AGNESE BORSELLINO: “In quei 57 giorni non riesce a trovare il tempo per la famiglia”

 

“Carte, solo carte. Finisce in ufficio e torna a casa con la borsa piena di documenti da leggere, telefonate da fare, appuntamenti da riordinare. Con me e i miei figli parla solo di notte, quando tutti gli altri dormono. È diventato quasi una macchina.  
No, nessuno di noi gliene fa una colpa. Se trascura moglie e figli, ha motivi gravissimi, lo sappiamo bene.  
In gioco ci sono cose troppo importanti. Si è reso conto, pur nella sua umiltà, che in quel momento è l’unico ad avere la capacità e la volontà di lavorare con questi ritmi massacranti.
»  
La figlia LUCIA ricorda lo sforzo di mantenere alto il livello del suo impegno contro la mafia, nonostante i mille ostacoli messi sulla sua strada dal procuratore capo Giammanco. 
«Pur di continuare il suo lavoro è disposto ad accettare certi limiti che gli pone sempre più spesso Giammanco. Gli costa un sacrificio doppio sapere che per motivi gerarchici è tenuto a raccontare al suo superiore i passi delle sue indagini, senza però ricevere in cambio, ne è convinto, lo stesso flusso di informazioni.  
Capisce che gli vengono nascoste conoscenze acquisite dall’ufficio, episodi che potrebbero interessarlo, anche fatti gravi.
»  (“L’agenda rossa di Paolo Borsellino”)


«Ricordo perfettamente che il sabato 18 luglio 1992 andai a fare una passeggiata con mio marito sul lungomare di Carini, senza essere seguiti dalla scorta.
Paolo mi disse che non sarebbe stata la mafia a ucciderlo, della quale non aveva paura, ma sarebbero stati i suoi colleghi e altri a permettere che ciò potesse accadere.  
In quel momento era allo stesso tempo sconfortato, ma certo di quello che mi stava dicendo» AGNESE BORSELLINO


 La lettera dei FAMIGLIARI 

«Lo sentiamo ancora vicino».
I familiari del giudice (Agnese, Lucia, Manfredi e Fiammetta Borsellino) hanno scritto una lettera che l’attrice Lina Sastri ha proposto durante lo Speciale Tg 1 di ieri. Ecco il testo:
 
«Anche per noi è giunto così il momento di ricordare che è trascorso un anno, da quando nostro marito e padre è stato crudelmente sottratto da questa vita, solo per essere stato un uomo onesto e leale anche con coloro che egli sapeva non avessero fatto la sua stessa scelta.
«Ma lui è ancora così vicino alle persone che ama che per noi un anno sembra solo un lungo giorno che non giunge mai al tramonto. 
E’ triste pensare che per coloro che gli hanno voluto e che continueranno a volergli male, questo sia invece un lungo anno di una “non vita” fatta di paure, rimorsi e tentativi di nascondersi; pertanto non vivremo questo 19 luglio come un giorno di morte ma come un giorno in cui riflettere sul vero significato della vita.  
«Se una sola persona fra tante accoglierà questo messaggio, allora ciò basterà perché nostro padre continui a vivere non da eroe ma da uomo normale, padre, marito, amico, magistrato.  
Non ci consola sentire nostro padre chiamato eroe, perché è un modo per continuare ad attribuire ad un uomo solo le responsabilità che dovrebbero essere di migliaia di uomini.  
E’ triste pensare che il fuoco di quel 19 luglio non abbia distrutto con sé il male residuo dell’animo umano. Esso tuttavia ha alimentato la bontà e l’amore di tanti uomini, che hanno il me rito di avere reso il nostro dolore sopportabile, condividendolo riempindoci d’affetto.  
«Grazie a questi “nuovi amici a cui spesso non abbiamo potuto dire quanto eravamo loro grati e quanto una loro parola, una let tera, un gesto, ci abbiano fatte re cuperare anni di vita che in un attimo credevamo di avere perso, Grazie a tutti coloro che con il loro vivere semplice ed onesto por tano alto il nome di Paolo, incarnandone l’essenza.  
Grazie a tutti coloro che veramente ci vogliono bene e che desiderano tendere la loro mano alla nostra, non la sciandoci soli, in questo lungo cammino verso la “vera” luce, verso la “vera” vita».

 Tutta la famiglia aspettava la tragedia

 
Scendevo gli ultimi gradini di casa Borsellino, vedevo i carabinieri fuori, oltre il portoncino del palazzo. Davanti, una spianata di polvere. Oltre la polvere, la chiesa nella quale si sarebbero svolti i funerali, con gli officianti circondati da giovani diaconi, un repertorio di canti sacri a me del tutto ignoti, le autorità dal volto sottomesso, i figli con la mandibola serrata dal dolore e dalla rabbia.
Sulla soglia mi aveva abbracciato Antonino Caponnetto. Piangeva accanto al magistrato De Francisci. Gli diceva: «Domani noi due andiamo a trovare Paolo che ci aspetta nella sagrestia, e staremo con lui a vegliare il suo feretro.  
Ma indosseremo la toga di magistrati della Repubblica».
Uscii frastornato e commosso come non mi era mai accaduto in trent’anni di questo incauto mestiere.
Da allora molte volte ho ripercorso con la mente quei passi, quelle stanze e riordinato i volti, le voci. E’ diventato una sorta di esercizio, vorrei dire di laica preghiera: il ricordo, il ricordo netto e palpitante, è l’unico bene prezioso che possiamo per breve tempo stringere e trasmettere. E così rivedo la vedova di Paolo Borsellino, Agnese, piccina di corpo e gigantesca di spirito, di forza.
Una casa piccolo borghese, una casa da bravo funzionario che non si può permettere lussi. Una casa di ragazzi che vivevano stretti, con i loro amici, fidanzate e fidanzati, colleghi e compagni di scuola, accanto a quest’uomo dallo sguardo saettante, il magistrato fiaccato dalla certezza del sacrificio e tuttavia diritto sul filo della schiena.
Rivedo Caponnetto che mi sussurra qualcosa a proposito dell’agenda sparita. E Manfredi, atletico, magro, simpatico, pieno di decoro e di disprezzo come un hidalgo spagnolo, che incute rispetto dai suoi vent’anni: Manfredi che mi racconta con orrore dei giornalisti che si sono insinuati in casa, che si spacciano per amici del padre, che millantano «Paolo mi diceva. Paolo mi ha detto». E non era vero niente.  
Quando ho parlato di nuovo con Manfredi, nei giorni dell’anniversario della morte di Falcone, il suo disprezzo e il suo dolore sembravano decuplicati: vedeva la figura del padre resa innocua in un santino, forzosamente accoppiata all’altra di Falcone, sicché i due poveri magistrati uccisi sono diventati, loro malgrado, i beati santi Giovanni e Paolo.
La casa dei Borsellino è sobria. La casa di un preside, di un funzionario, di un maestro di scuola.
La casa di un uomo che aveva stanziato una somma straordinariamente alta da consegnare alla ragazza del figlio, affinché lei potesse comperare a Manfredi la muta da sub, senza dirgli che era lui, il padre, il finanziatore occulto.
Ragazzi dal curriculum scolastico di alto livello: Lucia, la figlia che faceva farmacia, doveva dare un esame il giorno stesso. E lo diede.  
Fra le lacrime, ma compostamente e perfettamente, papà così avrebbe voluto.
Fiammetta era arrivata da lontano, da vacanze asiatiche e si era dovuto aspettare lei per poter procedere con i funerali: «Mi raccomando, Fiammetta», le aveva detto il padre il giorno della sua partenza, «mi raccomando, appena arrivi chiama subito e lasciami il numero di telefono dove posso cercarti nel caso che mi ammazzino».
Era lo scherzo quotidiano.
L’onorevole Ayala mi ha raccontato dei bei tempi del pool, quando lui, Falcone, Caponnetto e gli altri si rendevano visita l’un l’altro, chiacchieravano e scherzavano, c’era sempre un saluto al duce per Borsellino, una mano tesa, e Falcone con quella sua aria da gatto soriano e sornione che gli rivolgeva la parola dicendogli: «Camerata Borsellino, posso parlarvi?». E la gente: gli amici, i parenti, i magistrati, i visitatori, decine e decine di persone che entravano e uscivano da quell’ingresso minuscolo, con la libreria che forma una parete di divisione, quella gente piena di forza: decoro, decoro, decoro, questo ricordo più di tutto, ed è un ricordo straziante.
Perché nessuno perse la calma, nessuno urlava, nessuno imprecava, nessuno si agitava.  
Ma piangevano tutti in modo velato, silente, e anch’io fui trascinato in quello stato di doglianza accorata e composta, sicché vidi quei giudici come Di Lello, De Francisci e Caponnetto che piangevano come bambini tristi, ma senza perdere nulla della loro grande forza e austerità.  
Il pianto veniva erogato da un dolore enorme, da uno sdegno senza confini, da un desiderio di vendetta della legge. Rivedo Peppino Ayala che mi racconta come si imbatté, col piede, nel busto carbonizzato di Paolo Borsellino.  
Mi raccontò di essere inciampato nel troncone superiore del povero corpo di Paolo Borsellino: «Era tutto nero, i capelli bruciati, irriconoscibile. Ho capito che era lui dai denti, gli incisivi un po’ separati, e quel suo naso un po’ aquilino. Era lui, era il mio Paolo, e non era più il mio fratello, il mio amico, era diventato una cosa, una cosa terribile…».
Ayala mi aveva raccontato anche della sua personale doppia tragedia: a causa della vicinanza della sua casa da via D’Amelio, si era sparsa la voce che la vittima dell’attentato fosse lui. E quella voce aveva raggiunto i suoi figli che abitano a Mondello insieme alla mamma, e così mentre lui piangeva l’amico ucciso e gli agenti di scorta dilaniati (fra cui per la prima volta una donna, una bella ragazza sarda entrata da poco in polizia), nelle stesse ore i suoi figli e i suoi amici piangevano lui e – mi racconterà Manfredi Borsellino – i figli del giudice ucciso vagavano di ospedale in ospedale per capire se davvero il morto fosse il loro papà.
A casa di quest’uomo innocente e terribilmente vivo dopo la morte, mi aveva portato il trepido e irresistibile giudice Antonino Caponnetto, il padre storico del pool, l’uomo che era stato intellettualmente sedotto da Giovanni Falconeil quale gli aveva poi portato Paolo Borsellino, magistrato valente e tenuto in disparte. Caponnetto mi aveva risposto al telefono di casa Borsellino. Ebbe parole di grande emozione, e anch’io le ebbi. Mi disse: «Venga a trovarci» e fu così che varcai il portone di vetro e metallo anodizzato del palazzo periferico in cui abitavano e abitano i Borsellino. I parenti di Paolo Borsellino: erano tutti pigiati in quell’ingresso, immersi in quel controllato brusio della veglia e del conforto, quando tutti si riuniscono per sostenere la famiglia e nessuno parla dell’ucciso come se fosse davvero morto, ma come se fosse svanito per esigenze di scena, soltanto un attimo, per scherzo.
Ma Paolo è morto e sta nella bara e la bara è nella sacrestia: una chiave ce l’ha proprio Antonino Caponnetto, quest’uomo diafano, dall’accento toscano e l’anima siciliana.
La famiglia Borsellino appariva provata non soltanto dalla morte di quel padre e marito giudice, ma dall’attesa di quella morte.
Lui sapeva di morire, loro sapevano, sapevano tutti. Paolo frizzanti «Ricordo i pianti silenziosi Nessuno imprecava né si agitava E quel decoro rendeva la scena più straziante» PAOLO GUZZANTI – La Stampa 19.7.1993

LA MORTE, UN OSPITE ANNUNCIATO


LE TESTIMONIANZE 

TERESA PRINCIPATO “Paolo evitava di seguire dei percorsi abituali, una sola abitudine aveva, una sola: quella di recarsi ogni domenica a casa della madre, spesso anche durante la settimana, questa era la sua abitudine irrinunciabile, di questo tutti noi sapevamo. Ripeto, era l’unico posto in cui lui abitualmente andava. Era l’uomo, il magistrato più a rischio, in tutta Italia in quel momento. Non lo sapevamo solo noi. Ad ogni convegno si diceva: lo sapete chi à il prossimo?
Si faceva il toto Borsellino, era veramente una cosa e noi vivevamo insieme a lui questa situazione con angoscia, veramente con angoscia.”  30 Luglio 1992 dalla Audizione presso il CSM
 
ALESSANDRA CAMASSA  ”A fine giugno del 1992 io e il collega Massimo Russo avemmo un incontro con Paolo Borsellino. Era un dialogo normale, si parlava di indagini. A un certo punto lui si alzò, si stese sul divano e cominciò a lacrimare e disse: Non posso credere che un amico mi abbia potuto tradire. Siamo rimasti sorpresi. Ebbi la netta sensazione che quella notizia l’avesse appresa pochissimo tempo prima…”
 
ANTONINO CAPONNETTO “Paolo Borsellino sapeva di essere ormai nel mirino.  (…)  gli dissi: “Paolo, arrivederci a presto”. Non è facile descrivere, né dimenticare lo sguardo che mi dette Paolo […] “Ma sei sicuro Antonio, che ci rivedremo?”. La domanda mi turbò, mi turbò molto, cercai di mascherare il mio turbamento, la volsi un po’ in tono scherzoso: “Ma che stai dicendo, Paolo? Certo che ci rivedremo”. E allora mi abbracciò, ma mi abbracciò con una, con una forza… che mi fece male! Mi strinse, non se ne rendeva conto… ma mi abbracciò come… come a non volersi distaccare, come a volere… tenere avvinto qualcosa di caro e portarselo via. Ecco, quello è stato… lì ho sentito che era l’addio di Paolo.”
 
LUCIANO COSTANTINI  “Qualcuno di noi gli chiese se sarebbe andato a villeggiare a Villagrazia di Carini, come faceva tutte le estati. E Paolo rispose di no, aggiungendo che la moglie Agnese aveva paura (“Agnese si scanta”, disse) a passare tutti i giorni per Capaci, sull’autostrada dove da poco era saltato in aria Giovanni Falcone. Ascoltai quelle parole e capii subito che a “scantarsi” era soprattutto Paolo e per questo non voleva esporre a pericoli la sua famiglia. Personalmente mi salutò con un bacio, una vigorosa stretta del braccio e soprattutto un sorriso un po’ forzato che voleva essere rassicurante. Perché, ne sono convinto, Paolo sapeva quello che rischiava, ma il suo senso di responsabilità, la sua etica gli imponeva di andare avanti e di non far preoccupare chi gli voleva bene.”
 
MASSIMO RUSSO “Qual è l‘immagine più bella che lei ha di Paolo Borsellino?  Quella sorridente del felice periodo marsalese di quando, per esempio, insieme agli altri colleghi, ci ritrovavamo a pranzo con lui sul lungomare di Marsala continuando a discutere e parlare delle nostre indagini, tra le sue battute divertenti e i suoi aneddoti. Un’immagine ben diversa da quella che Paolo Borsellino ci diede dopo il 23 maggio, quella di un uomo distrutto dalla tragedia di Capaci, gravato dalla consapevolezza della morte che si annunciava anche per lui.”
 
ANTONIO INGROIA  “Nelle ultime settimane, dopo la morte di Falcone, avvertiva il pericolo in modo molto acuto, sentiva la minaccia della morte. Ma non si sarebbe mai rassegnato ad andarle incontro a braccia aperte. Da lottatore quale era, avrebbe lottato, come ha lottato strenuamente sino alla fine.”
 
DIEGO CAVALIERO  “C’è lelicottero sulle nostre teste, ci sono guardie ovunque. Mi chiede di accompagnarlo in macchina a prendere le sigarette e mi dice una frase che non dimenticherò mai, a freddo: Sai Diego, quando subisci la perdita di un parente caro, tu vai al suo funerale e piangi non solo perché ti è morto il parente o lamico, ma perché sai che la tua fine è più vicina.  Sette giorni prima della strage, Paolo Borsellino aveva fatto da padrino di Battesimo al primogenito del giovane giudice salernitano Cavaliero”
 
ANDREA GORLERO agente di scorta Paolo Borsellino : «Io mi ricordo quella volta che tornavamo dal Palazzo di Giustizia e salivamo a casa del dottor Borsellino. Lui era molto pensieroso e ad un certo punto disse: “Mi dispiace che probabilmente ci sarete pure voi”». Andrea Gorlero, non ha dubbi: «Io penso che il sacrificio dei ragazzi delle scorte e dei giudici Falcone e Borsellino sia servito, perché ha cambiato la coscienza popolare».
 
LUCIANO VIOLANTE mi venne a trovare in ufficio per discutere di alcune questioni. Ricordo che stava per partire per la Germania per degli interrogatori, ma sembrava che già presagisse l’ineluttabilità della sua fine. Detto oggi può sembrare una costruzione a posteriori, ma lui sapeva che il cerchio si stava stringendo. Attenzione, non mi trasmise un sentimento di timore, ma era evidente che cercasse di mettere a disposizione tutti i dati in suo possesso. Per questo chiese insistentemente di essere sentito dalla procura di Caltanissetta sulla strage di Capaci, ma non fece in tempo.
 
FRANCO LANNINO, il fotografo delle stragi.  “Dopo i funerali  di Falcone, la domanda fatidica: ora chi si fotografa? I nostri capo redattori e i nostri direttori non ebbero dubbi. Borsellino! E noi, cinicamente, a pensare: ‘adesso sarà lui il prossimo obiettivo?’ Sì, sarà lui. Lo sapevamo noi, lo sapevano tutti. Raccogliemmo più scatti di Paolo Borsellino in quei 57 giorni che in tutti gli anni precedenti. Fu una vera e propria caccia, culminata alla biblioteca comunale, ultima apparizione pubblica del giudice prima del suo estremo sacrificio” “Adesso a trent’anni dalla sua morte mi vergogno e mi sento un po’ colpevole. Io lo sapevo, lo sapevo che lo avrebbero ucciso. E che ho fatto? Ho scattato delle foto, scavando tra le sue espressioni.”
 
CICCIO, il portiere:   Tornando a casa, la sera prima del suo assassinio, Borsellino saluta il suo portiere, lo abbraccia e lo bacia. Sono effusioni insolite, atipiche, mai manifestate prima. Il portinaio del palazzone di via Cilea le riferirà, commosso, ai familiari del giudice, nei giorni successivi alla strage. 
 
Don CESARE ROTTOBALLIBorsellino mi disse: confessami, mi sto preparando».
 

 

L’ATTENTATO

Via D’Amelio 19/21 0re 16.58 del 19 luglio 1992, una Fiat 126 targata PA 878659 rubata alcuni giorni prima da Gaspare Spatuzza, imbottita con 90 chilogrammi di Semtex-Hdie e parcheggiata a pochi metri dall’ingresso dell’abitazione della mamma del dottor Paolo Borsellino esplode causando la morte del magistrato e dei suoi cinque agenti di scorta. Unico sopravvissuto alla strage l’agente Antonio Vullo.
Ore 17.16  un lancio dell’agenzia ANSA fornisce le prime notizie sull’attentato.
Da tempo Borsellino aveva maturato la piena consapevolezza di essere nel mirino di Cosa nostra. Ancor di più dopo l’uccisione del suo amico e collega Giovanni Falcone. Illuminanti, in tal senso,  le testimonianze rese in proposito dai suoi famigliari.
Nonostante la circostanza fosse certamente nota anche ai soggetti istituzionali preposti alla sua sicurezza, non furono poste in essere le necessarie misure preventive. La più banale: l’istituzione di una zona rimozione nell’area adiacente all’ingresso di quel civico 19/21



IL MOVENTE

Come risulta dalle motivazioni di due sentenze (Borsellino Ter e Quater) e dalle testimonianze  di alcuni “pentiti, la decisione di procedere alla sua eliminazione alla distanza di soli 57 giorni da Capaci é da attribuirsi principalmente al suo deciso interessamento al dossier MAFIA-APPALTI predisposto dai ROS.
Il tema, da qualche settimana, è anche oggetto delle audizioni avviate dalla Commissione Parlamentare Antimafia presieduta da Chiara Colosimo.

Un giorno gridando «Borsellino vive»

Concerti, fiaccolate e una catena umana di quattro chilometri attraverso il capoluogo Concerti, fiaccolate e una catena umana di quattro chilometri attraverso il capoluogo Un giorno gridando: «Borsellino vive»
La Sicilia scende in piazza a un anno da via D’Amelio
Fiaccolate e catene umane, come per l’anniversario della strage di Capaci il 23 maggio. Anche questa volta, a un anno dall’eccidio
di via D’Amelio, con vittime il giudice Paolo Borsellino e cinque dei sei agenti della scorta, la gente chiede pace, rinnova l’impegno contro la piovra.
Alle 21, ieri, la vedova e i tre figli di Borsellino hanno cominciato una veglia nella chiesa di S. Maria di Marillac.
Quasi alla stessa ora la folla ha assiepato lo stadio comunale di Marsala (Borsellino vi fu procuratore della Repubblica  per 4 anni), dove la rockstar Sting ha dedicato alle sei vittime «Fragile», uno dei brani del suo concerto concluso a tarda ora con una fiaccolata. E sempre ieri un fiorire di manifestazioni, incontri e iniziative in Sicilia e fuori dell’isola.
Il giudice Antonino Caponnetto ha parlato nell’atrio della Biblioteca comunale ricordando «Paolo» e «Giovanni» e i poliziotti che hanno sacrificato le loro giovani esistenze accanto a loro.
Vi sono stati momenti d’intensa commozione, ma pure di conferma che i siciliani non intendono più subire.
Nel coro di condanna, una nota stonata a margine della protesta antimafia di 150 persone a San Giuseppe Jato, 30 km da Palermo, il paese dei Brusca, il clan più legato a Totò Riina, ma pure di Bal- duccio Di Maggio, il pentito che ha consentito la cattura del capo di Cosa nostra.
Un ragazzo che non ha partecipato si è.infatti lamentato: «Non c’è lavoro. Combattono la mafia, ma noi siamo disoccupati».
Una giustificazione che sottintende l’adesione alla mafia e che ricorda le proteste di gruppi di edili palermitani che anni fa, davanti al municipio, inneggiarono alle cosche, sostenendo che quando i boss avevano campo libero c’era lavoro per tutti.
Ad Agostino Catalano, il capo della scorta di Borsellino, è stata dedicata la piazza principale del rione popolare Zen in cui abitava, e in piazza Magione, dove nacque Borsellino, è stato allestito un musical. A Sestu (Cagliari) le donne del digiuno del comitato dei lenzuoli, partite da Palermo in traghetto, hanno portato la loro solidarietà ai familiari di Emanuela Loi, l’unica donna tra le vittime. Oggi una pianta d’ulivo, giunta da Gerusalemme, sarà posata in via D’Amelio da dove partirà una catena umana sino a piazza Magione, più di 4 chilometri. Il vicecapo della polizia Dell’Orco deporrà fiori davanti alla lapide in memoria degli agenti uccisi nella caserma Lungaro, e il programma prevede anche assemblee di magistrati e poliziotti, mentre verrà il presidente della Regione Giuseppe Campione, scoprirà una lapide a Palazzo d’Orléans. Antonio Ravidà LA STAMPA 19 luglio 1993
 

 

 

video INTERVISTA – BORSELLINO: “Come disse Cassarà siamo cadaveri che camminano”

 

 


“Non sono né un eroe né un Kamikaze, ma una persona come tante altre.
Temo la fine perché la vedo come una cosa misteriosa, non so quello che succederà nell’aldilà. Ma l’importante è che sia il coraggio a prendere il sopravvento…  Se non fosse per il dolore di lasciare la mia famiglia, potrei anche morire sereno”. P.B


Paolo Borsellino: «La scorta solo di mattina per essere ucciso la sera»

AUDIO

Gli audio desecretati del giudice ucciso dalla mafia. Dai computer rinchiusi in sgabuzzino alla scorta part-time.
Così parlò Paolo Borsellino: «E’ inutile che io venga accompagnato la mattina con gran strombazzamento di sirene e spiegamento di auto di scorta, se poi il pomeriggio devo tornare in procura con la mia auto perché c’è solo un agente di scorta».
A quel punto una voce si alza dai banchi dei parlamentari, una voce indefinita che dice: «Beh, almeno in questo modo riacquista un po’ di libertà». Replica gelida di Borsellino: «Dice che riacquisto in libertà? Sì, la libertà di essere ammazzato la sera…».
È l’ 8 maggio del 1984 quando Paolo Borsellino pronuncia queste parole di fronte alla Commissione parlamentare antimafia.  Mancano otto anni alla strage di Via D’Amelio è vero, ma il conto alla rovescia è già iniziato e lui lo sa.

 

 

La paura è normale che ci sia, in ogni uomo, l’importante è che sia accompagnata dal coraggio. PB

 

19 luglio 1993 LA STAMPA

 


 

 

FUNERALI SENZA LACRIME DI STATO


 

L’informativa

 

 

Il Rapporto

 

 

 


 

 

“Sul lungomare di Carini, il giorno prima di morire, Paolo mi disse che non sarebbe stata la mafia ad ucciderlo, della quale non aveva paura, ma sarebbero stati i suoi colleghi e altri a permettere che ciò potesse accadere”  A.B

 

E Borsellino disse alla moglie: non sarà la mafia a uccidermi. I sospetti del magistrato su «colleghi e altri»

 

 

LUCIA BORSELLINO

 

 

 

 


I ricordi di FIAMMETTA BORSELLINO

 


FIAMMETTA BORSELLINO “In casa abbiamo sempre saputo che papà correva dei rischi, io sono cresciuta nella consapevolezza che poteva morire ogni giorno. Tutti gli anni Ottanta sono stati attraversati da lutti e delitti che ci hanno toccato da vicino, dal capitano Emanuele Basile al procuratore Gaetano Costa, dal generale Carlo Alberto dalla Chiesa a Rocco Chinnici, da Beppe Montana a Ninni Cassarà (tutte vittime della mafia, uccise insieme a molte altre tra il 1980 e il 1985, ndr).  
Quando uscivo di casa con lui mi lanciavo in strada per prima, in modo che se qualcuno avesse sparato avrebbe colpito me al posto suo. Mi illudevo di poterlo salvare così, nella mia immaginazione era un eroe invincibile. A proteggerlo c’era la scorta, ma anche noi: io che nella mia ingenuità ero pronta a morire per lui, e tutta la famiglia che l’ha sempre accompagnato e sostenuto in ogni momento e scelta della sua e della nostra vita. Io ero la più piccola, e fino all’ultimo non ho mai abbandonato questo ruolo che piaceva sia a mio padre che a me.  
Avevamo un rapporto particolare perché a differenza di Lucia e Manfredi, sempre molto posati, studiosi e ubbidienti, io ero molto proiettata verso l’esterno, avevo un forte senso di indipendenza che poteva essere scambiato per ribellione: a 13 anni volevo viaggiare da sola, papà cercava di frenarmi e mi diceva: “Ma dove vai? Se poi m’ammazzano come fanno ad avvisarti?”. Era un modo per trattenermi, ma anche per esorcizzare il pericolo. E di prepararci a quello che poteva succedere: piccoli messaggi, lanciati di tanto in tanto, per non farci trovare impreparati.
Io intuivo che la tragedia era sempre dietro l’angolo, l’assoluta precarietà della sua e della nostra esistenza, ma il suo modo di mescolare la minaccia con la normalità è stata una forma di protezione nei nostri confronti. Anche dopo il 23 maggio, il giorno della strage di Capaci, pur nel dramma più totale abbiamo proseguito la vita di sempre.
Com’era accaduto in passato di fronte agli altri omicidi, o alla tragedia del liceo Meli che segnò mio padre più di ogni altra.
La morte di quei due studenti (Biagio Siciliano e Giuditta Milella, di 14 e 17 anni, ndr) travolti da un’auto della sua scorta la visse come la perdita due figli. Non si dava pace. Che lui potesse morire, e con lui qualcuno di noi, era nel conto; ma che venissero colpiti gli uomini della sicurezza, o addirittura degli estranei coinvolti casualmente, non poteva accettarlo.
Con questi pesi nel cuore è andato avanti, trovando la forza in noi che abbiamo camminato sempre al suo fianco, come un monolite inarrestabile. E lui ci aiutava sdrammatizzando. Ogni tanto scherzava: “Dopo che mi avranno ammazzato diventerete ricchi con i risarcimenti che lo Stato dovrà versare”. Oggi so che era un modo per farci capire quanto le istituzioni sarebbero state responsabili della sua dipartita.”


L’estate del ‘92 volevo andare in Africa, ma un po’ per le apprensioni di mio padre e un po’ per la tragedia di Giovanni Falcone trovammo un compromesso: mi lasciò partire per l’Indonesia insieme alla famiglia del suo migliore amico, Alfio Lo Presti.  
Un altro spicchio di normalità, ritagliato nel momento più buio. Telefonavamo a casa ogni volta che potevamo, ma spesso non lo trovavamo, per lui erano giorni di lavoro incessante.
Ho ancora davanti a me l’immagine di Alfio chiuso in una cabina che sbatte la cornetta contro il telefono e scoppia in lacrime, quando venimmo a sapere della strage. Poi l’incubo del ritorno verso casa. Il giorno in cui morì eravamo riusciti a parlare con papà quando in Italia era ancora molto presto, ma nella mia mente i ricordi si sovrappongono.  
Di sicuro ho cominciato a pensare, e lo penso ancora oggi, che quel viaggio potrebbe avermi salvato la vita. Perché se fossi stata a Palermo, dopo la domenica trascorsa al mare, probabilmente l’avrei accompagnato dalla nonna, e sarei morta con lui.  
Invece sono sopravvissuta, e per essere la donna che sono diventata ho dovuto affrontare un lungo percorso, seguendo il principale insegnamento di papà: fare il proprio dovere.  
Ho continuato a studiare, ho costruito il mio futuro gettando le basi per mettere su una famiglia. A 19 o 20 anni non puoi avere gli strumenti per comprendere appieno quello che ti sta accadendo intorno, il che non significa delegare ad altri la domanda di verità: noi quella l’abbiamo sempre chiesta, a partire dal 20 luglio 1992. Ma ci sono consapevolezze che si acquisiscono nel tempo.


A noi, quel 19 luglio non ci è piombato addosso, eravamo stati preparati a quell’evento, non a parole vivevamo una quotidianità in cui non potevi renderti conto che Palermo, in quegli anni era in uno stato di guerra, con centinaia di morti non solo tra le forze dell’ordine ma anche tra i civili. Anche se non si è mai preparati alla morte di un padre.


Sembra brutto da dire, ma è stato un po’ come se fossimo preparati alla strage del 19 luglio in Via D’Amelio. Non sapevamo quando sarebbe successo, ma sapevamo che sarebbe successo. Ma prevedere una mazzata che ti sta per arrivare tra capo e collo non allevia il dolore che ti provoca. E per noi quel giorno è iniziata una devastazione, era come se avessero annientato anche noi.


Il rapporto con la morte:  Sin da quando ero bambina è sempre stata una di famiglia. Vedere mio padre con la scorta, vedere morire i suoi amici, colleghi, giornalisti… ha fatto sì che per me fosse un pensiero sempre presente. Allo stesso tempo ho interiorizzato quello che diceva mio padre, ossia che bisogna comunque vivere. La paura è un fatto umano, ma bisogna farsi forza e andare avanti, perché la paura non diventi un ostacolo.


Rispetto alla paura mio padre diceva l’non è stabilire se uno l’ha  o meno, è saper convivere con la propria paura e non farsi condizionare dalla stessa. Il coraggio è questo, altrimenti non è più coraggio ma incoscienza.


Sapevamo di essere esposti anche noi come nucleo familiare ai rischi che il suo lavoro comportava, ma non abbiamo mai vissuto all’interno di una campana di vetro antiproiettile né mio padre ha mai voluto mettercene una sulla testa. Negli anni, crescendo, sono maturate nuove consapevolezze, purtroppo per niente piacevoli. Sembra brutto da dire, ma è stato un po’ come se fossimo preparati alla strage del 19 luglio in Via D’Amelio. Non sapevamo quando sarebbe successo, ma sapevamo che sarebbe successo. Ma prevedere una mazzata che ti sta per arrivare tra capo e collo non allevia il dolore che ti provoca. E per noi quel giorno è iniziata una devastazione, era come se avessero annientato anche noi”.


Dopo la strage di Capaci disse a mia madre: “La mafia ucciderà anche me quando i miei colleghi glielo permetteranno, quando Cosa nostra avrà la certezza che adesso sono rimasto davvero solo.


Non gradiva mai, in quei giorni, che noi famigliari ci muovessimo con lui. Diceva che eravamo a un punto di non  ritorno e che dopo Capaci non aveva più  Falcone a farli da scudo. Ci disse anche che non sarebbe più riuscito a mamma e a noi una vita normale.

 

L’uscita del feretro di Agnese Piraino Leto, la vedova di Paolo Borsellino, dalla chiesa di Santa Luisa di Marillac, a Palermo, 06 maggio 2013. La bara e’ portata a spalla, tra gli altri, anche dal figlio Manfredi.
ANSA/FRANCO LANNINO

 

LA SUA LA MORTE PIU’ ANNUNCIATAha reagito ”ma non abbastanza” all’ uccisione di Borsellino, ”forse quella più annunciata” tra le molte volute dalla mafia, i suoi funerali, però, avranno forma privata per rispettare la volontà del giudice ucciso, non per polemica contro lo Stato. Lo dice Manfredi Borsellino, figlio ventenne del magistrato, in un’intervista pubblicata oggi sull’ ”Osservatore romano” nella quale invita anche a ”non gettare la spugna”. ”Abbiamo rinviato i funerali – dice il figlio di Borsellino – non solo per aspettare mia sorella Fiammetta, ma anche perchè non volevamo che mio padre fosse sottoposto a una ‘cerimonia’ come quella riservata a Giovanni Falcone, alla moglie e alle vittime della sua scorta.  
Quel giorno – racconta Manfredi Borsellino – papà rimase profondamente scosso dal chiasso, dalle urla, dall’ atmosfera nella quale si celebrava un rito per i defunti”.
La scelta dei funerali in forma privata, dice ancora il figlio di Borsellino, ”non ha niente a che vedere con le vicende che da magistrato mio padre affrontò.  
Lui si è sempre ritenuto, era ed agiva da uomo di Stato. Quanto ai suoi contrasti, alle difficoltà o alle sue posizioni, mio padre stesso ha gia’ detto tutto quello che aveva da dire, apertamente, quando era in vita”.
Palermo, infine. ”Mio padre – dice Manfredi Borsellino – amava questa città, la nostra terra fatta di una stragrande maggioranza di persone oneste; non avrebbe potuto vivere altrove era legatissimo alla Sicilia, e proprio questi legami, l’attaccamento alla sua gente, gli davano la spinta per andare avanti, per combattere questa minoranza di criminali che soffocano milioni di persone, che ci aggrediscono. Ma noi, malgrado tutto, non possiamo e non dobbiamo lanciare la spugna”. ”Purtroppo però – conclude il figlio di Borsellino – da noi c’ e’ il rischio dell’apatia, della resa. Palermo ha reagito, è vero, a queste ultime due stragi. Ma non abbastanza, non come si doveva di fronte ad avvenimenti di questa portata”


L’ultima foto di Borsellino:” MANFREDI: Sapeva che sarebbe morto”

 

 


“Paolo Borsellino sapeva di essere ormai nel mirino”

disse Antonino Caponnetto in un’intervista con Gianni Minà nel 1996, “soprattutto lo seppe negli ultimi giorni prima della sua morte.”


Per cinquantasette giorni e cinquantasette notti, Paolo Borsellino visse con la morte sulla spalla. Aveva un’unica via di scampo: il tempo, batterli sul tempo, prendere per la gola i Corleonesi prima che Totò Riina lo uccidesse. Per cinquantasette giorni e per cinquantasette notti, Paolo Borsellino non visse. Morì lentamente, settimana dopo settimana, ora dopo ora. Davanti a tutta Palermo. Che sapeva, presagiva… Il procuratore aggiunto chiudeva un’indagine e ne apriva un’altra, un’altra e un’altra ancora. Volava in Germania per seguire le tracce dei sicari del maresciallo Giuliano Guazzelli, assassinato ad Agrigento tre mesi prima. Partiva per Roma per ascoltare i segreti di un pentito di San Cataldo. Scendeva per ore alla procura generale per spiegare ai magistrati di Caltanissetta quale era la pista da imboccare per Capaci. confessò Paolo Borsellino al suo migliore amico. Era una corsa contro il tempo.
Doveva chiudere il cerchio intorno ai Corleonesi. L’uomo che poteva chiudere quel cerchio era arrivato. Era Asparino Mutolo, l’ultimo pentito della Cosa Nostra. Era in grado di aprire un varco nell’organizzazione criminale. Ma bisognava ascoltarlo subito, bisognava verbalizzare le sue dichiarazioni, bisognava prima capire e poi colpire.  fece sapere Mutolo ai poliziotti e ai magistrati. Il procuratore capo della Repubblica di Palermo si chiamava Pietro Giammanco.  Da Palermo partì il procuratore aggiunto Vittorio Aliquò. Quando Mutolo non vide Borsellino ma un altro magistrato, chiuse gli occhi e chiuse la bocca. Si persero giorni. Il tempo passava inesorabilmente. (Attilio Bolzoni Giuseppe D’Avanzo)


Lunedì 1 giugno 1992
Alla sera qualcuno suona al campanello della casa di Paolo Borsellino in via Cilea a Palermo. È una processione di carabinieri e poliziotti che vogliono chiedere al giudice una “raccomandazione” per essere annessi alla sua scorta. Ad aprire la porta di casa è Lucia, mentre Borsellino è ancora al lavoro in ufficio. Lucia fa accomodare tutti in salotto. Quando il giudice torna a casa ha però una reazione inaspettata: vede questi estranei in casa, chiama i familiari nella stanza più lontana e comincia a gridare contro di loro perché colpevoli di aver fatto entrare queste persone, non sopporta di vedere gente in casa, è stanchissimo. Solo dopo qualche minuto i familiari riescono a spiegargli il perché di quella inconsueta visita. Borsellino fa in tempo a bloccare il gruppo che, capita l’antifona, sta per andarsene. Il giudice chiede scusa e dà appuntamento per l’indomani in procura: “Parliamone lì ragazzi”, acconsente. Tratto dal libro Agende Rosse
 

 

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