L’ultimo dei Corleonesi a piede libero era stato arrestato il 16 gennaio 2023 dopo trent’anni di latitanza. Non ha collaborato con gli inquirenti fino alla fine. «Io non mi pentirò mai»
Alla fine hanno vinto le sue radici. Matteo Messina Denaro è morto stanotte, 25 settembre, all’ospedale de L’Aquila, dove era ricoverato mentre scontava l’ergastolo al 41 bis nel carcere de Le Costarelle.
Il boss di Cosa Nostra era affetto da un tumore al colon. L’ultimo dei Corleonesi a piede libero era stato arrestato il 16 gennaio 2023 a Palermo davanti alla clinica La Maddalena, dove si stava sottoponendo a chemioterapia.
Esattamente trent’anni e un giorno prima nella stessa città era stato catturato Totò Riina. L’arresto del Capo dei Capi chiudeva un’epoca della mafia: quella della sfida allo Stato con le stragi di Chinnici, Falcone e Borsellino. Venerdì 19 settembre era stato dichiarato in coma irreversibile.
I medici, sulla base delle indicazioni date dal paziente, che nel testamento biologico ha rifiutato espressamente l’accanimento terapeutico, nei giorni scorsi gli hanno interrotto l’alimentazione.
Il generale che catturò Messina Denaro: «Latitanze grazie alle collusioni, anche noi carabinieri abbiamo bisogno di anticorpi»
«Come hanno fatto Bernardo Provenzano e Matteo Messina Denaro a fare 20 anni di latitanza? Con la collusione e anche noi come carabinieri abbiamo bisogno di anticorpi». Lo ha detto Pasquale Angelosanto, comandante del Ros dei carabinieri, nella conferenza Sicurezza e Salute in corso nell’Aula Magna Agazio Menniti del San Camillo Forlanini, a Roma.
Al centro del dibattito la stretta collaborazione tra le informazioni messe a disposizione dal sistema informatico sanitario nazionale e le indagini condotte dal Ros che hanno portato alla cattura del boss di Castelvetrano Matteo Messina Denaro. «La sanità – aggiunto Angelosanto – è uno dei problemi di questo complesso fenomeno dei rapporti tra le mafie e la pubblica amministrazione». Angelosanto, ha poi ricordato l’episodio di un uomo di Provenzano che gestiva «un plesso di strutture sanitarie ed è stato condannato in via definitiva a 15 anni di carcere. Lui otteneva informazioni da un maresciallo dei carabinieri in servizio al Ros corrotto con soldi e per assunzioni di parenti – ha raccontato – . Inoltre, tra le persone assunte da questa clinica, c’erano anche due fratelli dell’amante di Matteo Messina Denaro». GDS 18.10.2023
13 e 16 febbraio 2023 – Interrogatori
La sentenza MESSINA DENARO
- CHI ERA
- Dalla LATITANZA all’ARRESTO
- La CATTURA
- Al 41 BIS
- L’INDAGINE
- LE PRIME INDAGINI DI BORSELLINO SUL CLAN DENARO
- GLI INTERROGATORI
- LE PRIME MEZZE AMMISSIONI
- L’AVVOCATO D’UFFICIO MINACCIATO PERCHÉ NON VUOLE FARLO
- I COVI
- L’ENTRATA e l’USCITA dalla CLINICA – video CARABINIERI
- MESSINA DENARO, la clinica la malattia, le cure.
- I FIANCHEGGIATORI
- I PIZZINI
- La CASSA
- L’AUTO PERMUTATA
- Le CONFISCHE
- La QUOTIDIANITÀ
- La sorella ROSALIA e la CASSA del BOSS
- L’AVVOCATA NIPOTE
- La FIGLIA LORENZA
- Le DONNE del BOSS
- I COMPAGNI DI POKER
- La PISTA SVIZZERA
- I VIAGGI ALL’ESTERO
- TESTIMONIANZE
- L’OPINIONE DI…
- STAMPA ESTERA
- Il PROCESSO d’APPELLO in corso per le STRAGI di CAPACI e VIA D’AMELIO
- REALTA’ E FICTION
- RINO GERMANÀ: “IL MIO FACCIA A FACCIA CON MESSINA DENARO”
- MATTEO VA ALLA GUERRA – dal LIBRO
1.10.2023 «GLI ULTIMI VELENI DI MESSINA DENARO: “SULLA STRAGE DI CAPACI NON SAPETE ANCORA TUTTO”.
Tutti i misteri di Messina Denaro – e i segreti che restano, dopo la sua morte: da Borsellino all’attentato a Costanzo
Il fatto di essere l’ultimo latitante della stagione stragista di Cosa nostra, rimasto in circolazione fino a otto mesi fa, aveva trasformato Matteo Messina Denaro in un forziere di segreti. Destinati a restare tali anche ora che è morto, dopo essere stati una dei punti di forza del suo potere. Autentico o virtuale che fosse. Un forziere che poteva aprire solo lui, cosa che s’è ben guardato dal fare quando s’è trovato faccia a faccia con i magistrati inquirenti dopo la sua cattura. «Io non mi farò mai pentito», ha subito avvisato il pm nel primo interrogatorio. E quel «se ho qualcosa non lo dico, sarebbe da stupidi» pronunciato davanti al giudice a proposito dei beni patrimoniali posseduti, si poteva tranquillamente estendere ai retroscena delle trame mafiose di cui è stato protagonista. Comprese quelle che hanno insanguinato, inquinato e persino deviato la storia del Paese.
Messina Denaro “Non so niente della Strage di Firenze, io ho una coscienza”
Le dichiarazioni messe a verbale da Matteo Messina Denaro, davanti ai giudici che lo interrogano il 16 febbraio scorso, lo vedono negare di aver mai conosciuto i boss Corleonesi. Il boss castelvetranese, morto lo scorso 25 settembre, nega di aver fatto parte del gruppo di uomini inviati da Riina a Roma con l’obiettivo di uccidere Giovanni Falcone, nega di aver partecipato all’organizzazione della strage di Firenze del ’93 e di tanto altro.
Rispondendo alle domande del giudice Alfredo Montalto e dei pubblici ministeri Giovanni Antoci e Gianluca De Leo, Messina Denaro ha continuato a dire la “sua verità” (qui potete leggere la prima parte) a depistare, a prendere le distanze da certi boss, denigrandoli, quasi rivendicando una sua “integrità morale”.
“A Roma andavo una volta a settimana” – Dopo aver detto di non conoscere Riina, Bagarella e i fratelli Graviano: “Non conosco nessuno di questi”. Spiega così perché si trovava a Roma che considerava in quel periodo la sua seconda casa, dove aveva anche una barca ad Ostia, ecco cosa risponde ai giudici: “Io a Roma ci andavo sempre. Ci andavo spesso, una volta a settimana, due volte a settimana perché avevo anche una mia parte di vita lì… avevo pure una barca a Ostia che non è stata mai individuata che poi io ho alienato, dopo che mi è successo tutto questo e quindi ci andavo anche per questo perché la barca non era intestata a me io me ne andavo in auto e poi ritornavo in auto”.
“Non conosco Brusca, io cerco il dialogo” – In realtà Messina Denaro a Roma andò anche a ispezionare il Teatro Parioli, prima dell’attentato a Maurizio Costanzo: “Non mi interessano queste cose. Non sono creduto ovviamente ma io dico la mia verità”. Il giudice lo ha incalzato e lui ha risposto: “Non conosco il signor Brusca, mi accusa di tante cose. Infatti ho sempre cercato un dialogo con qualcuno dello Stato, nel senso come stiamo facendo ora noi, non faccio cose segrete, per poter chiarire la mia posizione”. E poi continua “Presidente mi scusi mi sono espresso male. Quando ho detto cercavo un qualcuno con cui io potevo discutere questo fatto intendevo quando sarei stato catturato come poi è successo. Nel caso in cui io fossi stato catturato speravo che mi dessero la possibilità di poter difendermi di sto fatto di questo bambino sciolto da me nell’acido”. L’ennesima farsa.
Il piccolo Giuseppe Di Matteo – “Brusca dice che ad un tratto, non so in quale data e non so in quale posto ha detto, ma non era Palermo, dice che si è incontrato lui, io, Graviano Giuseppe e Bagarella e dice che abbiamo deciso del sequestro del piccolo Di Matteo con la finalità di far ritrattare il padre – ha proseguito -. Allora la prima cosa che io mi pongo come domanda a me stesso che cosa c’entro io di Castelvetrano di un’altra provincia a discutere delle cose di San Giuseppe Jato questo non l’ho mai capito”.
Così invece parla del giudice Falcone – “Il giudice Falcone ebbe l’intelligenza e anche il metodo di creare il teorema Buscetta e lo seguiva, ad un tratto dopo tutto quello che è successo nell’arco degli anni il teorema Buscetta lo dimenticarono come se non fosse mai esistito, ma lo fece Falcone e hanno mischiato, da noi si dice, le pietre con le uova, ma le pietre con le uova poi si rompono”.
“Brusca disonesto e mascalzone” – Così Messina Denaro parla di Brusca riguardo all’omicidio del piccolo Di Matteo – “Il bambino da quello che dice (Brusca) lo ha ucciso per vendetta, alla fine è stato un disonesto pure in questo… visto che non c’era più speranza che il padre ritrattasse… su un bambino, mascalzone che non sei altro. Capisco che se avesse trovato il Santo Di Matteo lo uccideva, ma che c’entra sto bambino dato che lo scopo non poteva mai più accadere quello che lui si era prefissato… lui dice che in quell’occasione si decise il sequestro io invece sono stato condannato per l’omicidio e ho preso l’ergastolo”.
“Non so niente sulla strage di Firenze” – “Parlando di Firenze, a prescindere che io non so niente di Firenze poi quello che dicono i collaboratori di legge se la vedono loro, io non so niente anche perché riscontri oggettivi non ce ne sono”. E ha continuato a negare il suo coinvolgimento: “Firenze qualora fosse vero, ma sulla mia persona non è vero, non è che si volevano uccidere persone anche perché ci sono collaboratori di legge che dicono che la finalità non era uccidere delle persone solo che il problema è stato, secondo me, che sono andati con la ruspa. Cioè hanno ucciso la mosca con cannonate perché si sa che se si mettono bombe possono cadere degli innocenti ma la finalità di come dicono alcuni non era uccidere alle persone era prendersela con i beni dello Stato”. (Qui potete leggere Matteo Messina Denaro e le stragi)
“Con me non sarebbe morto nessuno. Io ho una coscienza “- Così nelle sue dichiarazioni ai giudici Messina Denaro muove le critiche a chi ha organizzato l’attentato: “C’è da vedere a chi mandano a fare una cosa del genere, cioè che testa hanno, che intelligenza hanno, perché mettiamo caso che io andavo a Firenze a mettere questa bomba, giusto con le stesse finalità, non sarebbe morto nessuno perché io una bomba là non la mettevo, perché ho una coscienza, mi spiego… non è stato un errore, è stato menefreghismo che è peggio perché l’errore può essere perdonato”.
“Ho avuto solo un padre Francesco Messina Denaro”, così nega Riina – Sul fatto che fosse stato affidato da don Ciccio Messina Denaro, a Totò Riina come un secondo padre, ha detto: “Mio padre si chiamava Francesco Messina Denaro e ho avuto solo un padre, mi sarei schifato di lui se mi avesse assegnato a qualche altro a me mi ha cresciuto mio padre e mia madre ne sono orgoglioso. Altri padri non ne ho avuti”.
“Riina diceva cretinate per la demenza senile” – Sulle accuse di Riina di pensare solo a fare soldi con le le pale eoliche il boss ha detto: “Si deve tenere presente che il signor Riina diceva un sacco di cretinate (per colpa della demenza senile) – ha messo a verbale il capomafia di Castelvetrano un mese dopo l’arresto -, se Riina avesse conosciuto me avrebbe avuto rispetto di me perché io non sono stato mai una persona sguaiata, non ho mai avuto questi modi di linguaggio solo che Riina secondo me non c’era più”. TP24
Il pm Sabella e Matteo Messina Denaro: «Non è vero che si è fatto prendere e il suo erede non esiste
Il magistrato Alfonso Sabella è oggi giudice al tribunale di Napoli. Ma è stato sostituto procuratore nell’Antimafia di Palermo e durante le sue indagini ha arrestato Giovanni Brusca, Pietro Aglieri e Leoluca Bagarella. E in un’intervista a La Stampa dice che con Matteo Messina Denaro oggi muore «uno dei tre soggetti in grado di rivelare a questo paese la verità sulle stragi di Capaci e via d’Amelio e su quelle di Firenze, Milano e Roma». Ma non muore un Capo dei Capi, visto che da questo punto di vista «è stato un po’ mitizzato. Peraltro è stata una sua scelta non diventare il numero uno dei Corleonesi». Perché dopo l’arresto di Bagarella ha lasciato il testimone a Giovanni Brusca. E si è «rintanato nel suo territorio a Trapani dove si sentiva realmente protetto. Oltre a stringere un patto di non belligeranza con Bernardo Provenzano».
La strategia di Mmd
Secondo Sabella Messina Denaro «ha capito subito che l’attacco frontale al cuore dello Stato andava abbandonato. E che sarebbe stato meglio lucrare sul potere criminale che aveva acquisito per guadagnarci». Anche se con questa scelta «ha impedito ai suoi luogotenenti di crescere». Quanto al fatto che ‘U Siccu si sia “consegnato” il giorno dell’arresto alla clinica Maddalena di Palermo, Sabella è chiarissimo: «Sono cazzate. Non mi vergogno a dirlo. Nella storia di Cosa nostra mi sono capitati pochissimi che si siano fatti trovare. Tendenzialmente erano coloro che sapevano che Cosa nostra li avrebbe ammazzati. E non sono certo quelli, come lui, che venendo arrestati consegnano di fatto allo Stato la rete di più stretta di chi lo ha protetto: la sua famiglia per capirci».
«Non lo volevano prendere»
Così come non è vero che non lo volevano prendere i magistrati: «Fino al 1994 lo hanno cercato in pochi. L’unico che aveva dato anima e corpo era il capo della Mobile di Trapani». Ovvero Francesco Misiti, che aveva stilato un rapporto sui mafiosi della zona in cui nominava sia lui che il padre. Insieme a lui c’era Rino Germanà, che Messina Denaro ha tentato di uccidere in un agguato. «C’è da dire che essendo giovane si muoveva molto e che quando si è iniziato a braccarlo con insistenza aveva già fatto l’operazione di sommersione di cui ho detto prima». Mentre la “sua” Cosa Nostra «era già boccheggiante da prima. Ha saccheggiato la Sicilia fin troppo per quello che poteva prendere. E poi è fuori dal business più remunerativo: il narcotraffico internazionale».
L’erede
E l’erede del superboss? Nel colloquio con Giuseppe Legato Sabella è caustico: «Al momento credo che nessuno possa replicare il suo livello criminale. Qualcuno nominalmente occuperà il suo posto, ma non a lui paragonabile. E poi l’asse centrale dell’organizzazione non è da tempo riconducibile al gruppo Corleonese». Perché «è di nuovo a Palermo». OPEN 26.9.2023
Matteo Messina Denaro è morto da irriducibile. Quali segreti e misteri si porta nella tomba il boss di Cosa Nostra
Alla fine hanno vinto le sue radici. Matteo Messina Denaro è morto stanotte, 25 settembre, all’ospedale de L’Aquila, dove era ricoverato mentre scontava l’ergastolo al 41 bis nel carcere de Le Costarelle. Il boss di Cosa Nostra era affetto da un tumore al colon. L’ultimo dei Corleonesi a piede libero era stato arrestato il 16 gennaio 2023 a Palermo davanti alla clinica La Maddalena, dove si stava sottoponendo a chemioterapia. Esattamente trent’anni e un giorno prima nella stessa città era stato catturato Totò Riina. L’arresto del Capo dei Capi chiudeva un’epoca della mafia: quella della sfida allo Stato con le stragi di Chinnici, Falcone e Borsellino. Venerdì 19 settembre era stato dichiarato in coma irreversibile. I medici, sulla base delle indicazioni date dal paziente, che nel testamento biologico ha rifiutato espressamente l’accanimento terapeutico, nei giorni scorsi gli hanno interrotto l’alimentazione.
La cattura di ‘U Siccu ha chiuso i conti con la banda dei Corleonesi e con la loro strategia residua: quella del terrorismo e dell’attacco al cuore delle istituzioni. Secondo alcune indiscrezioni Messina Denaro ha chiesto di non essere rianimato in caso di necessità. Negli otto mesi scarsi in cui è stato in carcere non ha mai voluto collaborare con i magistrati per fare luce sulla stagione delle stragi di mafia. Il padrino di Castelvetrano si è portato tutti i segreti con sé. Come aveva fatto suo padre, Don Ciccio, morto in latitanza e catturato «soltanto da morto», come disse la sua vedova nel giorno del suo funerale il 3 dicembre del 1998. E come hanno fatto gli irriducibili Corleonesi, da ‘U Curtu a Binnu ‘U Tratturi.
Con la morte del reo si chiude anche il processo per le stragi di Capaci e via D’Amelio. In primo grado e in appello Matteo Messina Denaro è stato condannato all’ergastolo come uno dei mandanti. Le motivazioni del primo grado si basano principalmente sulla partecipazione del figlio di Don Ciccio alla riunione a Castelvetrano in cui si delinea la decisione di uccidere Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Una riunione che il collaboratore di giustizia Nino Giuffré ha raccontato così: «È una riunione dove regna il silenzio più assoluto. Si era ormai coscienti che si andava a uno scontro totale che era l’inizio della fine di Cosa Nostra». Ma se qualcuno avesse qualche dubbio sulla complicità di Messina Denaro, può ascoltare quello che ha raccontato un altro pentito, ex grande amico di Matteo, ovvero Francesco Geraci, durante il processo.
«Una volta lui mi ha detto di non recarmi più a Palermo in autostrada. Io dissi che siamo tre fratelli che andiamo tutti i giorni a Palermo. E lui “Vabbeh per adesso non ci andare”. Io gli risposi “Impossibile. Noi per lavoro ci dobbiamo andare”. E allora lui si raccomandò: “Vabbeh, io ti dico esci a Partinico, Alcamo e fai la strada vecchia per andare a Palermo”. Quando c’è stata la strage mi ha detto “a”Adesso puoi andare a Palermo” e ha fatto un sorriso. Io ho capito tutto», testimonia Geraci. Il dettaglio è riportato anche nella terza puntata di “Radici”, il podcast di Open sulla storia di Matteo Messina Denaro.
Matteo Messina Denaro nasce a Castelvetrano il 26 aprile del 1962. È il secondo figlio maschio di Francesco Messina Denaro, ufficialmente campiere nei terreni della famiglia D’Alì, la proprietà più grande di tutta la Sicilia. In realtà capo di Cosa Nostra nel paese e poi in tutta la provincia per volere di Totò Riina. Don Ciccio è l’uomo di fiducia di ‘U Curtu a Trapani. E la Belva tiene anche suo figlio tra le ginocchia, quando le Famiglie si incontrano per gli auguri di Natale. ll padre gli insegna a sparare a 14 anni. Quando non ne ha compiuti nemmeno 18 si ritira da scuola. Perché nel frattempo ha vissuto il battesimo del fuoco per un mafioso: ha commesso il suo primo omicidio. Lo racconta un altro pentito, Giuseppe Ferro. Nell’occasione, ricorda, lui aveva paura ma c’era suo padre.
Quando i poliziotti e i giudici cominciano a dare la caccia al padre, Don Ciccio scompare. E al suo posto Matteo eredita il lavoro del padre nelle tenute dei D’Alì. L’azienda agricola gli paga i contributi, ma lui al lavoro non ci va mai o quasi. Per conto del padre e di Riina partecipa alle faide e comincia a scrivere il suo romanzo di formazione criminale all’interno di Cosa Nostra. Quando la Belva dichiara guerra allo Stato Matteo è uno dei suoi soldati più fedeli.
Insieme a Giuseppe Graviano all’inizio del 1992 è a Roma per progettare gli omicidi di Falcone, del ministro della Giustizia Claudio Martelli e dei giornalisti Maurizio Costanzo e Michele Santoro.
Quando torna a rapporto dal Capo dei Capi scopre che ha cambiato idea. Falcone e Borsellino moriranno in Sicilia. Riina finirà in arresto il 15 gennaio del 1993 al primo incrocio davanti alla sua villa in via Bernini a Palermo. La cattura getta Cosa Nostra nel panico.
Bernardo Provenzano, che è diventato il più autorevole dei Corleonesi in libertà, sostiene che la lotta allo Stato sia stata un errore. Giovanni Brusca è d’accordo.
Il cognato di Riina Bagarella, i Graviano e Messina Denaro vogliono continuare con le bombe. Alla fine la mediazione la trova Binnu: ok agli attentati ma fuori dal territorio della Sicilia. L’obiettivo è ancora quello di ‘U Curtu: fare la guerra per fare la pace. Ovvero costringere lo Stato a intavolare una trattativa.
In molti hanno messo in dubbio che questa fosse una strategia soltanto di Riina. Il professor Salvatore Lupo, che ha raccontato 160 anni di storia della mafia tra Sicilia e America, ha spiegato a Open che non bisogna considerare i ragionamenti fatti con il senno di poi. Ma è necessario invece guardare il tutto con una prospettiva storica: «Innanzitutto perché la gente sbaglia.
I fautori di complotti sbagliano perché i risultati sono imprevedibili partendo dal loro punto di vista. Ciò detto, da quindici anni Riina faceva così e gli andava bene. E allora perché ha fatto uccidere Dalla Chiesa, Mattarella, Chinnici?».
E ancora: «Noi non dobbiamo pensare che i soggetti siano mossi sempre da reazioni razionali. Quando Riina nelle intercettazioni in carcere dice “che bello il botto”, ragiona come un terrorista. Si eccita per il botto. Ma i terroristi esistono. (…) I terroristi esistono eccome. C’è chi ha spedito aerei contro il World Trade Center. Non pensava che avrebbero reagito? Certo, è andata così. Commisurare il senso di un’azione solo dagli effetti che razionalmente ne sono derivati è sbagliato. Tutti ragioniamo con l’idea del prima, non con l’idea del dopo
Gli obiettivi della strategia del terrore di Cosa Nostra nel 1993 li propone proprio ‘U Siccu. È lui che si presenta con dépliant e guide d’arte per scegliere dove colpire.
A Roma in via Fauro va in scena il piano suo e dei Graviano per uccidere Costanzo, ma con altri interpreti. L’attentato fallisce. Le stragi a Milano, Roma e Firenze fanno un totale di dieci morti, tra cui una bambina di pochi mesi. Ma nel 1994 fallisce l’attentato ai carabinieri allo stadio Olimpico. E con l’arresto dei fratelli Graviano a Milano finisce la strategia della tensione di Cosa Nostra.
Qualche giorno prima di finire in carcere Madre Natura incontra in un bar di via Veneto a Roma Gaspare Spatuzza. Gli confida che Cosa Nostra sta per abbandonare la strategia delle stragi. Perché hanno trovato un accordo politico per risolvere tutti i problemi. Lo hanno trovato con «quello di Canale 5», cioè Berlusconi. Tramite «un compaesano loro», ovvero Dell’Utri. Nel 2020 Graviano confermerà gli incontri con Berlusconi ma non la presenza di Dell’Utri. E specificherà che c’erano anche altre persone con loro.
Dal gennaio del 1994 Graviano è in carcere. Mentre Matteo Messina Denaro, parlando nei suoi pizzini di quelli che dirigono il paese, dirà che non vede uomini. Ma soltanto «molluschi, opportunisti che si piegano come fuscelli al vento».
Tra questi il peggiore è proprio il Capo. Definito come «un volgare venditore di fumo».
Da quel momento Matteo Messina Denaro diventa “L’invisibile” o “Il camaleonte”, come lo chiamano due libri che racconteranno le sue gesta. Gli inquirenti per dargli la caccia seguiranno i piccioli, come insegnava Falcone.
Negli anni sequestrano ai suoi prestanome beni per un controvalore di 4 miliardi di euro.
I rapporti investigativi seguiranno le sue tracce dalla Sicilia a New York, dagli hotel di Dubai fino alle coste della Tunisia. Si parla di investimenti per cinque milioni di euro in aziende di pollame in Venezuela e di partecipazioni a joint venture con la ‘Ndrangheta per i villaggi turistici della Tunisia.
Nell’ordinanza che ha portato in carcere i suoi fiancheggiatori a Mazara del Vallo però si scrive che il Boss ha passato gran parte dei suoi trent’anni di latitanza nel suo territorio. Protetto dalla rete paramafiosa che aveva ereditato e in parte contribuito a costruire.
Ma è la malattia che alla fine lo porta in carcere. Il professor Bruno Annibale, professore ordinario all’università La Sapienza e presidente della Società italiana di gastroenterologia ed endoscopia digestiva, ha spiegato a Open che il tumore al colon che ha colpito il boss era già ad uno stadio molto avanzato quando è stata scoperta. E che probabilmente se i medici fossero intervenuti prima avrebbe potuto vivere di più.
Per questo quando scopre di avere un cancro a uno stadio avanzato ‘U Siccu si rivolge alla sua rete di protezione amicale e massonica e alla sanità pubblica e non decide di andarsi a curare dall’altra parte del mondo.
Semplicemente non può farlo. Perché è ricchissimo, sì, ma gli investimenti si trovano in centinaia di canali che non è possibile liquidare così facilmente. A meno di non smantellare tutto il suo impero economico. E poi ha capito che gli resta poco tempo da vivere. Deve sistemare il suo tesoro, ovvero fare in modo che l’organizzazione abbia il suo. E badare all’eredità.
In carcere Matteo Messina Denaro ha avuto la possibilità di incontrare sua figlia. Lorenza Alagna è nata nel 1996 dalla relazione con Franca Alagna, quando il padre era già latitante. Durante quell’incontro il padrino ha espresso la volontà di darle il suo cognome, riconoscendola ufficialmente. I rapporti con lei sono sempre stati difficili, se non impossibile. Perché Lorenza ha avuto il coraggio di lasciare la casa natale del Padrino quando ha compiuto diciotto anni insieme alla madre. Oggi ha un compagno e un figlio. A lei papà Matteo ha riservatoparole struggenti nella corrispondenza con “Svetonio”: «Io non conosco mia figlia. Non l’ho mai vista. Il destino ha voluto così. Spero che la vita si prenda tutto da me per darlo a lei (…). Non conoscere i propri figli è contro natura».
Durante gli interrogatori in carcere Messina Denaro si è comportato come un irriducibile,negando anche l’evidenza. «Io non mi farò mai pentito. Io mi sento uomo d’onore ma non come mafioso, Cosa nostra la conosco dai giornali. Magari ci facevo affari e non sapevo che era Cosa nostra». E ancora: «La mia vita non è stata sedentaria, è stata una vita molto avventurosa, movimentata. Non voglio fare il superuomo e nemmeno l’arrogante, voi mi avete preso per la mia malattia».
Per spiegare la strategia dell’ultima parte della sua latitanza ha usato la metafora dell’albero nella Foresta: «Ora che ho la malattia e non posso stare più fuori e debbo ritornare qua…», si è detto dopo aver scoperto di avere il tumore. «Allora – ha raccontato – mi metto a fare una vita da albero piantato in mezzo alla foresta, allora se voi dovete arrestare tutte le persone che hanno avuto a che fare con me a Campobello, penso che dovete arrestare da due a tremila persone: di questo si tratta».
Ha voluto dire agli inquirenti di non aver dato l’ordine di uccidere il piccolo Giuseppe Di Matteo. Perché ci tiene a far sapere di aver rispettato il Codice d’Onore di Cosa Nostra sui bambini. E ha spiegato la sua ricchezza sostenendo che suo padre fosse un mercante d’arte e così avesse accumulato gran parte dei quattrini che ha ereditato.
Alla fine ha deciso di morire con tutti i suoi misteri. Ha deciso di rimanere prigioniero delle sue radici. Mentre Cosa Nostra cambia e si trasforma in una Cosa Grigia, l’Ultimo della banda dei Corleonesi ha scelto di portarsi nella tomba i suoi segreti. La mafia del passato muore con la sua eredità. La storia di quella del futuro si dovrà ancora scrivere. OPEN 25.9.2023
Questa è una storia che non riguarda solo il passato, perché nella lunga vicenda di Matteo Messina Denaro c’è un pezzo di storia del nostro Paese e perché la mafia non è ancora finita.
«Non è un giallo, si diceva, ma ci somiglia. Innanzitutto per lo stile e per la costruzione, perché De Lucia e Palazzolo riescono a dar vita a un intreccio fatto di successi, delusioni, depistaggi che tiene ben stretti alla pagina e rende la lettura vivace e, anzi, vorace.» – Alessandro Tacchino per Maremosso Un racconto in presa diretta della cattura di Matteo Messina Denaro e un’indagine profonda nei segreti della mafia di ieri e di oggi. “L’abbiamo preso!” urla al telefono il colonnello dei carabinieri. Sono le 9.12 del 16 gennaio 2023 e con quella telefonata la storia d’Italia cambia per sempre. A Palermo è stato arrestato, dopo trent’anni di latitanza, l’ultimo mafioso stragista ancora in libertà, il criminale più ricercato al mondo: Matteo Messina Denaro. Pupillo di Salvatore Riina, è il padrino che ha cambiato il volto della mafia dopo la stagione delle bombe, il boss che dalla strategia stragista ha proiettato l’organizzazione verso affari sempre più lucrosi. Nel suo covo di Campobello di Mazara ci sono quasi mille pizzini, la fotografia più aggiornata della mafia oggi. A raccontare l’ossessione di trent’anni e i retroscena della cattura è il procuratore di Palermo, Maurizio de Lucia, che firma un intenso racconto con l’inviato di “Repubblica” Salvo Palazzolo. Un libro che ripercorre i segreti più profondi della primula rossa di Cosa nostra, dalle stragi del 1992-1993 alle complicità eccellenti, e che si arricchisce a ogni pagina di colpi di scena: la lunga indagine che ha portato alla cattura di Messina Denaro è stata costellata da imprevisti e dall’ombra di misteriose talpe ancora senza nome. Questo racconto ha come protagonisti gli uomini dello Stato, magistrati e carabinieri, ed è fondamentale per decifrare le trasformazioni di un fenomeno criminale che continua a infiltrarsi nella società e nei palazzi. Questa è una storia che non riguarda solo il passato, perché nella lunga vicenda di Matteo Messina Denaro c’è un pezzo di storia del nostro Paese e perché la mafia non è ancora finita.
La fine di un’era per Cosa nostra
L’ex capomafia era stato arrestato il 16 gennaio 2023
Matteo Messina Denaro è morto oggi per le conseguenze legate a un tumore al colon al quarto stadio. Con la sua scomparsa non si chiude nessuna stagione, perché ha portato con sé, nella tomba, i segreti indicibili che hanno segnato con il sangue la storia italiana. La morte di Matteo Messina Denaro non desta né scalpore tantomeno sdegno.
Arrestato lo scorso 16 gennaio, a seguito di una complessa e coordinata attività del Ros dell’Arma dei carabinieri, proprio nel corso dell’interrogatorio del 13 febbraio scorso condotto dal Procuratore della Repubblica Maurizio de Lucia e dal Procuratore Aggiunto Paolo Guido alla presenza del Tenente Andrea Riccio e del Luogotenente Benedetto Mastrogiacomo, entrambi in servizio al R.O.S. dei Carabinieri di Palermo aveva dichiarato “Non voglio fare né il superuomo e nemmeno arrogante: voi mi avete preso per la malattia, senza la malattia non mi prendevate”.
Una belva sanguinaria o un uomo sconfitto dalla malattia? Al momento del suo arresto Matteo Messina Denaro apparì come un uomo malato di tumore, pallido e rassegnato. E questa è l’immagine che ha voluto consegnare ai posteri, quella di un uomo anziano e sconfitto non dallo Stato ma da uno degli eventi più ineluttabili nella vita di un uomo, la malattia.
L’uomo che le sentenze di mafia bollarono come il boss dei boss, come il successore di Totò Riina nella politica delle stragi dei corleonesi, uscì dalla clinica “La Maddalena” dove era sottoposto a un ciclo di chemioterapia e finì nelle mani dello Stato, quello Stato di cui si era preso gioco nei suoi trent’anni di latitanza.
Un boss consapevole e rassegnato? “No, io mi sento uomo d’onore, nel senso di altri… non come mafioso” disse l’ex boss nel già citato interrogatorio del 13 febbraio scorso, aggiungendo di non essere mai stato “combinato”, di conoscere Cosa nostra solo attraverso la lettura dei giornali e di non aver mai avuto a che fare con Cosa nostra se non in maniera involontaria. Negò anche di conoscere Bernardo Provenzano, di averlo visto solo in televisione e che la corrispondenza con lui, in cui ognuno chiedeva all’altro semplicemente dei favori, era derivante dal fatto che erano entrambi accusati ingiustamente di essere appartenenti alla consorteria mafiosa.
Come hanno confermato diversi collaboratori di giustizia, “Diabolik”, uno dei suoi soprannomi, nonostante i viaggi in giro per l’Italia, durante la latitanza rimase per lungo tempo nella sua terra natale, la Sicilia, l’ambiente ideale in cui poteva nascondersi e nella quale si stava curando. A pane e mafia era stato allevato il boss, restando nel gotha di Cosa nostra e accumulando negli anni un lungo curriculum criminale.
Figlio di Francesco Messina Denaro, vecchio capomafia di Castelvetrano e fidatissimo di Totò Riina, era rimasto l’ultimo dei vecchi padrini di Cosa nostra, pur discostandosi dalla strategia stragista dei suoi predecessori dopo la scalata al potere. Il suo basso profilo, supportato da quella “zona grigia” che circonda le mafie, quella che il procuratore De Lucia, nella conferenza stampa che seguì il suo arresto, definì “borghesia mafiosa”, fu il metodo che gli ha permesso una delle più lunghe latitanze. Di lui non esistevano foto segnaletiche, visto che l’ultima foto nota risaliva a quando era giovane e il suo vero volto è stato rivelato solo dopo l’arresto.
“Sono il quarto di sei figli e sono l’unico che ha continuato l’attività di mio padre dedita alla coltivazione dei campi”, dettò a verbale Matteo, negli uffici della Squadra mobile di Trapani, il 30 giugno 1988, ascoltato come testimone nell’indagine per un omicidio.
Quello di cui non parlò fu la sua attività principale, quell’attività criminale del padre don Ciccio da lui ereditata in quel triangolo fra Castelvetrano, Marsala e Trapani. La contabilità ufficiale dei morti ammazzati coincide con almeno venti condanne all’ergastolo per altrettanti delitti, tra i quali quello del bambino Giuseppe Di Matteo, sequestrato e ammazzato per vendetta e per dare l’esempio, dopo il pentimento del padre Santino, uno dei manovali della strage di Capaci, e quello di un vice-direttore d’albergo in cui lavorava una ragazza austriaca di cui si era innamorato che si lamentava perché quel ragazzotto e i suoi amici frequentavano l’hotel infastidendola.
Le prime indagini su di lui furono di Paolo Borsellino
Il primo a indagare a scrivere il nome di Matteo Messina Denaro in un fascicolo d’indagine fu Paolo Borsellino nel 1989, quando era alla procura di Marsala. Proprio per questo il commissario di polizia, Rino Germanà iniziò a indagare su di lui. Così Matteo Messina Denaro accompagnato da Leoluca Bagarella e Giuseppe Graviano, lo intercettarono sul lungomare di Mazara del Vallo e iniziarono a sparargli addosso.
Germanà si buttò in mare seguito dal Bagarella ma il suo Kalašnikov s’inceppò e, così, Germanà riuscì a salvarsi. Dopo quell’attentato il suo nome fu ufficialmente stato iscritto nella lista dei ricercati. Era il 2 giugno 1993.
Era in vacanza a Forte dei Marmi insieme con i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano, altri due boss mafiosi di alto livello, in quel giugno 1993 ma da allora era sparito nel nulla, almeno per la giustizia italiana.
Era già diventato il capo di Cosa nostra nella provincia di Trapani, leader indiscusso delle nuove leve in quanto pupillo di Totò Riina e legato da amore fraterno con i fratelli Graviano.
La maggior parte dei suoi guadagni proveniva da estorsioni, smaltimento illegale dei rifiuti, riciclaggio di denaro, nuove risorse energetiche e dal traffico di stupefacenti ma, e soprattutto, dagli appalti, altra eredità di famiglia che possedeva il monopolio delle costruzioni nella provincia. Era controllato dai Messina Denaro il ciclo produttivo che ha portato all’edificazione di case abusive lungo la costa di Castelvetrano e Mazara del Vallo e, contemporaneamente, gli stessi Messina Denaro erano infiltrati nella aziende che producevano calcestruzzo, materiale fondamentale per le attività di costruzione.
Nel 1993, quando iniziò la latitanza che si chiuse solo trent’anni dopo, nei suoi confronti fu emesso un mandato di cattura per associazione mafiosa, omicidio, strage, devastazione, detenzione e porto di materiale esplosivo, furto e altri reati minori.
Nel 2000 al maxi-processo “Omega” fu condannato in contumacia all’ergastolo e, il 21 ottobre 2020 fu condannato all’ergastolo dalla Corte d’Assise di Caltanissetta per essere stato uno dei mandanti delle stragi di Capaci e via D’Amelio in cui vennero uccisi di giudici Falcone e Borsellino e le loro scorte, sentenza confermata nel luglio di quest’anno.
Abbiamo forse sconfitto Cosa nostra? No, senza dubbio. Quella della quale siamo stati testimoni è solo la morte di un uomo, forse non più adatto ai tempi attuali e il cui potere era già stato ridistribuito secondo dettami e logiche ben diverse da quelle del passato, non più familistiche ma strettamente legate a logiche imprenditoriali ed economiche perché, purtroppo, negli ultimi trent’anni abbiamo dimenticato quella lezione che fu prima di Boris Giuliano e poi di Giovanni Falcone, quel “follow the money” che, più che mai dovrebbe essere la strada da percorrere senza se e senza ma. Quella strada che dovrebbe essere accompagnata da un risveglio etico di tutta la società per il quale, purtroppo, i tempi non sembrano ancora maturi. Qd.S. Roberto Greco 25.9.2023
Matteo Messina Denaro è morto: la storia nuda e cruda.
Matteo Messina Denaro è morto. Troppe dietrologie e nel contempo troppe omissioni e ricostruzioni falsate sulla sua figura. Qui ripercorriamo la sua storia. Chi era, come mai è stato latitante per trent’anni e che ruolo ha avuto in Cosa Nostra.
Matteo Messina Denaro è morto all’età di 61 anni dopo una lunga battaglia contro il cancro al colon. L’ex latitante è scomparso mentre era ricoverato nel reparto detenuti presso l’ospedale de L’Aquila, dove era entrato in uno stato di coma irreversibile. Le sue condizioni erano peggiorate a seguito di un sanguinamento e di un collasso, che avevano compromesso gravemente i suoi parametri vitali. Al suo capezzale c’erano la nipote e legale Lorenza Guttadauria, oltre alla giovane figlia Lorenza, che aveva incontrato per la prima volta in aprile nel carcere di massima sicurezza de L’Aquila.
Il 16 gennaio scorso, mentre si preparava a iniziare una seduta di chemioterapia presso la clinica Maddalena di Palermo, è stato arrestato. Ha tentato di allontanarsi quando si è reso conto di essere braccato, ma non è riuscito a fuggire, poiché decine di uomini armati e con il volto coperto del Ros avevano circondato la casa di cura. I pazienti, tenuti fuori dalla struttura per ore, hanno applaudito i militari in segno di gratitudine.
Ecco perché ci sono voluti trent’anni per catturalo.
La domanda che molti si sono posti è: perché sono stati necessari trent’anni per arrestare Matteo Messina Denaro? Questo ha dato adito a varie teorie, alcune delle quali suggeriscono una sorta di trattativa dietro al suo arresto. Puntualmente si fanno dietrologie. La mafia è nota per la sua territorialità, e Messina Denaro ha goduto di protezione grazie a una vasta rete di sostenitori, inclusi infiltrati e politici locali. Che Matteo Messina Denaro avesse il proprio covo nel suo feudo non dovrebbe meravigliare nessuno.
Tutti i boss, a partire da Totò Riina, non se ne sono mai andati dal proprio territorio. Anche Bernardo Provenzano viveva tranquillamente rintanato nel suo casolare di campagna. E riuscì a essere latitante per ben 43 anni. Anche lui non negò la propria identità e si complimentò stringendo la mano agli uomini che gli hanno messo le manette.
La ricchezza di Matteo Messina Denaro è stata fortemente colpita da diverse operazioni giudiziarie nel corso degli anni. In una delle lettere inviate all’ex sindaco di Castelvetrano, Antonio Vaccarino, che lavorava per conto del SISDE guidato da Mario Mori, Messina Denaro si lamentava della perdita dei suoi beni. Tuttavia, questa operazione non ebbe successo a causa di fughe di notizie. |
È emerso che anche la direzione della procura di Palermo ha commesso errori nel corso degli anni. Nel 2012, si sono verificate polemiche tra i vertici della Procura di Palermo, secondo quanto riferito da Teresa Principato, procuratore aggiunto del capoluogo siciliano. Ha sottolineato che l’indagine non è stata compromessa dal Ros, ma dalla direzione della procura stessa. Questi incidenti hanno contribuito a ritardare l’arresto di Matteo Messina Denaro.
La sua partecipazione alle stragi.
È noto che i boss della mafia tendono a rimanere nel proprio territorio. In rappresentanza della provincia di Trapani, Matteo Messina Denaro è stato designato da Totò Riina – a seguito del progressivo aggravarsi delle condizioni di salute del padre, Francesco Messina Denaro, storico uomo d’onore trapanese, rappresentante della provincia di Trapani oltre che del mandamento di Castelvetrano – a svolgere le funzioni di “reggente” della provincia sin dai tempi della guerra di mafia di Partanna deflagrata nell’87 e conclusasi nel ’91, e dunque ben prima della consumazione degli eventi stragisti del ’92.
Denaro ha quindi partecipato alla decisione di “dichiarare guerra” allo Stato, assunta tra la fine del ’91 e l’inizio del ’92 dalla Commissione Regionale di Cosa Nostra, organo deliberativo di vertice dell’organizzazione. Ha aderito, fin dall’inizio, all’attuazione del piano iniziale tramite un gruppo “riservato” creato da Riina ed alle sue dirette dipendenze incaricato di uccidere Falcone e Borsellino in altri territori.
Sì, perché inizialmente volevano uccidere Falcone a Roma (e Matteo Messina Denaro aveva il suo uomo di fiducia nell’operazione, tale Antonio Scarano), così come volevano uccidere Borsellino quando già era procuratore di Marsala, territorio dove appunto operava Matteo Messina Denaro. Un attentato, quest’ultimo, mai eseguito perché si rifiutarono i due marsalesi poi uccisi da Riina proprio perché si erano opposti all’ordine.
Così come, è noto – grazie alle testimonianze dei pentiti sentiti durante i processi – che è stato proprio Matteo Messina Denaro ad indicare i luoghi simbolo degli attenti continentali del 1993 tramite le guide turistiche. Aveva messo gli occhi – dirà Brusca al processo sulle stragi continentali – pure sul tempio di Selinunte (a Trapani) e che c’erano persone disposte a distruggerlo.
Matteo Messina Denaro, a poche settimane dal suo arresto, è stato interrogato dal procuratore di Palermo Maurizio de Lucia e l’aggiunto Paolo Guido. Cosa è emerso? Poca roba, però ha dato una spiegazione chiara sul perché è stato catturato. Era evidente, logico. Da quando ha scoperto di avere il tumore, ha dovuto necessariamente abbassare le difese. Non nascondersi più, ma mimetizzarsi tra le persone. Doveva curarsi.
“Mi sono messo a pensare”, ha raccontato ai procuratori, “e ho seguito un proverbio ebraico che dice: ‘Se vuoi nascondere un albero, piantalo in mezzo a una foresta’.” E così ha agito.
Ha fatto ritorno alla sua base e si è trovato costretto ad utilizzare il cellulare per comunicare con i medici dell’ospedale e prendere gli appuntamenti necessari. Da lì ha osato “scoprirsi” di più. Semplice, lineare, prevedibile. Poi da mafioso doc ha negato di essere di Cosa Nostra, ha negato tutto.
Ma tra il detto e non detto, qualcosa lo fa capire. Poi ovviamente ci sono tanti omissis nella trascrizione dell’interrogatorio. E forse qualche spunto per le indagini ulteriori potrebbe esserci. Ma questo solo il tempo ce lo dirà. Nel frattempo è morto. Anche se ricoverato in ospedale, è deceduto in regime del 41 bis.
Ciò solleva una questione: qual è il senso di un regime duro quando una persona è in fin di vita? Da una parte la mafia, dall’altra il volto inutilmente feroce dello Stato. Questo crea un alibi per i mafiosi, che in modo erroneo si convincono ancor di più di essere dei “criminali onesti”. Un ossimoro, quest’ultimo, citato da Messina Denaro durante l’interrogatorio stesso.
Ora Matteo Messina Denaro è morto, ma non stravolge l’assetto mafioso attuale. Anche perché lui non è mai stato il capo dei capi di Cosa Nostra. Non poteva esserlo. “Pensava agli affari suoi”, disse Riina intercettato al 41 bis. Ma sulle intercettazioni Il Dubbio ci ritornerà presto. C’è un tassello mancante sulla strage di Via D’Amelio. Damiano Aliprandi Blog 25.9.2023