Foto di Alessandro Romano – FIAMMETTA BORSELLINO e CLAUDIO RAMACCINI
Ci sono uomini che grazie al loro operato riescono a diventare dei simboli, e come tali passare alla storia. Paolo Borsellino è uno di questi. Con Giovanni Falcone é diventato il simbolo della lotta alla mafia e di una fedeltà allo Stato assoluta, spinta fino al sacrificio della propria vita. Come ha scritto Alessandra Turrisi: “Per Paolo Borsellino l’attenzione all’uomo veniva prima di tutto. Si trattasse di un amico sincero, di un testimone di giustizia, di un criminale.
Ciò che di lui resta sono i preziosi ricordi custoditi nella memoria di chi lo ha conosciuto nel quotidiano e ne può testimoniare una integrità morale fatta non di gesti eroici, ma di piccole azioni.
Dalle testimonianze di chi l’ha conosciuto e per varie ragioni frequentato, oltre al profilo del magistrato dalle straordinarie qualità emerge la dimensione umana e quotidiana di una persona, di un marito e di un padre dalle caratteristiche non comuni e che qui abbiamo cercato di documentare e raccontare attraverso molteplici fonti.
Palermo, una calda domenica d’estate, é il 19 luglio 1992, il dottor Borsellino, 52 anni, da 28 anni in magistratura, procuratore aggiunto nel capoluogo siciliano dopo aver diretto la Procura di Marsala, pranza a Villagrazia con la moglie Agnese e il figlio Manfredi a casa degli amici Tricoli. (Lucia é a studiare da un amica in vista di un esame universitario e Fiammetta é in vacanza in Indonesia). Nel pomeriggio si reca con la sua scorta in via D’Amelio, dove vive l’anziana madre, per accompagnarla dal cardiologo. Fra le varie auto parcheggiate in via D’Amelio, dove risiede la signora Agnese, vi é anche una Fiat 126 rosso amaranto.
Via D’Amelio non è una strada sicura in quanto difficile da “bonificare”. Al riguardo il giudice Antonino Caponnetto, su sollecitazione del Reparto scorte, all’indomani della strage di Capaci, chiese alle autorità competenti di Palermo di vietare il parcheggio nei pressi dell’ingresso dell’abitazione della signora Borsellino ma l’istanza resterà purtroppo senza alcun seguito.
Alle 16 e 58, mentre il magistrato citofona per avvertire del suo arrivo, con un telecomando a distanza viene fatta detonare la bomba: 90 chilogrammi di esplosivo nascosti all’interno di quella 126 in sosta davanti al civico 21.
Cinquantasette giorni dopo la Strage di Capaci, con lui nell’esplosione perdono la vita i cinque agenti di scorta Claudio Traina, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Agostino Catalano ed Emanuela Loi, la prima donna a far parte di una scorta e purtroppo anche la prima a cadere in servizio. Antonino Vullo, unico agente sopravvissuto all’attentato, descriverà quel momento così: “Il giudice e i miei colleghi erano già scesi dalle auto, io ero rimasto alla guida, stavo facendo manovra, stavo parcheggiando l’auto che era alla testa del corteo. Non ho sentito alcun rumore, niente di sospetto, assolutamente nulla. Improvvisamente è stato l’inferno”.
I giorni seguenti la strage sono carichi di tensione e angoscia. I magistrati e i poliziotti di Palermo protestano, i familiari di Paolo Borsellino rifiutano i funerali di Stato, la sensazione diffusa è che la mafia possa tutto. Del resto, in quella calda domenica d’estate, si realizza quella che anche lo stesso magistrato considerava da tempo una morte annunciata.
La strage segna comunque un importante spartiacque rispetto al passato: i siciliani, e non solo loro, sono sotto shock e reagiscono come mai in precedenza era accaduto. Vi é “la necessità” di dare al più presto qualcuno in pasto all’opinione pubblica, un colpevole contro cui scaricare la rabbia.
Per le indagini viene istituito il “Gruppo Falcone-Borsellino” agli ordini di Arnaldo La Barbera, capo della Squadra Mobile di Palermo già a libro paga dei Servizi segreti con tanto di nome in codice: Rutilius
Le prime indagini sono il prodotto di una carrellata impietosa di errori, omissioni e iniziative grottesche, quale quella di riempire 56 sacchi neri di detriti dell’esplosione e di spedirli a Roma per farli esaminare dall’FBI.
Per tre mesi e mezzo non si saprà poi nulla della borsa del magistrato rimasta sul sedile posteriore della Fiat Croma di servizio al momento dell’esplosione come non si sa nulla ancora oggi sulla sparizione dell’agenda rossa in essa contenuta e che il giudice portava sempre con sé.
– Il 29 settembre 1992 viene presentato all’opinione pubblica il “colpevole” della strage: ha 27 anni, si chiama VINCENZO SCARANTINO ed è accusato da un pregiudicato, tale SALVATORE CANDURA arrestato un mese prima per violenza sessuale.
Il procuratore di Caltanissetta e titolare dell’inchiesta Giovanni Tinebra annuncia l’arresto dello stragista esaltando il “lavoro meticoloso e di gruppo, con la partecipazione di magistrati, tecnici e investigatori, che hanno lavorato in sintonia, a conseguire un risultato importante quale l’arresto di uno degli esecutori della strage di via D’Amelio”.
Semianalfabeta e balordo di borgata dal bassissimo lignaggio criminale, seppur imparentato con un mafioso della Guadagna, Scarantino é dedito allo spaccio di droga, al furto di auto ed al contrabbando di sigarette, attività che esercita con un banchetto nel suo quartiere. Un profilo che é tuttavia ritenuto sufficientemente idoneo per avvalorare una “verità” imbastita a tavolino. Solo dopo molti anni si rivelerà invece un clamoroso falso in grado tuttavia di reggere nei tre gradi di giudizio e generare la condanna di 11 persone di cui 7 all’ergastolo, nell’ambito dei processi Borsellino-uno e Borsellino-bis.
– Il 3 gennaio 1994 la procura di Caltanissetta chiede il rinvio a giudizio delle quattro persone a suo dire responsabili di avere partecipato alla strage di via D’Amelio: Vincenzo Scarantino, suo cognato Salvatore Profeta, Pietro Scotto e Vincenzo Orofino.
Sei mesi dopo viene reso pubblico il “pentimento” di Vincenzo Scarantino. Un falso dopo l’altro che diventa verità.
– Il 19 luglio 1994 la Procura di Caltanisetta convoca una conferenza stampa per “fare il punto sulle indagini e comunicare, il grande passo avanti nelle indagini sulla strage di Via D’Amelio: la collaborazione di Vincenzo Scarantino che a detta del Procuratore Tinebra é “uomo d’onore riservato” e non invece “uomo di manovalanza”(???).
– Il 4 ottobre 1994 inizia a Caltanisetta il primo processo per la strage. La sentenza arriverà il 27 gennaio del ‘96. Quella del processo d’Appello il 23 gennaio 1999 e della Cassazione il 18 dicembre 2000. Al primo ne seguiranno altri tre ed uno dedicato a quello che è stato definito il più grande depistaggio della storia giudiziaria italiana. Di quest’ultimo é tuttora in corso il processo d’appello.
– È il 13 gennaio del 1995 quando lo SCARANTINO viene messo a confronto con tre boss chiamati in causa dallo stesso falso pentito, secondo cui avrebbero partecipato a un summit per l’eliminazione di Paolo Borsellino. I tre lo smentiscono e dichiarano che lo SCARANTINO é «totalmente estraneo a Cosa Nostra». Il verbale d’esordio del “pentito” era stato firmato il 24 giugno del 1994, ossia sei mesi prima, e risulta già pieno di annotazioni a margine da parte del poliziotto incaricato della sua tutela, il quale dirà però di aver scritto sotto richiesta dello stesso Scarantino avendo il medesimo difficoltà a leggere i verbali.
– Il 26 luglio 1995 SCARANTINO viene rintracciato da Angelo Mangano, un giornalista di Studio Aperto a cui dichiara di aver “deciso di dire tutta la verità e di non collaborare più, perché ho detto tutte bugie. Non è vero niente, sono tutti articoli che ho letto nei giornali e ho montato tutta questa cosa”. Alla domanda del giornalista se “quindi sono tutti innocenti quelli che lei ha nominato?”, Scarantino risponde: “Tutti innocenti, me ne vado in carcere e lo so che mi faranno orinare sangue e mi faranno morire in carcere. Però morirò con la coscienza a posto”.
Il giorno dopo fará peró marcia indietro: “È stato solo un momento di sconforto, confermo la mia volontà di collaborare con la giustizia”. Lo dice al pubblico ministero di Caltanissetta Carmelo Petralia.
Una pista, quella SCARANTINO, imboccata senza riserve dagli investigatori che però non convince in tempi successivi i magistrati Boccassini e Saieva. I due il 12 ottobre 1994 sottoscrivono infatti una nota in cui rilevano l’inattendibilità dello SCARANTINO. Quella nota resta lettera morta e la “fabbrica” del pentito proseguirà fino alla sentenza definitiva della Cassazione.
Anni dopo, sul tema, la procura di Caltanissetta sentirà Ilda Bocassini, che dichiarerà: «non condividevo l’impostazione degli interrogatori e la relativa gestione dei collaboratori di giustizia».
La prova regina del fatto che Vincenzo Scarantino era un mentitore era già nel suo pentimento, nel suo background criminale. Scarantino diceva cose assurde, raccontava ‘fregnacce’. “Il fatto che Scarantino mentisse in maniera grossolana – ha detto Boccassini alla Procura di Messina – era percepibile il primo o secondo interrogatorio. Tant’è che c’è stata per me l’esigenza, perché avevo capito che c’era un atteggiamento diverso da parte dei colleghi, e feci la prima relazione insieme a Roberto Saieva e fu portata dal mio collaboratore, che stava con me a Milano, nelle stanze di tutti i colleghi. Poi non l’hanno letta questo è un altro paio di maniche”.
Per il pubblico ministero Annamaria Palma le ritrattazioni di Scarantino sono invece «opera della mafia».
Nonostante i dubbi, il 27 gennaio 1996 arriva la prima sentenza per la strage di via D’Amelio: ergastolo per Orofino, Scotto e Profeta. Vincenzo Scarantino viene condannato a 18 anni di reclusione. Con ordinanza separata, la Corte concede la scarcerazione di SCARANTINO, già da tempo detenuto in una struttura extra-carceraria, osservando che con “la sua scelta di collaborare ha rotto ogni legame con gli ambienti criminali”.
A COMO, il 15 settembre 1998 si svolge una sessione in trasferta del processo Borsellino bis. Nel corso di un confronto con il fratello Rosario, SCARANTINO ammette di non essere a conoscenza dei fatti oggetto del processo e aggiunge di aver subito minacce e vessazioni in carcere.
Il principale teste d’accusa di quella strage dichiara dunque di non sapere nulla, di aver detto solo bugie costruite assieme alla polizia :«Su via D’Amelio inventai tutto. Avevo paura e volevo uscire di cella” .
Pesante come un macigno, arriva quindi l’ultima «verità» di SCARANTINO: l’accusa a poliziotti e magistrati di aver tenuto comportamenti più che discutibili. Ancora una volta però non viene creduto.
Il 15 dicembre 1998 Antonino Di Matteo, il pm che condusse la requisitoria al processo Borsellino-Bis, afferma a sua volta che le ritrattazioni dell’imputato sono “tecniche di Cosa Nostra che conosciamo bene”, che “la ritrattazione dello Scarantino ha finito per avvalorare ancor di più le sue precedenti dichiarazioni”.
Poco importa che dopo aver interrogato Scarantino per un altro caso, il procuratore di Palermo Sabella, al pari della Boccassini e Saieva,lo avesse invece ritenuto “fasullo dalla testa ai piedi”.
L’inizio della SVOLTA avviene il 15 ottobre 2008: diventa ufficiale il pentimento di GASPARE SPATUZZA, il killer del gruppo di fuoco dei fratelli GRAVIANO. SPATUZZA fa una rivelazione che spiazza e sbugiarda definitivamente SCARANTINO: “Fui io a rubare la 126 usata come autobomba per la strage di Via D’Amelio (nella notte fra il 9 e il 10 luglio). A commissionarmi il furto furono i fratelli Graviano”.
Le sue dichiarazioni trovano totale riscontro su tutti i punti che riguardano la strage. SCARANTINO è un falso “pentito” a cui in troppi hanno incredibilmente creduto.
Con la confessione di Spatuzza le indagini imboccano finalmente la giusta strada ma mettono in crisi molto del lavoro fino ad allora svolto negli anni dalla Procura e dalle corti d’Assise di Caltanissetta.
Il nuovo pentito continua a fornire prove, indirizzi, particolari completamente diversi da quelli che fino ad allora una schiera di magistrati aveva appunto valutato “perfettamente riscontrati” con l’“attendibilissimo” pentito SCARANTINO e apre delle profonde crepe nel processo in teoria già concluso definitivamente, riguardante mandanti ed esecutori della strage.
Pur nel comprensibile imbarazzo generale, alla Procura di Caltanissetta non resta che riaprire le indagini sulla strage di via d’Amelio: nel 2009 gli ex collaboratori di giustizia Scarantino, Candura e Andriotta avevano dichiarato ai magistrati di essere stati costretti a collaborare dal questore Arnaldo La Barbera e dal suo gruppo investigativo, che li avevano sottoposti a forti pressioni psicologiche, maltrattamenti e minacce per spingerli a dichiarare il falso.
La libertà per coloro che sono stati ingiustamente condannati alla pena dell’ergastolo arriverà però molti anni dopo proprio grazie alle rivelazioni dei pentiti GASPARE SPATUZZA e FABIO TRANCHINA che attesteranno la piena validità della ritrattazione dello SCARANTINO. Ritrattazione fino a quel momento non ritenuta attendibile dai magistrati inquirenti e giudicanti.
Nel 2013 inizia un nuovo processo per la strage di via d’Amelio, denominato “Borsellino Quater” che si concluderà il 13 luglio 2017 con l’assoluzione di tutti gli imputati. La sentenza della Corte di Assise definirà quello sulla strage di via D’Amelio “uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana”.
La Corte scrive infatti in sentenza: “Un insieme di fattori avrebbe logicamente consigliato un atteggiamento di particolare cautela e rigore nella valutazione delle dichiarazioni di SCARANTINO, con una minuziosa ricerca di tutti gli elementi di riscontro, secondo le migliori esperienze maturate nel contrasto alla criminalità organizzata”.
Il 26 novembre 2018, con l’udienza preliminare, inizia una nuova tornata processuale dedicata al DEPISTAGGIO e che si protrarrà per 85 udienze per concludere il suo iter il 5 aprile 2023 con il deposito delle motivazioni alla Sentenza.
L’accusa, rappresentata dai pm Stefano Luciani e Maurizio Bonaccorso chiede la condanna a 11 anni e 10 mesi di carcere per Mario Bo e a 9 anni e 6 mesi ciascuno per Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo.
Nell’ambito della sentenza arrivata dopo quattro anni con la quale viene assolto un imputato e dichiarate prescritte le accuse per altri due, il tribunale dispone la trasmissione alla Procura delle deposizioni di quattro poliziotti, ex colleghi di Bo e Mattei, che non avrebbero detto tutta la verità in aula: sotto accusa ci sono ora Maurizio Zerilli, Angelo Tedesco, Vincenzo Maniscaldi e Giuseppe Di Gangi. Il 16 novembre 2023 ai quattro viene recapitato l’avviso della chiusura delle indagini.
Il pm Stefano Luciani l’aveva evidenziato nella sua requisitoria: «In questo processo, ci sono stati testimoni convocati dall’accusa che non hanno fatto onore alla divisa che indossano. Si sono trasformati in testi della difesa in maniera grossolana». È stato il processo di tanti silenzi, di molte bugie e dei non ricordo. È stato il processo in cui la famiglia Borsellino ha chiesto per l’ennesima volta di sapere la verità. Che resta ancora lontana.
Per questo oggi, dopo 31 anni, davanti alla alla Corte nissena vi sono nuovamente alla sbarra i tre poliziotti Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, accusati di concorso in calunnia aggravata dall’avere agevolato Cosa nostra.
Nel frattempo, Lucia Borsellino e il marito, l’avvocato Fabio Trizzino, legale della famiglia del giudice nei processi, vengono auditi dalla Commissione parlamentare antimafia sul depistaggio.
Accuse durissime quelle che in tale sede esprimerà la figlia maggiore del magistrato. Parla di “buio istituzionale”, dei “silenzi” e dei “non ricordo” che non hanno consentito di risalire alla verità, ai veri responsabili del depistaggio, ai mandanti occulti e ai responsabili morali della strage e non manca di far riferimento alla sparizione dell’agenda rossa di suo padre, evidenziando che non sia stato compiuto “nell’immediatezza dell’attentato, l’esame del dna sulla borsa”.
Citando poi un’espressione della sorella Fiammetta, Lucia Borsellino afferma che quella che è stata consegnata alla sua famiglia, dopo inchieste e processi, è solo “la verità della menzogna”. “Qualunque ricostruzione dei fatti non può prescindere da riscontri documentali e testimonianze raccolti con assoluto rigore metodologico: è passato troppo tempo – ha affermato poi Lucia Borsellino – da quella strage, per cui non siamo più disposti ad accettare verità che non rispondano a questo rigore. Una ricostruzione anche solo sul piano storico delle vicende che hanno caratterizzato prima e dopo la strage di via D’Amelio sconta degli ostacoli che, a nostro avviso, per il tempo trascorso sono divenuti ormai insormontabili, ma spero di essere smentita”.
Per l’avvocato Fabio Trizzino “Occorre andare a cercare dentro l’ufficio della Procura di Palermo per vedere se allora si posero in atto condotte che in qualche modo favorirono quel processo di isolamento, delegittimazione, indicazione come target e obiettivo di Paolo Borsellino, che sono quelle condizioni essenziali che hanno sempre proceduto gli omicidi eccellenti a Palermo”.
Parlando delle dichiarazioni rese al Csm dai magistrati della Procura di Palermo subito dopo la strage e “rimasti nei cassetti per 30 anni”, Trizzino afferma che “È un dolore incommensurabile avere scoperto che già dal luglio del 1992 esistevano dei verbali e delle audizioni dei magistrati della Procura di Palermo in cui vuoi per la vicinanza rispetto alla strage o vuoi perché in quella Procura vi era un malessere che covava da tempo, i magistrati di allora furono sinceri e privi di qualunque freno inibitorio nel racconto delle dinamiche che, messe in atto dal procuratore Pietro Giammanco, resero di fatto impossibile la vita di un magistrato valoroso come Borsellino”.
Un altro tema non trascurabile rispetto al compimento della strage è quello della tempistica. Qualcuno chiese realmente a Salvatore Riina di accelerare l’uccisione di Borsellino organizzando la strage nell’arco di breve tempo?
La domanda sorge spontanea dopo l’ascolto delle intercettazioni ambientali realizzate presse il carcere di Opera a Milano allorché Riina il 6 agosto 2013 confida al suo compagno di detenzione ALBERTO LORUSSO che mentre la strage di Capaci era stata studiata da mesi, quella di via D’Amelio fu invece “studiata alla giornata”. Un ulteriore particolare che viene intercettato in una successiva conversazione del 20 agosto completa la precedente rivelazione: “Arriva chiddu, ma subito… subito… Eh ..Ma rici ..macara u secunnu? E Vabbè, poi ci pensu io..rammi un poco di tempo ca..” Sarebbe arrivato qualcuno che gli avrebbe detto che bisognava fare “subito, subito” e lui gli chiede di dargli un poco di tempo.
Circa l’arco temporale che separò la decisione dalla esecuzione dell’attentato, é tuttavia da considerare anche quanto descritto nella sentenza del BORSELLINO QUATER: già nel corso del mese di giugno del 1992, Vittorio Tutino sapeva che si doveva realizzare qualcosa di molto eclatante, proprio in via Mariano D’Amelio, e per tale motivo faceva in modo che i suoi cognati non frequentassero più, come facevano d’abitudine, prima d’allora, il parcheggio gestito dai Galatolo, ad appena 100/200 metri, in linea d’aria, dal luogo dell’esplosione.
Secondo la corte d’Assise d’Appello nissena, poi, non ci sarebbe un collegamento tra la Trattativa Stato-mafia e la morte di Borsellino.
Alla vigilia del 32º Anniversario della strage, questo e molti altri interrogativi non hanno ancora trovato una credibile risposta che qualora non dovesse arrivare dal versante giudiziario è auspicabile che si possa quantomeno ottenere da quello della ricostruzione storica attualmente affidata alla Commissione Parlamentare Antimafia.
CLAUDIO RAMACCINI
Direttore Centro Studi Sociali contro le mafie – Progetto San Francesco
“ARCHIVIO DIGITALE PAOLO BORSELLINO”
🟧 PREFAZIONE di Fiammetta e Lucia Borsellino
🟥 PAOLO BORSELLINO, il coraggio della solitudine
🟥 CRONISTORIA DEL DEPISTAGGIO dal 1992 ad oggi
🟥 L’ATTENTATO, le INDAGINI, i PROCESSI
🟥 La DENUNCIA di FIAMMETTA BORSELLINO
🟥 ed ALTRO ANCORA
🟥 DOCUMENTAZIONE
🟨 CERCA NEL SITO
Lo scrittore catanese Alfio Caruso nel suo libro “I Siciliani” annovera Paolo Borsellino nella sezione “I devoti di un dio minore” asserendo che: «sulla sponda del diritto e sulla sponda del sopruso si sono spesso fronteggiati appartenenti a una storia comune. Volti conosciuti, volti amati, volti di ragazzi assieme ai quali si sono condivisi gli sbadigli in classe, le gite dell’oratorio, le partite di pallone sulla spiaggia vicino al mare dell’innocenza. Tutti proiettati verso un immancabile destino di gioia. Molti sono andati a morire per l’ansia di mostrarlo. Ci si fa ammazzare dalla mafia per gli stessi motivi per cui la mafia ammazza. I camposanti sono pieni di siciliani uccisi per non essersi lasciati incantare dal clima, dal mare, dal sole, dagli amori, dagli odori, dagli “uomini di rispetto”, dagli “sperti e malandrini”, dai gattopardi, dai galantuomini, dai compari. I migliori della generazione che pensava di sconfiggere la mafia, sono finiti sotto una croce per testimoniare che esiste un’altra Sicilia, che questa Sicilia non si arrende e mai si arrenderà, che ci sarà sempre una voce libera pronta ad alzarsi contro l’assuefazione al peggio, contro il ributtante imbroglio dell’ “onorata società”».