LA REVISIONE – Il 13 luglio 2017, a quasi venticinque anni di distanza dal 19 luglio 1992, il Processo di Appello di revisione per la Strage di via D’Amelio, voluto dalla Procura di Caltanissetta nel 2011, a seguito delle dichiarazioni di Gaspare Spatuzza, si conclude con l’assoluzione dal reato di strage per dieci imputati: Gaetano Murana, Giuseppe Orofino, Cosimo Vernengo, Natale Gambino, Salvatore Profeta, Giuseppe La Mattina, Gaetano Scotto, Vincenzo Scarantino e Salvatore Candura. Assolto anche Salvatore Tommasello, che intanto è deceduto. Di queste dieci persone, tre all’epoca dell’arresto erano incensurate: Murana, Urso e Vernengo. da COSA
L’avvocato dei Borsellino contro Di Matteo: “Ha difeso il depistaggio di Scarantino screditando Spatuzza”
“Smascherammo Scarantino, ma non ci credettero”
- AUDIO – Interventi ai processi PM dr. Antonino Di Matteo
- AUDIO – Al “Borsellino quater” PM dr. Di Matteo racconta Scarantino – 16 novembre 2015 – Controesame avv Repici
“BORSELLINO BIS” udienza 15 dicembre 1998 – Dalla requisitoria del PM Antonino Di Matteo ⇓
Questo ufficio ritiene che l’attività processuale scaturita e originata dalla ritrattazione dello Scarantino abbia finito per avvalorare ancor di più le sue precedenti dichiarazioni o meglio gran parte delle sue precedenti dichiarazioni nei confronti di molti degli odierni imputati
La ritrattazione di Scarantino che poi spiegheremo perché deve considerarsi falsa è innanzitutto una ritrattazione indotta. Non siamo in presenza di un atteggiamento processuale scaturito dalla volontà del protagonista della scena dibattimentale Siamo in presenza di un risultato di una complessa attività posta in essere per costringere il pentito a cambiare versione
Cioè la ritrattazione è stata indotta innanzitutto indotta poi vedremo perché falsa. Dovete pure prendere in considerazione quel compendio probatorio scaturito essenzialmente dalle intercettazioni ambientali effettuate in casa Scotto del latitante Gaetano Scotto nostro imputato
La ritrattazione di Vincenzo Scarantino non è stata frutto di una scelta di coscienza di una volontà talmente spontanea da manifestarsi attraverso comportamenti che non tenessero conto di garanzie precauzioni assistenza economica assistenza legale
… oltre ad un giudizio di complessivi inattendibilità e la ritrattazione di Scarantino vi stiamo smontando punto per punto queste dichiarazioni …
Io credo che il buonsenso comune ed una normale capacità di valutare la personalità altrui ci consente ci consenta di escludere questa possibilità che Scarantino abbia per tanto tempo finto e solo ultimamente detto la verità
Scarantino ha voluto accreditare l’ipotesi di pubblici ministeri e poliziotti che lo hanno indottrinato continuamente indottrinato dolosamente istruito giungendo al punto di falsificare le carte di giocare sporco pur di trovare dei finti colpevoli della strage giungendo al punto di manomettere nastri e registrazioni
Certamente non è in grado Scarantino di inventare reggere il gioco su tutto questo di estremamente articolato e complesso …
… questa non è a nostro parere non può essere solo farina del sacco di Scarantino costituisce una riprova logica di una induzione ad una ritrattazione sicuramente falsa e prospettata al solo scopo di provocare in un modo o nell’altro il crollo dell’impostazione accusatoria di questo processo
(Scarantino) … ha dipinto un quadro assolutamente inverosimile. Ha dipinto un quadro fosco e ridicolo
(Scarantino nella ritrattazione) poco abile, forse mal consigliato
(La ritrattazione) risulta intrensicamente non credibile
Siamo in presenza di un clamoroso autogol (ritrattazione)
15 dicembre 1998 – CALTANISETTA – Processo bis per la strage di Via D’Amelio (omicidio del giudice Paolo Borsellino)La ritrattazione dello Scarantino viene per converso confermata nel merito dal pentito Gaspare Spatuzza, tanto da condizionare gli esiti del Borsellino Quater, produrre l’annullamento delle condanne all’ergastolo erogate e provocare l’avvio del c.d. “Processo depistaggio” la cui requisitoria del PM è in corso in questi giorni a Caltanisetta.
- “Tutti abbiamo bisogno di un contributo di chiarezza rispetto alla ostinata reiterazione di falsità e ingiuste generalizzazioni che da tempo vengono diffuse e rilanciate con grande clamore mediatico…”
- “Siamo ad un passo dalla verità anche sotto il profilo del movente e della presenza di madanti esterni a Cosa nostrae ci siamo arrivati grazie e soprattutto al lavoro fatto a Caltanisetta nel Borsellino Ter e a Palermo nel processo Trattativa Stato-mafia”
- “Siamo ad un passo della verità anche grazie a me e ad altri magistrati“
- “Il depistaggio non inizia con la collaborazione di Scarantino ma inizia con le prove oggi ritenute false che portano ad incriminare Scarantino
- “I fatti vengono mistificati quotidianamente da parte di qualcuno“
- “Non ho mai saputo nulla dei colloqui investigativi con Scarantino”
- “Scarantino aveva detto anche cose vere. Probabilmente gli sono state suggerite da qualcuno“
Nell’audizione davanti al CSM il magistrato ha inoltre riferito sulle “anomalie” denunciate da Fiammetta Borsellino
- TP24 19.9.2018
- LA VOCE DELLE VOCI 18.9.2018
- AFFARI ITALIANI 18.9.2018
- IL FATTO QUOTIDIANO 17.9.2018
- FATTO QUOTIDIANO 2 – 17.9.2018
- IL FATTO QUOTIDIANO 3 – 17.9.201
13.9.2017 – AUDIZIONE pm Di Matteo in Commissione Antimafia
«Scarantino è un soggetto che viene arrestato il 26 settembre 1992 – spiega Di Matteo – e le indagine vennero dunque condotte dal 19 luglio 1992 fino al 26 settembre. All’epoca ero un tirocinante e mi sono occupato di procedimenti ordinari fino al 9 dicembre 1993. Sono entrato nella Dda nissena il 9 dicembre con il compito esclusivo di occuparmi di processi della mafia e della stidda di gela e ho svolto al compito fino al novembre ’94. Nel pool che si occupava delle stragi sono entrato dunque nel novembre 1994, due anni e 4 mesi dopo la strage, 2 anni e 2 mesi dopo l’arresto di Scarantino. Non mi sono mai occupato ad alcun titolo del primo processo a Scarantino, nel secondo solo come pubblica accusa nel procedimento dibattimentale ed entrai solo dal processo Borsellino-ter»
(…) secondo la procura di Messina, come si legge nella nota a pagina 84 della richiesta di archiviazione, la circostanza che la Procura di Palermo avesse inizialmente assunto «un atteggiamento cauto circa la rilevanza e l’attendibilità del contributo dichiarativo di Spatuzza» ha trovato conferma nel contenuto di un verbale di riunione di coordinamento “delle indagini sulle stragi siciliane del 1992 e del continente degli anni 1993 – 1994”, svoltasi presso la Dna il 22 Aprile del 2009. In quel verbale, tramesso a Messina il 25 marzo del 2019 a seguito di specifica richiesta della procura, sono riportati due interventi di Nino Di Matteo. Sul primo intervento, i magistrati di Messina, riferiscono: «Il dottor Di Matteo ha pure rilevato che non sempre Spatuzza, a suo giudizio, ha affermato il vero; ha aggiunto che, a suo parere, la collaborazione di Spatuzza non è di particolare rilevanza atteso che essa non consente di arrestare nessuno, né di sequestrare alcun bene, né di processare qualcuno. Ha affermato che, secondo lui, non sono particolarmente rilevanti neppure le dichiarazioni rese in ordine agli omicidi di padre Puglisi e del giovane Diego Alaimo». Il secondo intervento del Pm, sempre riferito alla medesima riunione, è così descritto: «Il dottor Di Matteo ha manifestato la sua contrarietà alla richiesta di piano provvisorio di protezione sia perché essa attribuirebbe alla dichiarazione di Spatuzza una connotazione di attendibilità che ancora non hanno, sia perché le dichiarazioni di Spatuzza, sebbene non ancora completamente riscontrate, potrebbero rimettere in discussione le ricostruzioni e le responsabilità delle stragi, oramai consacrate in sentenze irrevocabili, sia perché l’attribuzione, allo stato di una connotazione di attendibilità alle dichiarazioni di Spatuzza potrebbe indurre l’opinione pubblica a ritenere che la ricostruzione dei fatti e le responsabilità di essi, accertate con sentenze irrevocabili, siano state affidate alle dichiarazioni di falsi pentiti protetti dallo Stato, e potrebbe, per tale ultima ragione, gettare discredito sulle Istituzioni dello Stato, sul sistema di protezione dei collaboratori di giustizia e sugli stessi collaboratori di giustizia».
VINCENZO SCARANTINO, il PUPO vestito da MAFIOSO
- La ritrattazione VINCENZO SCARANTINO – Dalla Sentenza di Primo grado del Borsellino Bis
- Le dichiarazioni di VINCENZO SCARANTINO al BORSELLINO BIS
Gli errori dei pm (da Boccassini a Di Matteo) sul depistaggio Borsellino
Legale: “Smascherammo Scarantino, ma non ci credettero” …
…Negli anni alcuni legali, tra cui l’avvocata Rosalba Di Gregorio, denunciò “per comportamento omissivo” i pm del processo di Caltanissetta, Annamaria Palma, Carmelo Petralia e Nino Di Matteo, ma il gip di Catania, il 25 febbraio 1998, archiviò l’inchiesta aperta nei confronti dei sostituti procuratori.
29.6.2022 L’avvocato di Borsellino contro Di Matteo: “Ha difeso il depistaggio di Scarantino screditando Spatuzza”
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DI MATTEO: ”SULLE CHIAMATE DI NAPOLITANO ABBIAMO LA COSCIENZA A POSTO”
- DI MATTEO AL CSM: “IL DEPOSITO RITARDATO DEI CONFRONTI DI SCARANTINO? ABBIAMO PRIMA INDAGATO PER CAPIRE CHI MENTISSE”
- DEPISTAGGIO VIA D’AMELIO, NINO DI MATTEO: “NON FU SOLO STRAGE DI MAFIA. L’AGENDA ROSSA DI BORSELLINO NON È SPARITA PER MANO DEI BOSS. CI SIAMO SCONTRATI CON RETICENZE ISTITUZIONALI BESTIALI”
- DI MATTEO NON CONVINCE FIAMMETTA BORSELLINO SUL DEPISTAGGIO DI VIA D’AMELIO
- PROCESSO DEPISTAGGIO, L’ACCUSA DI FIAMMETTA BORSELLINO: “DELUSA DALLA DEPOSIZIONE DEL PM DI MATTEO”
- IL CONSIGLIERE DEL CSM HA DEPOSTO AL PROCESSO SULLE INDAGINI DELLA STRAGE DI VIA D’AMELIO CHE VEDE ALLA SBARRA TRE POLIZIOTTI: MARIO BO, MICHELE RIBAUDO E FABRIZIO MATTEI
- L’INTERVISTA DI ANDREA PURGATORI AL SOSTITUTO PROCURATORE ANTONINO DI MATTEO SULLE STRAGI DI MAFIA DEL 1992
- FIAMMETTA BORSELLINO A DI MATTEO: «DI MIO PADRE NON AVETE CAPITO NULLA»
- NINO DI MATTEO / TUTTE LE BUFALE SUL DEPISTAGGIO BORSELLINO
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- COME TI UCCIDO ANCORA BORSELLINO. NESSUN DEPISTATORE PER SCARANTINO
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20.5.2021 Intervento Avv. Trizzino al Processo depistaggi rif. a DI MATTEO
21.5.2022 Al processo depistaggio l’arringa “fake” dell’avvocato Trizzino per i figli di Borsellino Giorgio Bongiovanni 21 maggio 2022 ANTIMAFIA DUEMILA
VINCENZO SCARANTINO Accusatosi di aver partecipato alla strage di via D’Amelio, viene arrestato il 29 settembre 1992. Dopo essere stato recluso nel carcere di massima sicurezza di Pianosa, Scarantino il 24.6.1994 decide di collaborare con gli inquirenti spiegando come venne organizzata la strage in cui morì il giudice Borsellino per cui venne condannato a 18 anni per poi accusare i poliziotti e magistrati, che lo avrebbero spinto a fare quelle accuse. Nel 1998 Scarantino ammette di non avere preso parte all’attentato di via D’Amelio e di essere stato costretto da Arnaldo La Barbera, ex capo della squadra mobile di Palermo a confessare il falso, e di aver subito maltrattamenti durante la sua detenzione nel carcere di Pianosa. Nel 2007 il pentito Gaspare Spatuzza confessa di essere stato l’autore del furto dell’auto FIAT 126 usata per l’attentato, scagionando Scarantino e dimostrando che era un falso pentito, usato per sviare le indagini sulla morte di Borsellino.
Scarantino ritratta: ‘Su Borsellino ho mentito’. COMO – Crolla e ritratta Vincenzo Scarantino, il pentito chiave del processo per la strage di via D’Amelio. E con lui rischia di crollare l’intero impianto accusatorio messo in piedi dalla procura di Caltanissetta. Davanti ai giudici del processo bis, che si sta svolgendo a Como, Scarantino oggi si è rimangiato tutto. “Io dell’omicidio di Borsellino sono innocente”, ha detto l’uomo che si era accusato di aver procurato la Fiat 126 poi imbottita di tritolo che é costata la vita al giudice antimafia e ai cinque uomini della scorta. Grazie alle dichiarazioni di Scarantino, nella prima tranche del processo erano stati condannati all’ergastolo Pietro Scotto, Giuseppe Orofino e Salvatore Profeta. A lui stesso erano stati inflitti diciotto anni di carcere. Immediata la replica del pubblico ministero che ha chiesto – insieme ai difensori degli imputati – che Scarantino fosse sentito non più come imputato ma come testimone: con l’obbligo quindi di dire la verità, pena l’incriminazione per falsa testimonianza. Ma l’accusa é andata oltre, paventando l’ipotesi di atti intimidatori ai danni del collaboratore di giustizia. “Chiediamo – ha detto il pubblico ministero Antonio Di Matteo – l’esame di funzionari di polizia su quanto accertato in relazione a tentativi di arrivare a convincere Vincenzo Scarantino a ritrattare. Mi riferisco in particolare a movimenti di denaro sino a qualche giorno fa”. Scarantino ha poi spiegato l’ennesima versione del suo pentimento. Lo ha fatto platealmente, chiedendo agli agenti che lo circondavano di farsi da parte, perché le telecamere potessero riprenderlo. Forti pressioni degli inquirenti mentre era in carcere, ha detto: “A Pianosa ho passato quaranta giorni indimenticabili. Scrivevo sui muri del bagno che se io facevo il bugiardo era perché mi volevano ammazzare”. Prigionia dura, denuncia Scarantino, “cibo scarso e con i vermi”, con un’unica via d’uscita: parlare. E allora Scarantino decide di collaborare, raccontando ciò che sapeva sul traffico di droga a Palermo. “Ma il dottor La Barbera (al tempo dei fatti capo del gruppo antistragi, ndr) disse che gli interessavano solo gli omicidi”, ha detto oggi Scarantino. Aggiungendo: “La Barbera mi disse che mi sarei fatto solo qualche mese di galera e che mi avrebbe dato duecento milioni. Ma a me non interessavano i piccioli”. Un altro clamoroso dietro front, quindi. L’ultimo della lunga serie di colpi di scena che hanno accompagnato la storia di questo strano pentito. Anomalo perché prima dell’arresto di lui, anche in ambienti investigativi, si sapeva poco quanto niente. Un delinquente di quartiere, secondo alcuni nemmeno un mafioso. Viveva alla Guadagna, la zona controllata da Pietro Aglieri, con la moglie Rosaria Basile e tre figli. Ma rispondeva gli ordini del cognato, Salvatore Profeta, della cosca di Santa Maria di Gesú. Poi l’arresto e subito dopo – il 24 giugno del ’94 – le prime dichiarazioni. Che consentono di ricostruire la dinamica della strage di via D’Amelio e di risalire ai responsabili. Scarantino accusa, e si autoaccusa. Passa più di un anno, ma il 10 ottobre 1995 Rosalia Basile, la moglie, esce allo scoperto. Dice che il marito mente, che le sue dichiarazioni sono state estorte “a forza di botte e minacce” dai magistrati di Caltanissetta. Abbandona il marito, che viveva con lei sotto protezione, e con i figli torna alla Guadagna. Ma su Scarantino in quei giorni sparano tutti. Gli avvocati degli imputati cercano di dimostrare che lui non può essere pentito di mafia perché uomo d’onore non é stato mai. Chiamano in ballo due transessuali, che affermano di avere avuto rapporti con lui. Cosa che, secondo il codice d’onore di Cosa nostra, impedirebbe di entrare nell’organizzazione. Ma anche i boss pentiti dicono di non conoscerlo, lo fanno Cancemi, La Barbera e Di Matteo. Le sue dichiarazioni però reggono. I riscontri ci sono. Lui ribadisce di essere un “leale collaboratore di giustizia”. E le condanne al primo “processo Borsellino” arrivano. Scarantino continua a parlare e fa altri nomi. Quelli di Giovanni Brusca e Raffaele Ganci, cha danno il via alla nuova inchiesta. “Non ho fatto prima i loro nomi per paura”, dice. Anche la moglie torna sui suoi passi e l’8 marzo 1997 si riconcilia col marito, rinunciando al divorzio. Il pentito Scarantino guadagna credibilità , diventa sempre più il pilastro su cui si regge l’intero processo. Un pilastro che si credeva stabile. Fino a oggi. (La Repubblica 15 settembre 1998)
Le dichiarazioni di Gaspare Spatuzza
Il racconto di Spatuzza è dettagliato: dopo gli opportuni riscontri svolti dal centro operativo Dia di Caltanissetta, i magistrati hanno avuto chiari i retroscena della strage Borsellino, organizzata dal clan mafioso di Brancaccio, diretto dai fratelli Graviano. E’ rimasto il mistero su un uomo che il giorno prima della strage avrebbe partecipato alle operazioni di caricamento dell’esplosivo sulla 126, in un garage di via Villasevaglios, a Palermo. Spatuzza non lo conosce, i magistrati sospettano che possa essere un appartenente ai servizi segreti.
Interrogatorio del 3/7/2008 (riguardante anche la strage Falcone)
Interrogatorio del 17/9/2009
Interrogatorio del 22/6/2010 (è allegata una lettera-appello di Spatuzza al boss Pietro Aglieri)
Interrogatorio del 3/5/2011
La confessione dei falsi pentiti
Il racconto di Spatuzza sugli esecutori della strage di via d’Amelio è stato confermato soprattutto dalla confessione di chi si era accreditato come collaboratore di giustizia attendibile, depistando le indagini sull’eccidio del 19 luglio 1992. E’ una confessione drammatica, che parla di abusi e violenze subite da alcuni rappresentanti delle forze dell’ordine, per costruire una verità di comodo.
Interrogatorio di Vincenzo Scarantino (28/9/2009)
Interrogatorio di Francesco Andriotta (17/7/2009)
Interrogatorio di Salvatore Candura (10/3/2009)
Archivio ANTIMAFIA
AUDIO UDIENZE PROCESSI
“IL PIÙ GRAVE DEPISTAGGIO DELLA STORIA GIUDIZIARIA ITALIANA” Il “depistaggio”, presente come reato nel codice penale solo dal 2016, è infatti oggetto di altri processi definiti e in corso: se n’è occupato il Borsellino quater, nel quale è uscito prescritto dal reato di calunniaVincenzo Scarantino e il processo in corso a Caltanissetta a carico di Mario Bo, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei con l’accusa di calunnia in concorso, tre poliziotti in servizio nel gruppo Falcone-Borsellino che all’epoca, coordinato dalla Procura di Caltanissetta, si occupava delle indagini e dunque della gestione dei collaboratori rivelatisi falsi (Perché Scarantino ha detto il falso? Per volere di chi? Con l’aiuto di chi?). Al vertice di quel gruppo di investigatori della Polizia di Stato c’era Arnaldo La Barbera, scomparso nel 2002, stimato da molti colleghi e magistrati, compresi quelli che nutrivano dubbi sulla credibilità e sulla caratura criminale di Vincenzo Scarantino. Le evidenze e le domande emerse negli anni riguardo alla gestione sciagurata di quella collaborazione con la giustizia e che rendono plausibili molti dubbi – cui non vanno esenti, come sempre in questi casi, strumentalizzazioni e letture “tifose” di segno opposto – fanno inevitabilmente di Arnaldo La Barbera il convitato di pietra di molte sentenze, definitive e non, più o meno recenti. La sua morte prematura ha reso il giudizio sul suo operato di allora materia per gli storici, senza avergli dato il tempo di vedersi contestare in giudizio accuse in vita e di difendersene.
IL FALSO PENTITO A distanza di 29 anni sono ancora in molti a chiedersi come abbia potuto una figura di poco spessore far deragliare un’indagine così importante facendole trovare conferme nei gradi di giudizio di diversi processi. Nelle deposizioni del processo in corso a Caltanissetta oggi a carico dei poliziotti s’è sentito al suo proposito l’appellativo siciliano di “scassapagghiara”, scassapagliai, a indicarne lo scarso spessore criminale, benché fosse parente di un noto uomo d’onore. A distanza di 29 anni è acclarata la sua figura di “collaboratore” controverso. Arrestato a settembre del 1992, collaboratore dal giugno 1994, già nel 1998 nel Borsellino bis aveva ritrattato tutto in aula affermando di aver ricevuto pressioni per mentire. Uno dei dati che hanno fatto scrivere all’estensore della sentenza di primo grado del quater che la situazione avrebbe dovuto: consigliare «un atteggiamento di particolare cautela e rigore nella valutazione delle sue dichiarazioni, e una minuziosa ricerca di tutti gli elementi di riscontro, positivi o negativi che fossero, secondo le migliori esperienze maturate nel contrasto alla criminalità organizzata, e incentrate su quello che veniva giustamente definito il metodo Falcone».
LA TRAPPOLA SI SAREBBE POTUTA EVITARE? L’aspetto che più interroga, di tutti i punti oscuri di una vicenda intricatissima, viene da due lettere, risalenti all’ottobre 1994, una delle quali inviata per conoscenza anche alla Procura di Palermo e solo lì ritrovata, lasciate agli atti da Ilda Boccassini, che fece parte del Pool che si occupava delle stragi a Caltanissetta dal novembre 1992 all’ottobre 1994. In questi documenti, uno dei quali controfirmato anche da Roberto Sajeva, magistrato della Dna e parte del Pool, si evidenziavano in modo circostanziato le contraddizioni emerse nelle dichiarazioni di Scarantino e si suggeriva di riconsiderarne l’attendibilità complessiva. Il processo Borsellino 1 stava iniziando. Quei documenti scritti e ritrovati sono la prova documentale che già nel 1994 almeno due magistrati coinvolti nelle indagini avevano intuito la presenza di una falla. Se quell’intuizione avesse trovato ascolto «il più grave depistaggio della storia giudiziaria italiana» si sarebbe potuto, come tante volte si fa con mitomani e depistatori, smascherare e sgonfiare per tempo? È una risposta che potrebbe trovare il processo in corso a Caltanissetta, il cui dibattimento sta provando a far luce sulle eventuali responsabilità di poliziotti all’epoca impegnati nella gestione di Scarantino, e sul buco nero su chi e che cosa l’avrebbero indotto a mentire. Ma è evidente che il tempo trascorso renderà difficile dare risposte incontrovertibili a tanti piccoli episodi la cui memoria a distanza di 29 anni potrebbe non essere più così salda. Tanto più che nel frattempo è venuto a mancare, non solo Arnaldo La Barbera, ma anche il capo della Procura nissena di allora Gianni Tinebra.
UNA PAGINA INQUIETANTE Potremmo non sapere mai compiutamente se quello che chiamiamo depistaggio sia stato un disegno complessivo che ha indotto tante persone in errore o una catena di tanti eventi più piccoli (fraintendimenti, incongruenze, inesperienze, errori, inadempienze, aggiustamenti, forzature più o meno intenzionali) che hanno finito per convergere e portare l’indagine a deragliare e i processi a condannare innocenti o se si sia trattato di una commistione di entrambe le cose. Comunque il risultato è una “pagina vergognosa e tragica” della storia giudiziaria italiana per dirla con le parole del Procuratore generale della Cassazione al Borsellino quater. da FAMIGLIA CRISTIANA nov.2021
17.7.2009 INTERROGATORIO FRANCESCO ANDRIOTTA A D.R.: E’ vero però che io non sapevo nulla della strage di via D’Amelio, ma non sono io che ho costruito le cose; il tutto è stato costruito dal dotto Arnaldo LA BARBERA e dal dottor Mario BO; mi avevano promesso che mi avrebbero fatto togliere l’ergastolo. Avevo chiamato la Procura di Milano, in particolare la dott.ssa Luisa ZANETTI allorché ero ristretto presso il carcere di Saluzzo. Preciso che il primo interrogatorio l’ho avuto al carcere di Saluzzo con un magistrato di Cuneo per rogatoria. Successivamente fui portato alla Procura di Milano per essere sentito dalla dott.ssa ZANETTI e lì incontrai, per la prima volta, il dottor Arnaldo LA BARBERA. Quando uscirono dalla stanza la dott.ssa ZANETTI e il suo segretario, venne il dotto Arnaldo LA BARBERA e un giovane funzionario che si chiamava pure LA BARBERA; ricordo che vi era anche un terzo poliziotto. Preciso meglio, prima nella stanza entrò solo il giovane LA BARBERA e mi disse che il dotto Arnaldo LA BARBERA poteva aiutarmi per l’ergastolo che mi era stato irrogato, perché “era una potenza”. Il giovane LA BARBERA, che adesso apprendo dalla S.V. chiamarsi Salvatore, mi accennò qualcosa sulla strage di via D’Amelio quasi per prepararmi, invitandomi a collaborare con la Polizia. Poi entrò nella stanza il dotto Arnaldo LA BARBERA e mi chiese se io sapessi qualcosa della strage di via D’Amelio. Desidero far presente che io temo per la mia vita e la vita dei miei familiari proprio per quello che sto riferendo.
A D.R.: Ribadisco che le dichiarazioni da me riferite sulla strage di via D’Amelio le ho rese perché così mi fu chiesto dal dotto Arnaldo LA BARBERA, da altro poliziotto di cognome LA BARBERA, da un terzo poliziotto, dal dottor MARIO BO e da altri appartenenti alle Istituzioni. Complessivamente si trattò di almeno cinque appartenenti alla Polizia di Stato. SCARANTINO non mi ha mai confidato i particolari poi da me riferiti alla A.G. sulla uccisione del dotto Borsellino e degli uomini della sua scorta, anzi, parlando con me, si è sempre protestato innocente sostenendo di essere sottoposto a violenze fisiche e psichiche per confessare di avere partecipato alla strage accusando altre persone. Ribadisco che sono stati in particolare il dotto Arnaldo LA BARBERA, il dotto Mario BO, l’altro LA BARBERA e un terzo poliziotto stempiato il cui nome non ricordo ad “istruirmi” di volta in volta su quello che avrei dovuto dire, in cambio della promessa di aiuti per far venire meno l’ergastolo ed ottenere permessi.
10.3.2009 Dall’interrogatorio di SALVATORE CANDURA – Il CANDURA ammette di aver dichiarato il falso in merito al furto della Fiat 126 di VALENTI Pietrina e di essere stato spinto a rendere quelle dichiarazioni dal dottor LA BARBERA Arnaldo e, successivamente, anche dal dotto Salvatore LA BARBERA, e dal dottor RICCIARDI.
“Il depistaggio? Di Matteo non si è accorto di nulla e per lui è solo un contorno”.
«Certo però che , con tutte queste carte, piste e indagini , a lui Scarantino, il depistaggio , gli innocenti in galera e poi la revisione sembrano solo un “ segmento” , una cosa con cui noi disturbiamo , mentre magari secondo lui dovremmo tutti quanti (dai PM agli avvocati e pure il Tribunale) portare avanti la pista Contrada e quella Berlusconi!», così scrive Rosalba Di Gregorio, l’avvocata che assiste come parte civile tre di coloro che subirono un ingiusto ergastolo a causa del depistaggio accertato dalla sentenza del Borsellino Quater.
Si riferisce a l’ex pm Nino Di Matteo, oggi consigliere del Csm, che ha deposto lunedì scorso al processo sul depistaggio di Via D’Amelio. Nino Di Matteo, in sintesi, ha detto di non aver mai parlato con chi in precedenza aveva fatto le indagini, nemmeno con la collega Ilda Boccassini o con il dottor La Barbera allora capo del pool investigativo. Non aveva nemmeno saputo dei colloqui investigativi, dal 4 al 16 luglio 1994, mentre Scarantino si trovava detenuto nel carcere di Pianosa. Non aveva saputo nemmeno che Scarantino aveva ritrattato ad Angelo Mangano nel 95, all’epoca giornalista di Studio Aperto.
L’avvocata Di Gregorio, quindi, tuona: «Ai tempi sequestrarono tutto il trasmesso e il non trasmesso, ma non glielo hanno detto. La signora Scarantino ai tempi scrisse lettere a mezzo mondo accusando La Barbera e i suoi di tante cose, ma tutte queste lettere i suoi colleghi e i poliziotti non gliele hanno fatte leggere. E nemmeno gli hanno raccontato che belle telefonate c’erano fra Scarantino e loro PM e i poliziotti. Gli raccontavano che era tutto per cose logistico amministrative». Di Gregorio aggiunge sempre riferendosi a Di Matteo: «E mentre prima di lui e dopo, a pochi metri da lui, si costruiva, prima, e si manteneva in piedi, poi , il pentito farlocco (mentre si faceva il processo “ bis” e persino a uno dei due PM titolari ( Palma e Di Matteo) , cioè a lui, non si davano tutte le carte ), il “Nostro” già si occupava di collegare Berlusconi alle stragi. E per giunta gli facevano fare pure i processi a Gela, mentre gli altri facevano solo il pool stragi!». L’avvocata di parte civile Di Gregorio in sostanza polemizza con Di Matteo sul fatto che secondo lui la storia del falso pentito Scarantino è solo un “segmento” del depistaggio. «Ma noi, che siamo limitati – scrive l’avvocata Di Gregorio – , ci stiamo occupando del “segmento “ ancora e non planiamo nei cieli alti delle indagini, perché stiamo qua miserelli a cercare ancora di rimediare agli inchiappi fatti da altri nel “segmento” . E se siamo qui a fare un processo facciamo le domande: capziose o provocatorie non importa. Sono tutte domande ammesse dal Tribunale e perciò considerate legittime e appropriate».
Ricordiamo che a fine udienza, Fiammetta Borsellino, figlia del magistrato assassinato dalla Mafia, ha espresso queste amare parole: «Mi veniva quasi di mettermi in gabbia in quell’aula di giustizia mi sento ingabbiata. Penso che c’è un’enorme difficoltà a fare emergere la verità. Non ho constatato da parte di nessuno una volontà di dare un contributo al di là delle proprie discolpe personali per capire quello che è successo e questo mi fa molto male. Io penso che di mio padre non abbia capito niente nessuno di questi magistrati». 5.2.2020 Damiano Aliprandi Il Dubbio
Via d’Amelio, Di Matteo: “Sentenza dice che il depistaggio inizia già nel 1992 con l’arresto di Scarantino”
“Sono stato sentito come testimone nel Borsellino quater e ho espresso dei fatti. Poi in sede di commissione parlamentare antimafia, un anno fa, la presidente Rosy Bindi mi chiese una mia opinione su cosa potesse essere accaduto. Partendo dal fatto che il racconto del ‘pentito’ Vincenzo Scarantino era un racconto che si dimostrò sì in gran parte falso, ma corrispondente al vero in alcune parti significative, dissi allora che la polizia poteva avere una fonte confidenziale che avesse fornito quei dettagli veritieri, come quello sul furto della Fiat 126 usata per l’attentato a Borsellino. Una fonte rimasta sconosciuta”. A dirlo è stato il sostituto procuratore nazionale antimafia, Nino Di Matteo, alla presentazione del libro di Antonio Ingroia, “Le Trattative”, scritto con il giornalista e scrittore Pietro Orsatti. Il pm del processo sulla trattativa Stato-mafia, commentando le motivazioni della sentenza del Borsellino quater, ha aggiunto “che la polizia avesse, come diciamo in siciliano, ‘vestito il pupo’. Bindi mi disse ‘e quindi non è un depistaggio?’ Certo che lo è, risposi. Un depistaggio ancora più difficile da scoprire. È questa l’ipotesi che la stessa sentenza oggi ritiene più probabile: un depistaggio che inizia fin da subito, visto che Scarantino viene arrestato nel settembre del ’92”. “Che la trattativa fosse una boiata pazzesca lo possono dire tutti”, ha tuonato Di Matteo, ospite all’hotel Nazionale a Roma, dove sono intervenuti anche Antonio Padellaro e Vauro Senesi. “Le sentenze definitive dicono che la trattativa ci fu e che determinò in Riina un rafforzamento nell’intenzione di mettere le bombe”. FQ 4.7.2018
Di Matteo sulla strage di Via d’Amelio: «Mai entrato nelle indagini». Il sostituto procuratore nazionale antimafia Nino Di Matteo siede alla destra della presidentessa della Commissione parlamentare antimafia di Rosy Bindi. L’audizione è iniziata alle 14.30 in punto ed è la stessa Bindi ad affermare che l’incontro è successivo a quello in cui, a Palermo, Fiammetta Borsellino, aveva affermato che l’indagine sulla morte del padre Paolo era stata all’epoca affidata a magistrati inesperti della procura di Caltanissetta, tra i quali un giovanissimo Di Matteo.
E non è solo alla figlia del giudice che si rivolge Di Matteo, quando, nel ricostruire la storia del suo coinvolgimento nelle indagini successive alla strage di Via d’Amelio, smonta l’assunto secondo il quale sarebbe stato coinvolto a pieno titolo in quelle indagini.
Anzi. Di Matteo dirà subito, con riferimento a quello che poi si rivelerà essere un falso pentito, vale a dire Vincenzo Scarantino, che «quelle indagini mossero da dichiarazioni e indagini precedenti e dunque si tratta di capire chi condusse quelle indagini e quali siano stati eventuali depistaggi volontari. Ed è qui che crolla l’assunto per cui a tutti i costi mi si vuole coinvolgere». Sottinteso: negli errori di valutazione di un soggetto che menerà la Giustizia a largo dalla verità, nei quali lui non poteva essere coinvolto. E spiega perché.
«Scarantino è un soggetto che viene arrestato il 26 settembre 1992 – spiega Di Matteo – e le indagine vennero dunque condotte dal 19 luglio 1992 fino al 26 settembre. All’epoca ero un tirocinante e mi sono occupato di procedimenti ordinari fino al 9 dicembre 1993. Sono entrato nella Dda nissena il 9 dicembre con il compito esclusivo di occuparmi di processi della mafia e della stidda di gela e ho svolto al compito fino al novembre ’94. Nel pool che si occupava delle stragi sono entrato dunque nel novembre 1994, due anni e 4 mesi dopo la strage, 2 anni e 2 mesi dopo l’arresto di Scarantino. Non mi sono mai occupato ad alcun titolo del primo processo a Scarantino, nel secondo solo come pubblica accusa nel procedimento dibattimentale ed entrai solo dal processo Borsellino-ter».
Di Matteo, che ha affermato di voler dare un contributo di verità e di volersi sottoporre ad ogni tipo di domanda, ha anche affermato che «le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Scarantino e Spatuzza per alcuni versi sono coincidenti e questo lascia ipotizzare che alcune informazioni vere erano arrivate ed erano state messe in bocca a Scarantino». 13.9.2017 SOLE 24 ORE
Di Matteo su via d’Amelio: «Il depistaggio iniziò con la scomparsa dell’Agenda Rossa». «Cosa nostra non fu sola. E nelle indagini su servizi reticenze istituzionali bestiali». di Aaron Pettinari
Da Contrada a Scarantino, il magistrato racconta processi e inchieste. “La strage di via d’Amelio? Non credo che sia solo di mafia. Il furto dell’agenda rossa, quello che io considero come l’inizio di un possibile depistaggio, è avvenuto già il 19 luglio. Ed è chiaro che non fu per mano di Biondino, Graviano o altri mafiosi”. Così si è espresso Nino Di Matteo, oggi consigliere togato del Csm e in passato magistrato che indagò, tanto a Caltanissetta come a Palermo, su fatti e misfatti che hanno riguardato gli anni delle stragi, deponendo al processo per il depistaggio delle indagini sull’omicidio di Paolo Borsellino, in corso a Caltanissetta. Sul banco degli imputati, con l’accusa di calunnia aggravata, ci sono i poliziotti Fabrizio Mattei, Mario Bo e Michele Ribaudo, che facevano parte del Gruppo Falcone e Borsellino, che secondo l’accusa avrebbero avuto un ruolo nella costruzione del falso pentito Vincenzo Scarantino.
Così come aveva fatto nella deposizione al processo Borsellino quater, ma anche davanti alla Commissione parlamentare antimafia e al Csm.
L’ennesimo contributo per fare chiarezza su quello che la Corte d’Assise di Caltanissetta, nelle motivazioni del processo Borsellino quater, ha definito come il “più grave depistaggio della storia”. E’ in quella sentenza che si certifica che Scarantino è stato indotto a mentire. Ma Di Matteo, rispondendo alle domande del procuratore aggiunto Gabriele Paci e del sostituto Stefano Luciani, è andato oltre: “Oggi ci si concentra molto su questo piccolo segmento, seppur inizialmente importante, di una storia che già in quegli anni era molto più ampia. Una questione che portò ad altri 26 ergastoli definitivi per strage, mai messi in discussione dopo il pentimento di Spatuzza, e alle indagini su Contrada, Berlusconi e Dell’Utri”.
Il primo impegno. Il magistrato ha ricordato di essere arrivato a Caltanissetta nel 1992 e di essere entrato in Dda a partire dal dicembre 1993. E’ nel novembre 1994, due anni e 4 mesi dopo l’arresto di Scarantino, che è entrato a far parte del pool che si occupò della strage. “Nonostante questo – unico del pool stragi – mi occupavo anche delle indagini ordinarie. Poi della criminalità organizzata gelese, del processo sulla morte del giudice Saetta o quello contro il procuratore Prinzivalli. Non mi sono mai occupato del cosiddetto Borsellino uno e neanche del bis, che seguo solo nella fase del dibattimento. Ho seguito tutto l’iter del Borsellino-ter”.
Il primo incarico gli fu dato in via “ufficiosa” dal Procuratore capo di Caltanissetta, Giovanni Tinebra: “Ricordo perfettamente il primo incarico, non solo per il coinvolgimento professionale ma anche personale ed emotivo – ha ribadito ancora il Consigliere – Tinebra venne da me dicendomi: ‘Sarebbe opportuno, rispetto ai verbali già resi da Scarantino che presentano aspetti di problematicità (lo constatai leggendo i verbali: al quarto o quinto interrogatorio lui aveva aggiunto dei nomi di persone presenti a una riunione a villa Calascibetta, e tre erano collaboratori), che un magistrato che non l’ha mai sentito lo interroghi partendo da capo, come se fosse la prima volta che un magistrato della procura di Caltanissetta raccolga la…0 sua versione’. Così andai ad interrogare Scarantino per circa tre-quattro giorni consecutivi, alla questura di Genova, dove tutto viene messo a verbale”. Così come già aveva fatto al Borsellino quater Di Matteo ha sottolineato che durante gli interrogatori non vi furono pause se non quella per mangiare. “Io non gli consentii nemmeno di uscire dalla stanza e feci portare lì dei panini – ha aggiunto –. Ci portarono dei panini. Lui si mise in un angolo, io in un altro. Ricordo bene quel giorno perché al tempo ebbi la sgradevolissima sensazione di stare mangiando nella stessa stanza con una persona che asseriva di aver partecipato, anche se marginalmente, a quella strage per cui io avevo pianto”.
Per quanto riguarda successivi interrogatori, pur non potendo escludere che non vi furono sospensioni, l’ex pm palermitano ha dichiarato di non aver mai parlato con Scarantino in un momento di interruzione né di aver mai visto colleghi o investigatori farlo.
I dubbi su Scarantino. Di Matteo è poi entrato nel merito dei dubbi che riguardavano le dichiarazioni del picciotto della Guadagna, ricordando che l’attendibilità fu riconosciuta in forma limitata: “Eravamo convinti che da un certo punto in poi Scarantino aveva cominciato a inquinare il quadro probatorio. Ovvero quando inserì come presenti in quella riunione a villa Calascibetta i tre pentiti Di Matteo, La Barbera e Cancemi. Nel processo bis sulla strage, nei confronti degli imputati tirati in ballo solo da lui, abbiamo chiesto l’assoluzione. Valutazione che fu condivisa dai giudici del primo grado. Poi furono condannati in appello ma lì non so cosa accadde. Addirittura nel cosiddetto processo Borsellino ter nemmeno lo abbiamo messo in lista testi”.
Rispetto alle note inviate da Ilda Boccassini alla Procura in cui si faceva riferimento alle perplessità su Scarantino ha detto di non esserne mai venuto a conoscenza: “Ho saputo delle lettere della Boccassini solo successivamente, tra il 2008 e il 2010, quando a Palermo mi occupavo di Gaspare Spatuzza. Le lessi in epoca successiva. Posso dire che fino a novembre 1994 non fui mai informato delle indagini sulle stragi e non partecipai a nessuna riunione in procura in cui fosse presente anche Ilda Boccassini. Con la collega Boccassini non ho mai avuto la possibilità e la fortuna di parlare non solo delle stragi ma di indagini in generale. Per me era ed è un magistrato da stimare moltissimo, ma con la quale la conoscenza si limitava a incontri al bar”.
Pentiti contrastanti. Nel percorso di collaborazione, che poi si è scoperto essere falsa, di Scarantino una data chiave è quella del 6 settembre 1994, ovvero il giorno in cui, interrogato dai pm Palma, Petralia e Boccassini, chiamò in causa nella strage i pentiti Mario Santo Di Matteo, Salvatore Cancemi e Gioacchino La Barbera inserendoli come partecipanti nella riunione a Casa Calascibetta. “In quel momento certo era che elementi di criticità, al tempo, emersero anche nel dichiarato di altri collaboratori. C’erano dubbi su di lui, ma c’erano anche fortissimi dubbi sulla genuinità e sulle dichiarazioni rese fino a quel momento da Mario Santo Di Matteo: su di lui c’era un’intercettazione del colloquio con la moglie Franca Castellese, era la prima volta che i due si vedevano dopo il rapimento del figlio, un momento drammatico. In cui lei non è che invita il marito a ritrattare quello che aveva già detto sulle sue conoscenze sulla strage di Capaci, ma lo invita a non parlare di via d’Amelio alludendo a infiltrati esterni, anche della polizia. Non l’abbiamo incriminata perché in quel momento non avevamo la forza di andare avanti in un processo… Non è che ci siamo impietositi perché si trattava di una signora che aveva subito il sequestro e la morte di un figlio, ma abbiamo valutato che in quel momento non avevamo elementi sufficienti a sostenere un’accusa di giudizio”. Ma i dubbi riguardavano anche l’ex boss di Porta Nuova, Totò Cancemi: “Lui fino al ’93 dice che i mandamenti coinvolti erano quelli di Guadagna e Brancaccio, ma sapevamo che non sapeva solo questo, era reticente. Era una questione di logica. Razionalmente non si poteva accettare che lui non sapesse nulla in quanto era un componente della Commissione”. I confronti tra i pentiti si svolsero il 13 gennaio 1995. Il verbale di quell’atto, all’epoca, fu al centro di una forte polemica scaturita dalla richiesta degli avvocati Di Gregorio, Marasà e Scozzola di poterli leggere. Come è noto il deposito posticipato di quegli atti al processo “Borsellino bis” era costata una denuncia da parte dei tre legali nei confronti dei pm Annamaria Palma, Carmelo Petralia e Nino Di Matteo per “comportamento omissivo”. A loro volta i magistrati avevano denunciato per calunnia i tre avvocati. Il 25 febbraio 1998 il Gip di Catania aveva definitivamente archiviato l’inchiesta sui sostituti procuratori di Caltanissetta in quanto priva di alcun “comportamento omissivo”.
Oggi il Consigliere del Csm è tornato sul punto: “Anche se ero l’ultimo venuto lì, sono stato il primo a pretendere che si facessero dei confronti, che non abbiamo depositato subito nel Borsellino bis, ma dopo, in coincidenza dell’udienza dibattimentale del bis in cui viene sentito Cancemi e il rinvio per il ter. Quindi comunque prima che l’istruttoria dibattimentale finisse. Su questa storia siamo stati denunciati a Catania, c’è stata l’archiviazione, ma le date sono importanti. Non depositarli subito fu una decisione dell’intera Dda stabilita in una riunione”.
Durante l’esame ha dunque ricordato che nella requisitoria del bis “fu dato dai pm un giudizio di attendibilità assai, ma assai, limitata mentre nel processo ter non lo abbiamo neppure inserito nella lista dei testimoni. E nei confronti di chi era accusato esclusivamente da Scarantino abbiamo chiesto l’assoluzione di tre dei revisionati. Questo non viene detto da nessuno”.
Le telefonate di Scarantino. Rivolgendosi alla Corte ha poi aggiunto: “Ci tengo a dire che sono stato il primo a dire che Vincenzo Scarantino aveva il mio numero di telefono cellulare e mi chiamava. Mi telefonava perché qualcuno gli aveva dato il mio telefono. Ricordo un episodio particolare, quando mi mandò una sequenza di messaggi telefonici in cui sosteneva che il dottor Arnaldo La Barbera e Gabrielli lo avevano tradito nelle aspettative. E che voleva tornare in carcere, disse ‘nell’inferno di Pianosa’. Ricordo di avere detto ‘ma chi glielo ha dato il mio numero?’ e seppi che glielo aveva dato il procuratore Giovanni Tinebra. Io non do spiegazioni ma mi preme dire una cosa: in quel momento, siamo nel ’93-’94, era un momento nel quale i collaboratori di giustizia scontavano dei problemi e vedevano nell’ufficio del Procuratore la speranza di una risoluzione di quelle problematiche. Poteva capitare, dunque, che in ufficio telefonassero. A me è accaduto con Cancemi, Mutolo o Di Carlo, ma certo non per parlare di indagini, ma per dire ‘io qui sto scoppiando, datemi una soluzione dignitosa per me e la famiglia’. Mentre per me è stato un dato eccezionale, e mi ha fatto incavolare, che qualcuno gli avesse dato il mio numero”.
E’ a quel punto che Di Matteo, anche anticipando le domande sul tema delle intercettazioni del telefono di Scarantino quando si trovava in località protetta, ha aggiunto: “Dopo il verbale dell’ottobre ’94 pensavamo che avesse l’obiettivo di essere smentito, fu uno scrupolo per monitorarlo”. E poi ancora: “Mai nessuno con me si è permesso di dire che volevano aggiustare qualche dichiarazione. Quando si parla di preparazione di un pentito bisogna dire che è un’attività normale, seguita da tutti. Io ho preparato Cancemi, Ferrante, Onorato, tutti quelli che smentivano Scarantino. Preparare significava semplicemente dire ‘giorno tot comparirà davanti alla corte d’Assise, gli argomenti saranno questo, questo e quest’altro, dica la verità, né una cosa in più né una meno, esponga i fatti con chiarezza’. Si chiedeva al collaboratore di essere chiaro, sincero, lineare”.
Il Gruppo Falcone e Borsellino e la gestione Scarantino. Rispetto ai tre poliziotti imputati ha ricordato che quello con cui si confrontava di più sulle indagini era Mario Bo, ma che un confronto vi era anche con gli ispettori Maniscaldi e Ricerca. Per poi aggiungere: “Ribaudo e Mattei avevano un ruolo marginale. Quest’ultimo lo ritrovai a Palermo in uno dei primi processi di cui mi occupai a carico di un funzionario dei Servizi che aveva fatto carriera con Contrada, D’Antone. Lo rividi perché era testimone di una situazione che pesò molto poi nella condanna definitiva per concorso in associazione mafiosa. Quella di Mattei fu una delle testimonianze più importanti. Raccontò due episodi: la sua presenza al battesimo del nipote di Pietro Vernengo alla chiesa della Magione, e il mancato blitz all’hotel Costa Verde di Cefalù. La sua testimonianza pesò molto in termini di accusa per la condanna definitiva di D’Antone”.
Sulla gestione di Vincenzo Scarantino da parte del gruppo Falcone e Borsellino Di Matteo ha dichiarato che in base a quel che è il suo ricordo lo stesso “si recava sul posto in cui Scarantino era con la famiglia saltuariamente. Non ho un ricordo di loro che per tutto l’arco della collaborazione si stabilisce lì dove si trova, 365 giorni l’anno, 24 ore al giorno. C’era una protezione locale, non c’era esclusività da parte del gruppo Falcone-Borsellino, loro andavano in supporto, a dare il cambio”. Quella presenza, però, stando ai documenti, era continuativa.
Il fatto che fosse assegnata al Gruppo Falcone e Borsellino la tutela del collaboratore di giustizia non doveva però sorprendere. “C’erano anche altri pentiti che, prima di essere assegnati all’ufficio centrale di protezione, erano gestiti dagli stessi organi che si occupavano delle indagini. Penso alla Dia con Mutolo o Cancemi con il Ros dei carabinieri. Personalmente ricordo che gli uomini del gruppo Falcone-Borsellino non è che la vivessero con molto entusiasmo la gestione di Scarantino”.
La doppia ritrattazione. Altro argomento affrontato durante esame e controesame è quello delle due ritrattazioni del picciotto della Guadagna. Rispetto alla prima, quella televisiva del luglio 1995, Di Matteo ha spiegato che si trovava in ferie e di aver saputo al suo rientro che “la situazione era rientrata. Così mi dissero i colleghi. L’indagine sui giornalisti Mediaset ed il sequestro? Non ho saputo nulla. Ricordo sicuro di aver letto le trascrizioni di quel che era andato in onda ma non so se corrisponde a quello che fu acquisito integralmente o meno. Ma non ricordo se fui edotto o meno di questa indagine. Tendo a dire che non fui edotto”.
Di seguito ha spiegato quel che avvenne nel 1998, a Como, quando Scarantino in aula accusò investigatori e magistrati. “Per me la ritrattazione di Scarantino era scontata – ha ricordato-, non mi ha sorpreso per niente quando l’ha fatta a dibattimento. Non abbiamo indagato sulla sua ritrattazione, ma su una possibile induzione a ritrattare: perché c’era un dato di fatto grande quanto una casa. Cosima D’Amore, moglie di Gaetano Scotto allora latitante, diceva che c’erano gli avvocati che stavano raccogliendo soldi per la ritrattazione di Scarantino. Dunque il problema non fu ritrattazione veritiera o meno, ma spontanea o coadiuvata da altri. Comunque nel momento in cui Scarantino ci aveva accusato non potevamo più proseguire e chiedemmo di non occuparci dell’indagine”.
Contrada i Servizi e l’Agenda Rossa. Che vi fosse un coinvolgimento dei servizi di sicurezza nelle indagini sulle stragi è un dato ormai riscontrato processualmente sia dalle agende di Contrada che nel ritrovamento di alcune informative in cui si parlava di Scarantino come parente di boss mafiosi del calibro dei Madonia di Resuttana. “Mi accorsi per la prima volta di quell’informativa nel 1995 quando mi occupai della riapertura dell’indagine per concorso in strage su Bruno Contrada. Ma io non ho mai visto o constatato, né mi fu detto di rapporti di uomini del Sisde con la polizia giudiziaria” ha detto Di Matteo. Quindi ha aggiunto: “Una cosa che mi diede fastidio all’epoca era vedere spesso in Procura un soggetto, Rosario Piraino, che si presentava come capocentro Sisde a Caltanissetta. Questa persona frequentava costantemente le stanze dei pm, ma anche una collega giudicante, seppur come supplente, del Borsellino Uno. Dalle agende di Contrada scoprii che due giorni dopo la strage aveva accompagnato Contrada da Tinebra”.
Proprio nelle scorse udienze il pm Carmelo Petralia aveva detto di aver visto Contrada, nel 1992, negli uffici del Procuratore capo di Caltanissetta e di aver partecipato anche ad un pranzo, a cui erano presenti 007 e magistrati, all’Hotel San Michele di Caltanissetta.
Ed è in quel momento che il consigliere ha riferito di quelle indagini aperte nei confronti dell’ex numero tre del Sisde: “Fu aperta una indagine molto spinta sui Servizi Segreti. Fui io a riaprire le indagini su di lui sulla base delle dichiarazioni del pentito Elmo che ci aveva detto di averlo visto allontanarsi dal teatro dell’attentato con una borsa, o dei documenti in mano. A quel punto lessi tutto il vecchio fascicolo, acquisii le sue agende”. “Vedendo quegli atti mi accorsi che c’era stato un ufficiale del Ros, Sinico, che era andato in procura a Palermo e aveva riferito ad alcuni magistrati di aver saputo che la prima volante accorsa dopo l’esplosione aveva constatato la presenza di Contrada. E raccontava anche di una relazione di servizio che attestava la presenza di Contrada in via d’Amelio e che poi sarebbe stata strappata in Questura – ha spiegato ancora -. Quel che mi fece trasalire è che quando fu sentito dalla collega Boccassini, nel 1992, mise a verbale quella circostanza dicendo di averlo saputo da un suo amico carissimo, non un confidente, di cui voleva tutelare l’identità. Andai a interrogarlo e ribadì le medesime parole. Quando io stavo per chiedere il rinvio a giudizio del carabiniere lui venne in Procura e depositò una memoria della quale avrebbe parlato con il colonnello Mori, facendo il nome della sua fonte: il funzionario di polizia Roberto Di Legami. Ricordo anche il momento dei confronti che fu drammatico. Di Legami negò tutto, fu anche rinviato a giudizio perché avevamo due militari contro uno. Dell’esito di quel processo appresi successivamente, quando già ero a Palermo e seppi che il funzionario fu assolto”.
Quelle indagini, di fatto, aprivano il filone investigativo sull’agenda rossa prima ancora del rinvenimento della fotografia del capitano Arcangioli: “Il mio impegno era finalizzato a capire per mano di chi fosse sparita. Abbiamo fatto il possibile per accertarlo, anche scontrandoci con reticenze bestiali sulla presenza di esponenti delle istituzioni nel luogo dell’attentato. Da qui sarei voluto ripartire per tante altre cose”. Tornando a parlare delle dichiarazioni di Elmo ha ricordato che questi “disse di aver visto in via d’Amelio, assieme a Contrada, anche Narracci, il Capo centro Sisde di Palermo. Per noi non era un nome qualsiasi perché il suo numero di telefono personale era stato trovato anche in un bigliettino rinvenuto a poche centinaia di metri dal luogo della strage di Capaci. Quando procedemmo con l’individuazione di persona Elmo non lo riconobbe. Quando andai a Palermo seppi che Elmo aveva rilasciato una dichiarazione in cui diceva che in realtà lo aveva riconosciuto ma di non aver verbalizzato il riconoscimento perché indotto da un ufficiale di polizia giudiziaria che era presente in quel giorno”.
Alfa e Beta (Berlusconi e Dell’Utri). Nel lungo controesame l’ex pm Di Matteo è tornato sull’argomento dell’iscrizione nel registro degli indagati di Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri, come mandanti esterni alle stragi. Un’inchiesta che traeva origine dalle dichiarazioni di Cancemi e che incontrò delle opposizioni. “Resistenze o no, io e i colleghi siamo andati avanti per la nostra strada – ha detto in aula Di Matteo – Sulle indagini su Contrada e la eventuale presenza di personaggi dei servizi nessuno mi disse mai nulla. Le indagini le facevamo noi e nessuno mi pose mai un freno. Per quanto riguarda invece i mandanti esterni alle stragi e il coinvolgimento di Berlusconi e Dell’Utri fu diverso: ci fu una riunione della Dda e fu imbarazzante. Già si sapeva che la riunione era stata convocata per valutare l’eventuale iscrizione di Berlusconi e Dell’Utri nel registro degli indagati. Il procuratore di allora Giovanni Tinebra dopo una lunga e animata discussione diede l’ok anche se non era d’accordo, ma disse anche che dovevamo procedere con nomi di fantasia e che lui non avrebbe sottoscritto nessun atto. Certamente nelle indagini sui mandanti esterni non ci fu vicino. Posso dire che può essere questo un modo di non sostenere e non partecipare, prendendo le distanze all’interno e all’esterno. Quando chiedevamo accertamenti alla Dia di Roma e alle altre Procure partivano le deleghe ma le sole firme erano la mia e quella del collega Tescaroli, ovvero di due sostituti. E questo certo non deponeva bene a favore dell’indagine”.
Rispondendo ad una domanda dell’avvocato Fabio Repici ha ricordato che Tinebra cambiò la sua opinione sulla collaborazione di Cancemi proprio quando fece i nomi di Dell’Utri e Berlusconi: “Non c’è dubbio che fino a quando Cancemi non fece quel riferimento e su quanto si disse nella riunione a casa di Guddo il Procuratore aveva una valutazione positiva. Da quel momento in poi colsi un cambio. Che vi fu un atteggiamento che, rappresentava lui anche essere l’atteggiamento di Mori, ma non so se sia vero, di scaricare Cancemi. E una volta fece anche la battuta dicendo che: ‘questo si era messo a calunniare’. Ma noi volevamo prima fare gli accertamenti necessari”.
Sempre riferendosi alle indagini sui mandanti esterni ha poi aggiunto: “Era chiaro che rispetto al programma originario di Cosa nostra fosse intervenuto un fattore improvviso di accelerazione – ha detto in aula Di Matteo – Furono aperti più filoni. Uno portava alla trattativa Stato-mafia. Un altro possibile era quello di mafia-appalti, però ci concentrammo anche su alcune esternazioni del dottor Borsellino come l’intervista resa ai giornalisti francesi (quella in cui parlò di indagini su Dell’Utri, ndr); una rilasciata al giornalista D’Avanzo in cui affermava che sarebbe andato a Caltanissetta a riferire una serie di circostanze utili per capire chi, e perché, aveva ucciso Falcone, facendo riferimento a fatti; e poi la considerazione su Provenzano e Riina che ‘come due pugili si fronteggiano all’interno di uno stesso ring’ in un momento in cui molti pensavano che Provenzano fosse morto e non risultava un’eventuale contrapposizione
Relazioni ignote. Nel corso dell’esame Di Matteo ha anche detto di non aver mai visto alcune note e relazioni, del settembre 1994, firmate dai suoi colleghi. La prima è quella del 16 settembre 1994, firmata dalla dottoressa Palma ed inviata al Procuratore della Repubblica in cui si fa riferimento ad un interrogatorio di Andriotta in cui avrebbe parlato di Scarantino e della riunione a casa Calascibetta.
Il secondo documento è quello di una relazione di servizio del 9 settembre 1994, firmata da Petralia, in cui riferisce che in un colloquio investigativo con Mario Santo Di Matteo, in cui era presente Arnaldo La Barbera, il collaboratore aveva dichiarato di conoscere Scarantino e che avrebbe parlato della strage di via d’Amelio. Un dato “anomalo” tenuto conto che il pentito, padre del piccolo Giuseppe Di Matteo, non parlerà mai dell’attentato del 19 luglio 1992 e nei confronti negherà di aver mai visto in vita sua il falso pentito.
“Non ho mai conosciuto questa relazione di servizio. Lo affermo con maggiore certezza perché altrimenti in occasione dei confronti e soprattutto quando cercammo di approfondire il contenuto di quelle intercettazioni con la moglie in cui si parlava dei poliziotti infiltrati nella strage di via d’Amelio, ci saremmo tornati. Questo elemento conforterebbe il dato che il sequestro del bambino e l’uccisione fu finalizzato proprio per non farlo parlare di via d’Amelio. Ma non ricordo proprio che Petralia mi abbia parlato di questa relazione. Per me è un dato significativo e se lo avessi saputo lo avrei scolpito nella memoria”.
Il processo è stato rinviato al 7 febbraio, quando verranno sentiti alcuni funzionari Dia. Nelle prossime udienze il tribunale sarà chiamato a decidere anche sulla deposizione del magistrato Ilda Boccassini che, per motivi di salute, non potrà venire a Caltanissetta. Per questo motivo la Procura ha chiesto di sentirla in videoconferenza o in trasferta a Milano, dove risiede. 19luglio1992.it
Strage di via d’Amelio: la testimonianza di Di Matteo Fiammetta Borsellino lo attacca e sbaglia ancora! – di Giorgio Bongiovanni
Nella giornata di ieri, al Tribunale di Caltanissetta, ha avuto luogo la deposizione fiume, in qualità di testimone, del consigliere del Csm Nino Di Matteo, nel processo sul cosiddetto depistaggio sulla strage di via d’Amelio. Un esame in cui, come si evincerà dall’articolo di Aaron Pettinari, non solo sono state spiegate le scelte che furono compiute in merito alla “vicenda Scarantino” ma è stato abbondantemente affrontato il tema dei “mandanti esterni” della strage per una ricerca della verità che sia davvero completa.
Eppure, nonostante ciò, a fine udienza Fiammetta Borsellino (figlia del giudice Paolo Borsellino, ucciso il 19 luglio 1992), intervenendo con i giornalisti fuori dall’aula, è tornata ad attaccare il magistrato, dicendo di “sentirsi ingabbiata”, di “non aver constatato da parte di nessuno una volontà di dare un contributo al di là delle proprie discolpe personali per capire quello che è successo”, di vedere “un’enorme difficoltà a fare emergere la verità”. E poi ancora: “Ho ascoltato molto attentamente la deposizione del consigliere Di Matteo e rimango sempre stupita da questa difesa, oltre che personale, a oltranza di questi magistrati e poliziotti che si sono occupati dell’indagine sulla strage. Ma sembrano tutti passati lì per caso”. “Sembra che tutto quello che riguarda la vicenda di Scarantino e del depistaggio sia avvenuto per le virtù dello spirito santo – ha proseguito – Si tende a stigmatizzare la vicenda Scarantino come un piccolo segmento di una questione più grande. Io non penso che quello di Scarantino sia un segmento così piccolo. Ci si riempie la bocca del lavoro in pool, ma io di pool non ne ho visto nemmeno l’ombra. Tutte le volte in cui si chiede come mai non sapessero nulla dei colloqui investigativi, della mancata audizione di Giammanco, cadono dalle nuvole. Tutti dicono che sono venuti in un momento successivo ma ciò non vuol dire non venire a sapere ciò che accadeva prima. Io penso che di mio padre non abbia capito niente nessuno di questi magistrati”.
Un’invettiva, dura, rabbiosa e a nostro parere profondamente ingiusta e sbagliata. Spieghiamo perché.
Più volte abbiamo detto che il dolore di chi ha perso un familiare va rispettato. Specie se la perdita è avvenuta in maniera così tragica, come per Paolo Borsellino e gli agenti di scorta e se dopo 27 anni vi sono ancora tanti buchi neri sulla strage (basti pensare che ancora non è dato sapere con certezza chi premette il telecomando che portò all’esplosione, ndr).
Tuttavia, dopo essere stati presenti in aula ed aver assistito all’intera deposizione, ci sembra che a “cadere dalle nuvole” non sia il magistrato, ma la stessa figlia del giudice che, è ormai evidente, non ha ascoltato gli argomenti e le spiegazioni date, forse a causa di un forte pregiudizio nei confronti di tutti i magistrati della Procura dell’epoca ma, in particolare, di Nino Di Matteo.
Perché sei ore e trentadue minuti di processo (tanto è durata la deposizione) non si possono esaurire in quelle poche parole.
Di Matteo ha risposto con precisione e puntualità alle domande poste dai pm, ma anche a quelle delle parti civili e delle difese degli imputati.
Anche quelle più provocatorie ed aspre, poste dall’avvocato Rosalba Di Gregorio, hanno trovato risposta nel merito dei fatti.
Un “match”, se vogliamo, in cui il magistrato ha spazzato via dubbi e insinuazioni.
Nella deposizione si è parlato a lungo delle indagini condotte in quegli anni sulla strage.
Ha spiegato che del Procuratore capo di Palermo Giammanco fu utilizzato il suo intervento davanti alla Commissione Parlamentare antimafia, nell’estate ’92, e che nelle requisitorie venne evidenziato non solo il dato del contrasto tra Giammanco e Borsellino ma il “sostanziale ostracismo” e la “volontà di non valorizzare l’esperienza di Borsellino” nel suo lavoro a Palermo.
Come al Borsellino quater ha dichiarato, non nascondendo la propria amarezza, di non essere mai stato informato dell’esistenza dei colloqui investigativi, autorizzati da altri magistrati, tra i poliziotti e Vincenzo Scarantino, dopo che questi aveva già iniziato la propria collaborazione con la giustizia.
Per l’ennesima volta è stato spiegato che il “picciotto della Guadagna”, per quelli che erano gli elementi raccolti al tempo, non era l’unico su cui erano stati sollevati dei dubbi. Anche Salvatore Cancemi e Mario Santo Di Matteo presentavano delle criticità, nel loro dichiarato, che andavano superate.
Di Matteo, testualmente, dice:
“C’erano dubbi molto seri sull’attendibilità di Scarantino, quando lui ha introdotto i nomi di questi altri soggetti. C’erano dubbi su di lui, ma c’erano anche fortissimi dubbi sulla genuinità e sulle dichiarazioni rese fino a quel momento da Mario Santo Di Matteo: su di lui c’era un’intercettazione del colloquio con la moglie Franca Castellese, era la prima volta che i due si vedevano dopo il rapimento del figlio, un momento drammatico. In cui lei non è che invita il marito a ritrattare quello che aveva già detto sulle sue conoscenze sulla strage di Capaci, ma lo invita a non parlare di via d’Amelio alludendo a infiltrati esterni, anche della polizia. Non l’abbiamo incriminata perché in quel momento non avevamo la forza di andare avanti in un processo… Non è che ci siamo impietositi perché si trattava di una signora che aveva subito il sequestro e la morte di un figlio, ma abbiamo valutato che in quel momento non avevamo elementi sufficienti a sostenere un’accusa di giudizio. Forti dubbi anche su Totò Cancemi: lui fino al ’93 dice che i mandamenti coinvolti erano quelli di Guadagna e Brancaccio, ma sapevamo che non sapeva solo questo, era reticente”.
Il testimone, quindi, prosegue spiegando il motivo per cui i verbali di confronto tra i pentiti non furono depositati nell’immediatezza dell’atto: “Anche se ero l’ultimo venuto lì, sono stato il primo a pretendere che si facessero dei confronti, che non abbiamo depositato subito nel Borsellino bis, ma dopo, in coincidenza dell’udienza dibattimentale del bis in cui viene sentito Cancemi e il rinvio per il ter. Quindi comunque prima che l’istruttoria dibattimentale finisse. Su questa storia siamo stati denunciati a Catania, c’è stata l’archiviazione, ma le date sono importanti. Non depositarli subito fu una decisione dell’intera Dda stabilita in una riunione”.
E poi ancora gli elementi che furono raccolti in cui si evidenziarono delle pressioni su Scarantino per ritrattare le proprie dichiarazioni.
Dichiarazioni che, vale la pena ricordare, così come afferma la stessa sentenza del Borsellino quater, piaccia o non piaccia, aveva anche dei nuclei di verità.
Ma il cuore della deposizione è soprattutto in quei collegamenti, importantissimi, su quella ricerca della verità che va oltre Cosa nostra. Una ricerca che non si esaurì solo nel periodo vissuto come magistrato a Caltanissetta ma anche successivamente a Palermo, con inchieste come quella sulla trattativa Stato-mafia, e poi alla Procura nazionale antimafia.
Proprio Di Matteo, rispondendo ai pm, ha dichiarato che in quegli anni le indagini sulla strage impegnavano il pool “anche 8 ore al giorno” e che in quell’arco di tempo “dieci minuti potevano riguardare Scarantino” ma si parlava “anche di altre cose”.
Ma cosa intendeva con quelle “altre cose”? La domanda sul punto, purtroppo, non è stata fatta dai pubblici ministeri Gabriele Paci e Stefano Luciani, ma è stato comunque possibile comprenderlo mettendo assieme altri passaggi della deposizione: le inchieste sui “mandanti esterni”.
E’ necessario, infatti, approfondire e capire chi “prese per la manina”, come disse Cancemi, Totò Riina per le stragi e, soprattutto, quel che accadde nei 57 giorni tra Capaci e via d’Amelio e negli attimi immediatamente successivi all’attentato. A cominciare dalla sparizione dell’agenda rossa.
Indagini che, ha affermato il consigliere del Csm, “non nascono solo quando ANTIMAFIADuemila porta in Procura la fotografia del capitano Arcangioli, ma nascono da un altro filone in cui vi sono state reticenze istituzionali bestiali” ovvero da quell’inchiesta aperta, proprio su sua richiesta, sui servizi di sicurezza. L’intento era quello di scandagliare l’ipotesi di una presenza dell’ex numero tre del Sisde, Bruno Contrada, in via d’Amelio.
“Indagai a fondo sulla presenza di Bruno Contrada in via d’Amelio dopo la strage – ha detto Di Matteo -. Fui io a riaprire le indagini su di lui sulla base delle dichiarazioni del pentito Elmo che ci aveva detto di averlo visto allontanarsi dal teatro dell’attentato con una borsa, o dei documenti in mano. A quel punto lessi tutto il vecchio fascicolo, acquisii le sue agende”. “Vedendo quegli atti mi accorsi che c’era stato un ufficiale del Ros, Sinico, che era andato in procura a Palermo e aveva riferito ad alcuni magistrati di aver saputo che la prima volante accorsa dopo l’esplosione aveva constatato la presenza di Contrada. E raccontava anche di una relazione di servizio che attestava la presenza di Contrada in via d’Amelio e che poi sarebbe stata stracciata negli uffici della polizia di Palermo – ha spiegato ancora -. Fu aperta una indagine molto spinta sui Servizi Segreti. Io stavo per chiedere il rinvio a giudizio del carabiniere che, poi, si decise a fare il nome della sua fonte, anche in accordo con il colonnello Mori, che indicò in Roberto Di Legami, funzionario di polizia. Di Legami negò tutto. Fu anche rinviato a giudizio. Dell’esito di quel processo appresi successivamente, quando già ero a Palermo e seppi che Di Legami fu assolto”.
Una vicenda torbida, come ha sottolineato il magistrato, in cui è evidente che qualcuno ha mentito. Ancora Di Matteo ha raccontato di Gaetano Scotto, boss dell’Arenella a detta di numerosi collaboratori di giustizia vicino ai Servizi di sicurezza, delle dichiarazioni del pentito Totò Cancemi che parlò proprio nel processo bis su via d’Amelio, per la prima volta, di Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri come mandanti delle stragi. Parole, queste ultime, che portarono all’apertura di un’inchiesta che non fu appoggiata da tutta la Procura. “Ci fu una riunione della Dda – ha ricordato Di Matteo – convocata per l’iscrizione dell’onorevole Berlusconi e Dell’Utri e fu imbarazzante. Il procuratore di allora Giovanni Tinebra si presentò con una copia di un giornale, mi pare che fosse ‘Il Giornale’ sotto braccio, che in quell’occasione pubblicò un articolo con un titolo molto critico nei confronti del collaboratore Salvatore Cancemi. Io e i colleghi Petralia e Tescaroli insistemmo per l’iscrizione. Poi, dopo una lunga e animata discussione il procuratore Tinebra diede l’ok, ma disse anche che dovevamo procedere con nomi di fantasia e che lui non avrebbe sottoscritto nessun atto”. Un vero e proprio stato di “isolamento” che in qualche maniera si era già presentato durante le indagini sui servizi dove il Procuratore capo, pur non impedendo l’inchiesta, non presenziò mai ad alcun interrogatorio o confronto (“Nelle indagini sui mandanti esterni certamente non ci fu vicino”).
Sono questi i fatti per cui quanto avvenuto con la vicenda Scarantino può essere considerato “un segmento” del grande scenario investigativo nella ricerca della verità sulla strage. Una ricerca che inevitabilmente passa attraverso la necessità di mettere in fila quel che accadde nei 57 giorni tra Capaci e via d’Amelio e nella comprensione degli elementi che portarono all’accelerazione dell’attentato. “Era chiaro che rispetto al programma originario di Cosa nostra fosse intervenuto un fattore improvviso di accelerazione – ha detto in aula Di Matteo – Furono aperti più filoni. Uno portava alla trattativa Stato-mafia. Un altro possibile era quello di mafia-appalti, però ci concentrammo anche su alcune esternazioni del dottor Borsellino come l’intervista resa ai giornalisti francesi (quella in cui parlò di indagini su Dell’Utri, ndr); una rilasciata al giornalista D’Avanzo in cui affermava che sarebbe andato a Caltanissetta a riferire una serie di circostanze utili per capire chi, e perché, aveva ucciso Falcone, facendo riferimento a fatti; e poi la considerazione su Provenzano e Riina che ‘come due pugili si fronteggiano all’interno di uno stesso ring’ in un momento in cui molti pensavano che Provenzano fosse morto e non risultava un’eventuale contrapposizione”.
Son questi gli elementi d’indagine con cui si misurava, tanto al tempo quanto oggi, la Procura di Caltanissetta. E di questo si è sempre occupato il magistrato Di Matteo.
Non possiamo dimenticare che un altro tassello sull’esistenza di mandanti esterni si evince anche dalla condanna a morte che figure come Totò Riina e Matteo Messina Denaro hanno emesso, per conto di altri, nei confronti dello stesso magistrato.
Non ne ha parlato in aula ma è noto quanto detto da Vito Galatolo, il 3 novembre 2014, quando allo stesso pm, che al tempo si occupava del processo Stato-mafia, disse: “‘Guardi che nei suoi confronti c’è un piano di attentato già in avanzatissima fase. Abbiamo già studiato come ucciderla a Palermo, abbiamo fatto pedinamenti ed abbiamo anche concepito un piano diverso per ucciderla a Roma dove lei si muove con una scorta meno professionalmente attrezzata’. In quella stanza vi era un’immagine di Falcone e Borsellino. E l’ex boss dell’Acquasanta indicò la fotografia. Prima riferendosi a Falcone disse: ‘Le vede? Con quella cosa non c’entra niente perché là è tutto chiaro’. E poi aggiunse: ‘L’altro – indicando Borsellino – Io ero piccolo e poi ho saputo. Ed è la stessa cosa che sta succedendo con lei… a noi ce l’hanno chiesto'”.
Un progetto di attentato che, come scriveranno i pm nisseni nella richiesta di archiviazione d’indagine, è ancora in corso.
Alla luce di tutto ciò, come si fa a dire di non aver constatato una volontà di dare un contributo a fare emergere la verità?
L’unica risposta che troviamo è che questi fatti, evidentemente, a Fiammetta Borsellino non interessano.
Si preferisce puntare il dito concentrandosi su eventuali errori commessi (certamente non dal pm Di Matteo, ndr).
Accusare, senza fare le dovute distinzioni, genera solo confusione.
In qualche modo lo stesso errore che fecero certi Personaggi quando, ugualmente, accusarono la Procura di Palermo e Giovanni Falcone di “nascondere le carte nei cassetti”.
Oggi come allora si è aperta una “caccia al magistrato” dai gravi contorni che porta dritti a quella delegittimazione ed isolamento di uomini che, come Di Matteo, hanno dato la propria vita nella ricerca della verità, rievocando proprio gli anni delle stragi.
E fa male che a prenderne parte non siano solo avvocati avversi o potenti di turno, sia proprio una parente stretta di un martire del nostro tempo. ANTIMAFIA2000 4.2.2020
Di Matteo: «No alla protezione a Spatuzza, rimette in discussione le stragi»
La scomparsa dell’allora capo della procura di Caltanissetta Giovanni Tinebra e di Arnaldo La Barbera, le dichiarazioni contraddittorie dello pseudo pentito Vincenzo Scarantino che perdurano nel corso degli anni e il silenzio – ineccepibile in punto di diritto – del quale si sono avvalsi gli imputati di reato connesso i poliziotti Mario Bo’, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, fa «ritenere che non si sia giunti alla concretizzazione di alcuna notizia di reato nei confronti degli indagati». Così il procuratore di Messina Maurizio de Lucia ha chiesto l’archiviazione nei confronti dei due ex pm di Caltanissetta, Carmelo Petralia e Annamaria Palma, i quali nei mesi successivi alla strage di Via D’Amelio, dove perse la vita Paolo Borsellino credettero al falso pentito Vincenzo Scarantino. In 164 pagine il pool guidato dal procuratore De Lucia ricostruisce l’inchiesta avviata dopo la scoperta dei nastri con le registrazioni delle telefonate che l’allora – considerato superpentito – Scarantino fece ai Pm che, coordinati dal capo procuratore Tinebra, seguivano le indagini del gruppo investigativo “Falcone/ Borsellino” guidati da Arnaldo La Barbera. Indagini che, anni dopo, si scoprirono, grazie alla collaborazione del vero pentito Gaspare Spatuzza, inquinate dalle false dichiarazioni di Scarantino indottrinato per allontanare la verità. Da chi sarebbe stato eterodiretto ancora bisogna accertarlo processualmente. Per la procura di Messina il depistaggio c’è stato ( così come sentenziato dal Borsellino Quater), ma non per opera dei magistrati Palma e Petralia.
Ma una riflessione, nelle conclusioni della richiesta di archiviazione, c’è stata. Le indagini, secondo la richiesta della corte di Assise di Caltanissetta che ha chiesto di valutare la condotta dei magistrati all’epoca in servizio, non hanno consentito di individuare alcuna condotta penalmente rilevante, posta in essere dai magistrati indagati o da altre figure appartenenti alla magistratura. «Indubbiamente – scrive la procura di Messina – senza la successiva collaborazione di Gaspare Spatuzza, di tale falsità non vi sarebbe stata alcuna certezza». Eppure, come vedremo più avanti, inizialmente qualche dubbio sulla sua attendibilità c’è comunque stato. «Tale dato – osserva il procuratore De Lucia – deve fa riflettere sulle possibili disfunzioni sotto il profilo dell’accertamento della verità, di vicende processuali incentrate prevalentemente su prove di natura dichiarativa provenienti da soggetti che collaborano con la giustizia, al punto da determinare che, in ben tre gradi di giudizio, non si riuscisse a svelare tale realtà».
Ma Spatuzza è stato subito ritenuto credibile a differenza di Scarantino? Per esempio, come riportato dalla richiesta di archiviazione, l’allora Pm Nino Di Matteo, qualche dubbio pare averlo manifestato. Nel capitolo relativo a Di Matteo, sentito in procura, è egli stesso a spiegare che nel 2008 si era occupato, per conto della Procura di Palermo, della collaborazione di Spatuzza. Nello specifico ha riferito che, pur avendolo ritenuto attendibile per quella parte di dichiarazioni che interessavano la Procura di Palermo, si era posto un problema di rilevanza di quelle dichiarazioni in quanto riguardanti episodi omicidiari che coinvolgevano soggetti – tra cui lo stesso Spatuzza – già giudicati con sentenze definitive. A pagina 83 della richiesta di archiviazione si aggiunge una nota. Si tratta della dichiarazione di Spatuzza dove riferisce di aver percepito un atteggiamento cauto da parte dei magistrati della procura di Palermo nei suoi confronti, anche in ragione del fatto che costoro, a suo dire, non adottavano alcun provvedimento di protezione a suo favore. Ovviamente si tratta di una sua personale percezione e quindi non oggettiva. Nella medesime nota si legge che era stata la Procura di Firenze a chiedere il programma di protezione nei suoi confronti; a quell’iniziativa si era accodata la Procura di Caltanissetta e, infine, quella di Palermo. «Infine – si legge sempre nella nota – lo Spatuzza ha escluso di aver mai ricevuto domande, anche in modo informale, dal dottor Di Matteo sulla strage di Via D’Amelio». Secondo la procura di Messina, come si legge nella nota a pagina 84 della richiesta di archiviazione, la circostanza che la Procura di Palermo avesse inizialmente assunto «un atteggiamento cauto circa la rilevanza e l’attendibilità del contributo dichiarativo di Spatuzza» ha trovato conferma nel contenuto di un verbale di riunione di coordinamento “delle indagini sulle stragi siciliane del 1992 e del continente degli anni 1993 – 1994”, svoltasi presso la Dna il 22 Aprile del 2009. In quel verbale, tramesso a Messina il 25 marzo del 2019 a seguito di specifica richiesta della procura, sono riportati due interventi di Nino Di Matteo. Sul primo intervento, i magistrati di Messina, riferiscono: «Il dottor Di Matteo ha pure rilevato che non sempre Spatuzza, a suo giudizio, ha affermato il vero; ha aggiunto che, a suo parere, la collaborazione di Spatuzza non è di particolare rilevanza atteso che essa non consente di arrestare nessuno, né di sequestrare alcun bene, né di processare qualcuno. Ha affermato che, secondo lui, non sono particolarmente rilevanti neppure le dichiarazioni rese in ordine agli omicidi di padre Puglisi e del giovane Diego Alaimo». Il secondo intervento del Pm, sempre riferito alla medesima riunione, è così descritto: «Il dottor Di Matteo ha manifestato la sua contrarietà alla richiesta di piano provvisorio di protezione sia perché essa attribuirebbe alla dichiarazione di Spatuzza una connotazione di attendibilità che ancora non hanno, sia perché le dichiarazioni di Spatuzza, sebbene non ancora completamente riscontrate, potrebbero rimettere in discussione le ricostruzioni e le responsabilità delle stragi, oramai consacrate in sentenze irrevocabili, sia perché l’attribuzione, allo stato di una connotazione di attendibilità alle dichiarazioni di Spatuzza potrebbe indurre l’opinione pubblica a ritenere che la ricostruzione dei fatti e le responsabilità di essi, accertate con sentenze irrevocabili, siano state affidate alle dichiarazioni di falsi pentiti protetti dallo Stato, e potrebbe, per tale ultima ragione, gettare discredito sulle Istituzioni dello Stato, sul sistema di protezione dei collaboratori di giustizia e sugli stessi collaboratori di giustizia». 13.1.2020 DAMIANO ALIPRANDI – IL DUBBIO
Quando Spatuzza parlò di via D’Amelio, e non successe niente per dieci anni Il documento completo del “colloquio investigativo” del 1998 tra il collaboratore di giustizia e i magistrati Vigna e Grasso
Che cos’è questo documento
La mattina del 26 giugno 1998 il capo della Direzione Nazionale Antimafia e il suo vice – i magistrati Pier Luigi Vigna e Piero Grasso – andarono nel carcere dell’Aquila per avere un colloquio investigativo con un mafioso che vi era detenuto, Gaspare Spatuzza. Un colloquio investigativo è un formato di interrogatorio previsto dal codice che avviene tra investigatori e detenuti, per ottenere notizie ai fini di un’indagine ma il cui contenuto non può essere usato a processo: una sorta di raccolta informale di informazioni, su cui costruire successive indagini e verifiche, e che salvo eccezioni resterà riservato.
Il verbale di quel colloquio è una trascrizione linguisticamente molto maldestra e inaccurata che fu fatta undici anni dopo, con molti palesi errori, ma racconta molte cose che erano state tenute segrete – come da norma, come per altri colloqui del genere – per sedici anni, prima di comparire per un accidente imprevisto nelle carte pubbliche di un processo nel 2013, a cui fu accluso per errore. Per capire meglio quelle cose – diverse non si capiscono completamente tuttora – c’è bisogno di alcune premesse e descrizioni di contesti che abbiamo intervallato (in corsivo) alla trascrizione: il documento originale è qui.
Ma come può capire chiunque legga la trascrizione e le sue incertezze e i suoi vuoti, sarebbe prezioso un ascolto più accurato dell’audio originale, che la Procura di Caltanissetta – che ne è in possesso – ritiene non divulgabile, con valutazione che suona piuttosto illogica, essendo invece pubblica la sua trascrizione. Ugualmente preziosi alla comprensione di cose tuttora ignote sarebbero i contenuti degli altri colloqui investigativi con Spatuzza di quel periodo.
Chi sono i personaggi
- Gaspare Spatuzzaè un mafioso palermitano, associato alla famiglia Graviano, che era stato arrestato nel luglio 1997 dopo un conflitto a fuoco. È uno degli assassini di don Puglisi, un parroco ucciso nel 1993 per il suo impegno contro la mafia, ha partecipato al rapimento di Santino Di Matteo – il figlio tredicenne di un collaboratore giustizia che fu ucciso dopo due anni di sequestro – ed è stato condannato in primo grado all’ergastolo a Firenze per la strage di via dei Georgofili, uno degli attentati del “periodo delle bombe mafiose” tra il 1992 e il 1993, che è il tema principale del colloquio con i due magistrati. Fu in contatto fin da dopo l’arresto con gli inquirenti, e nel colloquio viene “sondato” sulla possibilità che diventi un “collaborante”. Dal verbale del colloquio si capisce che ce ne sia stato almeno un altro precedente, e che Spatuzza stia trattando con risposte molto parziali e laconiche l’eventualità di diventare un collaboratore di giustizia – succederà ufficialmente solo nel 2008, dieci anni dopo – e valutando il proprio potere contrattuale.
- Pier Luigi Vigna, noto magistrato che condusse molte inchieste importanti, fu il Procuratore nazionale antimafia dal 1997. Fiorentino, affida la gran parte dell’interrogatorio al suo vice, anche perché siciliano e maggiore conoscitore della lingua e della cultura mafiosa. Il loro interesse principale nel colloquio è ottenere eventuali conferme all’ipotesi di un rapporto tra Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri con i boss mafiosi Graviano, rapporto più volte indagato negli scorsi decenni e mai confermato (Dell’Utri è stato invece condannato nel 2014 a sette anni di carcere per avere costruito un rapporto di protezione ed estorsione da parte di alcuni boss mafiosi nei confronti di Berlusconi negli anni Settanta e Ottanta). Il procuratore Vigna andò in pensione nel 2005 e morì nel 2012.
- Piero Grasso, che allora aveva 53 anni, era il vice Procuratore nazionale antimafia. Prima era stato giudice a latere in un famoso “maxiprocesso” alla mafia alla fine degli anni Ottanta, in conseguenza del quale era stato preparato un attentato mafioso contro di lui, poi non eseguito. Nel 1999 sarà nominato Procuratore capo a Palermo e nel 2005 Procuratore nazionale antimafia, succedendo a Vigna (oggi quel ruolo è del magistrato Franco Roberti). Nel 2013 è stato eletto senatore per il Partito Democratico ed è diventato presidente del Senato.
- “I Graviano”, sono le persone di cui si parla più spesso nel colloquio. Sono Giuseppe e Filippo Graviano, boss del quartiere Brancaccio di Palermo, che erano stati arrestati nel gennaio 1994 a Milano e che sono considerati gli ideatori della campagna di stragi di Cosa Nostra tra il 1992 e 1993 su cui Grasso e Vigna stanno indagando. I due fratelli sono figli di Michele Graviano, che secondo alcuni pentiti investì nelle aziende di Silvio Berlusconi i soldi della mafia: e la conservazione di rapporti con Berlusconi da parte dei figli Graviano, e addirittura il coinvolgimento di Berlusconi nelle loro attività criminali, sono spesso evocati da Vigna e Grasso in diverse domande fatte a Spatuzza.
La storia del documento
Il colloquio del giugno 1998 tra Vigna, Grasso e Spatuzza fu registrato. Pietro Grasso ha riferito al Post, tramite il suo portavoce, che sicuramente le informazioni rilevanti furono inviate da Vigna alle procure competenti: quindi evidentemente anche a Caltanissetta, dove erano in corso inchieste e processi sulla strage di via D’Amelio, su cui Spatuzza dice cose importantissime. Da lì in poi però non risulta in undici anni nessun atto compiuto dalla procura di Caltanissetta per dare seguito o riscontro a quello che Spatuzza disse, e che avrebbe sovvertito i risultati dei processi allora in corso e le condanne a molti anni di carcere di diversi imputati estranei alla strage. A quanto disse poi, Spatuzza non venne mai interrogato fino a dopo il 2008, quando decise ufficialmente di “collaborare con la giustizia” e le sentenze precedenti vennero smentite e ribaltate. Di questo colloquio del 1998 e del suo contenuto si è saputo solamente nel 2013, quando la trascrizione dell’audio – compiuta nel 2009 dalla procura di Caltanissetta, per le indagini seguenti al “pentimento” di Spatuzza – venne inserita “per un disguido” tra le carte del pubblico ministero nel processo “Borsellino quater” e l’avvocato di uno degli imputati la citò in aula e contribuì a renderla pubblica. Il procuratore di Caltanissetta Lari disse allora di avere ricevuto verbale e trascrizione da Grasso – divenuto intanto Procuratore nazionale antimafia – a dicembre 2008. Fu di conseguenza messa agli atti del processo e da allora è un documento pubblico, mentre non lo è ancora la registrazione originale del colloquio.
La trascrizione del colloquio è molto trascurata, frammentata, incompleta: ma è stata mantenuta in originale salvo la correzione di pochi palesi refusi. IL POST 13.7.2017
“Depistaggi” Borsellino, CSM lunedì 17 settembre 2018 sentirà Di Matteo lunedì in seduta pubblica. L’ audizione del pm del processo sulla trattativa Stato-mafia, era slittata proprio per acconsentire alla richiesta del magistrato di essere sentito pubblicamente. La Prima Commissione del Csm ha convocato per lunedì prossimo il pm del processo sulla presunta trattativa Stato-mafia Nino Di Matteo nell’ambito del fascicolo aperto su sollecitazione della figlia di Paolo Borsellino , Fiammetta, che ha chiesto di far luce sulle “disattenzioni” che ci sarebbero state sulle dichiarazioni del falso pentito Vincenzo Scarantino. Di Matteo doveva essere ascoltato la scorsa settimana, ma la sua richiesta che la seduta fosse pubblica, aveva fatto slittare l’audizione, ora fissata a lunedì.
CSM rinvia l’audizione di Nino Di Matteo Diventa un caso il rinvio deciso dal Csm dell’audizione del pm del processo sulla trattativa Stato- mafia Nino Di Matteo. Di Matteo doveva essere ascoltato oggi dalla Prima Commissione, nell’ ambito del fascicolo aperto sulla base dell’ esposto di Fiammetta Borsellino sui depistaggi sulle indagini sulla strage in cui persero la vita suo padre Paolo e gli agenti di scorta. E aveva chiesto di parlare in una seduta pubblica. Proprio “a causa della sua richiesta, pervenuta solo lunedì, “é stato necessario il rinvio, spiega in una nota la Commissione, chiarendo che è stato dovuto solo a ragioni “tecniche e regolamentari”. Un concetto ribadito dal vice presidente Giovanni Legnini, che avverte: “Ogni altra ricostruzione dietrologia è destituita di fondamento”. Quando un magistrato chiede di essere ascoltato in seduta pubblica “il regolamento Interno del Csm (agli artt. 27 e 29) prevede precisi obblighi procedurali – sottolinea la Commissione, presieduta dal laico Antonio Leone – poiché le sedute delle commissioni di norma non sono pubbliche e solo eccezionalmente la Commissione ne può disporre la pubblicità”. La Prima Commissione si è “pronunciata favorevolmente sulla richiesta di Di Matteo, nella seduta di ieri ed ha trasmesso la decisione al Comitato di Presidenza. Inoltre, poiché per espressa previsione regolamentare, la stampa e il pubblico, possono essere ammessi a seguire le sedute solo in separati locali, attraverso impianti audio-visivi (Art.29 comma 2), ciò richiede misure organizzative adeguate”. “Le ragioni tecniche e regolamentari indicate dalla commissione, conseguenti alla richiesta del dott. Di Matteo, sono quelle che hanno determinato la necessità del differimento dell’audizione”, ribadisce a sua volta Legnini. “Se la Prima Commissione farà in tempo o no prima della fine della Consiliatura lo si valuterà in relazione alle attività ed adempimenti previsti dal regolamento”, conclude il vice presidente.
Sulla vicenda interviene una delle figlie del magistrato ucciso, Fiammetta Borsellino. «Per me è una questione marginale che Nino Di Matteo abbia chiesto al Csm di essere sentito in seduta pubblica. Più importante è invece che si trovi il modo di fare chiarezza, e anche al più presto, sui depistaggi e su ciò che è accaduto nella gestione dell’inchiesta sulla strage di via D’Amelio». «Vedo – aggiunge Fiammetta Borsellino – che sulle procedure e sulle modalità degli accertamenti da fare vanno sorgendo polemiche collaterali. Sono del tutto secondarie rispetto al fine ultimo dell’obiettivo perseguito dalla famiglia: chiarire tutto quello che c’è da chiarire».
AL BORSELLINO QUATER DI MATTEO RACCONTA SCARANTINO Il pm palermitano sentito come teste a Caltanissetta SEGUE
“25 anni alla ricerca di una scomoda verità”. Lodato intervista Di Matteo
A venticinque anni di distanza dalle stragi di Capaci e via d’Amelio, che hanno portato alla morte di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Paolo Borsellino e gli agenti di scorta, Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani, Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina, sono ancora diversi i pezzi mancanti che si intravedono sotto le macerie. Quali sono queste “verità scomode” celate? Si potrà mai raggiungere una completa verità? Perché quello della mafia è un fenomeno che resiste nel nostro Paese da oltre 150 anni? Sono questi alcuni temi affrontati a Pavia, nella meravigliosa aula del ‘400, in occasione dell’ultimo incontro organizzato per la XIII edizione di “Mafie, Legalità ed Istituzioni” 2017, dedicato alla memoria del Prof. Grevi, ed intitolato “25 anni alla ricerca di una scomoda verità”.Da una parte Saverio Lodato, giornalista, scrittore, autore del best seller “Quarant’anni di mafia” ed editorialista della nostra testata. Dall’altra Nino Di Matteo, sostituto procuratore nazionale antimafia, pm di punta del pool impegnato nel processo sulla trattativa Stato-mafia e per anni pm nella indagini sulla ricerca dei mandanti delle stragi. A seguito della condanna a morte di Totò Riina, e con l’arrivo a Palermo di duecento chili di tritolo per compiere un attentato nei suoi confronti, Di Matteo è diventato il magistrato più scortato d’Italia. Con le sue domande, di fronte ad una platea composta soprattutto da giovani universitari, Lodato e Di Matteo hanno fatto il punto sulla lotta alla mafia sottolineando come l’impegno nel contrasto sia un preciso dovere non solo per gli addetti ai lavori ma, soprattutto, per la politica. da ANTIMAFIA DUEMILA
AUDIO 1950 INTERVENTI da Radio Radicale
- Salvatore Borsellino chiede scusa a Di Matteo per gli attacchi di Fiammetta Borsellino – VIDEO – ARTICOLO
- ”Depistaggio di Stato, il Csm lasci stare Di Matteo” – 10 Settembre 2018. Lettera di Salvatore Borsellino al Vicepresidente CSM Professor Legnini, le scrivo, nella sua qualità di rappresentante apicale dell’Organo di autogoverno della magistratura. Ho appreso che per domani il Csm ha convocato, per audirli e per valutarne eventuali responsabilità, Antonino Di Matteo, Anna Maria Palma e Carmelo Petralia, tutti magistrati che due decenni fa e più si occuparono di indagini e processi relativi alla strage di via D’Amelio del 19 luglio 1992, nella quale furono uccisi mio fratello Paolo e cinque agenti della scorta. Nel processo Borsellino quater definito con la sentenza emessa dalla Corte di Assise di Caltanissetta – la cui motivazione è stata depositata il 30 giugno scorso – mi sono costituito parte civile e, al momento delle conclusioni, il mio difensore ha chiesto la condanna di tutti gli imputati a eccezione di Vincenzo Scarantino (il falso pentito di via D’Amelio, l’uomo che si autoaccusò, salvo poi ritrattare, della strage, ndr): condanna del quale, non ho esitato a dire, che avrebbe costituito una vergogna per l’Italia. In effetti la Corte di Assise di Caltanissetta ha condannato tutti gli imputati a eccezione di Scarantino: i giudici hanno ritenuto che egli fosse stato determinato da terzi a eseguire le calunnie, che con certezza erano state ideate da altri, e in particolare da infedeli rappresentanti delle istituzioni. Proprio a tale riguardo, mi sono speso in questi anni sia quale parte civile nel processo, sia per dovere civico fuori dal processo, a lottare perché emergessero le responsabilità di coloro che, dall’esterno (collocati in posizioni di potere ufficiale), hanno concorso con i mafiosi di Cosa nostra nella strage di via D’Amelio, e di coloro che (sempre annidati nei gangli del potere) si sono resi responsabili di “uno dei più gravi depistaggi della storia”, per riprendere le parole della Corte di Assise. In questo ho dovuto perfino assumere posizioni di conflitto con la procura di Caltanissetta, nella sua composizione di questi ultimi anni. Quell’ufficio requirente, proprio nel corso del processo Borsellino quater, aveva chiesto e ottenuto l’archiviazione per gli esponenti della polizia individuati come possibili corresponsabili del depistaggio. Lo stesso ufficio – solo dopo la conclusione del giudizio di primo grado, e dopo che la Corte di Assise aveva trasmesso l’intero incartamento ai pm – si è trovato costretto a esercitare l’azione penale per alcuni appartenenti alla polizia che, sotto la guida del defunto Arnaldo La Barbera, avrebbero realizzato la fase esecutiva del “depistaggio Scarantino”. Com’è evidente a chiunque, tuttavia, quel criminoso depistaggio, per dispiegare appieno tutti gli effetti, ha avuto l’avallo formale o la convalida postuma, se non addirittura la condivisione, da parte di esponenti della magistratura, non solo requirente ma anche giudicante. Limitando qui l’analisi alla magistratura requirente, ho potuto accertare chi abbia avuto un ruolo attivo nelle indagini finalizzate alla falsa collaborazione con la giustizia da parte di Scarantino e nella cura delle relazioni con La Barbera, al quale fu dato – fuori da ogni ragionevolezza giuridica e pratica – il ruolo di assoluto dominus nello svolgimento di tutte le indagini. Le prove raccolte nel Borsellino quater dimostrano, al di là di ogni ragionevole dubbio, che i due magistrati della procura di Caltanissetta con i quali La Barbera ebbe un rapporto oltremodo privilegiato e preferenziale furono Giovanni Tinebrae Ilda Boccassini. È risultato anche come Nino Di Matteo nella vicenda giudiziaria della strage di via D’Amelio con La Barbera non ebbe alcun tipo di rapporto. Del resto, in qualità di parte civile del processo Borsellino quater, ho fornito alla Corte d’Assise – che ne ha disposto l’acquisizione facendolo divenire patrimonio probatorio – un documento che ha una forza dimostrativa enorme su chi siano stati, alla procura di Caltanissetta del tempo, i magistrati che si assunsero pubblicamente la paternità della “collaborazione con la giustizia” di Scarantino. Quel documento consiste nell’audioregistrazione della conferenza-stampa svoltasi il 14 luglio 1994, e indetta su iniziativa della procura di Caltanissetta, per riferire agli organi di informazione sull’ordinanza di custodia cautelare che era stata eseguita il giorno precedente, e fondata sulle “rivelazioni” di Scarantino (che aveva iniziato a “collaborare con la giustizia” il 24 giugno 1994, subito dopo un “risolutivo” colloquio investigativo con La Barbera). Professor Legnini, le segnalo che in quella conferenza-stampa – ove il Csm, che immagino abbia fatto un qualche accertamento prima di scegliere quali magistrati (requirenti) convocare quali possibili responsabili del “depistaggio Scarantino”, non ne abbia ancora fatta formale acquisizione, sebbene sia online sull’archivio di Radio radicale – i magistrati che declamarono come una vittoria della Giustizia il “pentimento” di Scarantino furono Tinebra, Boccassini e, con pochissime parole, Francesco Paolo Giordano. Prendo atto che il Csm, non potendo convocare il defunto Tinebra, ha omesso di convocare Boccassini e Giordano, cioè gli unici magistrati che si assunsero pubblicamente il merito della “collaborazione con la giustizia” di Scarantino. Soprattutto, le segnalo che Di Matteo al momento di quella penosa conferenza-stampa non era ancora nemmeno stato assegnato alla trattazione dei fascicolo sulla strage di via D’Amelio. Quel che si vuole imputare a Di Matteo è altro, e in particolare il ruolo che egli ha avuto, quale magistrato della procura di Palermo, nei processi per la “trattativa Stato-mafia” e per la mancata cattura di Bernardo Provenzano. La invito a evitare che il Csm si presti a compiere quella che non potrebbe che essere considerata una rappresaglia ai danni di Nino Di Matteo. IL FATTO QUOTIDIANO 11.9.2018
LA TRATTATIVA NON E’ PRESUNTA L’ESISTENZA DI UNA VERA E PROPRIA TRATTATIVA DI TIPO POLITICO CON LA MAFIA, BASATA E FINALIZZATA SUL CONCETTO DEL DO UT DES E’ COSTITUITA DALLE STESSE PAROLE PRONUNCIATE DA MORI E DA DE DONNO, SENTITI NEL PROCESSO DINANZI ALLA CORTE DI ASSISE DI FIRENZE. E NON SOLO IN QUEL PROCESSO.
PM Di Matteo – dalla requisitoria 15 dicembre 2017 processo Trattativa Stato-mafia “Rispetto a quella che viene definita sempre la “fantomatica” trattativa, la messinscena della trattativa, la pseudo trattativa e quant’altro, andiamo ad esaminare tutti quegli elementi che ci inducono ad affermare che quei dialoghi, quegli incontri riservati, nella casa di Roma, costituirono il terreno privilegiato di una vera e propria trattativa politica. E non certo come vogliono far credere gli odierni imputati, di una ordinaria, se pure eventualmente temeraria e spregiudicata iniziativa investigativa. Non c’entra nulla. Su questo processo si è detto e si continua a dire tutto. Non soltanto per criticare, che sarebbe ovviamente perfettamente comprensibile, ma per delegittimare, ridicolizzare il lavoro del Pubblico Ministero e l’onestà concettuale del Pubblico Ministero. Siamo abituati non solo a sentire parlare di presunta trattativa , ma a leggere ed ascoltare quotidianamente giudizi impietosi che definiscono l’ipotesi della trattativa una messinscena, una bufala, un teorema di magistrati politicizzati privo di qualsiasi appiglio probatorio completo. Questa continua, costante, pressante attuale ricostruzione mediatica stride clamorosamente con dati di fatto di solare evidenza e di dirompente forza dimostrativa E voglio partire da ciò che tutti dimenticano o fingono di dimenticare. Al di là e ancor prima di dichiarazioni di pentiti e dichiaranti, delle ricostruzioni di Massimo Ciancimino, delle affermazioniazioni di Brusca o di Cancemi, c’è ed assume oggi una forza incredibile nella sua chiarezza indiscutibile ed inequivocabile un elemento di prova acquisito quando nessuno ancora aveva nemmeno semplicemente ipotizzato di poter aprire un’indagine sui vertici del Ros e sui loro rapporti con Vito Ciancimino. Quell’elemento di prova, quella confessione dell’esistenza di una vera e propria trattativa di tipo politico con la mafia, basata e finalizzata sull’elementare concetto del do ut des, è costituita dalle stesse parole pronunciate da Mori e da De Donno allorquando vennero sentiti nel processo Bagarella + 25 dinanzi alla Corte di Assise di Firenze. Parole molto chiare, inequivoche assolutamente antitetiche rispetto a quelle rese in questa sede con le spontanee dichiarazioni. Parole e ricostruzioni che recuperiamo attraverso il testuale riferimento nelle sentenze alla Corte di Firenze che non lasciano spazio e dubbi ad interpretazioni diverse da quelle di un’ammissione di una vera e propria trattativa con i capi di Cosa Nostra attraverso Vito Ciancimino. Andiamo a leggere alcuni passaggi di queste dichiarazioni rese all’udienza pubblica in Corte di Assise a Firenze del 27 gennaio 1998. Leggo alcuni passaggi virgolettati. Teste Mori “Andammo da Ciancimino e dicemmo “Signor Ciancimino, che cos’è questa storia qui. Ormai c’è un muro contro muro . Da una parte c’è Cosa Nostra, dall’altra parte c’è lo Stato. Ma non si può parlare con questa gente?“. Guardate, basterebbero queste parole per dire: Ma quale attività investigativa? Ma quale pseudo trattativa? Il rappresentante del Comando Operativo del reparto di eccellenza dei Carabinieri del Ros va da un soggetto che sa essere in contatto con Riina e Provenzano e e gli dice “Ma cos’è questo muro contro muro?” come se fosse strano che ci sia muro contro muro tra l’organizzazione mafiosa più pericolosa al mondo e che poco tempo prima aveva fatto saltare in aria un pezzo di autostrada a Capaci e lo Stato. Che cos’è questa Signori Giudici Popolari se non già proprio subito una proposta di metterci d’accordo per fare venire meno il muro contro muro? Altro che Scotti alle Camere che dice che non ci può essere nessuna ipotesi di mediazione, di compromesso… Ha ragione Riina quando dice “Mi hanno cercato loro”. La sentenza Tagliavia ha perfettamente ragione quando dice che il dialogo con la mafia è stato cercato …non dallo Stato, lo Stato è un concetto molto più alto, ma da alcuni esponenti deviati dello Stato. Che cos’è questo muro, non si può parlare con questa gente? Non lo dice un pentito, lo dice Mori. Poi vedremo perché in quel momento, fra virgolette, se lo lascia scappare. Il 27 gennaio 98 in una Corte di Assise che giudicava i responsabili degli eccidi di Roma, Firenze e Milano, davanti alle parti civili, davanti ai parenti dei morti. “Ciancimino mi chiedeva se io rappresentavo solo me stesso o anche altri. Gli disse lei non si preoccupi, lei vada avanti. Lui capì e RESTAMMO D’ACCORDO CHE VOLEVAMO SVILUPPARE QUESTA TRATTATIVA” La trattativa non esiste, la trattativa è il frutto avvelenato di giudici politicizzati…la presunta trattativa, la pseudo trattativa…la bufala della trattativa, la patacca della trattativa… MORI IL 27 GENNAIO 1998 (la Corte si sbaglierà -dopo leggo alcuni passi della sentenza- dicendo che di quella trattativa ha parlato solo De Donno) DI TRATTATIVA HA PARLATO MORI E NON SOLO IN QUESTO PASSAGGIO, NE LEGGERO’ ALTRI, E LEGGERO’ ANCHE SCRITTI IN CUI MORI DEFINISCE QUESTA COSA UNA TRATTATIVA. C’è un altro passaggio molto importante che Mori sottolinea che i giudici della Corte di Assise annotano: la richiesta di Ciancimino di avere un passaporto. Testuali parole del Colonnello Mori. QUANDO PARLA DEL PASSAPORTO MORI DICE “CE LO CHIESE PER SEGUIRE ALCUNE FASI DELLA TRATTATIVA ALL’ESTERO.“ CAPITANO DE DONNO, sempre lo stesso giorno, 27 gennaio 98 “GLI PROPONEMMO DI FARSI TRAMITE PER NOSTRO CONTO DI UNA PRESA DI CONTATTO CON GLI ESPONENTI DELL’ORGANIZZAZIONE MAFIOSA COSA NOSTRA AL FINE DI TROVARE UN PUNTO DI INCONTRO, UN PUNTO DI DIALOGO finalizzato -De Donno è ancora più esplicito- alla immediata cessazione di queste attività di contrasto netto e stragista nei confronti dello Stato.” Troviamo un punto di dialogo, finitela con questo contrasto netto e stragista nei confronti dello Stato, si capovolgono i termini della questione. Signori giudici popolari, questo significa acquisire informazioni? Questo significa fare un’attività investigativa? O questo significa, come qui diciamo, condurre in maniera spregiudicata una scellerata e spregevole trattativa con i vertici della mafia mentre c’era ancora il sangue dei morti in terra? Proseguo nel citare alcune delle affermazioni rese sotto giuramento da De Donno “Successivamente Ciancimino ci fece sapere che VOLEVA INCONTRARCI E CI DISSE CHE L’INTERLOCUTORE, E CIOE’ LA PERSONA CHE FACEVA DA MEDIATORE FRA LUI E SALVATORE RIINA (quindi sapevano già tutto, sapevano che Ciancimino parlava con Riina) VOLEVA UNA DIMOSTRAZIONE, UNA PROVA CONCRETA DELLA NOSTRA CAPACITA’ DI INTERVENTO. QUESTA PROVA CONSISTEVA NELLA SISTEMAZIONE DELLE VICENDE GIURIDICHE PENDENTI DEL CIANCIMINO E NELLA CONSEGUENTE CONCESSIONE DI PASSAPORTO AL CIANCIMINO.“ Quindi De Donno dice ai giudici della Corte di Assise di Firenze che, avendo parlato con Riina, per capire fino a che punto fossero affidabili interlocutori istituzionali, affidabili dal punto di vista mafioso, Riina chiese “vediamo fino a che punto si spingono: dategli un passaporto a Ciancimino”. Ciancimino a sua volta aveva detto “mi può essere utile per proseguire la trattativa all’estero, perché poi nel frattempo, aveva spiegato bene Vito Ciancimino che il suo interlocutore principale era Provenzano e che forse poteva essere utile anche qualche incontro all’estero. Io mi permetto per l’ultima volta di sottolineare che, veramente, i primi a spiegare cosa fosse la trattativa, e che quella che loro hanno fatto è stata una trattativa con i vertici della mafia, sono stati proprio Mori e De Donno il 27 gennaio 1998. Io mi permetto di leggere solo alcuni passaggi della sentenza definitiva del 6 giugno 1998, quindi non c’era ancora praticamente nulla su quello che è il quadro probatorio oggi gravante nei confronti degli imputati carabinieri Alcuni passaggi delle valutazioni della Corte di Assise di Firenze: L’esame congiunto di ciò che hanno detto testi e collaboratori dimostra in maniera indiscutibile che nella seconda metà del 1992 vi fu un contatto fra i Ros dei Carabinieri e i capi di Cosa Nostra attraverso Vito Ciancimino. Andiamo alle parti maggiormente significative. Vanno dette senz’altro alcune parole non equivoche L’iniziativa del Ros, perché di questo organismo si parla, posto che vide coinvolto un capitano, il vicecomandante e lo stesso comandante del reparto, aveva tutte le caratteristiche per apparire come una trattativa. L’effetto che ebbe sui mafiosi fu quello di convincerli definitivamente che la strage era idonea a portare vantaggi all’organizzazione. Questo è scritto in una sentenza definitiva pronunciata da una Corte di Assise in nome del popolo italiano. Sotto questi profili, proseguono i giudici, non possono esservi dubbi di sorta, non solo perché di trattativa, dialogo, ha espressamente parlato il capitano De Donno, ma soprattutto perché non merita nessuna qualificazione diversa la proposta, non importa con quali intenzioni formulate, di contattare i vertici di Cosa Nostra PER CAPIRE COSA VOLESSERO IN CAMBIO DELLA CESSAZIONE DELLE STRAGI. Qui la logica si impone con tanta evidenza che non ha bisogno di essere spiegata. Quanto agli effetti che ebbe sui capi mafiosi, soccorrono assolutamente logiche, tempestive, congruenti le dichiarazioni di Brusca, poi ci torneremo. Intanto la conclusione. IL CONVINCIMENTO DI UNO STATO CHE VA A CERCARE, VA IN GINOCCHIO A DIRE “CHE COSA VOLETE PER FINIRE LE STRAGI?” rappresenta anche il frutto più velenoso dell’iniziativa in commento che al di là delle intenzioni con cui fu avviata, ebbe sicuramente un effetto deleterio per le Istituzioni, confermando il delirio di onnipotenza dei capi mafiosi e mettendo a nudo l’impotenza dello Stato. Si deve dire quindi che alla fine del 1992 si erano verificate le tre condizioni fondamentali per l’esplosione di violenza dei mesi successivi giacché metodo ed oggetto così come le finalità erano già presenti con sufficiente precisione alla mente di coloro che muovevano le fila di Cosa Nostra. Il disinganno susseguente alla stasi della trattativa e all’arresto di Riina faranno da detonatore ad una miscela già pronta e confezionata. E allora, altro che processo fondato sulle dichiarazioni di Massimo Ciancimino, altro che presunta trattativa, altro che teoremi accusatori di magistrati mossi da intenti politici. L’elemento di base, la piattaforma conoscitiva sulle quali si innesteranno le numerose successive acquisizioni per affermare che trattativa ci fu, è costituito proprio da quello che SOLO QUANDO DOPO LE PRIME DICHIARAZIONI DI GIOVANNI BRUSCA, GLI UFFICIALI VENNERO CHIAMATI AL PROCESSO DI FIRENZE, ESSI STESSI IN QUELLA SEDE AFFERMARONO , IN UN MOMENTO IN CUI CON LA TRACOTANZA CHE CON DIVERSI ASPETTI E’ CARATTERISTICA DI ENTRAMBI, ERANO CONVINTI DELLA LORO ASSOLUTA IMPUNITA’. E avevano anche in quel momento una giustificazione, avevano ragione in quel momento a sentirsi intoccabili, non a sentirsi rispettosi della legge e delle prerogative di un ufficiale giudiziario, ma SENTIRSI INTOCCABILI.
Quella convinzione trovava ragione d’essere nella incredibile inerzia della magistratura fronte a quello di cui quelle persone, Mori in particolare, si era già reso protagonista con la vicenda della mancata perquisizione del covo di Riina e con l’inganno alla Procura di Palermo circa la prosecuzione del servizio di osservazione sull’abitazione del Riina, con l’incredibile vicenda della mancata cattura di Nitto Santapaola a Barcellona, con il tragico epilogo della vicenda Ilardo dopo che il confidente aveva portato con mano il Ros alla possibilità non sfruttata di catturare Bernardo Provenzano… Quando il 27 gennaio 1998 Mori e De Donno si siedono davanti alla Corte di Assise di Firenze sono forti di tutto questo. Sono forti della vicenda che non era successo niente nei loro confronti sostanzialmente, neppure all’emergere della doppia refutazione sulla questione mafia-appalti. E in quel momento, forti di quel convincimento di impunità, seppur ovviamente omettendo il particolare decisivo della ricezione della trasmissione dell’elenco delle richieste di Riina, Mori e De Donno in quel momento forti del loro convincimento avevano parlato di trattativa per porre fine alle stragi e al muro contro muro tra lo Stato e la mafia. La verità è che in quel momento con l’instaurarsi dell’interlocuzione con Ciancimino si è venuta a determinare una situazione che dal punto di vista mafioso viene plasticamente descritta da ciò che Provenzano riferisce a Nino Giuffrè: Vito Ciancimino è in missione per conto di Cosa Nostra. Dal punto di vista chiamiamolo istituzionale, Mori e De Donno con l’avvallo e la copertura decisiva del comandante del Ros generale Subranni erano a loro volta in missione segreta per conto non del Governo, non dello Stato, ma di quella parte del potere rappresentato anche da uomini che rivestivano incarichi istituzionali, che deviando dagli interessi e dai comportamenti istituzionali VOLEVA ABBANDONARE LA LINEA DELLA CONTRAPPOSIZIONE FRONTALE SENZA SE E SENZA MA CON COSA NOSTRA PER ABBRACCIARNE UNA DI SEGRETA MEDIAZIONE. Erano in missione in funzione di porre fine o comunque ammorbidire quella strategia di Cosa Nostra che proprio la parte trattatista dello Stato aveva fatto finta di non comprendere quando il ministro Scotti era andato a riferire in Parlamento.
E QUELLA SEGRETA E INDECENTE MEDIAZIONE VENNA AUSPICATA, IDEATA, ORGANIZZATA E IN CONCRETO COLTIVATA DIETRO LE QUINTE SFRUTTANDO LA SPREGIUDICATEZZA DI UN UFFICIALE, COME IL COLONNELLO MORI, DA SEMPRE ABITUATO A MUOVERSI PIU’ NELL’OTTICA DI ESPONENTE SENZA SCRUPOLI DEI SERVIZI DI SICUREZZA ED IN SOSTANZIALE DISPREZZO DI QUEI PRINCIPI DI OSSERVANZA DELLA LEGGE, DEI CODICI, DI SUBORDINAZIONE FUNZIONALE ALL’AUTORITA’ GIUDIZIARIA IL CUI RISPETTO INCOMBE o dovrebbe incombere su ogni ufficiale di polizia giudiziaria. Mori dopo avere lasciato il servizio, da ufficiale dei Carabinieri ha continuato a muoversi in quell’ottica propria del periodo in cui era ai servizi. L’ufficiale di polizia giudiziaria è un’altra cosa. Non si comporta a prescindere dall’autorità giudiziaria, nascondendo le cose all’autorità giudiziaria, ingannando l’autorità giudiziaria. C’è un episodio emblematico. Una frase riferita dal Dottor Canali in quest’aula. Il dottor Canali dopo la sparatoria del 6 aprile 93 aveva necessità di avere un colloquio con i superiori di quegli ufficiali, Sergio De Caprio e De Donno, che avevano esploso i colpi di pistola giusto giusto il giorno dopo si era avuta la notizia della presenza di Santapaola. Canali aveva chiesto un incontro tramite il maresciallo Scibilia con il colonnello Mori per cercare di capire meglio la situazione. Dopo più rifiuti Scibilia gli riferisce che Mori gli ha risposto dicendo che non ha tempo da perdere per parlare con il magistrato. Il totale disprezzo, la totale ritenuta indifferenza, rispetto delle regole. Lì c’era stata una sparatoria, c’era un procedimento per tentato omicidio nei confronti di Imbesi Salvatore.
L’INTOCCABILITA’. IL MUOVERSI AL DI SOPRA E AL DI FUORI DELLA LEGGE PER SCOPI POLITICI QUALI ERANO QUELLI DI PORRE FINE AL MURO CONTRO MURO FRA LO STATO E LA MAFIA. Una conferma indiretta ma ulteriormente significativa del fatto che il rapporto con Ciancimino non fosse finalizzato ad acquisire notizie bensì a trattare con la mafia, è costituito dalle risultanze dell’acquisizione che nel 2009 scaturì dall’ordine di esibizione che congiuntamente noi PM di Palermo e di Caltanissetta nello stesso giorno notificammo senza preavviso ai servizi. Andammo direttamente al Ros dei Carabinieri. Noi chiedevamo di consultare con quell’ordine di esibizione da una parte tutto quanto fosse contenuto negli archivi, rispettivamente dei servizi e del Ros sulla persona di Vito Ciancimino dei suoi stretti congiunti, e dall’altra parte sulla strage di Via D’Amelio. Ogni tipo di documentazione.
Un passo indietro. Della sentenza Tagliavia sulle stragi di Firenze, Roma e Milano, più recente, un’altra Corte, un altra istruzione dibattimentale, altri Pubblici Ministeri, voglio leggervi questo passaggio “Una trattativa ci fu e venne quantomeno inizialmente impostata su un do ut des -si mettano il cuore in pace coloro che continuano a parlare sempre di pseudo trattativa, potranno continuare a farlo legittimamente però avessero almeno l’onestà concettuale di dire che una sentenza definitiva afferma che una trattativa ci fu e venne inizialmente impostata su un do ut des- L’iniziativa fu presa dai rappresentanti delle istituzioni e non dagli uomini di mafia. l’obiettivo era trovare un terreno di intesa con Cosa Nostra per far cessare la sequenza delle stragi. Vito Ciancimino corleonese amico di gioventù di Riina e Provenzano fu ritenuta la persona più adatta a far giungere il messaggio alla cupola. La trattativa si interruppe con l’attentato di Via D’Amelio di fronte al persistere del programma stragista. Proprio per queste ragioni l’uccisione di Borsellino è nelle motivazioni e nella tempistica una variante anomala. Per tutto il resto del ’92 Cosa Nostra restò in attesa di riaprire i canali di comunicazione e sospese l’iniziativa offensiva per stimolare la riapertura dei contatti e dare prova di determinazione anche per reazione contro l’arresto di Riina. DAL ’93 SU DECISIONE DELL’ALA OLTRANZISTA RAPPRESENTATA DA BAGARELLA, GRAVIANO, MESSINA DENARO, FU AVVIATA LA STAGIONE DEGLI ATTENTATI. ESSENDOSI ORAMI ATTESO TROPPO TEMPO PER DARE ULTERIORE SMOSSA, SI PENSO’ DI DARE IL COLPO DI GRAZIA SECONDO L’IDEA DI GIUSEPPE GRAVIANO RIPORTATA NEL PROCESSO DA SPATUZZA. LA SCELTA DI COLPIRE DEI CARABINIERI ORIGINO’ ANCHE DAL RANCORE PER L’ABBANDONO DEL NEGOZIATO INTAVOLATO DAI CARABINIERI MORI E DE DONNO, INIZIATIVA ACCOLTA ENTUSIASTICAMENTE DA RIINA. TRATTATIVA, NEGOZIATO, INIZIATIVA DEI CARABINIERI E NON DI RIINA, TERMINI UTILIZZATI E CONSACRATI DA UNA SENTENZA DEFINITIVA. Per quello che qui ci interessa di più, siamo andati al Ros centrale a Roma. e ci è stato messo a disposizione tutto quanto c’era agli atti del Ros su Vito Ciancimino. E anche quello che in gergo viene definito fascicolo P, dove P sta per personale, fascicolo che non riguarda una vicenda processuale in particolare ma riguarda e raccoglie tutto quello che su un determinato soggetto è archiviato dalla struttura investigativa. Nella nostra esperienza abbiamo apprezzato la meticolosità estrema che ogni reparto dei Carabinieri mette nell’archiviare le notizie, anche quelle apparentemente più inutili. Qualsiasi cosa viene molto diligentemente, normalmente, conservata e archiviata nel fascicolo personale, soprattutto se quel fascicolo si riferisce ad una persona che, come Vito Ciancimino, nel ’92, era già una persona assolutamente nota, con una proiezione politica importante ma più volte arrestato e sotto processo per fatti di mafia. L’esame della documentazione è importante nella misura in cui consente di verificare ciò che non esiste. Ciò che era talmente segreto e fuorilegge da non potere essere nemmeno consacrato in un riservato appunto interno da contrarre agli atti quantomeno per lasciare una traccia di ciò che era stato fatto. Non c’è nulla. Una riga. Un’annotazione. Una relazione di servizio. Nulla che si riferisce ai rapporti, agli incontri fra mori, De Donno e Ciancimino nel 1992 a Roma. Vedremo che c’è un’annotazione postuma, si capisce fatta da Mori, anche se non è firmata, ma è postuma perché fa già riferimento agli interrogatori di Ciancimino resi nel ’93 all’autorità giudiziaria, che è una ricostruzione postuma, che si capisce perfettamente essere di molto successiva e probabilmente postuma rispetto alle dichiarazioni di Brusca nel ’97 al processo di Firenze. Ma nel ’92 quando per loro stessa ammissione si incontravano a casa di Vito Ciancimino dopo averlo intercettato per vedere di far venire meno il muro contro muro tra la mafia e lo Stato i carabinieri non lasciano nulla, non lasciano una traccia di quegli incontri. Di quegli incontri andavano a dire non certo ai magistrati, non certo alla DIA, non ai carabinieri. Andavano a dire a politici come Ferraro, Fernanda Contri, Luciano Violante e quant’altro. Ed è un dato che dobbiamo valutare appieno nella sua significatività volta a tutelare la segretezza di un rapporto illecito, alla luce delle prassi antitetiche normalmente seguite dal Ros. Il silenzio, il non lasciare traccia scritta, lo possiamo interpretare solo ed esclusivamente nell’ottica di una vicenda di cui non doveva restare alcuna traccia né in quel momento né per il futuro. E ciò proprio nella consapevolezza di una condotta, quella di trattare con il nemico, completamente estranea e contraria alla legge. Confrontate per cortesia il silenzio sul ’92 con la restante parte del fascicolo di Ciancimino con quello che è annotato rispetto agli anni 91, rispetto al periodo dal gennaio 93 in poi fino a quando Vito Ciancimino il 18 dicembre 92 torna in carcere. Vedrete che prima e dopo il 92 vengono conservate, archiviate anche le notizie più insignificanti. Tutto. Nel ’92 agli atti del Ros Vito Ciancimino non esiste. Veramente sembra rievocare quello che in quest’aula quel coraggioso e valoroso ufficiale, il colonnello Giraudo, ci ha detto circa il cosiddetto protocollo fantasma. C’è un appunto di Mori oggetto contatti con Vito Ciancimino fascicolo P che si capisce essere assolutamente postumo. Anche in quello che c’è, c’è qualcosa di interessante. Cosa scrive Mori riferendosi ai tempi passati. Ciancimino disse che i suoi interlocutori avevano accettato il dialogo che si sarebbe dovuto sviluppare con la sua mediazione partendo dalle seguenti irrinunciabili condizioni: trattativa da tenersi all’estero e quindi restituzione al Ciancimino che ne era stato privato, del passaporto. Mori, come dicevo, non solo ha parlato di trattativa ma lo ha anche scritto. Ci sono altri atti allegati dai quali si evince l’importanza del canale Ghiron. Con l’avvenuto arresto (Ciancimino venne arrestato per ordine della Corte di Assise di Palermo il 19 dicembre 92) ritenni che il dialogo con Ciancimino si fosse definitivamente interrotto. Invece nel gennaio 93, non ricordo se prima o dopo la cattura di Riina, ecco fui contattato dall’avvocato Giorgio Ghiron, difensore di Vito Ciancimino, il quale mi comunicò che il suo cliente desiderava incontrare me e il capitano De Donno. Abbiamo ancora degli allegati, importanti perché testimoniano che questo contatto Ciancimino Vito-Carabinieri, a prescindere dall’autorità giudiziaria di Palermo che invece nel febbraio 93 aveva iniziato gli interrogatori, si protrae nel tempo. Nel 95 Vito Ciancimino manda un telegramma al colonnello Mario Mori “urge incontrare lei insieme al capitano De Donno possibilmente in presenza procuratore Caselli oppure soli”. Con l’annotazione di Mori “informato l’avvocato Ghiron dell’intendimento dottor Caselli di incontrare il signor Ciancimino” Ancora, per dimostrare la possibilità di accedere al carcere nel quale era detenuto Vito Ciancimino da parte di Mori e De Donno al di là e al di fuori delle occasioni degli interrogatori con i magistrati vi segnalo un allegato dell’8 marzo 1994 conservato agli atti del Ros a firma Procuratore Caselli “A seguito mia nota del 25 gennaio 94 e successiva del 18 febbraio 94, mentre confermo autorizzazione a colloqui di personale del vostro ufficio con il signor Vito Ciancimino nonché la consegna al medesimo della documentazione oggetto della nota 25 gennaio 94, prego riferire allo stato degli atti con trasmissione al mio ufficio di copia del materiale da inoltrare o già inoltrato a Vito Ciancimino”. Da qui si deduce che comunque anche, non solo prima del primo interrogatorio, il colloquio investigativo che avevano fatto, ma anche nella costanza degli interrogatori fatti alla Procura di Palermo Mori e De Donno avevano perfettamente la possibilità di interloquire con Vito Ciancimino, di consegnare a lui materiale, di farsi consegnare materiale attraverso l’autorizzazione che il Procuratore Caselli gli aveva fatto. Qualche cenno ulteriore sul contenuto degli atti acquisiti al Ros nei fascicoli stavolta concernenti la strage di Via D’Amelio. Agli atti di quel fascicolo riservato spicca la presenza di annotazioni di notizie confidenziali su un attentato ritenuto imminente a Paolo Borsellino. Spicca la presenza di annotazioni relative a segnalazioni confidenziali fatte ai Carabinieri circa il coinvolgimento nella preparazione nell’esecuzione della strage di Pietro e Gaetano Scotto. Spicca la presenta di un’annotazione concernente notizie, leggo testualmente, informalmente acquisite a Palermo circa l’andamento e le prese di posizione dei singoli sostituti nel corso della prima riunione della DDA successiva alla strage, quindi c’è di tutto, pure quello che erano riusciti ad orecchiare sul contenuto di colloqui riservati e interni tra i magistrati di Palermo dopo la strage di Via D’Amelio.
Agli atti del Ros c’è tutto questo. MANCA COMPLETAMENTE OGNI, ANCHE GENERICO, RIFERIMENTO ALL’INCONTRO DEL 25 GIUGNO 1992 ALLA CASERMA CARINI DI PALERMO TRA IL DOTTOR BORSELLINO, MORI E DE DONNO. Del quale incontro l’autorità giudiziaria e in particolare per prima quella di Caltanissetta, venne a conoscenza dall’annotazione nell’agenda grigia del giudice, quella che non è scomparsa. Allora, voglio riflettere un attimo per quello che può riguardare questo processo e quello che è stato detto in questo processo, sul significato di questa assenza. Noi riteniamo che se, come gli imputati dicono, ma lo dicono dal 1997 in poi, quell’incontro avesse avuto come oggetto l’intenzione di Paolo Borsellino di approfondire il tema delle indagini di mafia-appalti dei Carabinieri, quell’assenza non si spiega. Se realmente il 25 giugno il colloquio tra Paolo Borsellino, Mori e De Donno avesse avuto ad oggetto l’interesse del giudice all’approfondimento di quell’inchiesta, Mori e De Donno avrebbero avuto non soltanto il dovere ma anche l’interesse professionale personale di rappresentare immediatamente il dato ai magistrati che si occupavano dell’indagine sulla strage e che quindi per determinarne la causale dovevano minuziosamente ricostruire le attività del Dottor Borsellino nel periodo immediatamente precedente. Se veramente Paolo Borsellino avesse detto “voglio approfondire l’indagine mafia-appalti, per favore consentitemi di farlo perché non mi fido di quello che stanno facendo i colleghi di Palermo”, il 20 luglio di mattina i Carabinieri si dovevano presentare ai magistrati di Caltanissetta per dire: attenzione giudici che Paolo Borsellino stava facendo questo. Tanto più che loro a quell’indagine attribuivano, giustamente, importanza. Niente. Silenzio. Nonostante gli ottimi rapporti con la Procura della Repubblica di Caltanissetta, perché poi ogni tanto esce fuori ma noi siamo stati zitti perché con la Procura di Palermo non c’erano buoni rapporti o per questo o per quell’altro motivo… no qui non c’è nessun tipo di dubbio. Avrebbero potuto e dovuto presentarsi per dire questo. Stanno zitti fino a quando nel 1997 dopo che si pente Siino e viene fuori nuovamente la polemica sulla famosa consegna abusiva del rapporto mafia-appalti sul possibile coinvolgimento di magistrati di Palermo, Mori e De Donno, De Donno in particolare, alla Procura di Caltanissetta chiamato per sapere cosa ne sapeva di quella cosa dice: guardate che Paolo Borsellino il 25 giugno ci ha detto di questa cosa di mafia-appalti. Come si fa a giustificare l’assenza di un’annotazione, se fosse stato questo il vero oggetto del dialogo o il vero scopo di Paolo Borsellino ammesso che abbia potuto fare rife (1) Facebook rimento al dialogo, mafia-appalti… E’ possibile che delle cose che assumono un rilievo importante non venga lasciata traccia? Voi potete mai credere -ora sta diventando quasi una moda dire io non ho detto niente allora perché nessuno mi chiamò- ma voglio dire, il vertice del Ros con il rapporto che avevano, anche di natura stretta, almeno fino ad un certo punto, almeno alcuni, con Paolo Borsellino, è possibile che se fosse stata vera quella versione dell’oggetto del colloquio del 25 giugno non lasciano una traccia scritta e soprattutto non si presenta l’indomani ai procuratori di Caltanissetta a riferire questa cosa?
Allora io ribadisco. La verità è un’altra su quell’incontro del 25 giugno 1992. Che ci fu. Poi nelle ore pomeridiane Paolo Borsellino andò a Casa Professa e PROBABILMENTE SEGNO’ ULTERIORMENTE LA SUA CONDANNA DICENDO CHE SI SAREBBE RECATO ALLA PROCURA DI CALTANISSETTA PER RIFERIRE FATTI CHE RITENEVA GRAVI E DOVEVA RIFERIRE. SPECIFICHERA’ POI AL GIORNALISTA DAVANZO CHE LO INTERVISTAVA SU QUESTO E CHE GLI CHIEDEVA MA LEI DOTTOR BORSELLINO ANDRA’ A CALTANISSETTA PER RIFERIRE LA SUA VERSIONE, PER RIFERIRE COSA PENSA DELLA CAUSALE DELL’OMICIDIO DEL GIUDICE FALCONE, E BORSELLINO RISPONDERA’ “NO. IO SONO UN MAGISTRATO E SO CHE UNA PERSONA INFORMATA DEI FATTI DEVE RIFERIRE FATTI. IO ANDRO’ A CALTANISSETTA PER RIFERIRE FATTI DI CUI SONO VENUTO A CONOSCENZA.”
Il 25 giugno del 1992 i Carabinieri del Ros non potevano certo riferire ai PM di Caltanissetta quale era stato l’oggetto vero, l’oggetto principale dell’interlocuzione con Borsellino, perché quell’oggetto prendeva spunto dal famoso anonimo Corvo due e quindi LAMBIVA TROPPO PERICOLOSAMENTE L’ARGOMENTO DELLA TRATTATIVA CHE MORI E DE DONNO AVEVANO GIA’ INTRAPRESO CON VITO CIANCIMINO. Perché quell’anonimo in sostanza nel suo nucleo centrale PARLAVA DI UN DIALOGO E DI UNA TRATTATIVA IN CORSO TRA UN’ALA DELLA DC IN PARTICOLARE RAPPRESENTATA COME ELEMENTO DI PUNTA DA MANNINO E SALVATORE RIINA.
Io vi prego di rileggere con attenzione le dichiarazioni, utilizzabili solo parzialmente, di uno dei testi i cui verbali sono stati prodotti, e per fortuna prodotti, anche questo signore poi è venuto ad avvalersi della facoltà di non rispondere. Mi riferisco a Carmelo Canale. Così come capiterà anche per Giovanni Ciancimino. Le dichiarazioni del 22 febbraio 2011, non c’è possibilità nemmeno di poter pensare che Canale sia stato suggestionato nelle sue risposte dalle domande perchè veniva chiamato come teste della difesa e rispondeva alle domande dei difensori degli imputati in quel processo. A proposito del 25 giugno Carmelo Canale dice “Un giorno eravamo al Tribunale, alla Procura. Dottor Borsellino mi chiese nella circostanza di incontrare ma molto riservatamente e all’interno non della Procura, ma della sezione anticrimine di Palermo l’allora colonnello Mori e il capitano De Donno, perché secondo quello che io ricordo e che mi riferì Dottor Borsellino, vi era una voce all’interno da parte dei colleghi suoi, -quindi dei magistrati, non mi ha detto il nome altrimenti lo avrei pure rivelato – una voce che dava il capitano De Donno come il compilatore di un anonimo, perché girava un anonimo. E allora io chiesi tramite un mio comandante della sezione di interpellare il colonnello Mori e di fissare un appuntamento con il Procuratore Borsellino. L’appuntamento ci fu poi Borsellino si guardò bene, né io gli chiesi, di dire di cosa avevano parlato. Ma il motivo per il quale il dottor Borsellino vuole incontrare riservatamente Mori e De Donno, non è certo il motivo dell’approfondimento dell’indagine mafia-appalti. Ma è il motivo relativo all’anonimo.
E’ L’ANONIMO NELLA CRUDA SOSTANZA FACEVA RIFERIMENTO AD UNA TRATTATIVA.Questi sono fatti. Questa è una versione, parziale, per carità, perché nessuno era presente all’interlocuzione tra il dottor Borsellino e gli ufficiali Mori e De Donno, ma noi sappiamo da un teste assolutamente -di cui non si può sospettare una vicinanza alla Procura, se non altro perché era stato processato dalla Procura di Palermo- il fatto è questo; borsellino chiede a Canale di attivarsi per l’incontro riservato con Mori per cercare di capire chi avesse compilato l’anonimo. E l’anonimo aveva ad oggetto sostanzialmente i contatti assolutamente impropri, fuorilegge rappresentati in questo modo, per trovare una soluzione al problema di politici -guarda caso Mannino e la mafia. Il 25 giugno 1992 si incontrano Mori e De Donno con Paolo Borsellino e si può ritenere sulla base di quello che dice Canale abbiano parlato anche dell’anonimo, mentre nello stesso momento, al di là dei teoremi fantasiosi dei Pubblici Ministeri, l’agenda di Contrada ci dice che Subranni e Contrada vanno a trovare il ministro Mannino nelle ore serali per discutere di Anonimo Corvo Due e situazione Sicilia
23.12.2020 Giornalismo sporco. Le false informazioni di Enrico Deaglio Denigrazione violenta, fango, bugie e falsità. Un metodo che viene applicato per screditare quei magistrati che, più di altri, cercano ed hanno cercato le verità scomode ed indicibili su stragi e delitti eccellenti. Attacchi diretti spesso provenienti da ambienti giornalistici e politici e, alle volte, persino dalla magistratura. Accadeva ieri, ai tempi di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Accade oggi, in particolare nei confronti del magistrato Nino Di Matteo, oggi consigliere togato indipendente al Csm, ma nel recente passato in primissima linea nella ricerca dei mandanti esterni delle stragi come sostituto procuratore a Caltanissetta, Palermo e alla Procura nazionale antimafia. I protagonisti di questa campagna mediatica di delegittimazione sono sempre gli stessi e ciclicamente tornano a sputare i propri veleni. Dopo gli attacchi del 2012 e del 2014 è il giornalista Enrico Deaglio a prestarsi al gioco sporco. Lo fa nel suo ultimo libro, “Patria 2010-2020” (ed. Feltrinelli) in cui analizza una serie di vicende inerenti il primo decennio del Ventunesimo secolo. Nel calderone di fatti e misfatti, tutt’altro che in buona fede, offre ai lettori e al pubblico italiano una serie di informazioni incomplete e mendaci sul lavoro del magistrato. Basta leggere alcuni passaggi del libro per comprendere i deliri delle contestazioni. Il consigliere del Csm viene accusato da Deaglio non solo di essere “coinvolto”, ma anche di aver “gestito il più grande depistaggio mai avvenuto sul delitto Borsellino”. E’ un fatto noto che lo stesso Di Matteo non ha ricevuto alcun avviso di garanzia dalla Procura di Messina, impegnata nelle indagini sul depistaggio contro i magistrati che al tempo indagarono sulla strage di via d’Amelio. Quella stessa Procura che ha chiesto l’archiviazione nei confronti dei magistrati Anna Maria Palma e Carmelo Petralia, accusati di calunnia aggravata, in quanto le indagini “non hanno consentito di individuare alcuna condotta posta in essere né dai magistrati indagati, né da altre figure appartenenti alla magistratura che abbiano posto in essere reali e consapevoli condotte volte ad inquinare le dichiarazioni, certamente false, rese da Vincenzo Scarantino”. Una richiesta di archiviazione, su cui dovrà decidere il Gip dopo l’opposizione delle parti civili e della famiglia Borsellino, che mette in evidenza quelle vicende ricostruite nel corso del processo per il depistaggio, in corso a Caltanissetta, contro i funzionari di polizia Bo, Mattei e Ribaudo. Lo abbiamo già detto in altre occasioni: è ovvio che i tasselli del mosaico sulla strage di via d’Amelio vanno messi al loro giusto posto, ma il depistaggio non rappresenta altro che un pezzo del puzzle che riempie i buchi neri sulle indagini ma non può rappresentare la chiave di risoluzione per capire o comprendere le verità nascoste nella loro interezza. In questo puzzle Nino Di Matteo non ha nulla a che fare con la vestizione del “pupo” Vincenzo Scarantino. E’ un fatto noto che si occupò solo marginalmente delle indagini poi scaturite nel “Borsellino bis” (dove entrò a dibattimento già avviato, ndr). Per questo motivo è più che mai necessario effettuare dei distinguo sull’operato dei vari magistrati e giudici che si sono occupati della strage di via d’Amelio. E se le parole hanno un peso affermare che un magistrato ha avuto un ruolo nel depistaggio significa dire che lo stesso ha collaborato con quei mandanti esterni che hanno voluto la morte di Paolo Borsellino. Tra questi certamente non vi è il pm Di Matteo che in più occasioni ha chiarito con fatti e carte alla mano, come fu valutata la vicenda Scarantino. Lo ha fatto ogni volta che è stato chiamato a riferire nelle sedi istituzionali competenti (nei processi, in Commissione Antimafia e davanti al Csm. Ma il travisamento della realtà di Deaglio prosegue anche su altri piani laddove volutamente non parla della sentenza trattativa Stato-mafia, che in primo grado ha portato alle condanne di boss, politici e uomini delle istituzioni, accennando solo all’assoluzione dell’ex ministro Mancino dal reato di falsa testimonianza e facendo riferimento a Massimo Cianciminoaccusando Di Matteo di essersi fatto “ugualmente fregare da un secondo pentito nello sgangherato processo della ‘Trattativa’”. Parole illogiche nel momento in cui la stessa Corte d’assise nelle motivazioni della sentenza ha spiegato come le dichiarazioni del figlio di don Vito abbiano avuto un “valore assolutamente neutro” nella sentenza di condanna. Deaglio afferma anche che Di Matteo avrebbe lasciato intendere che nelle famose telefonate tra l’ex ministro Mancino e l’ex Capo dello Stato, andate distrutte dopo il conflitto di attribuzione sollevato dal Quirinale contro la Procura di Palermo, vi fossero cose “anomale”. Partendo dal dato che mai Di Matteo ha fatto alcun cenno ai contenuti di quelle conversazioni, Deaglio dovrebbe rinfrescarsi la memoria, magari leggendo le motivazioni della sentenza, scritta dal Presidente Alfredo Montalto e dal giudice a latere Stefania Brambille, che per la posizione dell’ex ministro è divenuta definitiva dopo i mancati ricorsi della Procura e della Procura generale. Quelle telefonate, giustificate dal giornalista, vengono dichiarate come “irricevibili” dai giudici. “Ad un certo momento, – scrivevano i giudici – tra gli scopi perseguiti dal Mancino abbia assunto rilievo principale anche quello di sottrarsi ad un ulteriore confronto con l’Onorevole Martelli (relativo ai colloqui tra i carabinieri del Ros e Vito Ciancimino, che lo stesso Martelli avrebbe fatto a Mancino, ndr) nel timore che si potesse dare credito alla versione dei fatti di quest’ultimo e che da ciò potessero derivare conseguenze negative per lo stesso Mancino in tema di falsa testimonianza” come è poi effettivamente accaduto. Ma anche che “l’intendimento che ha mosso l’imputato sia stato quello di sottrarre, in qualche modo, alla Procura della Repubblica di Palermo le indagini sulla C.d. ‘trattativa Stato-Mafia”. “Non può esservi alcun dubbio – si aggiungeva – che le sollecitazioni del Mancino si pongono al di fuori di ciò che l’ordinamento consente”. Ma cosa aspettarsi da chi, come Deaglio, di quei processi non ha seguito neanche un’udienza? Noi a Palermo e a Caltanissetta, per le udienze del processo Stato-mafia, per il Borsellino quater o il Depistaggio c’eravamo e un’idea ce la siamo fatta sul campo. Senza pregiudizi. Quei pregiudizi che invece Deaglio ha nel momento in cui omette Di Matteo nell’elenco dei magistrati che “sono andati molto avanti nel lavoro, e hanno messo nel mirino Dell’Utri, Berlusconi, Raul Gardini”. Giustamente vengono fatti i nomi di Luca Tescaroli, Antonio Ingroia, Gabriele Chelazzi ed Augusto Lama, ma l’assenza di Di Matteo, (a cui possono aggiungersi anche altri come quello di Scarpinato) è tutt’altro che un lapsus. Eppure è noto che il magistrato palermitano istruì insieme ad Anna Maria Palma il “Borsellino ter”. In questo processo per la prima volta – congiuntamente con il processo sulle stragi del ’93 a Firenze,- si parlò di mandanti esterni sulla base delle dichiarazioni di pentiti di peso come Giovanni Brusca e Salvatore Cancemi. Non solo. Nelle motivazioni della sentenza si parla delle piste che portano al possibile collegamento tra l’accelerazione della strage di via d’Amelio e la trattativa Ciancimino-Ros dei Carabinieri; ma anche del fatto (così come riferiva Cancemi) che Riina citava Berlusconi e Dell’Utri come soggetti da appoggiare “ora e in futuro”, e rassicurava gli altri componenti della Cupola che fare quella strage sarebbe stato alla lunga “un bene per tutta Cosa nostra”. Partendo da quelle dichiarazioni proprio Di Matteo, assieme al collega Luca Tescaroli (oggi procuratore aggiunto a Firenze), aprì il fascicolo su “Alfa e Beta” (ovvero Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri). In pochi ricordano che nell’inchiesta nei confronti dell’ex senatore e l’ex premier Di Matteo e Tescaroli furono lasciati soli con uno scollamento di fatto con il resto della procura di Caltanissetta. Di Matteo indagò anche sulla presenza in Via d’Amelio di Bruno Contrada, che fu anche accusato di concorso in strage (e poi archiviato), e incriminò per false dichiarazioni ai pm l’allora funzionario di Polizia Roberto Di Legami. Una vicenda complessa ricostruita in più occasioni dallo stesso Di Matteo, quando è stato sentito nei procedimenti Borsellino quater e quello contro i poliziotti. A Palermo, con il processo Trattativa Stato-mafia, valorizzò le dichiarazioni di Gaspare Spatuzza, lo stesso collaboratore che aveva contribuito a riscrivere la storia della strage di via d’Amelio che era stato sentito già nel Processo d’appello per concorso esterno contro Dell’Utri, sull’incontro che ebbe a Roma con il bossGiuseppe Graviano al bar Doney in cui si fece riferimento a Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri come i soggetti grazie a cui Cosa nostra si era messa “il Paese nelle mani”. Si commentano da sole squallide considerazioni sul rafforzamento della scorta ricevuta dal magistrato a seguito della condanna a morte di Totò Riina. Affermazioni gravi nel momento in cui svariati collaboratori di giustizia hanno parlato, anche di recente, del progetto di attentato contro il pm. Un progetto che, scrivevano i pm nisseni nell’indagine archiviata “resta operativo”. Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande” diceva Giovanni Falcone in un’intervista rilasciata a Marcelle Padovani. E la solitudine e l’isolamento attorno ai magistrati passa anche da qui. Dall’operato di un giornalismo “sporco” capace solo di mistificare la verità tradendo il proprio fondamento. Giorgio Bongiovanni 23 Dicembre 2020 ANTIMAFIA DUEMILA
- Di Matteo querela Sgarbi, Ferrara, Facci e Deaglio: “Da loro aperta una campagna diffamatoria”
- Riina ordina: “Uccidete Di Matteo” (E adesso il CSM da che parte sta?)
27.12.2020 DEPISTAGGIO BORSELLINO / NINO DI MATTEO, L’INTOCCABILE. Osa documentare il comportamento di una delle icone antimafia, il pm Nino Di Matteo, soprattutto per quanto riguarda l’inchiesta sulla strage di via D’Amelio, poi la gestione del pentito taroccato Vincenzo Scarantino e quindi la fase del più clamoroso depistaggio giudiziario mai visto in Italia. E viene crocefisso da Antimafia Duemila, il sito ormai diventato la cassa di risonanza di tutta la Kasta dei magistrati di casa nostra. L’autore di cotanto scempio è uno dei pochi giornalisti di razza rimasti sul campo, Enrico Deaglio, fresco autore di “Patria 2010-2020”, edito da Feltrinelli. Non c’è bisogno di raccontare chi sia Deaglio, storico reporter e scrittore di sinistra, quella vera, quella che fino a qualche decennio fa esisteva, ed era forza militante. Ora viene accusato di lesa maestà, per aver osato ricostruire, in modo dettagliato e ‘storico’, la stagione delle false inchieste e dei depistaggi istituzionali.
DAGLI ALL’UNTORE DEAGLIOLe frasi utilizzate da Antimafia Duemila si commentano da sole. Eccone alcune, fior tra fiori. Teniamo presente che l’articolo (sic) di cui parliamo è firmato dal direttore, Giorgio Bongiovanni” e che si intitola “Giornalismo sporco – Le false informazioni di Enrico Deaglio”.Un incipit che è già tutto un programma. “Denigrazioni violenta, fango, bugie e falsità”. Non ha peli sulla lingua, il prode Bongiovanni, che così prosegue nella farneticante invettiva: “Un metodo che viene applicato per screditare quei magistrati che, più di altri, cercano ed hanno cercato le verità scomode ed indicibili su stragi e delitti eccellenti. Attacchi diretti spesso provenienti da ambienti giornalistici e politici e, alle volte, persino dalla magistratura. Accadeva ieri, ai tempi di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Accade oggi, in particolare, nei confronti del magistrato Nino De Matteo, oggi consigliere togato indipendente al Csm, ma nel recente passato in primissima linea nella ricerca dei mandanti esterni delle stragi, come sostituto procuratore a Caltanissetta, Palermo e alla Procura nazionale antimafia”. Una sola considerazione. È una totale bestemmia paragonare le figure di Falcone e Borsellino a quella di Di Matteo. Un oltraggio. Significa calpestare letteralmente e scientemente la memoria dei due eroi trucidati a Capaci e via D’Amelio. Continua l’autore delle bestemmie: “I protagonisti di questa campagna mediatica di delegittimazione sono sempre gli stessi e ciclicamente tornano a sputare i propri veleni. Dopo gli attacchi del 2012 e del 2014 è il giornalista Enrico Deaglio a prestarsi al gioco sporco. Lo fa nel suo ultimo libro, ‘Patria 2010-2020’, in cui analizza una serie di vicende inerenti il primo decennio del Ventunesimo secolo “. Prosegue la farneticante analisi firmata Bongiovanni: “Nel calderone di fatti e misfatti, tutt’altro che in buona fede, offre (Deaglio, ndr) ai lettori e al pubblico italiano una serie di informazioni incomplete e mendaci sul lavoro del magistrato (Di Matteo, ndr). Basta leggere alcuni passaggi del libro per comprendere i deliri delle contestazioni. Il consigliere del Csm viene accusato da Deaglio non solo di essere ‘coinvolto’, ma anche di ‘aver gestito il più grande depistaggio mai avvenuto sul delitto Borsellino’”. Deaglio, quindi, viene accusato di aver semplicemente raccontato un fatto storico: quel depistaggio che è ormai sotto gli occhi di tutti e accertato dalla stessa magistratura. Ma c’è chi non vede, come Buongiovanni: anzi non vuol vedere quella realtà (documentale) che è alla portata (e sotto gli occhi) di tutti.
TRE GIGLI IMMACOLATINon è certo finita, la farneticazione continua: “E’ un fatto noto che lo stesso Di Matteo non ha ricevuto alcun avviso di garanzia dalla procura di Messina, impegnata nelle indagini sul depistaggio contro i magistrati che al tempo indagarono sulla strage di via D’Amelio. Quella stessa Procura che ha chiesto l’archiviazione nei confronti dei magistrati Anna Palma e Carmelo Petralia, accusati di calunnia aggravata, in quanto ‘le indagini non hanno consentito di individuare alcuna condotta posta in essere né dai magistrati indagati, né da altre figure appartenenti alla magistratura che abbiano posto in essere reali e consapevoli condotte volte ad inquinare le dichiarazioni, certamente false, rese da Vincenzo Scarantino’. Una richiesta di archiviazione, su cui dovrà decidere il Gip dopo l’opposizione delle parti civili e della famiglia Borsellino, che mette in evidenza quelle vicende ricostruite nel corso del processo per il depistaggio in corso a Caltanissetta, contro i funzionari di polizia Bo, Mattei e Ribaudo”. Lasciamo ancora spazio ai pensieri in libertà firmati Bongiovanni. Scrive il Vate: Lo abbiamo già detto in altre occasioni: è ovvio che i tasselli sulla strage di via D’Amelio vanno messi al loro giusto posto, ma il depistaggio non rappresenta altro che un pezzo del puzzle che riempie i buchi neri sulle indagini ma non può rappresentare la chiave di risoluzione per capire o comprendere le verità nascoste nella loro interezza. In questo puzzle Nino Di Matteo non ha nulla a che fare con la vestizione del ‘pupo’ Vincenzo Scarantino. E’ un fatto noto che si occupò solo marginalmente delle indagini poi scaturite nel ‘Borsellino bis’, dove entrò a dibattimento già avviato”.
I DISTINGUO DEL VATE “Per questo motivo – argomenta il neo profeta dei processi Borsellino – è più che mai necessario effettuare dei distinguo sull’operato vari magistrati e giudici che si sono occupati della strage di via D’Amelio. E se le parole hanno un peso, affermare che un magistrato ha avuto un ruolo del depistaggio significa dire che lo stesso ha collaborato con quei mandanti esterni che hanno voluto la morte di Paolo Borsellino. Tra questi non vi è certamente il pm Di Matteo, che in più occasioni ha chiarito con fatti e carte alla mano come fu valutata la vicenda Scarantino”. Con ogni probabilità il solerte Bongiovanni non ha letto la penosa verbalizzazione resa dal suo idolo Di Matteo in occasione del processo di Messina che vede alla sbarra i tre poliziotti accusati di aver vestito e addobbato il ‘pupazzo’ Scarantino. Così come non avrà letto l’altra testimonianza resa del pm Anna Maria Palma che per primo – insieme a Carmelo Petralia – ha ‘gestito’ quel pentito taroccato. E quella, altrettanto penosa, dello stesso Petralia. Un vero tris d’assi. E a poco vale sostenere che Di Matteo è entrato in scena solo in un secondo momento, alcuni mesi dopo: non ha forse poi condiviso con i due colleghi tutto il seguito processuale? E poi. Non ha mai letto, il sempre solerte Bongiovanni, una delle tante parole di fuoco pronunciate dalla figlia di Paolo, Fiammetta Borsellino, durissime contro i tre magistrati, allo stesso modo, senza operare alcun distinguo rispetto a quell’icona antimafia che risponde al nome di Nino Di Matteo? Potete leggere tre inchieste della Voce dedicate ai pm cliccando sui link in basso. Per ricostruire la verità storica di quello scientifico depistaggio che non è solo parte di un puzzle, ma ne rappresenta una parte fondamentale. Perché si tratta – ricordiamolo bene – di un Depistaggio di Stato. 27 Dicembre 2020. di: Andrea Cinquegrani LA VOCE DELLE VOCI
Fiammetta Borsellino a Di Matteo: «Di mio padre non avete capito nulla»Fiammetta Borsellino e Nino Di Matteo. La memoria e il teorema. Che tuttavia non coincidono. Piuttosto divergono. L’ex pm, oggi al Csm, ripete i suoi convincimenti a verbale a Caltanissetta. Depone al processo sui depistaggi per la strage di via D’Amelio, l’attentato a Paolo Borsellino. Ma la figlia del magistrato assassinato dalla Mafia non ci sta. E non tace. Anzi, lo dice chiaro e tondo: «Mi sento delusa, amareggiata e arrabbiata». La tesi di Di Matteo è nota: 1) l’attentato non fu solo Mafia; 2) i depistaggi ci sono stati; 3) Scarantino non era del tutto credibile; 4) la sparizione dell’agenda rossa di PaoloBorsellino; 5) il possibile ruolo dei Servizi o di parte di essi. Tutto già noto e ribadito adesso in udienza. Ma, appunto, la figlia del giudice ammazzato non mostra alcuna soddisfazione.
L’accusa di Fiammetta Borsellino. “Mi veniva quasi di mettermi in gabbia in quell’aula di giustizia – dice fuori dall’aula- mi sento ingabbiata. Penso che c’è un’enorme difficoltà a fare emergere la verità. Non ho constatato da parte di nessuno una volontà di dare un contributo al di là delle proprie discolpe personali per capire quello che è successo e questo mi fa molto male. Io penso che di mio padre non abbia capito niente nessuno di questi magistrati“. In effetti quella dell’ex pm è stata la riproposizione di un teorema. Che da anni ha l’onore delle prime pagine. E che però non ha ancora portato alla verità.
Di Matteo: più filoni di indagine. “Noi avevano chiara una cosa: rispetto ai programmi originari di Cosa nostra di uccidere Paolo Borsellino era intervenuto un fatto improvviso di accelerazione delle stragi mafiose” ha detto Di Matteo. Che faceva parte del pool che indagava a Caltanissetta sulla strage di Via D’Amelio. “C’era una fretta di uccidere Borsellino. Parallelamente si attivarono una serie di investigazioni che riguardavano alcune anomalie o alcune acquisizioni relative alla strage di Capaci o di presenze di soggetti diversi da coloro che erano stati individuati all’interno di Cosa nostra”. “Sulle causali ci furono più filoni – dice ancora il consigliere del Csm – uno dei quali si cominciò a concretizzare nell’ultimo periodo che ero a Caltanissetta”. Cita anche il processo trattativa Stato-mafia, “un altro filone era quello del rapporto mafia-appalti, però noi avevamo chiara una cosa, cioè che rispetto ai programmi originari della mafia era intervenuto un fatto improvviso di accelerazione delle stragi”.
«Scarantino, affidabilità limitata». “Noi, alla fine, su Vincenzo Scarantino abbiamo dato un giudizio di attendibilità assai ma assai limitata, perché nel processo ter non lo abbiamo neppure inserito nella lista dei testimoni, nemmeno lo abbiamo voluto inserire nella lista dei testimoni. E nei confronti di chi era accusato esclusivamente da Scarantino abbiamo chiesto l”assoluzione di tre dei revisionati. Questo non viene detto da nessuno”.
“Ipotesi di coinvolgimento dei Servizi” nell’assassinio di Borsellino. All’epoca l’ipotesi investigativa era che ci fosse un coinvolgimento dei Servizi di sicurezza nelle stragi. Ma noi non ci siamo fatti aiutare dai Servizi, noi abbiamo indagato sui Servizi o almeno su parte di questi. E alcuni soggetti li abbiamo anche mandati a processo”. Di Matteo, rispondendo alle domande dell’avvocato di parte civile, Rosalba Di Gregorio, ha ribadito di avere indagato “sui servizi, o su parte di essi” ma di non avere collaborato con essi nelle indagini. Gli imputati per calunnia aggravata sono i poliziotti Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, ex componenti del gruppo ‘Falcone-Borsellino’ della Squadra mobile di Palermo che si occupò di gestire proprio Vincenzo Scarantino.
La replica della figlia di Borsellino. “Sembra che tutto quello che riguarda la vicenda di Scarantino e del depistaggio sia avvenuto per le virtù dello spirito santo – dice – Sembra che la vicenda Scarantino si solo un segmento molto piccolo di una indagine, anzi ha dato una incidenza molto importante. Ci si riempie la Bocca del lavoro in Pool, ma tutte le volte in cui si chiede come mai non sapessero nulla dei colloqui investigativo cadono tutti dalle nuvole”. “Tutti dicono che sono venuti in un momento successivo – conclude – ma ciò non vuol dire non venire a sapere ciò che accadeva prima”. IL SECOLO D’ITALIA 3 febbraio
Processo depistaggio, l’accusa di Fiammetta Borsellino: “Delusa dalla deposizione del pm Di Matteo”.Il consigliere del Csm ha deposto al processo sulle indagini della strage di via D’Amelio che vede alla sbarra tre poliziotti: Mario Bo, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei
“Penso ci sia una enorme difficoltà a fare emergere la verità – è il nuovo atto d’accusa di Fiammetta Borsellino, al termine dell’udienza del processo per il depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio – Non ho constatato da parte di nessuno la volontà di dare un contributo, al di là la delle proprie discolpe, a capire cosa è successo”. Oggi, a Caltanissetta, ha deposto come testimone l’ex pm Nino Di Matteo, oggi consigliere del Csm. “Sembra che quello che riguarda Scarantino e il depistaggio delle indagini sia avvenuto per virtù dello spirito santo – dice la figlia del magistrato assassinato nel 1992 al termine dell’udienza – Si tende a stigmatizzare la vicenda Scarantino come un piccolo segmento di una questione più grande. Io non penso che quello di Scarantino sia un segmento così piccolo”. E ancora: “Ci si riempie la bocca con la parola pool ma io di pool non ne ho visto nemmeno l’ombra – aggiunto Fiammetta Borsellino – perché quando ai magistrati si chiede come mai non sapessero dei colloqui investigativi, della mancata audizione di Giammanco, cadono dalle nuvole”.
Un riferimento anche alla deposizione di Di Matteo: “Ho ascoltato molto attentamente le cose che ha detto e rimango sempre stupita da questa difesa oltre che personale a oltranza di questi magistrati e poliziotti che si sono occupati dell’indagine sulla strage. Ma sembrano tutti passati lì per caso”.
La deposizione di Di Matteo. “C’erano dubbi molto seri sulla credibilità di Vincenzo Scarantino”. A dirlo è il consigliere del Csm Nino Di Matteo deponendo al processo sul depistaggio delle indagini sulla strage di Via D’Amelio che vede alla sbarra tre poliziotti, Mario Bo, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei. I dubbi su Scarantino, secondo Di Matteo, che fece parte del pool sulle stragi, “non era tanto riferito ai primi verbali” resi, ma “sulla concretezza su quanto dichiarato” in riferimento a collaboratori come Mario Santo Di Matteo e Salvatore Cancemi.
“Io non ho mi partecipato a una riunione, a un incontro tra colleghi in cui si facesse riferimento sulle indagini, di cui sapevo solo dalle cronache dei giornali, fino al novembre 1994. Siamo a due anni e sei mesi dalla strage di via D’Amelio, quello che io considero l’inizio di un possibile depistaggio con il furto dell’agenda rossa”, ha detto Di Matteo. “Due anni e 4 mesi dopo l’arresto di Scarantino che come sapete è venuto dopo altre indagini, mi è stato detto di occuparmi anche delle stragi. In particolare di quella di via d’Amelio”.
“Nel mio ricordo ad occuparsi delle indagini e della gestione di Vincenzo Scarantino – ha aggiunto – c’era sicuramente Mario Bo e due ispettori, molto bravi, Ricerca e Maniscalchi. Ribaudo e Mattei, nel mio ricordo avevano un ruolo marginale”.
Di Matteo ricorda di avere indagato “fondo sulla presenza di Bruno Contrada in via D’Amelio dopo la strage”. Dice: “Fui io a riaprire le indagini su di lui sulla base delle dichiarazioni del pentito Elmo che ci aveva detto di averlo visto allontanarsi dal teatro dell’attentato con dei documenti in mano. A quel punto lessi tutto il vecchio fascicolo, acquisii le sue agende”.
Contrada era il numero tre del Sisde, il servizio segreto civile. A dicembre, venne arrestato dai pm di Palermo per concorso esterno in associazione mafiosa. “Vedendo quei vecchi atti – dice Di Matteo – mi accorsi che c’era stato un ufficiale del Ros, Sinico, che era andato in procura a Palermo e aveva riferito ad alcuni magistrati di aver saputo che la prima volante accorsa dopo l’esplosione aveva constatato la presenza di Contrada – ha aggiunto – I poliziotti aveva fatto una relazione che poi era stata strappata in questura. I colleghi avevano preso a verbale Sinico e mandato tutto a Caltanissetta, dove Sinico si era rifiutato di rivelare la sua fonte”.
“Si avviò una indagine molto spinta sui servizi segreti. – ha spiegato – Io stavo per chiedere il rinvio a giudizio del carabiniere che, poi, si decise a fare il nome della sua fonte che indicò in Roberto Di Legami, funzionario di polizia. Di Legami negò tutto. Rinviato a giudizio fu poi assolto”.
Di Matteo parla anche delle indagini del pool di Caltanissetta: “Seppi delle note della Boccassini e delle sue osservazioni critiche sulla gestione del pentito Scarantino solo tra il 2008 e il 2010 – ha aggiunto l’ex pm di Palermo -. Con la collega Boccassini non ho mai avuto la possibilità e la fortuna di parlare non solo delle stragi ma di indagini in generale. Per me era ed è un un magistrato da stimare moltissimo, ma con la quale la conoscenza si limitava a incontri al bar”.
“All’epoca delle indagini sulle stragi i collaboratori di giustizia vedevano nell’ufficio del pubblico ministero il luogo a cui rivolgersi per risolvere problemi spesso logistici. In quel periodo mi è capitato che mi chiamassero Mutolo e Cancemi ma nessuno si è mai sognato di dirmi cose inerenti alle dichiarazioni. L’attività di preparazione dei collaboratori di giustizia significava solo dare indicazioni ad esempio sul contegno da tenere in aula, sull’evitare polemiche coi legali, questo era preparare ed era una prassi seguita da tutti” 03 FEBBRAIO 2020 La Repubblica
L’ACCUSA DI FIAMMETTA BORSELLINO: “NESSUNA FIDUCIA NEI PM ANTIMAFIA E NEL CSM, HANNO DEPISTATO”«Pur essendo passati ormai tanti anni, non riesco ancora a farmene una ragione. Non mi capacito del fatto che nessuno abbia mai voluto fare luce fino in fondo sul perché venne archiviato il dossier “mafia-appalti” a cui mio padre teneva moltissimo. E ciò per me è come un tarlo che si insinua nella mente, giorno e notte», dichiara Fiammetta Borsellino, figlia di Paolo, il magistrato ucciso dalla mafia a Palermo il 19 luglio del 1992. Il dossier mafia-appalti venne redatto dai carabinieri del Raggruppamento operativo speciale (Ros) dell’allora colonnello Mario Mori. Nel dossier erano indicate tutte le principali aziende italiane che trattavano con la mafia. L’indagine era “rivoluzionaria”, affrontando per la prima volta il fenomeno mafioso da una diversa prospettiva. I carabinieri avevano scoperto che Cosa nostra, anziché imporre il pagamento di tangenti estorsive agli imprenditori, così come faceva tradizionalmente, era diventava essa stessa imprenditrice con società commerciali riferibili ad appartenenti all’organizzazione che avevano assunto e realizzato, con modalità mafiose, commesse pubbliche, principalmente nel settore delle costruzioni. Al termine di una attività investigativa durata anni, i carabinieri del Ros depositarono il 20 febbraio 1991 alla Procura di Palermo l’informativa denominata “Angelo Siino + 43”. Il fascicolo, circa 900 pagine, era assegnato a Giuseppe Pignatone, all’epoca pm della Procura del capoluogo siciliano. Di queste quarantaquattro persone, il 10 luglio successivo, su richiesta della Procura di Palermo, ne vennero arrestate sei. Fra loro, Siino, definito il “ministro dei lavori pubblici” di Cosa nostra ma, più precisamente, dei corleonesi di Totò Riina, poi diventato collaboratore di giustizia, e Giuseppe Li Pera, un geometra, capo area del colosso delle costruzione Rizzani De Eccher. Il fascicolo, a novembre del 1991, venne tolto a Pignatone dal procuratore Pietro Giammanco e assegnato ai pm Guido Lo Forte e Roberto Scarpinato. I due magistrati, il 13 luglio dell’anno successivo, firmano la richiesta di archiviazione del fascicolo. Il giorno dopo, 14 luglio 1992, si tenne una riunione fra tutti i pm della Procura di Palermo. Giovanni Falcone era stato assassinato da circa due mesi, il 23 maggio, e Borsellino in qualità di neo procuratore aggiunto affrontò il tema del fascicolo mafia-appalti, rimproverando i colleghi di averlo sottovalutato, senza evidentemente sapere che era stata già avanzata la sua richiesta di archiviazione. La mattina del 19 luglio, alle sette del mattino, Borsellino ricevette una telefonata da Giammanco nel corso della quale lo avvisava che sarebbe stato delegato alla conduzione dell’indagine sul fascicolo mafia-appalti, una delega che, senza ragione apparente, fino a quel momento gli era stata negata. La circostanza della telefonata emerse da una testimonianza delle moglie Agnese nel 1995. Alle ore 16.58 successive, una Fiat 126 piena di tritolo fece saltare in aria a via D’Amelio la sua auto di scorta, uccidendolo insieme ai cinque agenti di scorta. Il 22 luglio 1992 la richiesta di archiviazione del fascicolo mafia-appalti venne depositata formalmente. E alla vigilia di Ferragosto arrivò la definitiva l’archiviazione da parte del gip. Fiammetta Borsellino, la sentenza del processo di Caltanissetta ha affermato che l’indagine mafia appalti aveva impresso un’accelerazione alla morte di suo padre. Esatto. Mentre nel processo Trattativa Stato-mafia di Palermo questo aspetto è stato escluso, negando che suo padre avesse un interesse al dossier mafia appalti. E non è vero. Mio padre era convinto della bontà dell’indagine per il suo respiro nazionale. Mi riferisco, ad esempio, agli interessi di Totò Riina nella Calcestruzzi spa. Alla Procura di Palermo non erano tutti della stessa opinione di suo padre. C’è la testimonianza del dottor Scarpinato che riferisce del profilo regionale dell’indagine quando era evidente invece che ci fossero interessi particolari anche nella Penisola. L’incongruenza fra le due sentenze, quella del processo Trattativa Stato-mafia e quella del Borsellino quater pare evidente. Una incongruenza che destabilizza. Non ha fiducia nei giudici? Non ho fiducia in coloro che si proclamano magistrati antimafia e hanno condotto procedimenti giudiziari che contrastano in maniera così manifesta. E non ho fiducia in chi dovrebbe fare chiarezza. Anche sul piano morale. Ad esempio? In chi non si è accorto degli errori grossolani sul depistaggio della morte di mio padre. E nel Consiglio superiore della magistratura. Perché non ha fiducia nel Csm? Il Csm si è dato in questi anni sempre la zappa sui piedi, tutelando interessi di tipo clientelare e di carriera. Fu solerte quando si trattò di mettere sotto processo disciplinare mio padre per aver denunciato pubblicamente lo smantellamento del pool antimafia ed è stato inerte nei confronti di coloro, organi inquirenti e giudicanti, che in qualche modo hanno contribuito, avendo parte attiva o passiva, al più grande depistaggio della storia giudiziaria del Paese. Gli atti che riguardano suo padre sono stati desecretati dal Csm. Mi pare una operazione di facciata senza alcun senso se poi ci ferma e non si accertano le condotte indegne tenute dai magistrati dopo la morte di mio padre. Non mi importa nulla della desecretazione se non si fanno accertamenti seri.
Prova un po’ di amarezza? Anche. Soprattutto che debbano prendere la parola su mio padre persone distantissime da lui e che hanno indagato su altre piste
Vuole fare un nome? Nino Di Matteo.
Perché proprio lui? A parte la vicenda del processo Trattativa Stato-mafia condotto proprio da Di Matteo, non può considerarsi erede di mio padre chi non pone in essere i suoi insegnamenti e anche quelli di Giovanni Falcone. Mio padre, ad esempio, non avrebbe mai scritto o presentato libri sui suoi processi in corso.
Che tipo era suo padre? Mio padre era una persona di grande sobrietà, faceva solo il proprio.
IL RIFORMISTA Paolo Comi – 20 e 24 Febbraio 2021
Fiammetta Borsellino: Eredi di mio padre? Adesso basta! Ha ragione la figlia del Giudice Paolo Borsellino nel chiedere conto e ragione del perché venne archiviato il dossier “mafia-appalti”. E lo fa con uno dei pochi giornali che coraggiosamente pubblica le notizie “scomode” (Il Riformista).
Nel corso dell’intervista rilasciata a Paolo Comi, Fiammetta Borsellino ripercorre la storia dell’inchiesta mafia-appalti, voluta da Giovanni Falcone, e condotta dal Ros di Mario Mori, che nel febbraio del 1991 portò a un’informativa di circa 900 pagine su società riconducibili a “Cosa nostra”.
Un’inchiesta “rivoluzionaria”, la definisce Fiammetta Borsellino, nella quale suo padre credeva a tal punto da chiedere – dopo la strage di Capaci – che venisse a lui stesso assegnata, tanto da incontrare segretamente, il 25 giugno 1992, Mori e De Donno, ai quali chiese di organizzare un gruppo speciale di carabinieri per riaprire l’inchiesta sotto la sua direzione.
Il fascicolo – afferma Fiammetta Borsellino – “era assegnato a Giuseppe Pignatone, all’epoca pm della Procura del capoluogo siciliano. Di queste quarantaquattro persone, il 10 luglio successivo, su richiesta della Procura di Palermo, ne vennero arrestate sei. Fra loro, Siino, definito il “ministro dei lavori pubblici” di Cosa nostra ma, più precisamente, dei corleonesi di Totò Riina, poi diventato collaboratore di giustizia, e Giuseppe Li Pera, un geometra, capo area del colosso delle costruzione Rizzani De Eccher. Il fascicolo, a novembre del 1991, venne tolto a Pignatone dal procuratore Pietro Giammanco e assegnato ai pm Guido Lo Forte e Roberto Scarpinato”.
Quello che accadde dopo ha dell’inverosimile. Come racconta la figlia del giudice, il 14 luglio 1992 si tenne una riunione fra tutti i pm della Procura di Palermo, e Borsellino, in qualità di neo procuratore aggiunto, affrontò il tema del fascicolo mafia-appalti, rimproverando i colleghi di averlo sottovalutato.
Nessuno informò Borsellino che appena il giorno prima i due magistrati ai quali era stata assegnata l’indagine, avevano firmato la richiesta di archiviazione.
Improvvisamente, la mattina del 19 luglio (lo stesso giorno della strage di Via D’Amelio) alle sette del mattino, Borsellino ricevette una telefonata dall’allora procuratore Giammanco che lo avvisava che sarebbe stato delegato alla conduzione dell’indagine sul fascicolo mafia-appalti, una delega che, senza ragione apparente, fino a quel momento gli era stata negata.
Perché Giammanco gli comunicò la delega alle indagini, soltanto dopo che per le stesse era stata firmata la richiesta di archiviazione? Non trascorsero tre giorni dall’uccisione di Borsellino, che la richiesta di archiviazione del fascicolo mafia-appalti venne depositata formalmente, per essere definitivamente archiviata dal gip alla vigilia di Ferragosto.
A nessuno venne il dubbio che tra le concause dell’uccisione di Borsellino potesse esserci proprio l’indagine su mafia-appalti? Pare proprio di no, visto che le indagini seguirono altre piste, come nel caso delle “rivelazioni” del falso pentito Vincenzo Scarantino, per poi attribuire l’accelerazione dell’uccisione del giudice alla cosiddetta Trattativa Stato-mafia, che vede imputati quei vertici del Ros (Mori e De Donno) che per Giovanni Falcone avevano lavorato al dossier mafia-appalti, e che per conto di Borsellino sarebbero stati disposti a riprendere quell’indagine.
Non usa mezzi termini Fiammetta Borsellino nell’evidenziare l’incongruenza tra il processo Trattativa Stato-mafia e la sentenza del Borsellino quater, che proprio in mafia-appalti individua il motivo – quantomeno dell’accelerazione – del progetto stragista di “Cosa nostra” che portò all’uccisione del Giudice Borsellino e della sua scorta.
Alla domanda del giornalista se ha fiducia nei giudici, la figlia di Paolo Borsellino risponde che non soltanto non ha fiducia in coloro che si proclamano magistrati antimafia e hanno condotto procedimenti giudiziari che contrastano in maniera così manifesta, ma non ne ha neppure in chi dovrebbe fare chiarezza. Anche sul piano morale.
Sul banco degli imputati delle valutazioni della figlia del giudice, tutti coloro i quali non si sono accorti degli errori grossolani sul depistaggio della morte del padre, e il Consiglio superiore della magistratura, “inerte nei confronti di coloro, organi inquirenti e giudicanti, che in qualche modo hanno contribuito, avendo parte attiva o passiva, al più grande depistaggio della storia giudiziaria del Paese”.
Tranciante il giudizio su Nino Di Matteo, uno degli autoproclamati eredi di Paolo Borsellino, del quale afferma testualmente:
“A parte la vicenda del processo Trattativa Stato-mafia condotto proprio da Di Matteo, non può considerarsi erede di mio padre chi non pone in essere i suoi insegnamenti e anche quelli di Giovanni Falcone. Mio padre, ad esempio, non avrebbe mai scritto o presentato libri sui suoi processi in corso.
Mio padre era una persona di grande sobrietà, faceva solo il proprio dovere: ricercare la verità senza fare teoremi”.
C’è molta amarezza nelle parole di Fiammetta Borsellino. Un’amarezza ancor più comprensibile e condivisibile nel rileggere le dichiarazioni di Di Matteo, riportate nella richiesta di archiviazione dell’inchiesta a carico degli ex pm Anna Maria Palma e Carmelo Petralia, da parte della Procura di Messina, dove si legge che il 22 aprile del 2009 Nino Di Matteo manifestò la sua contrarietà a che Gaspare Spatuzza (il collaboratore di giustizia che smentì clamorosamente Scarantino, dimostrando che era un falso pentito) usufruisse del piano provvisorio di protezione. Sia perché avrebbe attribuito alle sue dichiarazioni un’attendibilità che ancora non avevano, sia perché le sue dichiarazioni, sebbene non ancora completamente riscontrate, avrebbero rimesso in discussione le ricostruzioni e le responsabilità consacrate dalle sentenze ormai divenute irrevocabili.
Ovvero le condanne ingiustamente emesse a seguito delle dichiarazioni del falso pentito Vincenzo Scarantino.
Fu dunque così facile credere a Scarantino, e così difficile accettare l’amara verità che il falso pentito aveva mentito? Di Matteo temeva (e lo si legge in fondo al documento) il discredito delle Istituzioni dello Stato, poiché l’opinione pubblica avrebbe potuto ritenere che la ricostruzione delle responsabilità di quei fatti fosse stata affidata a falsi collaboratori di giustizia.
Oggi, quelle stesse Istituzioni dello Stato, di quali credito godono da parte dell’opinione pubblica che ha appreso, come dato di certezza, quello che Di Matteo temeva potesse ritenere?
Che dire, inoltre, che si fosse posto in secondo piano che degli innocenti potessero marcire in carcere condannati ingiustamente all’ergastolo, e che il depistaggio potesse ancora proseguire? Stendiamo un velo…
Caltanissetta è come un fiume in piena che ha rotto gli argini. Troppe verità sono emerse. Verità che per alcuni sarebbe stato molto meglio rimanessero sepolte da tonnellate di menzogne orchestrate per decenni da ignoti, o frutto dell’incapacità di tanti altri. Tutti eredi di Falcone e Borsellino? Gian J. Morici LA VALLE DEI TEMPLI 24.2.2021
L’INTERVISTA AL QUOTIDIANO “IL RIFORMISTA” FIAMMETTA BORSELLINO ALL’ATTACCO: “DI MATTEO DISTANTISSIMO DA MIO PADRE”. TORNA ALL’ATTACCO DI NINO DI MATTEO, IL PM DEL PROCESSO TRATTATIVA STATO-MAFIA. La figlia di Paolo Borsellino, qualche giorno fa in un’intervista a Repubblica aveva sottolineato “il contrasto fra le tesi espresse dalla sentenza ‘Trattativa’ e quelle emesse a Caltanissetta per la strage di via d’Amelio – ha commentato Fiammetta Borsellino – La prima individua quale elemento acceleratore la trattativa. La corte del Borsellino quater rileva invece che l’accelerazione sarebbe stata determinata dal dossier mafia e appalti, al quale mio padre era molto interessato. La sentenza ‘Trattativa’ arriva a negare questo interesse. Com’è possibile avere queste due opposte valutazioni?”.
E oggi, dalle colonne del quotidiano “Il Riformista”, la figlia del giudice ucciso il 19 luglio 1992 in via D’Amelio affonda il colpo sul pm simbolo del processo Trattativa: Nino Di Matteo.
“Non ho fiducia in coloro che si proclamano magistrati antimafia e hanno condotto procedimenti giudiziari che contrastano in maniera così manifesta. E non ho fiducia in chi dovrebbe fare chiarezza. Anche sul piano morale. Ad esempio in chi non si è accorto degli errori grossolani sul depistaggio della morte di mio padre. E nel Consiglio superiore della magistratura”, dice Fiammetta.
A proposito della desecretazione degli atti del Csm: “Un’operazione di facciata senza alcun senso se poi ci ferma e non si accertano le condotte indegne tenute dai magistrati dopo la morte di mio padre. Provo anche amarezza, soprattutto che debbano prendere la parola su mio padre persone distantissime da lui e che hanno indagato su altre piste. Un nome? Nino Di Matteo. Non può considerarsi erede di mio padre chi non pone in essere i suoi insegnamenti e anche quelli di Giovanni Falcone. Mio padre, ad esempio, non avrebbe mai scritto o presentato libri sui suoi processi in corso. Mio padre era una persona di grande sobrietà, faceva solo il proprio dovere: ricercare la verità senza fare teoremi”.
Non è la prima volta che la figlia di Paolo Borsellino attacca Di Matteo: nel 2017 intervistata da Fanpage parlò di “Depistaggi avallati dai pm”, poi a RaiRadio1 nel 25° anniversario della strage di via D’Amelio; nel 2018 rilancia sulle “le responsabilità di Di Matteo e degli altri pm”; poi lo scontro con lo zio Salvatore Borsellino che ha pubblicamente preso le distanze dalle sue parole; e infine nel 2019 la deposizione a Messina sui pm indagati (e oggi archiviati) in cui attacca Di Matteo, Palma e Petralia che si occuparono del falso pentito Vincenzo Scarantino. di Redazione 24 Febbraio 2021 IL SICILIA
FIAMMETTA BORSELLINO, LIVORE E ACCANIMENTO CONTRO NINO DI MATTEO Da qualche anno a questa parte, su queste pagine in decine e decine di editoriali, ci siamo trovati a commentare ed intervenire rispetto ad alcune affermazioni che Fiammetta Borsellino, figlia del giudice ucciso in via d’Amelio assieme agli agenti della scorta (Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Emanuela Loi, Claudio Traina e Vincenzo Li Muli), ha più volte rilasciato in svariati interventi pubblici o interviste. Più volte abbiamo scritto e riconosciuto che, al netto di una verità solo parziale sui fatti che riguardano l’attentato del 19 luglio 1992, è lecito provare rabbia ed avere sete di giustizia. Ancor di più di fronte ad una strage che legittimamente può essere definita come una strage di Stato e che ha visto lo sviluppo di un depistaggio che si è originato sin dalla sparizione dell’agenda rossa del giudice. Ancora una volta, leggendo le dichiarazioni di Fiammetta Borsellino, dobbiamo constatare la presenza di un vero e proprio accanimento, con livore, nei confronti di un magistrato in particolare: il pm palermitano ed oggi consigliere togato al Csm Nino Di Matteo. Un accanimento ingiustificato ed ingiusto alla luce, come abbiamo più volte ricordato, del ruolo che lo stesso assunse nei processi sulla strage di via d’Amelio. Da sostituto procuratore si occupò solo marginalmente delle indagini poi scaturite nel “Borsellino bis” (dove entrò a dibattimento già avviato, ndr) mentre istruì dal principio le indagini sul “Borsellino ter”, il troncone dedicato all’accertamento delle responsabilità interne ed esterne a Cosa Nostra, che ha portato alla condanna di tutti i capi della Commissione provinciale e regionale e che non è stato investito dal famoso “ciclone Spatuzza”, che mise in discussione la verità raccontata del falso pentito Vincenzo Scarantino riscrivendo un pezzo di storia riguardo l’attentato. In quel processo, infatti, le dichiarazioni del “pupo vestito” neanche furono utilizzate proprio perché vi erano forti limiti rispetto alle sue dichiarazioni. Nell’intervista al Riformista, quotidiano diretto da Pietro Sansonetti, ancora una volta si ripropone la famosa pista del rapporto mafia-appalti come motivo dell’accelerazione che portò poi alla morte, sviando l’attenzione da ogni aspetto che riguardi la trattativa Stato-mafia. E ciò avviene nonostante vi siano sentenze e processi ancora in corso che sono deputati a chiarire questi aspetti. Ed ogni volta che si parla dell’archiviazione di quell’indagine da parte della Procura di Palermo, giusto il 20 luglio 1992, non si ricorda mai che la stessa inchiesta si basava su un’informativa dei carabinieri “incompleta” e privata dei nomi di politici di rilievo che invece comparivano in un’altra informativa depositata in un’altra Procura. Siccome pensiamo che la signora Fiammetta Borsellino è assolutamente cosciente degli argomenti che tratta, ed è intelligente, siamo certi che ha avuto modo di approfondire questi argomenti. Quello che non riusciamo a comprendere sul piano logico, a meno che non si tratti di sentimenti di odio (ci auguriamo non sia così), è proprio la natura di quell’accanimento nei confronti di Nino Di Matteo. Ciò avviene nonostante quest’ultimo non sia stato mai iscritto nel registro degli indagati per il depistaggio sulla strage di via d’Amelio. Un’inchiesta che vedeva indagati i magistrati Anna Maria Palma e Carmelo Petralia, con l’accusa di calunnia aggravata, che è stata archiviata dal Gip di Messina dopo la richiesta della stessa Procura, in quanto “non si è individuata alcuna condotta posta in essere né dai magistrati indagati, né da altre figure appartenenti alla magistratura che abbiano posto in essere reali e consapevoli condotte volte ad inquinare le dichiarazioni, certamente false, rese da Vincenzo Scarantino”. Nonostante lo stesso Di Matteo abbia spiegato più volte (processo sul depistaggio contro i poliziotti, processo Borsellino quater, Commissione parlamentare antimafia e Csm) in maniera minuziosa su come si sono svolti i fatti in quegli anni ogni volta viene ingiustamente tirato in ballo. A questo punto vorremmo porre alcune domande a Fiammetta Borsellino. Crede che tutte le istituzioni che si sono occupate della strage di via d’Amelio, gli organi inquirenti e giudicanti di tutti i processi, siano da sottoporre sotto provvedimento disciplinare, siano incompetenti o peggio ancora corrotti? Tra esse inserisce anche i componenti del Csm, i magistrati ed i giudici della Procura di Messina, prima ancora il Gip di Catania che archiviò l’inchiesta sui sostituti procuratori di Caltanissetta Palma e Di Matteo in quanto priva di alcun “comportamento omissivo” rispetto alla vicenda del deposito posticipato al processo “Borsellino bis” dei confronti tra Scarantino ed i collaboratori Totò Cancemi, Gioacchino La Barbera e Mario Santo Di Matteo? Ritiene che tutte le sedi Istituzionali che hanno in qualche maniera assolto, archiviato o non indagato il magistrato siano corrotte? La signora Fiammetta Borsellino si assume la responsabilità di mettere in dubbio ed accusare di complicità correntista il Csm, quando lo stesso Di Matteo non appartiene ad alcuna corrente? Sulla vicenda del rapporto mafia-appalti è cosciente dell’intera spinosa vicenda o si ferma solo alla ricostruzione monca che certe parti interessate vogliono far emergere? Fa specie notare che quella pista per la morte di Borsellino, sia la “favorita” della difesa Mori-Subranni-De Donno al processo Stato-mafia. Così come fa specie, in un mondo alla rovescia dove vero e falso si mescolano continuamente, vedere come alcuni familiari vittime di mafia accolgano, totalmente o in parte che sia, suggerimenti e considerazioni da parte di chi certe verità non vuole che siano mostrate. E chi trae giovamento da tutto questo è proprio quel gruppo di uomini-cerniera che hanno obbedito agli ordini di uno Stato-mafia che ha letteralmente armato il braccio di Cosa Nostra per seminare bombe e distruzione nel biennio ’92/’93 e non solo. Ed è un dato di fatto che la verità della trattativa Stato-mafia è scomoda a molti. Fiammetta Borsellino, lo ha ribadito più volte con le sue dichiarazioni, sposa in toto considerazioni come quelle dell’avvocato Rosalba Di Gregorio, che difende alcuni degli ergastolani ingiustamente condannati in base alle dichiarazioni di Scarantino. Per concludere nell’intervista al Riformista Fiammetta Borsellino afferma, riferendosi chiaramente a Di Matteo, che “non può considerarsi erede di mio padre chi non pone in essere i suoi insegnamenti e anche quelli di Giovanni Falcone“. Chi sarebbero dunque vicini alle idee e all’etica del padre? Quegli avvocati degli stragisti che hanno assassinato Paolo Borsellino? Lo ripetiamo ancora una volta, senza nulla togliere al diritto alla difesa e alla legittimità professionale degli avvocati nell’esercizio della loro professione, resta un fatto noto che l’avvocato Di Gregorio non è solo il difensore di una delle vittime delle bugie del falso pentito Vincenzo Scarantino (Gaetano Murana, ndr) ma è già stata legale del boss corleonese Bernardo Provenzano ed anche del boss di Santa Maria del Gesù, Pietro Aglieri, entrambi membri della Cupola di Cosa nostra e condannati a vari ergastoli in via definitiva, anche per la strage di via d’Amelio. Di Gregorio che, durante un’udienza del “Borsellino ter”, il collaboratore di giustizia Totò Cancemi affermò essere in qualche maniera vicina agli ambienti dei servizi segreti. Nello specifico disse che mentre si trovava in tribunale a Palermo, l’avvocato Rosalba Di Gregorio gli aveva confidato di aver saputo che c’era un grosso corleonese latitante in contatto con i servizi segreti. Cancemi spiegò che il latitante a cui si faceva riferimento era Bernardo Provenzano. Diamo atto che la stessa Di Gregorio ha sempre smentito l’accaduto ma se si ritiene che Cancemi abbia detto il vero su Scarantino perché dovrebbe aver mentito sul legale?E cosa ne pensa Fiammetta Borsellino dei magistrati di Caltanissetta che hanno indagato sul progetto di attentato nei confronti dello stesso Nino Di Matteo, con una condanna a morte perpetrata dal Capo dei capi Totò Riina e dal superlatitante Matteo Messina Denaro. Un progetto di attentato il cui ordine di colpire Di Matteo, lo scrivono gli stessi magistrati nisseni nel decreto di archiviazione, “resta operativo”? Sono vicini alle idee del padre? Su tutte queste domande sarebbe bello, prima o poi, avere una risposta. Ma abbiamo il timore e l’amarezza che la signora Fiammetta Borsellino abbia dimenticato chi veramente, nell’informazione e nella magistratura, ha dedicato la propria vita, con disinteresse, a cercare la verità sull’assassinio del proprio padre. di Giorgio Bongiovanni ANTIMAFIA DUEMILA 25.2.2021
FIAMMETTA BORSELLINO, RAGIONE E SENTIMENTO. Era inevitabile. Prima o poi sarebbe dovuto accadere. L’evento scatenante che, questa volta, è l’intervista rilasciata da Fiammetta Borsellino a “Il Riformista”. E così, come mi fu suggerito un po’ di tempo fa da un “amico”, la profezia si è avverata: a Palermo si muore spesso più per fuoco amico che non per fuoco nemico. Una volta si sarebbe detto “si alzano a destra e a manca voci di dissenso” mentre nella giornata di ieri abbiamo assistito all’esatto contrario, ossia “da destra e da manca” arrivava l’assordante rumore del silenzio. Nessun rilancio, nessuna citazione. Anche i “leoni da tastiera” hanno taciuto pubblicamente sui social, anche se non lo hanno fatto all’interno delle loro segretissime chat su Whatsapp o su equivalenti servizi di messaggistica istantanea. Si è alzato il velo silenzioso dello scandalo per le affermazioni della figlia del giudice Paolo Borsellino contenute nell’intervista rilasciata all’ottimo Paolo Comi che ha fatto il suo mestiere di giornalista, senza commentare e, soprattutto, senza anteporre il proprio pensiero personale alla voce di Fiammetta. Ma ciò non toglie che le sue parole siano state mal sopportate e abbiamo creato malumore e critiche ma non è politicamente corretto attaccarla pubblicamente. Poi, questa mattina, qualche voce si è sentita. Forse la notte ha portato (s)consiglio ed è partita la prima raffica di dissenso, un dissenso calibro 38 Special. Questa volta il fuoco amico nei confronti di Fiammetta Borsellino arriva dalla stampa, quella che da sempre è schierata in prima fila con i diversi movimenti antimafia. Ma cosa è successo? Ragione e sentimento, questo è successo. Fiammetta Borsellino ha commesso il reato di lesa maestà. Si è permessa, ancora una volta, di lanciare il suo monito e di puntare il dito nei confronti della magistratura, delle sue indagini e, in modo particolare, nei confronti del dottor Nino Di Matteo dichiarando: «A parte la vicenda del processo “Trattativa Stato-mafia” condotto proprio da Di Matteo, non può considerarsi erede di mio padre chi non pone in essere i suoi insegnamenti e anche quelli di Giovanni Falcone. Mio padre, ad esempio, non avrebbe mai scritto o presentato libri sui suoi processi in corso».
Di recente, la sentenza del “Borsellino Quater” ha stabilito che ad accelerare l’uccisione di Borsellino furono diversi motivi, come il probabile esito sfavorevole del maxiprocesso e la pericolosità, per Cosa nostra, delle indagini che il magistrato era intenzionato a portare avanti, in particolare in materia di mafia e appalti. «Non mi capacito del fatto che nessuno abbia mai voluto fare luce fino in fondo sul perché venne archiviato il dossier “mafia-appalti” a cui mio padre teneva moltissimo. E ciò̀ per me è come un tarlo che si insinua nella mente, giorno e notte», ha dichiarato Fiammetta Borsellino sulle colonne de “Il Riformista”. Ma se questo è veramente stato il possibile accelerante, come sostiene Fiammetta ma anche la sentenza del “Borsellino Quater”, della strage di via d’Amelio per eliminare il dottor Paolo Borsellino, perché non si è indagato? Semplice, molto semplice. Non si è indagato perché il dossier “mafia-appalti” è stato archiviato.
Ma facciamo ordine. Parliamo del dossier “mafia-appalti”, quel dossier investigativo realizzato dal Ros e voluto da Giovanni Falcone. Quel dossier investigativo che, nonostante il costante tentativo di sminuirne l’importanza e, addirittura, considerarlo una semplice indagine locale, conteneva un’approfondita analisi delle connessioni tra le famiglie mafiose siciliane, i loro interessi e quelli di grandi aziende coinvolte in appalti locali. Documento esplosivo? Se ripensiamo con lucidità ai contenuti del dossier in oggetto, possiamo pensare che fosse più confermativo che esplosivo. Molte delle grandi aziende citate nel dossier del Ros sono le stesse che comparivano nelle inchieste giornalistiche condotte negli anni ’70 da Mario Francese, quel cronista di razza che il 26 gennaio 1979 pagò con la vita la sua perspicacia e la sua capacità di analisi. Quelle grandi aziende che avevano interessi nella costruzione della diga Garcia, oggetto delle inchieste giornalistiche di Mario Francese.
Rimettiamo in ordine eventi e date. Il 16 febbraio 1991, i carabinieri del Ros depositarono alla procura di Palermo l’«informativa mafia e appalti» relativa alla prima parte delle indagini. Il dossier passò per le mani prima dell’allora capo della procura di Palermo, Pietro Giammanco, e poi dei sostituti Guido Lo Forte, Giuseppe Pignatone e Roberto Scarpinato. Il 9 luglio 1991 la procura chiese cinque provvedimenti di custodia cautelare e, ai legali dei cinque arrestati, fu stranamente consegnata l’intera informativa del Ros, anziché gli stralci relativi alle posizioni dei diretti interessati, con il risultato che tutti i contenuti dell’indagine vennero resi pubblici, vanificando il lavoro degli investigatori. La vicenda provocò una frattura insanabile tra il Ros e la procura di Palermo e diverse polemiche sui giornali, che parlarono addirittura di “insabbiamento” della parte d’indagine che chiamava in causa esponenti politici. Dopo la strage di Capaci il dottor Borsellino, che all’epoca della consegna del rapporto era procuratore capo a Marsala ma che dal marzo 1992 era di nuovo alla procura di Palermo come procuratore aggiunto, decise di riprendere l’inchiesta riguardante il coinvolgimento di Cosa nostra nel settore degli appalti e fornirle un nuovo slancio, considerandola di grande importanza. Ciò è confermato non solo da un incontro che il dottor Borsellino volle tenere il 25 giugno 1992, presso la Caserma dei Carabinieri Carini di Palermo, con Mori e De Donno, ai quali chiese di sviluppare le indagini in materia di mafia e appalti riferendo esclusivamente a lui, ma anche dalle conversazioni avute dallo stesso Borsellino con Antonio Di Pietro, che allora stava conducendo le indagini sugli appalti al centro di “Mani Pulite”.
Elemento cardine è la riunione che il 14 luglio 1992, cinque giorni prima dell’uccisione di Borsellino, il procuratore Giammanco convocò in procura per salutare i colleghi prima delle ferie estive e per trattare “problematiche di interesse generale” attinenti ad alcune indagini: “mafia e appalti, ricerca latitanti e racket delle estorsioni”. Nella riunione, alla quale partecipò anche Borsellino, Lo Forte fu chiamato a relazionare sull’indagine, ma dalle testimonianze dei presenti risulta che la parola “archiviazione” non venne mai pronunciata e da ciò si evince che il dottor Borsellino non fu informato che il giorno prima, il 13 luglio 1992, sei giorni prima della strage di via d’Amelio, fu presentata dai sostituti procuratori della Repubblica Guido Lo Forte e Roberto Scarpinato, con il visto del Procuratore della Repubblica Pietro Giammanco, un’argomentata richiesta di archiviazione, archiviazione che verrà presentata il 22 luglio 1992, due giorni dopo la strage di via d’Amelio, e posta in essere, con la restituzione degli atti, il 14 agosto 1992. Ragione e sentimento. Omissioni, pezzi mancanti, discordanze. Dossier archiviati, vuoti di memoria ma, soprattutto, vergogna, tanta vergogna. (Ro.G.). STATIGENERALI 25.2.2021
PER QUANTO TEMPO ANCORA? LETTERA DELLA FIGLIA DEL PM PETRALIA IN RISPOSTA ALLE ACCUSE DI FIAMMETTA BORSELLINO Mi domando per quanto tempo ancora, i magistrati che hanno lavorato sulla strage di via D’Amelio, dovranno essere accusati dalla sig.ra Fiammetta Borsellino. Mi domando quali altre prove servano, oltre le approfondite indagini preliminari svolte egregiamente dai pm di Messina che, ricordo, hanno disposto ed espletato anche laboriosi accertamenti tecnici irripetibili. Per quanto ancora gli ex pm Palma e Petralia, nonostante un’ordinanza di archiviazione chiara nel definire che non è stata individuata nessuna condotta “penalmente rilevante da parte dei magistrati” dovranno essere messi sopra la bilancia di un dubbio che verte sempre un po’ di più dalla parte della colpevolezza.
Per quanto tempo ancora dovranno subire insidiose accuse pubbliche? Per quanto ancora Nino Di Matteo, dovrà subire anche lui le pubbliche accuse della sig.ra Fiammetta Borsellino? Per quanto ancora il nostro silenzio verrà usato per offenderci ancora, ancora e ancora una volta?
Non è certo la gogna mediatica che temo, ma le accuse cieche che odorano di pregiudizi, quelle si.
Una strada percorsa sulla suggestione dei pregiudizi non conduce mai alla verità. Nino Di Matteo tirato in causa con la stessa forza con cui, in questi anni, è stato tirato dentro a questo fango mio padre, mi fa pensare che ci sia qualcosa di orchestrato di cui, chi si fa portavoce della malagiustizia, non è al corrente, qualcosa che, lungi dall’avvicinare alla verità, spinge ad allontanarsene. Circoscrivere un dramma nazionale (la stagione delle stragi) a singole e mai dimostrate responsabilità di alcuni magistrati serve, infatti, a negarne la riconducibilità al perverso rapporto intercorso per anni tra lo Stato e un apparato criminale sanguinario ed eversivo come cosa nostra. Oggi penso che dietro le accuse della sig.ra Fiammetta Borsellino ci sia qualcuno che, abilmente, cerca di usare il dolore di una figlia per allontanare, ancor di più, questa verità. Flavia Petralia 25 Febbraio 2021 ANTIMAFIA DUEMILA
Dal falso pentito alle pugnalate a Davigo, storia di Nino Di Matteo il Pm più scortato d’Italia Tradimento. Una nuova freccia è scoccata dall’arco del pubblico ministero più scortato d’Italia, e forse, chissà, questo comporterà un rafforzamento della sua sicurezza. Perché ormai Nino Di Matteo ha litigato con tutti e in poche ore ha sbriciolato le due relazioni principe nella sua vita davanti allo specchio, quella con il suo mentore Piercamillo Davigo, cacciato dal Csm con il suo voto determinante, e l’altra con il suo ragazzo pompon Marcolino Travaglio che, a causa di quel voto, gliel’ha giurata. E a ogni rottura è una tacca sulla sua toga e qualche uomo di scorta in più. Perché tutto intorno a lui è minaccia. Quando perde un processo, quando ha un inciampo di carriera. Quando litiga, quando si arrabbia. Da Scarantino a Davigo, potrebbe essere il titolo di un suo prossimo libro, quello delle sue confessioni. Il tradimento di questi giorni nei confronti del suo mentore, il suo leader politico, quello che lo ha acciuffato per i capelli mentre lui stava annegando nei propri fallimenti. Perché non era riuscito a diventare ministro di giustizia con la benedizione dei grillini e neanche capo del Dipartimento dell’amministrazione carceraria. Ogni volta surclassato da personaggi modesti, su questo ha qualche ragione. Non si può proprio dire che Bonafede e Basentini siano due allievi di Calamandrei. Ma umiliato anche dal capo dell’antimafia che lo aveva cooptato in un pool sulle stragi e poi licenziato perché chiacchierone con la stampa. Davigo era stato generoso con lui, portandolo con sé al Csm e procurandogli i voti per essere eletto. Ma ignorava che il suo allievo nascondesse il pugnale sotto la toga. E con lui il ragazzo pompon Travaglio che si era spellato le mani in quei festeggiamenti, sprizzando gioia a champagne. Ma Nino Di Matteo deve sempre fare pagare agli altri i propri insuccessi, la propria difficoltà nel salire le scale. È ormai storia. E vendetta. Lo hanno aiutato, ma non abbastanza.
La sua carriera di pm “antimafia”, la credulità, la capacità di girare la testa da un’altra parte davanti a un’operazione di pasticceria che ha manipolato un piccolo spacciatore di periferia fino a venderlo sul bancone dell’antimafia come uno degli assassini di Paolo Borsellino. Enzino Scarantino, quello che sapeva tutto perché c’era, perché aveva procurato lui la macchina-bomba della strage. Il grande depistaggio di Stato che avrebbe potuto essere smascherato subito, fin da quando la lettera della moglie del “pentito” e qualche visita parlamentare alle carceri speciali di Pianosa e Asinara denunciarono le torture e il “pentitificio” che in quei luoghi maledetti veniva costruito.
Stiamo parlando del 1993. E il processo-farsa organizzato dal depistaggio di Stato costruito su Enzino è andato avanti con la benevola partecipazione di Nino Di Matteo fino al 2017, fino a quando il collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza non ha cavato, al pm e ai giudici, le castagne dal fuoco, risolvendo il “giallo” della morte di Borsellino e scrivendo, di fatto, la sentenza. Mandando a casa una ventina di innocenti, qualcuno dei quali torturato a Pianosa o Asinara. Venticinque anni di distrazione e di crescita di scorte perché i boss mafiosi, pur vedendo che lui non ne azzeccava una, continuavano a riempire di minacce il pm Di Matteo. Il quale sosteneva più o meno che era tutta colpa di Berlusconi. E una volta, nel corso di una cerimonia ufficiale di commemorazione proprio della strage di via D’Amelio, non potendo prendersela con se stesso perché ancora non cavava un ragno dal buco, e anzi aveva contribuito a far incriminare degli innocenti, attaccò briga da lontano anche con il presidente Napolitano e con il premier Matteo Renzi. Tutti amici e complici di Berlusconi.
Il suo mantra consiste nel suo essere un “isolato” e sul fatto di stare sulle scatole più o meno a tutti. Questo lo fa sentire forte, vuol dire che è il migliore. Che è fuori, soprattutto. Fuori da ogni intrallazzo, da ogni mercimonio, da ogni oscena trattativa. Come quella che sta impegnando diversi giudici, e siamo già al secondo grado di giudizio, per stabilire se un gruppo di servitori felloni dello Stato e di politici piagnucolosi abbia trattato con la mafia negli anni Novanta per far cessare le stragi. Non lo hanno fatto, in caso contrario il loro comportamento sarebbe stato encomiabile. Come lo sono stati gli atti decisivi di coloro, come il generale Mori, che hanno arrestato i boss latitanti e sconfitto la mafia in Sicilia. Se non c’è trattativa, c’è cedimento. Altra parola scritta con la maiuscola nel vocabolario del pm Di Matteo. La sua espressione preferita è “cedimento dello Stato” nei confronti della mafia. Succede di continuo. È capitato con le famose scarcerazioni (che poi erano solo differimenti della pena) dei boss mafiosi per motivi di salute durante la prima pandemia da covid-19. In quei giorni il pm più scortato d’Italia disse che lo Stato pareva «aver dimenticato e archiviato per sempre la stagione delle stragi e della trattativa Stato-mafia». E come ci si sarebbe potuti dimenticare di questo ritornello visto che viene cantato e solfeggiato nelle tante apparizioni televisive del dottor Di Matteo? A questo punto, persa la tribuna del Fatto quotidiano, persa l’amicizia di Davigo (non si illuda, dottor Di Matteo, quello non va a passare gli anni della pensione ai giardinetti, lo rivedremo presto), può sempre contare su qualche domenica sera nello studio di Massimo Giletti. Il quale, forse anche in seguito a qualche puntata in cui insieme protestavano per le scarcerazioni dei boss, è lui pure sotto scorta. Tiziana Maiolo — 22 Ottobre 2020 IL RIFORMISTA
Chi è Nino Di Matteo, il Pm che sognava di fare il ministro nonostante i fallimenti processuali
Rif. Camera Rif. normativi. XVII Legislatura. Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali, anche straniere. Resoconto stenografico. Seduta pomeridiana n. 225 di Martedì 19 settembre 2017
- Bindi Rosy , Presidente … 2
- Seguito dell’audizione del sostituto procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo, Antonino Di Matteo:
- Bindi Rosy , Presidente … 2
- Mattiello Davide (PD) … 2
- Bindi Rosy , Presidente … 3
- Mattiello Davide (PD) … 3
- Bindi Rosy , Presidente … 3
- Di Matteo Antonino , sostituto procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo … 3
- Bindi Rosy , Presidente … 3
- D’Uva Francesco (M5S) … 3
- Lumia Giuseppe … 3
- Di Maggio Salvatore Tito … 5
- Bindi Rosy , Presidente … 5
- Gaetti Luigi … 5
- Di Maggio Salvatore Tito … 6
- Bindi Rosy , Presidente … 6
- Di Matteo Antonino , sostituto procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo … 6
- Bindi Rosy , Presidente … 6
- Di Matteo Antonino , sostituto procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo … 7
- Bindi Rosy , Presidente … 7 … 7
PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche mediante l’attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso e la trasmissione in diretta streaming sperimentale sulla web-tv della Camera dei deputati
Seguito dell’audizione del sostituto procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo, Antonino Di Matteo.
PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito dell’audizione del sostituto procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo, Antonino Di Matteo, iniziata lo scorso 13 settembre. Nella scorsa seduta il procuratore Di Matteo ha svolto una relazione sul tema dell’audizione dedicata, in particolare, alle indagini e ai processi celebrati a Caltanissetta sulla strage di via D’Amelio. Nel ricordare, come di consueto, che l’audizione è in forma libera e che, se necessario, i lavori potranno proseguire in forma segreta, se il dottor Di Matteo non ha aggiunte da fare – mi ha comunicato che non ne ha – al suo intervento, riprendiamo dalla fase delle domande. Do la parola ai colleghi che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.
DAVIDE MATTIELLO. Grazie, presidente. Ringrazio il dottor Di Matteo per essere di nuovo con noi. Per brevità, non torno con commenti su quello che abbiamo ascoltato nella scorsa audizione. Mi limito soltanto a manifestare profondo apprezzamento per quello che lei, dottor Di Matteo, ha voluto raccontarci, così da introdurre le due domande. Mi sembra che lei abbia voluto, da un lato, fare chiarezza sul suo lavoro e, dall’altro, allarmarci su quella che potrebbe essere – la definisco così – una sorta di rischio distrazione rispetto a quelle che, ancora in questo momento storico, sono le questioni nodali sulle quali varrebbe la pena di concentrare l’attenzione, non solo dell’autorità giudiziaria, ma anche della autorità parlamentare e istituzionale, in questo caso della Commissione parlamentare antimafia. Se ho capito bene, discendendo da questa premessa, sul lato dei chiarimenti mi piacerebbe, per come lei riterrà opportuno, tornare su una vicenda indubbiamente collegata a quella per la quale lei ha chiesto di incontrarci, la vicenda Agostino. In questo prezioso sforzo di chiarimento – ripeto, per come lei vorrà declinare la questione – ritengo che sarebbe importante capire un po’ meglio che cosa sia successo nel momento in cui la vicenda Agostino (intendo l’omicidio di Nino Agostino e della moglie Ida Castelluccio del 5 agosto del 1989) sembrava aver ripreso vigore, almeno rispetto alla possibilità probatoria. Ricordo il confronto che ci fu in aula bunker nel febbraio del 2016 con Giovanni Aiello, nel frattempo deceduto. Non sintetizzo ulteriormente per non rubare tempo, tanto lei, dottor Di Matteo, ha chiarissima la situazione. La procura di Palermo va verso la richiesta di archiviazione e arriva l’avocazione da parte della procura generale. Un approfondimento su quel passaggio, Pag. 3 su quello che è successo, nel rispetto delle responsabilità di ciascuno, per me è importante. La seconda questione, che attiene all’allarme sui nodi su cui varrebbe la pena concentrarci, la titolo così: il destino degli atti di impulso della Direzione nazionale antimafia presieduta dal dottor Grasso, con riferimento a quegli atti di impulso che il dottor Grasso costruì a partire dalle deleghe conferite al dottor Donadio, allora sostituto. Si tratta di atti di impulso che sembrano tornati di grande attualità, perché proprio l’inchiesta della DDA di Reggio Calabria ’ndrangheta stragista, alla quale lei stesso ha più volte fatto riferimento nella scorsa audizione, prende – almeno in parte – le mosse da quegli atti di impulso. Tra il 2012 e l’estate del 2013 in particolare sul lavoro del dottor Donadio sembra essersi creata una tempesta perfetta, che non risintetizzo più, per non incorrere nelle rampogne della presidente, perché tante altre volte l’ho fatto. Vorrei chiederle, dottor Di Matteo, di nuovo…
PRESIDENTE. Ne siamo ormai al corrente.
DAVIDE MATTIELLO. Ne siamo tutti consapevoli. Resta il fatto che questa legislatura rischia di chiudersi senza che almeno noi parlamentari della Commissione antimafia possiamo capire un po’ meglio che cosa sia successo proprio all’inizio della nostra legislatura. Anche su questa vicenda il suo punto di vista, per come vorrà esporlo, per me è prezioso.
PRESIDENTE. Possiamo far formulare tutte le domande, alle quali lei risponderà dopo?
ANTONINO DI MATTEO, sostituto procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo. Come ritiene opportuno.
PRESIDENTE. Di solito facciamo così, se per lei va bene.
FRANCESCO D’UVA. Rieccoci, dottor Di Matteo. Ho un paio di domande. Sono mai state acquisite al processo sulla trattativa o ad altri, come il procedimento Mori-Obinu, le risultanze delle indagini condotte a Firenze dal procuratore Chelazzi? Quando lei muoveva i suoi primi passi a Caltanissetta, qualcuno dei suoi colleghi le ha mai riferito, anche in via informale, delle perplessità in merito alle dichiarazioni o alla gestione del collaboratore Scarantino? Lei ha mai interrogato Scarantino? Mi permetto di porre questi quesiti come unica domanda. Quando e se ha cominciato a intuire che c’era dell’altro sui mandanti esterni in merito alla strage di via D’Amelio rispetto a quanto emerso nel primo processo celebrato a Caltanissetta? A Caltanissetta, seppure fosse giovane e alle prime armi, come ha detto lei l’ultima volta e come sappiamo, ha mai notato movimenti strani o fatti irrituali, qualcosa che comunque le è apparso fuori luogo nei procedimenti?
GIUSEPPE LUMIA. Anch’io ringrazio il dottor Di Matteo. La volta scorsa il dottor Di Matteo, con fatti e circostanze e con una ricostruzione molto particolareggiata della vicenda che ha sottolineato e, in particolare, del suo ruolo in quegli anni di gestione delle indagini sulle stragi, sia quella del 23 maggio, sia quella di Borsellino, ci ha fornito un quadro che la Commissione ha potuto conoscere meglio e, dal mio punto di vista, anche apprezzare. Un punto mi è sembrato importante ed è che la vicenda Scarantino, insieme naturalmente anche a quella di Salvatore Candura e Francesco Andriotta, va valutata come un gravissimo depistaggio. Contemporaneamente, lei ci ha sollecitato a non far diventare questo un elemento strumentale, per dare uno sguardo e allargare l’orizzonte dell’analisi da parte della Commissione sulle responsabilità più ampie che, a partire dalle dichiarazioni di Spatuzza e dai processi – in particolare, lei ci invitava a guardare bene i processi Borsellino bis e ter – emergono nella vicenda più complessiva che si è giocata all’interno del nostro Paese con il ruolo di cosa nostra e con chi con cosa nostra ha concorso a chiudere, con le stragi del 1992, la cosiddetta prima Repubblica (questa è una mia traduzione) e ad avviare, con le stragi del Pag. 41993, un rapporto collusivo con la cosiddetta seconda Repubblica, quella ancora in vita. Volevo chiederle, alla luce del lavoro che ha portato avanti sull’indagine e poi sul processo trattativa, di aiutarci a focalizzare il punto d’inizio della crisi che ebbe a manifestarsi nel rapporto mafia-potere, rappresentato dall’attentato all’Addaura. Corriamo il rischio – il presidente Bindi lo sa – che, da qui a poco tempo, i reati che si sono consumati in quel contesto vadano in prescrizione, il che sarebbe un fatto gravissimo. Questo, però, non esime la Commissione antimafia dal fare il suo lavoro di inchiesta e dal provare a sviscerare quell’espressione emblematica che utilizzò Falcone, un’espressione che viene fuori dalla bocca di un magistrato che era lontano mille miglia dalla retorica e dalle parole enfatiche e strumentali. Falcone usò l’espressione «menti raffinatissime». Volevo sapere se, nel corso della sua attività, ha potuto incrociare e valutare questa espressione, «menti raffinatissime» che agirono all’Addaura e che furono protagoniste dell’Addaura. L’onorevole Mattiello ha ricordato, collegandosi – penso – a questo contesto, anche la vicenda Agostino, che è dentro quel crogiolo della vicenda dell’Addaura. Questo sarebbe importante, perché dalle «menti raffinatissime» dell’Addaura possiamo fare un balzo sulle menti che hanno organizzato quel depistaggio. La Commissione antimafia è chiamata a stabilire se quel depistaggio fu una tipica scelta di allora per sbattere il mostro in prima pagina, oppure un continuum con quell’azione, che già all’Addaura si era manifestato, di menti raffinatissime che provarono a destabilizzare il Paese, a vivere quella stagione della crisi della prima Repubblica e a chiudere un rapporto e una fase, insieme con la prima Repubblica, del rapporto potere e mafia. Sarebbe importante, anche da questo punto di vista, avere la sua opinione e capire la questione attraverso il suo lavoro di indagine e di conoscenza. Penso che in questo contesto, presidente, possiamo acquisire non solo freddamente i dati di un magistrato che lavora, naturalmente, all’interno del giudizio penale, con i dati probatori e senza le valutazioni più generali sociologiche che, in quel contesto, non appartengono all’attività dei magistrati. In questo contesto, avere le opinioni e le valutazioni che si traggono per una Commissione che, sempre a partire dai fatti e dai dati, deve esprimere poi un giudizio sulle responsabilità politico-istituzionali potrebbe essere interessante. Vorrei ripercorrere il filo di questo lavoro dalle menti raffinatissime al depistaggio e poi alla vicenda Cassazione, da cui, anche attraverso la procura di Reggio Calabria, stanno emergendo elementi abbastanza chiari di un intervento da parte della ’ndrangheta, in rapporto con cosa nostra, con gli omicidi che anche lì si consumarono, oltre che con l’omicidio per antonomasia, che abbiamo conosciuto, del magistrato che allora era stato chiamato a vivere l’esperienza da procuratore in Cassazione del maxiprocesso. Attraverso questo filo si può provare a capire, dottor Di Matteo, se la trattativa prese il via, magari anche con soggetti diversi, con soggetti più articolati, prima della strage stessa di Capaci. È importante comprendere se già prima della strage di Capaci, oltre che, come già è stato accertato, prima della strage di via D’Amelio, lo Stato instaurò… pezzi dello Stato, naturalmente, soggetti dello Stato entrarono in rapporto con cosa nostra attraverso uno scambio. L’abbiamo chiamato trattativa, ma a noi interessa la sostanza di un rapporto anomalo che si è venuto a creare, che ha destabilizzato il nostro Paese e che ha generato quella stagione delle stragi che ancora dobbiamo conoscere meglio e che ancora dobbiamo approfondire sino in fondo. Le «menti raffinatissime» agirono anche nella strage di Capaci. Le «menti raffinatissime» agirono anche nella strage di via d’Amelio. Le «menti raffinatissime» agirono, poi, lungo quell’altra sanguinosa stagione delle stragi che si consumarono nel continente. Ricordo sempre non solo quelle che già si consumarono a Roma, Firenze e Milano, ma anche quella stessa dell’attentato all’Olimpico. Lo dobbiamo considerare un tentativo stragista che, se fosse andato in porto, avrebbe potuto diventare veramente deflagrante, non solo per il numero di omicidi, ma anche per le ripercussioni devastanti che avrebbe potuto avere nel rapporto Pag. 5con la vita democratica del nostro Paese in quel momento delicatissimo della sua crisi. Vorremmo provare, se lei ci può aiutare, attraverso questo filo delle «menti raffinatissime», a scandire le fasi della trattativa e conoscere le valutazioni, attraverso il lavoro che ha potuto svolgere all’inizio a Caltanissetta e poi soprattutto a Palermo. Per ultimo, lei ci ha invitato a fare attenzione al fatto che sia menti lucide – potremmo dire, ma non vorrei esagerare, «menti raffinatissime» anche adesso – sia chi magari è in buona fede (l’ha sottolineato) vorrebbero costruire una delegittimazione del lavoro che lei ha svolto, provando a creare un conflitto intorno alla gestione di allora di quel depistaggio gravissimo che – confermo – si è consumato sulla vicenda Scarantino. Vorrei capire, attraverso una domanda che magari poi nella risposta, se la presidente lo riterrà opportuno, potremmo segretare, quali sono le indagini che lei con i suoi colleghi svolgete ancora intorno al tema della trattativa. C’è un processo. Volevo capire se la fase delle indagini si è conclusa e se tutto è già stato riversato nel processo, oppure se avete ancora dei filoni di indagine, per esempio, alla luce di quello che Graviano ha potuto esprimere e che voi avete potuto raccogliere con le intercettazioni che abbiamo potuto conoscere e che non so, presidente, se la Commissione parlamentare antimafia abbia potuto acquisire nella sua completezza qui in Commissione oppure no. Sarebbe importante capire se, anche oggi, quelle menti raffinatissime siano in azione per provare a depistare, bloccare o delegittimare quel lavoro che ancora oggi si sta sviluppando – se c’è, come non c’è – ed eventualmente provare a portare a conoscenza della Commissione parlamentare antimafia gli sviluppi di questa importante eventuale attività di indagine.
SALVATORE TITO DI MAGGIO. Scusi, presidente, poiché, per rispondere al senatore Lumia, ci vogliono il Nuovo e l’Antico Testamento, possiamo vedere se il procuratore…
PRESIDENTE. Facciamo tutte le domande. Se è vero che, per rispondere a Lumia, ci vogliono il Nuovo e il Vecchio Testamento, ciò prenderebbe tutto il tempo. È più giusto che facciate tutte le domande. Il procuratore Di Matteo saprà come amministrarle. Non vi preoccupate.
LUIGI GAETTI. Dottor Di Matteo, ho letto sul Fatto Quotidiano quello che lei ha riferito a Marina di Pietrasanta e mi sento di dire che la sua solitudine, che è più che comprensibile, proprio per il lavoro che fa, per la sua delicatezza e per quello che le sta accadendo, non è poi del tutto solitudine. Io e molti altri cittadini vorremmo manifestarle la nostra vicinanza. Detto questo, volevo porre due questioni. Una è un po’ più filosofica. Lei sta facendo, ovviamente, un lavoro estremamente importante, con un gruppo ristretto di persone, su questo processo. Tuttavia, questo è ormai rimasto in ambito giudiziario. Dopo venticinque anni, ritengo che sarebbe forse più opportuno affrontare questo problema in maniera un po’ diversa, ossia fare un’analisi più storica, per indurre le persone a parlare. Da medico, suggerirei di fare la vera diagnosi e di omettere poi la terapia, intendendo eventuali condanne e cose di questo tipo, perché, dopo venticinque anni e dopo tutte queste situazioni, ritengo che forse, studiando un modo diverso, si indurrebbe la possibilità di far emergere la verità, che in questo modo, invece, viene sottaciuta da molti. Volevo sentire il suo parere su questo. Lei ci ha già detto una cosa estremamente importante: queste stragi non sono stragi di mafia, o non sono solo stragi di mafia, ma ci sono altre componenti, che poi valuteremo se siano servizi segreti nel loro complesso, persone e cose di questo genere. Una visione di questo tipo era già stata segnalata da un ex poliziotto, Genchi, il quale, in un libro del 2009, segnalò molte di queste questioni, come la presenza dei servizi segreti, la localizzazione telefonica e via elencando. Segnalò anche altre cose nel suo libro. Ripeto un esempio anche perché è stato fatto da altre persone audite. Nel condominio di fronte a via D’Amelio c’era un edificio in costruzione, ma con una parete che era un vetro antisfondamento, un vetro altamente protetto, dietro il quale una persona soggiornò a Pag. 6lungo, perché furono ritrovati molti mozziconi di sigaretta. Nessuno indagò su questo. È ovvio che questa domanda non dovrei farla a lei, perché ci ha già spiegato che è arrivato molto più tardi. Quel depistaggio, che io credo ci sia stato alla grande, invece, ha omesso queste analisi. Volevo chiedere il suo parere su alcune informazioni di Genchi che, quantomeno leggendo il libro, forse non sono vere, ma sono verosimili, con delle possibilità di riscontri. Volevo sapere la sua valutazione sugli elementi che sono emersi, come quello che ho sottolineato precedentemente e altri ancora, che diversi auditi hanno evidenziato.
SALVATORE TITO DI MAGGIO. Ringrazio innanzitutto il dottor Di Matteo per la disponibilità che già aveva dato la settimana scorsa. Sulla base delle cose che ci ha raccontato, che sono estremamente interessanti, vorrei formulare alcune domande. In primo luogo, lei ha una lunga esperienza come pubblico ministero. Secondo lei, chi guida, quando si fanno le indagini di polizia giudiziaria, la magistratura o i corpi di polizia ai quali eventualmente vengono affidate queste indagini? Come seconda domanda, di Scarantino abbiamo parlato a lungo e lei ci ha rappresentato anche il fatto di come lei in questa vicenda sia entrato a giochi già iniziati. Ricordo, però, nella deposizione che fece la dottoressa Boccassini a Caltanissetta, un fatto che mi lasciò molto sorpreso: sui tabulati che erano a disposizione dell’autorità giudiziaria già nei giorni 17 e 19 luglio, alcuni intercettati facevano riferimento a operazioni che potevano coinvolgere direttamente Gaspare Spatuzza, per cui Spatuzza avrebbe potuto essere già sentito in tempi non sospetti rispetto alle indagini che furono poi iniziate a seguito delle rivelazioni di Scarantino. Chiedo se le risulta questo. Come ultima cosa, durante il periodo delle deposizioni di Scarantino c’è stato un fatto, anche questo estremamente importante, almeno a mio avviso, di cui però non riesco a delineare i contorni. Chiedo se in questo ci può aiutare. Furono le dimissioni proprio di Genchi, in contrasto – credo – con La Barbera. Domando se sul fatto lei ha qualche memoria.
PRESIDENTE. Se non ci sono altri interventi, posso aggiungere qualche domanda anch’io? Ci ricorda quando è arrivato alla procura di Caltanissetta? Ce l’aveva già detto l’altra volta, ma è per la domanda che vorrei farle.
ANTONINO DI MATTEO, sostituto procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo. Alla procura di Caltanissetta presi servizio il 16 settembre del 1992. Poi in DDA entrai nel dicembre del 1993 e nel pool che si occupava delle stragi nel novembre 1994.
PRESIDENTE. Alcune domande gliele faccio per avere il suo punto di vista.
Secondo lei, perché Borsellino, che chiedeva insistentemente di essere sentito dalla procura di Caltanissetta, non fu sentito nel periodo che separò la strage di Capaci dalla strage di via D’Amelio? Che idea si è fatto? La seconda domanda ritorna sulla vicenda Boccassini. Rileggendo la sua deposizione e avendo ben chiare le sue responsabilità, che lei ci ha ricordato nelle varie fasi processuali, anche qui, se non ha elementi suoi che potremmo definire in qualche modo testimoniali, per quale motivo le osservazioni della Boccassini furono ignorate, secondo lei, da parte di chi aveva la responsabilità di condurre quelle indagini? Indubbiamente, rileggendole, si nota che tutti gli elementi che poi sono apparsi successivamente erano contenuti nelle deposizioni della Boccassini, al di là – ripeto – delle sue responsabilità. L’altro aspetto, invece, riguarda una sua dichiarazione nei confronti della mancata messa a disposizione delle parti del confronto che vi era stato tra Scarantino e altri collaboratori di giustizia. Lei ha dichiarato: «Ritenemmo in quella circostanza di non metterle a disposizione del dibattimento». La domanda è se, con i fatti che si sono verificati successivamente, ripeterebbe o si esprimerebbe a favore di questa decisione che fu presa da tutta la DDA? Secondo lei, fu una scelta saggia? A parte che, processualmente, forse è discutibile da certi punti di vista, lo chiedo per entrare nel merito della vicenda. Aggiungo altri due aspetti che forse possono servire a chiarire anche punti di vista Pag. 7diversi che sono emersi in tutte queste varie considerazioni che ci sono state sugli organi di stampa o altro. A lei fu mai chiesto di verificare l’attendibilità di Scarantino, da parte di Tinebra o di chi, comunque, dirigeva le indagini? L’altra domanda è se ha mai letto il verbale del sopralluogo al garage Orofino fatto da La Barbera. Infine, come avete valutato, in quel momento, le dichiarazioni di Scarantino, che diceva di essere stato in qualche modo costretto da La Barbera, anche con metodi violenti, a fare le dichiarazioni che aveva fatto? Questa è una domanda che feci anche all’attuale procura di Caltanissetta, anche per collegarmi ad alcune domande del senatore Lumia. Fu un desiderio di prestazione che spinse gli inquirenti, in quella fase, a dare attendibilità a dichiarazioni che poi si sono rivelate infondate, oppure questa sorta di depistaggio era stata costruita? Mi fermo qui. Do la parola al dottor Di Matteo per la replica.
ANTONINO DI MATTEO, sostituto procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo. Ringrazio tutta la Commissione. Non solo il numero, ma soprattutto la qualità e la problematicità di ogni vostra domanda mi confortano ulteriormente sulla scelta che avevo fatto nel momento in cui avevo chiesto di essere sentito dalla Commissione parlamentare antimafia. Non c’era bisogno che lo cogliessi io, ma si coglie proprio un intento di approfondimento della questione che, da cittadino, mi conforta moltissimo. Presidente, in relazione a molte delle domande che mi sono state poste – vi ringrazio anche perché alcune domande mi invitano a una riflessione, ossia non soltanto a riferire fatti, ma anche a esprimere delle opinioni – vorrei chiedere che si procedesse con la seduta segreta. Proprio nell’intento di poter cercare di collaborare con voi anche sotto il profilo di una riflessione, credo che dovrò fare riferimento anche a fatti che magari per la procura di Caltanissetta, di Palermo o di Firenze possono essere di inopportuna diffusione mediatica.
PRESIDENTE. Procuratore, noi riteniamo questa sua richiesta una volontà di collaborazione con la Commissione. Ci dispiace per tutti coloro che erano in ascolto, ma credo che sarà proficuo per noi procedere in seduta segreta. Eventualmente, alla fine, riprendiamo, se vogliamo fare una sintesi.
Propongo di passare in seduta segreta. (Così rimane stabilito. I lavori procedono in seduta segreta, indi riprendono in seduta pubblica).
PRESIDENTE. Ringrazio il dottor Di Matteo e dichiaro conclusa l’audizione.
ATTENTATO – INDAGINI – INCHIESTE
I PROCESSI
IL DEPISTAGGIO
- PAOLO BORSELLINO, IN ATTESA DI GIUSTIZIA
- LA DENUNCIA DI FIAMMETTA BORSELLINO
- La STORIA di VIA D’AMELIO
GAETANO MURANA: “I miei 18 anni in carcere da innocente accusato dal falso pentito Scarantino”