rocco Dicillo, Vito Schifani, uccisi il giorno prima nella strage di Capaci. In quella notte, erano tanti i sentimenti che si agitavano nell’animo di quel gruppo di uditori: dolore, rabbia, ma anche voglia di riscatto per la propria terra, e orgoglio di far parte di una magistratura che aveva tra le proprie fila degli autentici eroi civili, capaci di dare la loro vita per lo Stato. Sono i sentimenti che hanno accompagnato in ogni giorno del suo percorso professionale Nino Di Matteo, che ha dedicato tutta la sua vita alla lotta alla mafia, prima alla Procura di Caltanissetta, poi a quella di Palermo, quindi alla Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo. Un impegno coraggioso che è continuato anche quando è stato eletto al CSM nel periodo più difficile della storia dell’autogoverno della magistratura”.
Tornando alla guerra sotterranea che si sta muovendo, a trent’anni dalle stragi dello Stato-mafia, si scorgono le solite “menti raffinatissime” che volutamente non vogliono la verità sui mandanti esterni delle stragi.
Tra i registi di questa metodologia di stillicidio continuo si alternano politici, giornalisti, avvocati difensori di stragisti sanguinari ed avvocati difensori di uomini oscuri, appartenenti ad apparati deviati dello Stato (forze dell’ordine, servizi segreti, Gladio) che hanno l’obiettivo fisso di allontanare dalla verità quell’opinione pubblica stanca di misteri e segreti.
Un’opinione pubblica che, possiamo capirlo, crede ed ha stima nel buon nome dei Borsellino, ma che ingenuamente non si accorge del trucco generato per distrarli usando proprio i Trizzino di turno.
La verità sulle stragi di Stato dei primi anni Novanta sono come i fili dell’alta tensione ed i clienti di certi avvocati (gli stragisti e gli apparati) non vogliono che venga fatta luce sui misteri. Non vogliono perché altrimenti si troverebbero messi con le spalle al muro di fronte ad una scelta: collaborare con la giustizia o essere uccisi in carcere per evitare qualsiasi propalazione sul tema.
La storia insegna e sul punto basta osservare i casi dei decessi di Nino Gioè(morto in carcere) e di Luigi Ilardo (ucciso prima di diventare collaboratore di giustizia). Come disse Scarpinato al convegno di luglio dello scorso anno“sono state un atto di intimidazione, una lectio magistralis per cucire le bocche” a chi, potrebbe pensare di parlare di certi temi delicati agli inquirenti. Personaggi come “Biondino, Bagarella, Graviano e Madonia, che stanno in carcere, sanno che c’è un potere capace di entrare nelle carceri e ucciderli. Sanno che se hanno dei figli un pirata della strada potrebbe investirli”.
Ecco cosa si cela dietro il “depistaggio più grave della storia d’Italia”, come è stato definito dai giudici del processo Borsellino quater il depistaggio sulla strage di via d’Amelio.
Un depistaggio che vide l’impegno di apparati deviati, poliziotti, 007, e non certamente quello di due magistrati come Roberto Scarpinato e Nino Di Matteo che con le loro indagini hanno sempre cercato di svelare il volto coperto dei mandanti di quella stagione di delitti e terrore.
A trent’anni dalle stragi le evidenze su mandanti e concorrenti esterni nelle stragi sono emerse con sempre più forza e delegittimare magistrati come Di Matteo e Scarpinato (che assieme a pochi altri pm “ostinati” come Giuseppe Lombardo, Nicola GratteriLuca Tescaroli ecc… credono sia ancora possibile infrangere questo velo di Maya) diventa l’obiettivo primario per impedire che certe verità celate possano essere riportate alla luce.


Replica dell’AVVOCATO FABIO TRIZZINO
 
Di fronte all’ennesimo attacco alla mia dignità di persona e di Avvocato da parte di Antimafia 2000 non posso che reagire in un unico modo: raddoppiare gli sforzi per essere da stimolo alla collettività e a chi, tra mille difficoltà, dovrà per dovere funzionale cercare di riparare agli enormi danni prodotti da chi concepisce la propria funzione in termini distorti.
Rimane sullo sfondo una considerazione alquanto eloquente: se da Sciascia, Bocca, Panza, D’Avanzo siamo arrivati a Bongiovanni vorra’ dire che il nemico da combattere non è poi così terribile e tremendo. Grazie al sacrificio di quanti hanno da soli combattuto, in tempi terribili, la mafia.
 

LE REAZIONI 

Maria AngioniQuesto articolo tende a mettere in contrapposizione fra loro diverse persone che cercano, ognuna a modo suo, la verità, secondo il vetusto cliché del questi sono santi, questo è buono, se quello dice cose diverse è cattivo. Io avrei scritto con un altro stile, avrei scritto: i conti non tornano, c’è qualcosa di poco credibile nelle ricostruzioni che abbiamo letto sinora, bravi tutti coloro che non si arrendono e che continuano a fiutare e a scavare, ognuno nella sua direzione, perché non c’è ipse dixit che tenga, né chi scava a destra può danneggiare chi scava a sinistra, poi qualcuno troverà quello che deve trovare, e gli altri, se cercavano la verità, saranno contenti comunque.

Gabriella Tassone  Mi è stato inviato in messaggistica l’ articolo, chiamiamolo così, di antimafia 2000 dal titolo
“Via d’Amelio: insinuazioni e mistificazioni di Trizzino anche contro Scarpinato”
Ad un certo punto in questo articolo si legge;
“Quando si parla di mafia-appalti, come possibile spiegazione dell’accelerazione della strage di via d’Amelio, vi sono elementi documentali che non possono non essere considerati e che allontanano da tale ipotesi: l’esistenza di una doppia informativa.
Per ricostruire i passaggi può essere utile riprendere la relazione redatta dall’allora Procuratore di Palermo Gian Carlo Caselli, datata 5 giugno ’98, dal titolo alquanto esplicito: “Relazione sulle modalità di svolgimento delle indagini-mafia-appalti negli anni 1989 e seguenti”. Una relazione in cui compaiono diverse anomalie.”
Fermiamoci qui.
Adesso vi posto dei pezzi di deposizione di Ingroia all’Ars( Ingroia era all’ufficio del pm ai tempi delle indagini trattativa.) e di Teresi al quater ( anche Teresi era nell’ufficio del pm durante le indagini e processo trattativa primo grado)
Vediamo cosa dice Ingroia all’Ars riguardo quella che sarebbe ” la doppia informativa ” e la relazione del dr Caselli cui accenna il tizio nell’ articolo.

“FAVA, presidente della Commissione. E perché non gli fu detto, secondo lei, dai titolari dell’indagine, in quella riunione del 14 luglio, che era già stata scritta la richiesta di archiviazione?
INGROIA, già magistrato. Perché? Perché, evidentemente, non c’era un rapporto di reciproca fiducia. La riunione era – non ricordo chi partecipò esattamente – ma era prevalentemente, i titolari di quel procedimento erano, la stragrande maggioranza, tutti delfini di Giammanco e quindi Borsellino doveva stare alla larga da quel tipo di indagine, che riguardava politica, mafia, appalti, è’ evidente.
Io ricordo – non ricordo in che data siamo – di avere colto una battuta che Paolo fece a uno dei fedelissimi di Giammanco del tempo – non ricordo se era al dottore Pignatore o al dottore Lo Forte, comunque a uno dei due – disse: “voi non mi raccontate tutta la vera storia sul rapporto dei ROS” e aveva ragione. Forse aveva avuto qualche sentore dai Carabinieri? Non ne ho idea. Lui aveva un rapporto molto buono, diciamo, con i Carabinieri, con il capitano De Donno in particolare.
FAVA, presidente della Commissione. Nel ’99 c’è poi una relazione depositata dal Procuratore Caselli, con le firme di molti Magistrati, sempre su quest’archiviazione. In questa relazione si dice – perché c’era stato, lo ricordiamo come antefatto, il dottor Felice Lima, PM a Catania, che aveva ascoltato Li Pero o Li Pera, che era il contabile, l’uomo di De Eccher in Sicilia ed erano venuti fuori una serie di nomi e quindi ipotesi investigative – dice il rapporto: “Nessuna notizia, né formalmente né informalmente la Procura di Palermo aveva mai avuto dal dottor Lima, fino alla trasmissione degli atti, che avviene alla fine di ottobre del ’92” e aggiunge: “la Procura non ha potuto utilizzare questi elementi che riguardavano De Eccher e numerose altre persone. Elementi che ove comunicati alla Procura di Palermo avrebbero impedito l’archiviazione del procedimento nel luglio del ‘92”.
Noi abbiamo ascoltato anche il dottore Lima, il quale ci ha detto: “io ricevo dal ROS le carte di Palermo, le carte di Palermo e ai colleghi di Palermo non ho nascosto nulla, perché non avevo nulla che loro non avessero già. Sulla base di quelle stesse carte i colleghi di Palermo fecero l’archiviazione e io andai a cercare Li Pera per convincerlo a collaborare.”
Può provare ad aiutarci a capire questo passaggio? Perché è un passaggio importante, perché quando in questa relazione si dice “se noi avessimo saputo, non avremmo chiesto l’archiviazione” e il dottor Lima dice “sapevano, avevamo gli stessi elementi e le stesse carte”.
INGROIA, già magistrato. Il dottore Caselli non c’era e quindi evidentemente ha fornito quella relazione sulla base delle informazioni, informato dai Sostituti che ci stavano all’epoca e si occupavano di queste indagini, di cui io non mi occupai, quindi, me ne occupavo quando ero a Marsala, ma a Palermo io venni assegnato subito alla provincia di Trapani, quindi non me ne occupai in quel tempo, me ne occupai successivamente, quando mi occupai della collaborazione di Li Pera.
Come spiegarlo? Felice Lima so che aveva anche contatti diretti con Paolo Borsellino e che, quindi, di alcune cose lo aveva informato, ma in via riservata, Paolo Borsellino. Non credo che ci fossero – però non me la sento di affermarlo con certezza – che ci fossero elementi specialmente nuovi che furono sottoposti a Lima, però bisogna verificare la tempistica. Non sono in grado di dirlo.
FAVA, presidente della Commissione. Ho capito. Quindi, diciamo, quest’archiviazione si sarebbe anche potuta evitare con gli elementi che già esistevano.
INGROIA, già magistrato. Auspicabilmente.”
Adesso vediamo cosa disse il dr Teresi al quater, udienza del 23 aprile 2013 ” e qua per completezza credo di dovere precisare, una copia dell’informativa mafia – appalti, direi la copia completa, venne depositata nelle mani del Procuratore Giammanco personalmente, che fece le annotazioni di consegna e di presa in carico e, per quanto se ne sapeva in Procura, la mise nel suo armadio personale. All’interno… poi apprendemmo che all’interno di quella versione del rapporto mafia – appalti vi erano tutta la… vi era compendiata l’attività di intercettazioni che riguardavano imprenditori, la vicenda De Eccher, la vicenda Li Pera, etc., etc., e in particolare un capitolo molto corposo che riguardava intercettazioni che coinvolgevano molti uomini politici, molti personaggi politici, ricordo Mannino, ricordo il Presidente della Regione dell’epoca e altri;”’ Potrei continuare ma sono stanca..
Una cosa però vorrei chiedere al tizio che ha scritto l’ articolo e cioè farsi dare dalla procura di Palermo le note che portava il Ros nel 90/91/92. In particolare la nota di De Donno del 30 giugno 92, depositata all’ufficio intercettazioni della procura e indirizzata al dr Lo Forte.
La nota specificava che dal riascolto di alcune telefonate ( autorizzato il 29 maggio 92 dal dr Lo Forte) sull’ indagine Sirap erano emerse ” nuove risultanze investigative” e che ” i relativi verbali saranno, salvo diverso avviso della S.V. , inviati successivamente e contestualmente alla nota informativa concernente illecite attività nel campo degli appalti pubblici”
È possibile che Lo Forte non sia venuto a conoscenza di queste nota? Certo, tutto può essere.
Sta di fatto che il 13 luglio successivo fu firmata la richiesta di archiviazione.
La nota di De Donno, depositata il 30 giugno 92( pubblica da anni perché confluita in procedimento degli anni 90) non è stata acquisita al processo Mario Bo.


 
PIPPO GIORDANOLettera aperta a Giorgio Bongiovanni.

Caro Giorgio, in ragione della nostra conoscenza personale, mi permetto di scriverti questa mia lettera aperta. Ho letto il tuo articolo rivolto all’Avv. Fabio Trizzino e devo dirti che sono molto dispiaciuto per le accuse rivoltegli. Penso che il tuo dire sia andato un’anticchia oltre al “diritto di cronaca” e dunque non condivido alcuni passi del tuo articolo, soprattutto nell’attacco ad personam. Perchè di questo si tratta. Giova che io ti dica che non sono affatto l’Avv. dell’Avv. Fabio Trizzino, non ha bisogno di difensori. Epperò non posso fare a meno di non pensare, che egli sta cercando la verità peri figli di Paolo Borsellino, un grande Galantuomo Siciliano. Ed io come ben sai, ero legato da motivi di lavoro e d’affetto col dottor Paolo Borsellino. L’Avv. Trizzino, è bene ricordarlo ha tutto il diritto dalla normativa procedurale di esprimere liberamente il suo ruolo nella sede deputata, ovvero in dibattimento e non mi risulta che egli al di fuori del processo esprima argomentazioni oopinioni difensive.
Lo deve fare e lo fa nel processo e non come taluni che sciorinano teoremi, nel tempo risultati privi di elementi fattuali. Ogni Avvocato deve poterlo fare e poi caso mai le controparti possono disquisire sul ragionamento difensivo. Ma, la reprimenda così virulenta nei confronti di un legale – nel caso di specie verso Fabio Trizzino – che esercita il proprio ruolo in ragione dello Stato di diritto, la trovo semplicemente assurda e non condivisibile. Non rimarco di proposito una dichiarazione a margine del tuo articolo, caro Giorgio, laddove un intervistato esprime un parere a mio giudizio inappropriato.
Si poteva attaccare u parra picca! Concludo, caro Giorgio, che non sono entrato volutamente nei fatti del processo, ma semplicemente evidenziare il mio personale disappunto leggendo il tuo articolo.
Cordialmente, Pippo


Rosalba Di Gregorio Fabio, non avevo letto il nuovo “ attacco”… Concordo sulla bontà della tua reazione: raddoppiare lo sforzo e l’impegno Devo dire , però, che da avvocato da sempre indicata come “ co- regista “ di sibilline(??) manovre antiverità, mi sono scocciata  È innegabile che passare da Sciascia a Bongiovanni sia significativo, tristemente… ma ci sono considerazioni che la gente spesso non riesce a comprendere perchè, da anni , disinformata e schierata Essere da stimolo alla collettività, come dici giustamente tu, è opera assai difficile perchè da tempo ormai si procede con la squalificazione di qualunque persona che abbia l’ardire di non condividere il pensiero imposto , che voglia fare chiarezza , che si ponga e provi a porre un pensiero critico e una tesi non allineata Per anni si è lasciato correre tutto ciò , dicendo che ,se la fonte era uno che parla con gli ufo, non valeva la pena di farci caso . E , comunque, se il bersaglio  era un avvocato “ di mafia”, in fondo se l’era cercato per “ colpa” delle sue difese. Ora si è passati dal dire che ogni frase di un avvocato che ha assistito “ mafiosi” vale zero , al bacchettare il dott De Lucia che ha fatto parlare Fiammetta, all’attacco diretto ai Figli del dott Borsellino e al loro Avvocato. Ma non mi pare che siano gli ufo i suggeritori di questo crescendo di insulti E non mi piace che l’ing Borsellino si schieri pubblicamente contro i Figli del Fratello , perchè mai da parte Loro c’è stato alcun attacco allo zio. E mi fa pure una certa impressione che si stia a nominare Gioè per ricordare ai mafiosi detenuti che se hanno figli , potrebbe capitare un pirata della strada… in caso di pentimento! Qualcuno , fra quelli Autorevoli , dovrebbe spiegare a Bongiovanni che a fare certi discorsi non si rende un buon servigio alle persone che si vogliono “ difendere”.

 Rosalba 92 minuti di applausi. È chiaro che quanto da me scritto non significa che potranno o peggio dovranno abusare della mia pazienza.
Io non ho mai fatto valere il fatto di essere entrato con estrema delicatezza in seno alla famiglia del Giudice Borsellino.
Ho fatto riferimento alla mia dignità di persona e di Avvocato. Non di parente acquisito. Non è mai stato un mio problema come tu ben sai.
Sono un uomo libero e per certi versi anarchico. Pronto a recedere di fronte alla bontà delle argomentazioni altrui.
Non ho bisogno di sventolare alcuna parentela. Altri probabilmente hanno bisogno di accreditarsi così. Ma non è un mio problema.
Solo il desiderio di essere utile per una storia che riguarda tutti e che va fatta conoscere in ogni suo aspetto.
Eppoi come te sono stanco di attacchi agli avvocati.
Gli Avvocati hanno svolto un ruolo essenziale nella crescita di questa Nazione. E andrebbero coinvolti sempre di più e giammai considerati come figli di un Dio minore. FABIO TRIZZINO

Basilio Milio Concordo in tutto…unica pecca l’eccesso di diplomazia… io avrei scritto la guerra è guerra e non si fanno prigionieri  Un abbraccio di solidarietà

Massimo Martini Bravo Fabio 

Nicoletta Genova Bravo Avvocato! Non solo articoli ma anche seguaci. Avanti sempre  il dott Borsellino sarà molto orgoglioso di lei.

Vincenzo Zurlo Concordo, una decadenza morale unica ed uno squallore indescrivibile

Antonio Lo Nardo
Essere attaccati da Antimafia Duemila è solo una medaglia

Nicoletta Genova
Non possiamo esprimerci come vorremmo, in questo paese ha più diritto alla parola un mafioso e famiglia e non la gente che si indigna. La famiglia Borsellino è piena di valori, di giustizia vera e non di pupiate. La famiglia Borsellino è composta da Fiammetta, Lucia e Manfredi. È vergognoso tutto ciò.

Maria Angioni Ho letto ora l’articolo di antimafia duemila, rivista cui da tempo contribuisco con piccole donazioni, la prima impressione che mi ha dato, è che tende a mettere in contrapposizione fra loro diverse persone che cercano, ognuna a modo suo, la verità, secondo il vetusto cliché del questi sono santi, questo è buono, se quello dice cose diverse è cattivo. Io avrei scritto con un altro stile, avrei scritto: i conti non tornano, c’è qualcosa di poco credibile nelle ricostruzioni che abbiamo letto sinora, bravi tutti coloro che non si arrendono e che continuano a fiutare e a scavare, ognuno nella sua direzione, perché non c’è ipse dixit che tenga, né chi scava a destra può danneggiare chi scava a sinistra, poi qualcuno troverà quello che deve trovare, e gli altri, se cercavano la verità, saranno contenti comunque

Maria Grazia Trizzino Avanti tutta fratello ! A indignarsi e lottare per la Verità e la Giustizia ormai sono rimaste solo le persone per bene

Luigi Dardanoni Vai Fabio, sei un grande!

Daniela Di Fiore Vai avanti Fabio, hai dignità da vendere!

Linda Micò “L’offesa è l’arma della mediocrità e non è mai una scelta intelligente” (Emanuele Marcuccio) Un forte abbraccio e sempre al vostro fianco 

Vittorio Iuppa Grande Fabio! Avanti così, che sei forte!

Pippo Giordano Sono onorato dell’amicizia dell’Avv. Fabio Trizzino e condivido appieno senza se e senza il suo intervento a Caltanissetta. Sono vicino ai figli del dottor Paolo Borsellino. Un abbraccio affettuoso.

Nicoletta Genova Oggi 30 anni! La trattativa stato mafia? No, secondo me la trattativa dentro il palazzo di giustizia, dentro il palazzo dei veleni… (mio parere) Pretendiamo la verità.

Irene Marcellino Attaccando te si dequalificano da soli. Un terribile, tristissimo autogol ! Vai avanti Fabio sei un esempio per tutti noi Onore a te !

Pippo Giordano Ho letto una cosa che mi ha fatto arrizari i carni e ho fatto un post…..matrimia che obbrobrio

Massimiliano Oliveri Bravissimo

Gabriella Tassone Ciao Fabio, stasera ho avuto modo di leggere una specie di articolo scritto da uno su antimafia 2000. Dopo 7 righe ho smesso. Troppo disgusto. Per quanto può valere sai che io e Mimmo ci siamo. Un abbraccio forte 

Gian Joseph Morici  Quello da parte di Antimafia 2000 non può essere visto come un attacco ma come una medaglia da appuntarsi sul petto… Pensino invece a vergognarsi quanti hanno contribuito con i loro scritti o con la loro attività di “antimafiosi” a far sì che un sistema marcio, costruito sull’apporto di falsi pentiti da loro sempre osannati, impedisse per trent’anni che si arrivasse a conoscere la verità…

Gian Joseph Morici qualcuno si è fatto pure le foto insieme…..  

Nicoletta Genova Purtroppo sì… e se fino a poco tempo fa potevo pensare a possibili errori di valutazione, la difesa a spada tratta di questo “sistema”, anche a costo di andare contro i

Vincenzo Ceruso Da Sciascia a Bongiovanni… Sintesi spietata e veritiera su questi tempi.

Sandra Figliuolo “Dieu préserve ceux qu’il chérit des lectures inutiles”

Ely Kyle Chio Avvocato, lei ha tutta la mia stima e la mia solidarietà. Purtroppo alcuni non comprendono o non voglio farlo che la mafiositá si annida in tanti atteggiamenti e che questo è ancor più grave, poiché espande a macchia d’olio il problema delle mafie che stanno mutando in parvenza “legale”. Un abbraccio.

Donatella Di Maio Lauricella “Antimafia Duemila” già il nome la dice lunga

Gianfranco Criscenti Caro Fabio, rinnovo la mia totale, incondizionata, vicinanza.

Paolo Sammarco Tinaglia I falsi profeti e paladini dell’antimafia fanno coppia con la scomparsa degli alti valori della vita. Tante volte è la faccia oscura dell’antimafia, la parte che insinua sospetti e che inquina, alla fine , il grande lavoro svolto per il trionfo della legalità.
Così si disperde quella lotta che è fatta di passione e onestà, oggi vestirsi di antimafia oggi spesso diventa un modo per ripulire la propria immagine.
A te Fabio tutta la mia stima.


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